I palestinesi sono stati abbandonati dai loro leader

Alaa Tartir

1 giugno 2018, Foreign Policy

Roma, 1 giugno 2018, Nena News – Quando l’amministrazione Trump ha deciso di trasferire l’Ambasciata USA a Gerusalemme, momento cruciale nella lotta del popolo palestinese per la libertà, i dirigenti dell’Autorità Palestinese non sono riusciti in alcun modo a dare una risposta significativa. Non sono nemmeno riusciti a evitare l’assassinio di civili a Gaza e, anzi, hanno mantenuto le politiche punitive contro i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia, tra cui quella di trattenere i salari dei dipendenti pubblici.

Dopo 22 anni di attesa dall’ultimo incontro, il Consiglio Nazionale Palestinese si è recentemente riunito a Ramallah per eleggere il Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il suo presidente. L’incontro di quattro giorni, che si è tenuto tra il 30 aprile e il 3 maggio, è stato una dolorosa dimostrazione di come i leader palestinesi stiano minando la democrazia.

L’incontro si è concluso con l’annuncio di una nuova leadership palestinese, basata sul clientelismo e su meschine politiche tra fazioni. Le cosiddette elezioni hanno dimenticato l’elemento principale di ogni sistema politico funzionante: la gente, che è stata messa da parte, emarginata, e a cui è stata tappata la bocca in una terribile dimostrazione della crescente sconnessione tra governanti e governati. Anche se questo non è un fenomeno nuovo, il livello di arroganza della leadership è stato stupefacente.

Oltre all’occupazione israeliana del loro territorio, i palestinesi subiscono l’assenza di una guida legittima, di strutture politiche responsabili e inclusive e di una governance democratica, efficace e trasparente. Tutto ciò impedisce ai palestinesi di far fronte ai diversi livelli di oppressione e repressione che si trovano davanti. Rovesciare questo triste stato di cose è un obiettivo irraggiungibile, con il sistema politico palestinese attuale. Però è anche un presupposto indispensabile, se le future generazioni di palestinesi vogliono avere un futuro migliore.

Se spera di reinventare l’attuale sistema politico, il popolo palestinese e una nuova generazione di dirigenti devono smascherare le élite politiche di oggi che continuano a dividere, indebolire e emarginare la popolazione. Questo processo di reinvenzione va ben oltre la questione di sciogliere l’Autorità Palestinese (AP), l’accoppiata Fatah-Hamas e il quadro dettato dagli Accordi di Oslo venticinque anni fa. Richiederà una più alta rappresentanza politica, un approccio più inclusivo alla pianificazione nazionale e una buona dose di fantasia per superare le idee antiquate e la miope visione del mondo che attualmente domina il pensiero politico della leadership palestinese.

L’attuale leadership non è disponibile né interessata alle rivendicazioni del popolo, perché minacciano il dominio dell’AP in Cisgiordania (e quello di Hamas a Gaza). La leadership, quindi, continua ad agire in modo autoritario, cercando di mettere a tacere ogni voce che ne mette in dubbio la legittimità o sfida il suo monopolio in fatto di governance.

Negli ultimi dieci anni, molte organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno documentato l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza palestinesi per mettere a tacere chi protesta. Ci sono state anche detenzioni politiche, limitazioni alla libertà di parola e di partecipazione politica e manifestazione, così come spionaggio, atti di tortura e gravi violazioni dei diritti umani in risposta all’attivismo politico in strada o sui social media.

Le recenti manifestazioni al confine di Gaza e gli scontri a Gerusalemme nell’estate del 2017 devono essere compresi nel loro contesto. La frustrazione per lo status quo e la mancanza di prospettive, insieme alle condizioni di vita disperate, hanno portato allo scontro alla barriera militare della Striscia di Gaza; a Gerusalemme Est, sono state le politiche esplicite sugli insediamenti, volte a incrementare la popolazione ebraica a causare gli scontri, e la repressione da parte sia di Israele che dell’Autorità Palestinese ha provocato la resistenza in Cisgiordania. La protesta collettiva palestinese, oggi, è un’espressione di resistenza alla violenza dell’occupante israeliano, ma anche alla leadership palestinese.

Non sorprende, quindi, che dopo il meeting dell’Autorità Palestinese del 30 aprile siano aumentate le tensioni. Anche se molti palestinesi – dato il ruolo storico dell’OLP nel portare la lotta palestinese sul piano mondiale – continuano a idealizzare l’organizzazione come “unica legittima rappresentante del popolo palestinese nel mondo”, i palestinesi hanno anche visto in diretta TV, come dice un giovane di Gaza, “quanto siano marci questo organismo e le sue istituzioni”. Ha aggiunto che “quando svanisce anche l’ultima speranza… ti metti a capo di una rivolta per essere ascoltato, visto, riconosciuto.”

Per le generazioni più giovani, la reazione alla frustrazione è stata organizzarsi e mobilitarsi.

Come sottolinea un altro giovane attivista di Gaza, “L’abbiamo visto nell’estate del 2017 a Gerusalemme, e adesso lo vediamo a Gaza. Anche se questi scontri ciclici non durano… solo la gente, non la leadership politica, potrà modificare gli squilibri di potere tra colonizzatori e colonizzati.”

Una terza giovane attivista sostiene, con rabbia, che “siamo noi, la gente, la generazione futura, i giovani, e non Hamas, quelli che stanno protestando”. La lotta, secondo lei, è una delle forme di “resistenza popolare contro ogni forma di controllo e dominazione, sia essa palestinese, israeliana, egiziana o qualsiasi altra… Ne abbiamo abbastanza del modello gerarchico che crea solo dittatori e élite VIP che ci fanno solo del male”.

È chiaro che c’è una nuova via d’accesso per i leader del futuro: un attivismo locale, dal basso, che generi leader legati alle loro cerchie sociali e alle battaglie quotidiane della gente, piuttosto che un’élite disinteressata e distante nei lussuosi uffici di Ramallah.

Le proteste di Gaza sono il risultato di questa rabbia popolare. Israele ha cercato di dare una falsa immagine del coinvolgimento di Hamas nelle dimostrazioni al confine per criminalizzare e screditare i manifestanti. Anche se Hamas non è l’organizzatore della marcia, è coinvolto direttamente e indirettamente perché è uno degli attori principali che governano Gaza. È fondamentale riconoscere che Hamas è parte integrante della scena politica palestinese a prescindere dal danno che causa (come anche Fatah) alla lotta palestinese per la libertà e indipendentemente dalle strategie, idee, o principi ideologici. Hamas ha semplicemente fatto ciò che avrebbe fatto qualsiasi partito politico: ha strumentalizzato le proteste per ricavarne un vantaggio politico.

Le manifestazioni a Gaza riguardano fondamentalmente gli innegabili e internazionalmente riconosciuti diritti del popolo palestinese nel suo insieme. Molti attori politici, oltre a Hamas, hanno partecipato alle marce, il che dimostra che esiste una nuova generazione di leader, non divisi in fazioni; una lezione che Fatah e Hamas farebbero meglio a imparare.

Anche se le marce potrebbero durare poco, la comunità internazionale una lezione l’ha imparata: le rivendicazioni dei semplici cittadini palestinesi dovrebbero essere prese sul serio. E questo non solo per il tragico bilancio delle vittime, ma anche perché gli attori internazionali capiscono che un movimento sociale palestinese dal basso potrebbe davvero destabilizzare e minacciare lo status quo, uno status quo che va benissimo alla maggioranza degli attori.

Se la futura generazione di leader palestinesi riuscirà ad ottenere una certa influenza, non potrà limitarsi a criticare e maledire lo status quo. Dovrà essere propositiva e immaginare un futuro ben determinato, e mettere in pratica quella visione con azioni concrete e realizzabili. Cambiare le politiche richiede saper fare politica, e cambiare le regole attuali richiede saper stare al gioco.

Sarà un processo complesso e caotico, ma i futuri leader palestinesi diventeranno visibili solo se formeranno nuovi partiti, proporranno liste di giovani alle elezioni, stabiliranno una cultura di responsabilità e creeranno un governo ombra guidato dai giovani che si metta in gioco in un dibattito nazionale sulle priorità del popolo palestinese.

“Ti spetta qualcosa in questo mondo, perciò alzati” ha detto una volta Ghassan Kanafani, scrittore e attivista politico palestinese assassinato dal Mossad, i servizi segreti israeliani. I palestinesi di Gaza, Haifa, Gerusalemme e ovunque stanno facendo proprio questo: si stanno alzando per la giustizia, la libertà, la dignità e l’autodeterminazione come valori fondamentali. Le forze che combattono questi valori, molto spesso con il pretesto della sicurezza, dovranno renderne conto finché non sosterranno pace e giustizia. Solo allora potremo parlare di un futuro di pace e prosperità per la Palestina. Nena News

Alaa Tartir è direttore editoriale di Al-Shabaka – The Palestinian Policy Network, ricercatore associato al CCDP (Centro su Conflitti, Sviluppo e Peacebuilding) di Ginevra e visiting professor alla Paris School of International Affairs, Sciences Po.

(Traduzione di Elena Bellini)

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Israele usa gli ebrei della diaspora come scudi umani

Yossi Klein

31 maggio 2018, Haaretz

Israele è contento di sfruttare gli ebrei del resto del mondo, ma non si è preoccupata del fatto che le sue azioni li mettono in pericolo.

Israele è un pericolo per gli ebrei del resto del mondo. Si proclama suo protettore, ma non si preoccupa delle conseguenze che le sue azioni hanno per loro. Gli ebrei all’estero pagano il prezzo dell’ostilità nei confronti di Israele, eppure lo Stato continua ad avvolgerseli attorno come un giubbotto esplosivo. Tu vuoi danneggiarmi? Va bene, ma sappi che loro salteranno in aria per primi.

Gli effetti sugli ebrei all’estero non fanno parte delle stime militari di Israele. Fa quello che fa anche se ciò li danneggia. Ma questo non gli impedisce di affermare di rappresentarli, di parlare in loro nome e di usarli come ostaggi. Sono scudi umani. La vostra lealtà al vostro ebraismo, dice, viene prima della vostra lealtà alla vostra patria.

L’ebraismo nel cui nome lo Stato parla non è quello della maggior parte degli ebrei della diaspora. Israele limita o esclude il loro ebraismo. L’ebraismo di Israele è quello di una minoranza che ha preso il controllo del Paese e negli Stati Uniti è più attento ai cristiani evangelici che agli ebrei riformati o ortodossi. Lo Stato li combatte, eppure li usa.

Il governo di Israele ha sempre utilizzato gli ebrei della diaspora. L’identità israeliana si nasconde dietro l’ebraismo. I pericoli a cui Israele espone gli ebrei della diaspora non l’hanno mai frenato. Nel 1956 ha usato gli ebrei egiziani per sabotare il loro Stato. Ha mandato Jonathan Pollard [ebreo statunitense arrestato nel 1985 per aver fatto la spia a favore di Israele nei servizi di intelligence della Marina militare USA, ndt.] a spiare il loro stesso Stato. Ha imposto se stesso agli ebrei del resto del mondo, obbligandoli a mettere in discussione la propria lealtà, mentre insisteva nell’equiparare le critiche contro Israele a un’aggressione contro l’ebraismo e a tutti gli ebrei – cioè all’antisemitismo. Abbiamo molto di questo tipo di antisemitismo proprio qui. In base a questa formula, metà degli israeliani sono antisemiti perché non sopportano il governo. Ma l’efficacia di accusare il mondo di antisemitismo sta scomparendo. L’uso eccessivo ha usurato il meccanismo della vergogna e ha anticipato la sua data di scadenza. Sono passati i giorni in cui potevamo giustificare un attacco contro Gaza con quello che ci è stato fatto ad Auschwitz.

Israele non lo vuole ammettere, ma dal suo punto di vista c’è un aspetto positivo nell’antisemitismo. “Dimostra” il fallimento dei Paesi stranieri nel proteggere i loro ebrei. La loro negligenza sottolinea le nostre qualità. Il capo dello Stato, che è anche il capo degli ebrei del mondo, è orgoglioso della sicurezza che fornisce ai suoi ebrei, Tre anni fa, dopo gli attacchi terroristici contro ebrei francesi, ha invitato la comunità [ebraica francese] a venire in Israele perché il loro Paese non li può proteggere. (Circa 5.000 ebrei sono morti in attacchi terroristici in Israele).

Israele respinge la condanna per le sue azioni a Gaza. Abbandona gli ebrei ed esclude i non-ebrei, ma farebbe qualunque cosa per avere un po’ di simpatia da loro! È assetato di ogni briciola di apprezzamento. Il nostro Stato privatizzato esproprierà e nazionalizzerà e adotterà e si attribuirà qualunque risultato, da una medaglia nel judo al lancio di una nuova attività imprenditoriale.

Lo abbiamo visto la scorsa settimana. Sono state attaccate due dei più delicate questioni nazionali dell’Olanda: la vittoria di Israele all’Eurovisione e le uccisioni a Gaza, entrambi care al nostro cuore. La parodia olandese di “Toy” [“Giocattolo”, la canzone israeliana che ha vinto l’Eurovisione, ndt.], che includeva critiche alle azioni israeliane al confine con Gaza, è stata immediatamente accusata di “antisemitismo”, e l’ambasciata israeliana ha protestato. L’ambasciata sa molto bene che la canzone non è antisemita, ma ha prevalso il desiderio di confondere la critica a Israele con l’antisemitismo.

Chiunque critichi la cantante Neta Barzilai [la vincitrice dell’Eurovisione, ndt.] critica anche il primo ministro, sua moglie, il suo partito e il governo, e desidera farlo cadere. Perché? Perché lo diciamo noi, e ricaviamo la nostra autorità nel definire l’antisemitismo dai sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto.

Ci siamo cercati da soli Benjamin Netanyahu, ma perché sono da criticare tutti gli ebrei del mondo? Perché devono pagare il prezzo della lotta del re degli ebrei con le sue inchieste penali? Se vivessi all’estero starei seguendo le sue recenti iniziative con timore e sospetto. Il bunker sotterraneo [Netanyahu ha convocato le riunioni per la sicurezza nazionale in un bunker, ndt.] e l’auto blindata per Sara [la moglie di Netanyahu, ndt.] non sono di buon auspicio per gli ebrei in Israele e all’estero.

Quando sentiremo che ha chiamato agenti immobiliari in Toscana o ha aperto un conto bancario nei Caraibi sarà venuto il tempo di fare le valigie. L’audace difensore degli ebrei è disposto a sacrificare ognuno di noi pur di far cadere anche solo una singola accusa nella faccenda del sottomarino [uno degli scandali in cui Netanyahu è coinvolto].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come i media negano l’umanità dei palestinesi

Gregory Shupak

giovedì 31 maggio 2018, Middle East Eye

A partire dall’inizio delle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” il 30 marzo, Israele ha ucciso a Gaza almeno 116 palestinesi e ne ha feriti altre migliaia, sparando contro manifestanti disarmati.

Secondo “Medici senza frontiere” Israele ha utilizzato proiettili che provocano “ferite insolitamente gravi alle estremità inferiori…(e) un livello estremo di distruzione di ossa e tessuti molli”. Gli attacchi più pesanti di Israele contro dimostranti disarmati sono avvenuti il 14 maggio, quando le sue forze hanno ucciso 62 palestinesi.

Tuttavia nell’informazione sul massacro del 14 maggio, e più in generale sulle manifestazioni, i media hanno accuratamente disumanizzato i palestinesi e reso invisibili i loro diritti.

Rifiuto di criticare Israele

Se gli editorialisti vedessero i palestinesi come esseri umani, avrebbero condannato senza ambiguità il recente massacro di massa. Invece sul “New York Times” Shmuel Rosner ha apertamente appoggiato il massacro, scrivendo: “È cosa abituale adottare un tono apologetico quando vengono uccise decine di persone, come è successo questa settimana a Gaza. Ma eviterò questo istinto ipocrita e dichiarerò freddamente: Israele aveva un chiaro obiettivo quando ha sparato, a volte per uccidere… Quell’obiettivo è stato raggiunto.”

Nello stesso giornale Thomas Friedman si è rifiutato di criticare Israele, condannando Hamas che avrebbe “favorito le morti tragiche e inutili di circa 60 gazawi incoraggiando la loro manifestazione.”

Possiamo concluderne che questo tipo di appoggio agli squadroni della morte di Israele si estende persino all’uccisione da parte loro di bambini e disabili, dato che i summenzionati giornalisti non hanno niente da ridire in merito.

La più dura critica a Israele da parte di David Brooks del “Times” arriva quando dice che lui “non assolve i palestinesi dalla responsabilità delle loro scelte”, ma “non perdona neppure gli israeliani per la loro incapacità di affrontare in modo corretto l’estremismo.” Con un colpo della sua penna magica, l’uccisione di decine di manifestanti disarmati si trasforma nell’ ”incapacità di affrontare in modo corretto l’estremismo.”

Egli sostiene che quello che è successo durante la “Grande Marcia del Ritorno” è che i palestinesi hanno cercato “di creare una messa in scena del martirio che avrebbe mostrato al mondo quanto (i palestinesi) siano oppressi.” Allo stesso modo Max Boot del “Washington Post” descrive il massacro da parte di Israele come un “possibile errore tattico di valutazione” che “in nessun modo elimina la responsabilità fondamentale di Hamas per questo orrore.”

Uno “spettacolo grottesco”

Invece Bret Stephens del “Times” lamenta: “Ora il mondo chiede che Gerusalemme renda conto di ogni proiettile sparato contro i dimostranti, senza offrire una sola alternativa concreta per affrontare la crisi.” Suggerisce che i palestinesi attribuiscono un’indebita responsabilità a Israele per essere stati colpiti circa 3.500 volte da pallottole israeliane letali. L’idea che i palestinesi siano del tutto umani confonde talmente Stephens che si dimentica ciò che è più assurdamente ovvio: l’alternativa a sparare contro manifestanti palestinesi disarmati è non sparargli.

Per questi giornalisti i palestinesi non sono umani, ma piuttosto spiriti demoniaci di un culto della morte in grado di impossessarsi degli israeliani e fare in modo che sparino ai palestinesi. Gli esseri umani hanno diritti, ma per questi editorialisti i palestinesi non sono umani – per cui i loro diritti vengono trasformati in minacce per Israele.

Rosner dichiara che “proteggere il confine era più importante che evitare di uccidere, e proteggere il confine è quello che Israele ha fatto con successo.” Boot disumanizza i palestinesi dipingendoli come orde minacciose: “Israele è intrappolato in una situazione senza via d’uscita: non può consentire che il suo confine venga superato – nessuno Stato può farlo -, ma se cerca di difendere il proprio territorio corre il serio pericolo di una tragedia umana e di un incubo nelle pubbliche relazioni.”

Brooks descrive la “Grande Marcia del Ritorno” come “una massiccia invasione del confine” di Israele. Stephens scrive di quello che chiama “il grottesco spettacolo lungo in confine di Gaza durante le scorse settimane, in cui migliaia di palestinesi hanno tentato di violare la recinzione ed entrare a forza in Israele, spesso a costo della propria vita.”

Secondo le idiozie razziste di Stephens, le proteste simbolizzano una “cultura della vittimizzazione, violenza e fanatismo” da cui “non può emergere alcuna società palestinese rispettabile.”

Il diritto al ritorno

Quello che chiamano il “grottesco spettacolo” e “l’attraversamento” di un “confine” è in realtà il fatto che i palestinesi hanno coraggiosamente attirato l’attenzione sulle incredibili ingiustizie che gli sono state fatte ed hanno tentato di esercitare – forse solo simbolicamente – il diritto al ritorno nella loro patria, a lungo negato e previsto dalle leggi, attraversando una linea coloniale di armistizio che nessuna istituzione con una qualche legittimazione riconosce come un “confine” internazionale che Israele abbia il diritto di “proteggere”.

Per i giornalisti di cui ho parlato, gli israeliani sono umani, per cui hanno dei diritti, ma ciò non vale per i palestinesi. Il titolo dell’articolo di Rosner è “Israele deve proteggere i suoi confini. Con qualunque mezzo necessario.” Friedman scrive: “Capisco perché Israele non ha altra scelta che difendere il suo confine con Gaza con la forza bruta.”

Boot dice dell’assedio spietato di Israele contro Gaza: “Per proteggersi, Israele ha posto rigidi controlli di sicurezza attorno a Gaza, ma Hamas usa tunnel per far entrare di contrabbando missili e altri armamenti dall’Egitto.” Stephens sostiene che c’è uno schema in cui i palestinesi si fanno del male da soli e incolpano Israele, e che questo presunto andamento “meriterebbe di essere messo in luce in mezzo al torrente di critiche moralmente cieche e storicamente ignoranti a cui gli israeliani sono soggetti ogni volta che si difendono da un violento attacco palestinese.”

Questi commentatori insistono su quello che vedono come Israele che esercita i propri diritti alla “sicurezza” e all’”autodifesa”, ma, dato che vedono i palestinesi come non umani, è possibile ignorare il diritto dei palestinesi a difendersi da decenni di violenza israeliana arbitraria e far credere che i palestinesi non abbiano il diritto di liberarsi – un diritto che è protetto dalle leggi internazionali e include la lotta armata.

Per gli editorialisti, Israele e il suo protettore, gli USA, hanno il diritto di usare infiniti livelli di violenza per conservare l’occupazione e l’apartheid, ma i palestinesi non hanno diritti – solo l’obbligo di sottomettersi alla propria uccisione, spoliazione e oppressione.

Greg Shupak scrive fiction e analisi politiche e insegna “Studi sui media” all’università di Guelph-Humber [università canadese, ndt.]. Il suo libro, “The Wrong Story: Palestine, Israel, and the Media” [“La storia sbagliata: Palestina, Israele e i media], può essere ordinato da OR Books [casa editrice di New York, ndt.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 maggio 2018 (due settimane)

Il 14 maggio, nella Striscia di Gaza, secondo il Ministero della Salute Palestinese le forze israeliane hanno ucciso 59 palestinesi (tra cui sette minori) e ne hanno feriti 2.900: dalle ostilità del 2014, è il più alto numero di vittime registrato in un solo giorno nei Territori occupati.

I manifestanti palestinesi hanno ferito un soldato israeliano. Tra i feriti palestinesi di quel giorno, 1.322 (il 45%) sono stati colpiti con armi da fuoco. Le vittime rientrano nel contesto delle manifestazioni per “la Grande Marcia del Ritorno”, iniziate il 30 marzo, ed in coincidenza con il trasferimento ufficiale dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

In altre manifestazioni simili, svolte durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi e ferito 1.283. Nello stesso periodo, secondo il Ministero della Salute Palestinese, altri quattro sono morti per le ferite precedentemente riportate. Le proteste dovrebbero protrarsi fino al 5 giugno, data che rievoca l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, avvenuta nel 1967.

Il gran numero di vittime e l’alta percentuale di feriti da armi da fuoco hanno sollevato preoccupazioni sull’uso eccessivo della forza. Il 18 maggio, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha condannato “l’uso sproporzionato e indiscriminato della forza” da parte delle forze israeliane e ha chiesto l’istituzione di una “commissione d’inchiesta internazionale indipendente” che indaghi sulle uccisioni di palestinesi durante le proteste. Il 23 maggio, nel suo resoconto presso il Consiglio di Sicurezza ONU, il Coordinatore Speciale per il Processo di Pace, Nickolay Mladenov, ha condannato “le azioni che, a Gaza, hanno portato alla perdita di così tante vite ” ed ha aggiunto che, a sua volta, Hamas “non deve usare le proteste come copertura del tentativo di collocare bombe a ridosso della recinzione e mettere in atto provocazioni”.

Durante le manifestazioni dell’11 e 14 maggio, manifestanti palestinesi hanno fatto irruzione nella parte palestinese del valico di Kerem Shalom (quasi esclusivo punto di ingresso delle merci in Gaza) causando ingenti danni e bloccando le operazioni. La sala di controllo, il nastro trasportatore principale e le tubazioni del carburante e del gas da cucina sono stati incendiati e gravemente danneggiati. Il valico è stato parzialmente riaperto il 16 maggio per le merci imballate ed il 17 maggio per l’ingresso del carburante.

Secondo l’esercito israeliano, il 16 maggio, palestinesi hanno sparato da Gaza con mitragliatrice verso le forze israeliane e verso la città israeliana di Sderot; successivamente le forze israeliane hanno sparato colpi di carro armato ed hanno condotto diversi attacchi aerei contro siti militari. In precedenza, il 12 ed il 14 maggio, le forze israeliane avevano condotto una serie di attacchi aerei mirati ad aree aperte e a siti di addestramento militare, nella città di Gaza e nel nord della Striscia. Secondo fonti ufficiali israeliane, questi ultimi attacchi aerei erano in risposta alle violente attività intraprese durante le manifestazioni lungo la recinzione perimetrale. Nessuno di tali attacchi ha provocato vittime, ma alcuni siti militari di Gaza hanno subito danni.

Per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori in almeno 16 occasioni; ad est della città di Gaza un contadino è stato ferito. In Khan Younis, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, altri due palestinesi sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane avvenuti mentre queste stavano svolgendo operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, le forze israeliane hanno ferito 641 palestinesi, tra cui 126 minori. Circa l’88% di questi ferimenti si sono verificati il 14 ed il 15 maggio, durante scontri scoppiati nel corso di manifestazioni in solidarietà con Gaza, contro il trasferimento dell’ambasciata statunitense e in memoria del 70° anniversario di ciò che i palestinesi chiamano “An Nakba” [“la Catastrofe”: ovvero la proclamazione dello Stato di Israele, avvenuta nel maggio 1948]. Il maggior numero di feriti si sono avuti negli scontri avvenuti nella città di Nablus; a seguire, gli scontri nei pressi del checkpoint DCO di Ramallah e quello di Huwwara (Nablus). Tredici persone sono rimaste ferite durante operazioni di ricerca-arresto. Oltre il 60% delle lesioni subìte da palestinesi durante il periodo di riferimento, sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche; tra questi un uomo di 58 anni cardiopatico, morto successivamente in un ospedale di Hebron.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 177 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 220 palestinesi. I numeri più alti di operazioni (41) e di arresti (56) si sono avuti nel governatorato di Gerusalemme.

In concomitanza con il mese mussulmano del Ramadan, iniziato il 17 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Questo comporta la concessione di circa 2.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est ed Israele. Per le preghiere del venerdì, gli uomini sopra i 40 anni, i minori sotto i 12 e le donne di tutte le età saranno ammessi a Gerusalemme Est senza permesso. Per la preghiera del venerdì (18 maggio), a Gerusalemme Est sono stati ammessi circa 39.300 palestinesi, attraverso tre posti di blocco circostanti. Secondo il DCL [Coordinamento e Collegamento Distrettuale] israeliano, il numero di ingressi è in calo: nel primo venerdì di Ramadan del 2017, ne furono registrati 65.000.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, in zona C ed in Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture palestinesi. Tra le strutture prese di mira figura parte di una strada di campagna (finanziata da donatori) che consentiva agli agricoltori del villaggio di Haris (Salfit) di accedere ai loro terreni. Altre due strutture di sostentamento sono state demolite nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est e nel villaggio di Duma (Nablus).

Nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per otto ore, cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a. Questa Comunità deve far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni di accesso che, insieme ai frequenti sfollamenti temporanei dovuti all’addestramento militare, destano preoccupazioni circa il rischio di trasferimento forzato dei residenti.

L’11 maggio, nel villaggio di Duma (Nablus), aggressori non identificati hanno dato fuoco a una casa palestinese. I residenti sono riusciti a mettersi in salvo, ma i mobili e la casa hanno subìto danni. Di conseguenza, i cinque membri della famiglia, tra cui due minori, hanno dovuto sfollare. Sul caso, le autorità palestinesi e israeliane hanno aperto due distinte indagini. Due attacchi incendiari analoghi furono compiuti da coloni israeliani nel villaggio di Duma, nel luglio 2015 e nel marzo 2016; nel primo caso morirono un bambino ed entrambi i genitori.

Sono stati segnalati almeno sette attacchi ad opera di coloni israeliani, con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a loro proprietà. In tre distinti casi, a Turmus’ayya (Ramallah), Halhul (Hebron) e Burqa (Nablus), secondo fonti locali palestinesi circa 450 tra ulivi e vitigni sono stati vandalizzati da coloni israeliani. In altri tre episodi, coloni israeliani hanno forato i pneumatici di 30 veicoli palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di case di Shu’fat (Gerusalemme Est), Wadi Qana (Salfit) e Sarra (Nablus). Sarebbero stati rubati, da coloni, tre cavalli appartenenti a contadini della città di Nablus. La violenza dei coloni è in aumento: dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi che causano lesioni personali o danni materiali è di cinque casi; nel 2017 la media era stata di tre e nel 2016 di due.

Sono stati segnalati almeno cinque episodi di lancio di pietre e due episodi di lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: sono rimasti feriti cinque israeliani, tra cui una donna e sono stati danneggiati tre veicoli privati. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Nablus, Ramallah, Betlemme, Hebron e Gerusalemme. Inoltre, nell’area di Shu’fat, a Gerusalemme Est, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

L’accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza di circa 7.000 palestinesi che vivono in tre comunità della Cisgiordania, è stato interrotto da restrizioni imposte da Israele. Nella parte di Hebron a controllo israeliano, l’esercito ha chiuso un passaggio di collegamento di un quartiere (As Salayyme) con il resto della città; chiusa, per tre giorni, anche la strada principale tra i villaggi di Madama e Burin (Nablus). Le misure sono state prese in risposta al lancio di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli di coloni israeliani e contro una torretta militare.

Le autorità egiziane hanno annunciato l’apertura ininterrotta, per tutto il mese del Ramadan, del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto. Dalla sua apertura, avvenuta il 12 maggio, e fino alla fine del periodo di riferimento [di questo Rapporto], 4.865 palestinesi hanno attraversato in entrambe le direzioni. Dal 2014 questa è la più lunga e continuativa apertura del valico di Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 23 maggio, un quindicenne palestinese è morto per le ferite riportate il 15 maggio, nel corso di una manifestazione presso il checkpoint di Beit El / DCO in Al Bireh / Ramallah. Si trattava di una manifestazione commemorativa del 70° anniversario di quello che i palestinesi definiscono “An Nakba” del 1948 e di protesta contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Lungo il confine di Gaza, sparano (anche) ai medici, o no?

Amira Hass

28 maggio 2018, Haaretz

Un’ambulanza al minuto, 1.300 persone colpite in un giorno: l’ospedale Shifa di Gaza affronta un’emergenza che travolgerebbe i migliori ospedali del mondo.

Dati clinici internazionali dicono che qualunque sistema sanitario occidentale collasserebbe se dovesse curare tante ferite da arma da fuoco ogni giorno quante ve ne sono state nella Striscia di Gaza il 14 maggio. Eppure il sistema sanitario di Gaza, che per anni è stato sull’orlo del collasso in seguito all’assedio israeliano ed alle lotte intestine palestinesi, ha sorprendentemente dimostrato di essere all’altezza della sfida. In Israele gli avvenimenti del 14 maggio sono già storia. Nella Striscia, le loro sanguinose conseguenze segneranno la vita di migliaia di famiglie negli anni a venire.

La cosa più scioccante, più dell’alto numero dei morti, è il numero delle persone ferite da armi da fuoco: circa metà delle oltre 2.770 persone che hanno ricevuto cure di emergenza avevano ferite da colpi di arma da fuoco. “Era chiaro che i soldati sparavano soprattutto per ferire e mutilare i dimostranti.” Questa è la conclusione che ho ascoltato dai miei interlocutori, alcuni dei quali con molta esperienza di sanguinosi conflitti internazionali. Lo scopo era di ferire, piuttosto che uccidere, il maggior numero di giovani per renderli per sempre disabili

I preparativi nelle 10 postazioni di smistamento e di traumatologia sono stati impressionanti. Ognuna delle postazioni allestite accanto ai luoghi delle proteste è stata dotata di infermieri e studenti di medicina volontari. Nell’arco di sei minuti in media riuscivano ad esaminare ogni paziente, stabilire il tipo di ferita, stabilizzare il paziente e decidere chi dovesse essere curato in un ospedale. A partire da mezzogiorno circa, è arrivata all’ospedale Shifa di Gaza un’ambulanza ogni minuto. Le sirene non smettevano di suonare. Ogni ambulanza trasportava quattro o cinque feriti.

Dodici sale operatorie hanno lavorato senza sosta. Le prime ad essere curate sono state le persone con ferite ai vasi sanguigni. Centinaia di persone con ferite meno gravi hanno atteso il proprio turno nei corridoi dell’ospedale, tra lamenti e capogiri. Gli unici analgesici disponibili erano destinati per lo più ai gravi mal di testa, non alle ferite da sparo. Anche se l’anno scorso il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania non avesse ridotto le forniture di medicine alla Striscia di Gaza, in seguito alle direttive dei vertici politici palestinesi, c’è da dubitare che l’ospedale avrebbe avuto gli analgesici e gli anestetici necessari per curare i circa 1.300 pazienti con ferite da arma da fuoco ed eseguire le centinaia di operazioni svoltesi il 14 maggio.

Nessun ospedale al mondo dispone di chirurghi vascolari ed ortopedici sufficienti per operare centinaia di vittime di spari in un solo giorno. Sono stati reclutati chirurghi con altre specializzazioni per operare sotto la guida degli specialisti. Nessun ospedale ha sufficienti equipe mediche per curare così tanti pazienti. Dopo le 13,30, quando i familiari dei feriti hanno iniziato ad affluire nel già sovraffollato ospedale, la situazione ha incominciato ad andare fuori controllo. Una squadra di sicurezza armata del ministero dell’Interno controllato da Hamas è stata chiamata per ristabilire l’ordine ed è rimasta là fino alle 20,30. Nella notte, 70 dimostranti feriti stavano ancora attendendo di essere curati ed altri 40 hanno atteso fino al mattino seguente. Una settimana dopo, è arrivato il momento della chirurgia ortopedica e delle terapie di riabilitazione, ma nella Striscia non vi sono abbastanza fisioterapisti, chirurgi ortopedici e attrezzature mediche.

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità diffuso il 22 maggio, dal 30 marzo al 22 maggio durante le dimostrazioni lungo il confine con Israele sono state ferite in totale 13.190 persone, compresi 1.136 minori. Di queste, 3.360 sono state ferite da proiettili veri sparati dai nostri eroici e ben protetti soldati; 332 di loro versano ancora in condizioni critiche (due persone sono morte per le ferite nel fine settimana). Sono state eseguite cinque amputazioni degli arti superiori e 27 degli arti inferiori. Soltanto nella settimana dal 13 al 20 maggio i soldati israeliani hanno ferito 3.414 gazawi, 2.013 dei quali sono stati curati in ospedali e cliniche gestiti da organizzazioni non governative, compresi 271 minori e 127 donne; 1.366 avevano ferite da arma da fuoco.

I nostri valorosi soldati hanno sparato anche alle squadre mediche che si avvicinavano alla barriera per soccorrere le vittime. Gli ordini sono ordini, anche quando ciò significa sparare agli infermieri. Di conseguenza i medici lavorano in gruppi di sei: se uno viene ferito, altri due lo portano via per curarlo e i tre rimanenti continuano il lavoro, pregando di non rimanere anche loro feriti.

Il 14 maggio un infermiere della Difesa Civile Palestinese è stato ucciso, colpito mentre andava a soccorrere un dimostrante ferito. Per circa 20 minuti i suoi colleghi hanno cercato di raggiungerlo senza riuscirci, impediti dalla pesante sparatoria. L’infermiere è morto per collasso polmonare. Nella settimana dal 13 al 20 maggio altri 24 operatori sanitari sono stati feriti – otto da proiettili veri, sei da schegge di proiettili, uno da un candelotto lacrimogeno e nove per inalazione di gas lacrimogeni. Dodici ambulanze sono state danneggiate. Tra il 30 marzo e il 20 maggio in totale sono stati feriti 238 operatori medici e danneggiate 38 ambulanze.

Il 23 maggio, dopo aver visitato un ospedale ed un centro di riabilitazione a Gaza, il Commissario Generale dell’UNRWA Pierre Krahenbuhl ha evidenziato le ripercussioni dei recenti avvenimenti: “Sinceramente credo che gran parte del mondo sottovaluti del tutto la portata del disastro in termini umanitari che si è compiuto nella Striscia di Gaza dall’inizio delle marce il 30 marzo…In sette giorni di proteste sono state ferite altrettante persone, o addirittura un po’ di più, di quante lo furono durante l’intero conflitto del 2014. Ciò è veramente sconvolgente. Durante le mie visite, sono anche stato colpito non solo dal numero di feriti, ma anche dal tipo di ferite… La ricorrenza di piccole ferite in entrata e grandi ferite in uscita indica che i proiettili usati hanno provocato gravi danni agli organi interni, ai tessuti muscolari e alle ossa. Gli staff sia degli ospedali del ministero della Sanità di Gaza, sia delle cliniche delle ONG e dell’UNRWA stanno lottando per occuparsi di ferite e di cure estremamente complesse.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Quel boato? È la Palestina che scatena uno tsunami legale contro i crimini di guerra israeliani

Victor Kattan

25 maggio 2018, Haaretz

La Palestina è decisa a far cadere su Israele tutto il peso delle leggi internazionali. E sta cominciando adesso.

Questa volta il governo di Benjamin Netanyahu potrebbe essere andato troppo in là nella difesa delle azioni delle sue forze armate a Gaza. Ciò potrebbe portare al fatto che Israele sia obbligato a difendere le proprie azioni davanti a una corte di diritto internazionale.

L’affermazione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman secondo cui “non ci sono innocenti a Gaza”, dove più di 60 palestinesi sono stati uccisi durante manifestazioni il 14 maggio, non poteva essere ignorata dalla dirigenza palestinese. Secondo il rapporto presentato dalla Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI), le persone colpite da cecchini e dal fuoco dell’artiglieria comprendono sei minori, un amputato alle due gambe, un infermiere e 11 giornalisti.

Se teniamo conto della decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – che in sé è stata una flagrante violazione delle leggi internazionali – nello stesso giorno in cui ha avuto luogo la sparatoria, la dirigenza palestinese ha capito di dover prendere l’iniziativa, almeno per conservare la propria credibilità agli occhi del suo stesso popolo.

Supportato dai festeggiamenti che hanno accompagnato la decisione di Trump sull’ambasciata, il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver trascurato, o non avere preso sul serio, importanti iniziative diplomatiche palestinesi negli ultimi mesi che, prese insieme, potrebbero aver rovinato la festa.

Nel settembre 2017 la Palestina ha aderito all’Interpol, l’organizzazione internazionale di polizia; in aprile ha presentato una denuncia contro Israele per aver violato i suoi impegni in base alla “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale”; e proprio la settimana scorsa il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha deciso di inviare una commissione di inchiesta, appoggiata da quasi tutti i membri del Consiglio tranne gli USA e l’Australia, per indagare sull’uccisione di palestinesi sul confine di Gaza da parte di Israele.

Ora il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki ha presentato un ricorso su propria iniziativa alla Corte Penale Internazionale in cui si chiede alla procuratrice Fatou Bensouda di aprire un’indagine sui crimini commessi sul territorio dello Stato di Palestina.

La dirigenza palestinese potrebbe prendere ulteriori passi presso altre corti e tribunali internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo all’Assemblea Generale dell’ONU di fare richiesta di un parere consultivo a quella corte, se facendolo vi vedesse un beneficio politico.

Benché Israele non riconosca lo Stato di Palestina, oltre 130 Stati lo fanno. Dato che Israele sta occupando il territorio di uno Stato membro, in linea di principio la CPI ha giurisdizione in materia.

Il ricorso su propria iniziativa è stato presentato alla procuratrice Bensouda da funzionari del ministero degli Affari Esteri della Palestina. Lo Stato di Palestina ha goduto dello status di Paese osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU dal 29 novembre 2012, ed ha ratificato o aderito a numerosi trattati – compreso lo Statuto di Roma che ha creato la CPI.

Gli USA, per favorire Israele, potrebbero rendere questo ricorso alle leggi internazionali disagevole per i palestinesi. Nel 2015 il congresso USA ha approvato l’“Omnibus Appropriations Act” [“Legge per la Raccolta dei Finanziamenti”, ndt.] per impedire il trasferimento di un sostegno economico all’Autorità Nazionale Palestinese se questa avesse avviato “un’inchiesta giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale o avesse attivamente sostenuto un simile inchiesta, che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Ovviamente i consiglieri giuridici della Palestina potrebbero sostenere di non aver iniziato loro, ma solo richiesto, l’apertura di un’inchiesta: solo il procuratore può avviare un’inchiesta.

Ma comunque l’amministrazione Trump ha già tagliato gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU incaricata di occuparsi dei rifugiati palestinesi, e ha tentato di chiudere la missione diplomatica della Palestina a Washington. Queste azioni hanno eliminato gli incentivi ed i privilegi economici che il presidente Obama, e le precedenti amministrazioni USA, avevano concesso alla dirigenza palestinese.

Finora questi benefici sembravano aver evitato che la dirigenza palestinese presentasse le proprie richieste contro Israele di fronte a corti e tribunali internazionali. La minaccia di ulteriori tagli all’Autorità Nazionale Palestinese evidentemente non ha dissuaso la leadership palestinese dal prendere questa iniziativa, che potrebbe indicare che essa ha trovato altri finanziatori che la tengono a galla.

La decisione di presentare un ricorso su propria iniziativa alla CPI è significativa perché mette pressione sulla procura affinché velocizzi il terzo esame preliminare che sta già svolgendo sulla Palestina.

Questa indagine è stata aperta quando la Palestina ha aderito alla Corte nel gennaio 2015 ed attualmente è nella fase 2 di un processo in 4 fasi. (La fase 1 consiste in una valutazione informativa; la 2 si concentra sulla giurisdizione; la 3 sulla potenziale ammissibilità dei casi; la 4 esamina l’interesse della giustizia).

Il testo del ricorso della Palestina alla CPI indica che, da quando nel gennaio 2015 la Palestina ha aderito alla Corte, il ministro degli Affari Esteri della Palestina ed i suoi giuristi dell’Aia hanno inviato all’ufficio del procuratore tre comunicazioni, un’osservazione e 25 successivi rapporti mensili.

Il ricorso “chiede alla procura di indagare, in base alla giurisdizione temporale della Corte, crimini precedenti, in corso e futuri che ricadono sotto la giurisdizione della Corte, commessi in ogni parte del territorio dello Stato di Palestina.” Il ricorso chiarisce che “lo Stato di Palestina comprende i territori palestinesi occupati dal 1967 da Israele, come definiti dalla linea dell’armistizio del 1949, e include la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.”

Nella sua dichiarazione sul ricorso, l’ufficio di Bensouda ha spiegato che ciò non porta automaticamente all’apertura di un’inchiesta.” Deve ancora completare le 4 fasi di esame preliminare.

Al momento tutti i ricorsi su propria iniziativa alla CPI sono stati presentati da Paesi africani, compresi la Repubblica centro-africana (due volte), la Repubblica Democratica del Congo, le Comore, il Gabon, il Mali e l’Uganda. L’attenzione esclusiva della Corte sul continente è stato argomento di critiche, anche se John Dugard, uno dei legali che questa settimana hanno accompagnato il ministro degli Esteri palestinese alla CPI, giustamente ha sostenuto che sono gli stessi Stati africani che hanno presentato questi ricorsi.

La Palestina è stato il primo Stato non africano a presentare un ricorso su propria iniziativa ed il secondo a prevedere accuse di crimini commessi da Israele.

Il primo venne fatto dalle Comore nel 2013 riguardo a presunti crimini commessi da Israele sulla nave Mavi Marmara, una nave passeggeri con bandiera delle Comore che nel 2010 portava pacifisti verso Gaza [10 passeggeri turchi vennero uccisi durante l’attacco israeliano in acque internazionali, ndt.]. Nonostante due ricorsi, in quel caso il procuratore decise di non aprire un’inchiesta e chiuse la sua inchiesta preliminare.

Non ci sono ragioni per cui il fatto di non essere arrivati a un processo riguardo alla Mavi Marmara possa impedire al procuratore di valutare con cura le denunce palestinesi di crimini commessi nello Stato di Palestina.

È vero, la procura potrebbe avere difficoltà a raccogliere prove, in quanto Israele difficilmente collaborerà, e non è obbligato a collaborare in quanto Israele non è uno Stato membro del Trattato di Roma. Tuttavia, come ben chiarisce il ricorso, i crimini commessi da Israele a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza “sono tra i più ampiamente documentati nella storia contemporanea.”

Questi presunti crimini includono la politica di colonizzazione di Israele, che viola direttamente lo Statuto di Roma ed è stata una delle ragioni per cui Israele non l’ha firmato nel 1998. Secondo il ricorso palestinese, come documentato dall’Ufficio Statistico Centrale di Israele, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima c’è stato un aumento del 70% delle costruzioni di colonie tra l’aprile 2016 e il marzo 2017.

Il ricorso sostiene anche che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso o ferito oltre 1.100 minori palestinesi nel solo 2017. Si riferisce alle uccisioni a Gaza del 14 maggio, alla demolizione di case a partire dal 2016, alla distruzione ed appropriazione di proprietà, alla detenzione illegittima, compresi 700 palestinesi tenuti in detenzione amministrativa che viene rinnovata indefinitamente, senza imputazioni o processo, sulla base di prove “segrete” tenute nascoste ai detenuti ed ai loro avvocati. Altre accuse, precisate in precedenti comunicazioni, osservazioni e rapporti mensili inviati all’ufficio della procura non sono state rese note.

Dei sei Stati che finora hanno fatto ricorso su propria iniziativa alla CPI, la procura ha aperto inchieste su cinque di essi: la Repubblica centro-africana (due volte), il Congo, il Mali e l’Uganda. Un altro (relativo al Gabon) è ancora nella fase 2. Rifiutando di aprire un’indagine sulla flottiglia di Gaza, la procura ha considerato i presunti crimini “non di una gravità sufficiente”. Ma è improbabile che questo argomento impedisca alla procura di indagare su presunti crimini di Israele in Cisgiordania e a Gaza, che sembrano essere molti gravi.

Se la prassi precedente insegna qualcosa, pare ci sia una notevole probabilità che la procura apra questa inchiesta sul caso palestinese. I ricorsi su propria iniziativa si sono conclusi con un processo e con arresti nei casi relativi alla Repubblica centro-africana, al Congo e all’Uganda, dove ordini di arresto sono stati emanati nel 2005 contro membri dell’Esercito di Liberazione del Signore [gruppo di guerriglia con connotazioni religiose responsabile di molte atrocità, ndt.]. I sospettati sono rimasti alla macchia per un decennio finché uno di loro, Dominic Ongwen, si è consegnato alla CPI. Il suo processo è in corso.

Il ricorso della Palestina alla CPI non rende pubblici i nomi delle persone accusate di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, ma è probabile che comprendano autorità ai più alti livelli dello Stato, compresi politici e membri delle forze armate. 

Benché gli ingranaggi della giustizia internazionale siano lenti, sono stati messi in movimento. È solo questione di tempo, finché la procura dovrà decidere se aprire un’inchiesta. Se decidesse che ci sono informazioni sufficienti per acconsentire all’apertura di un’indagine, è probabile che chieda la presenza di persone che vorrebbe interrogare e indagare perché implicate nella perpetrazione di crimini, perché testimoni di questi crimini, oppure perché ne sono stati essi stessi vittime.

Resta da vedere se Netanyahu sarà ancora il primo ministro di Israele quando, e se, il procuratore decidesse di aprire un’inchiesta. Nel frattempo Netanyahu non solo si deve preoccupare dei suoi problemi legali in patria [per accuse di corruzione, ndt.], ma anche di potenziali problemi legali all’estero, che potrebbero sorgere in un futuro non molto lontano.

Per il momento potrebbe essere al sicuro – dato che gode di immunità da procedimenti penali in base alle leggi consuetudinarie internazionali in quanto capo del governo israeliano. Israele non fa parte dello Statuto di Roma e potrebbe sostenere che non è vincolato alle norme dello Statuto che tolgono l’immunità ai capi di Stato per crimini che ricadono sotto di esso. I giuristi della Palestina potrebbero sostenere al contrario che i capi di Stato non godono di immunità se sono responsabili di aver commesso crimini in base allo Statuto di Roma. Potrebbero affermare che le disposizioni dello Statuto che prevedono l’esclusione dell’immunità dei capi di Stato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità riflettono le leggi internazionali consuetudinarie, che sono vincolanti per ogni Stato, compreso Israele, anche se Israele non ha ratificato lo Statuto.

In base alle leggi internazionali membri dell’esercito israeliano di rango inferiore ed ex-autorità di governo non sarebbero tuttavia immuni dalla giurisdizione penale. Se la CPI emanasse un mandato, qualunque Stato che faccia parte dello Statuto di Roma potrebbe applicare quel mandato agli israeliani menzionati se visitassero il loro territorio.

Come potrebbe proteggerli Israele? Potrebbe conferire lo status diplomatico a ex-ufficiali offrendo loro posizioni di ambasciatore in Stati che non sono parti in causa o promuovere funzionari a importanti posizioni nel governo.

In un caso tristemente noto, il Regno Unito fornì all’ex ministra israeliana Tzipi Livni [denunciata da uno studio legale di Londra per crimini durante l’operazione militare “Piombo fuso” contro Gaza nel 2008-09, ndt.] un’immunità per una “missione speciale”, addirittura una provvisoria competenza giurisdizionale, benché non avesse più un incarico di governo.

Dato che 123 Stati fanno parte dello Statuto di Roma, compresa la Palestina, importanti autorità israeliane potenzialmente implicate in crimini di guerra a Gaza o nell’attività di colonizzazione di Israele dovranno presumibilmente pianificare con cautela le proprie vacanze. E se i calcoli politici e legali in patria diventassero sfavorevoli, Netanyahu potrebbe unirsi a questo gruppo maledetto.

L’unica soddisfazione che questi funzionari israeliani potrebbero allora trovare è che un’indagine della CPI potrebbe probabilmente prendere di mira anche Hamas, date le sue azioni durante l’operazione “Margine protettivo” nel 2014. A differenza dei funzionari israeliani, i membri di Hamas, compresi i suoi principali dirigenti, non godono di immunità, e sarebbero un obiettivo molto più facile per la Corte.

Victor Kattan è ricercatore senior all’Istituto per il Medio Oriente dell’università nazionale di Singapore (NUS) e ricercatore associato alla facoltà di diritto nella NUS.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Un affronto alla Storia: il Giro d’Italia usato per nascondere l’apartheid israeliana.

Ramzy Baroud

17 maggio 2018, Counterpunch.org

Per la prima volta dal suo debutto nel 1909, il 4 maggio [di quest’anno, n.d.t.] il Giro d’Italia, leggendaria gara ciclistica italiana, è iniziato fuori dall’Europa e, stranamente, dalla città di Gerusalemme.

Le contraddizioni che questa decisione porta con sé sono inevitabili. L’Italia è un Paese che sa bene cosa sia una crudele occupazione straniera e che è stato devastato dal fascismo e dalla guerra. È terrificante che oggi abbia un ruolo nei continui tentativi di Israele di “nascondere con un’imbiancata” o, in questo caso, di “nascondere con lo sport” l’occupazione militare e la violenza quotidiana contro il popolo palestinese.

Tutti i tentativi di convincere gli organizzatori della gara a non essere parte della propaganda politica israeliana sono falliti. A quanto pare, i milioni di dollari pagati agli organizzatori del Giro d’Italia, RCS Sport, sono stati molto più convincenti delle esperienze culturali condivise, della solidarietà, dei diritti umani e del diritto internazionale.

Il famoso scrittore italiano Dino Buzzati, negli anni ‘40, ha scritto sui giornali italiani diversi racconti in cui descriveva il simbolismo della gara nel contesto di una nazione malridotta che risorgeva dalle ceneri di una gigantesca distruzione.

Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli organizzatori del Giro d’Italia si trovarono di fronte al compito apparentemente impossibile di organizzare una gara con poche biciclette e ancor meno atleti. Le strade erano state completamente distrutte durante la guerra, ma era più forte la determinazione a farcela.

Il Giro d’Italia del 1946, e soprattutto la leggendaria rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali, divennero la metafora di un Paese che si rialzava dopo gli orrori della guerra, ridando vita alla propria identità nazionale, rappresentata dallo scontro finale tra atleti eroici che pedalavano tra tortuose strade di montagna per raggiungere il traguardo.

Conoscendo questa storia, Israele l’ha sfruttata in ogni modo possibile. Il governo israeliano, infatti, ha recentemente concesso al compianto Gino Bartali la cittadinanza onoraria, come riconoscimento del retaggio anti-nazista dell’atleta. L’ironia, ovviamente, è che il trattamento che gli israeliani riservano ai palestinesi – occupazione militare, razzismo, apartheid e violenze aberranti – ricorda proprio quella realtà che Bartali e altri milioni di italiani hanno combattuto per anni.

Quando, lo scorso settembre, i dirigenti israeliani hanno annunciato che il Giro d’Italia sarebbe partito da Gerusalemme, si sono dati da fare per collegare l’evento alle celebrazioni israeliane per i 70 anni di indipendenza.

Sono passati 70 anni anche da quando i palestinesi vennero cacciati dalle loro terre da milizie sioniste, il che ha portato alla Nakba, distruzione catastrofica della Palestina, e alla nascita di Israele come Stato ebraico. È allora che Gerusalemme Ovest divenne parte di Israele, mentre il resto della Città Santa, Gerusalemme Est, venne conquistata con la guerra del 1967, prima dell’annessione, ufficiale ma illegale, del 1981, a dispetto del diritto internazionale.

RCS Sport non può dire di non sapere quando si parla di come la decisione di collaborare e avvalorare l’apartheid israeliana segnerà per sempre la storia della gara. Quando hanno annunciato sul sito che la competizione sarebbe partita da “Gerusalemme Ovest”, la risposta israeliana è stata immediata e furente. Il Ministro dello Sport israeliano, Miri Regev, e quello del Turismo, Yariv Levi, hanno minacciato di interrompere la collaborazione, lamentando che “a Gerusalemme, la capitale di Israele, non ci sono Est o Ovest. Esiste solo un’unica Gerusalemme”.

Purtroppo, gli organizzatori del Giro d’Italia hanno chiesto scusa pubblicamente e hanno rimosso la parola “Ovest” dal sito e dai comunicati stampa.

Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è una città palestinese occupata. Questo fatto è stato ripetutamente ribadito da risoluzioni ONU, tra cui la più recente, la Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, che condanna la costruzione di insediamenti illegali israeliani nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est.

La realtà dei fatti contraddice palesemente le argomentazioni degli organizzatori del Giro d’Italia, secondo cui la gara sarebbe una celebrazione della pace. In realtà, è un modo di avallare l’apartheid, la violenza e i crimini di guerra.

Il fatto che la gara si sia svolta secondo il programma, nonostante fosse in corso l’assassinio di manifestanti palestinesi a Gaza, dimostra anche il livello di corruzione morale di chi sta dietro tutto questo. Oltre 50 palestinesi disarmati sono stati uccisi dal 30 marzo, dall’inizio cioè delle manifestazioni pacifiche al confine di Gaza, note come ”Grande Marcia del Ritorno”. Secondo il Ministero palestinese per la Gioventù e lo Sport, sono oltre 7.000 i feriti, e tra loro 30 atleti.

Uno dei feriti è Alaa al-Dali, 21 anni, ciclista, a cui è stata amputata una gamba, colpita da un proiettile il primo giorno delle proteste.

Sylvan Adams, filantropo ebreo canadese e uno dei maggiori finanziatori della gara, ha sostenuto che il proprio contributo sia motivato dal desiderio di promuovere Israele e sostenere il ciclismo come ”ponte tra i popoli”.

I palestinesi come Alaa, la cui carriera ciclistica è finita, sono, ovviamente, esclusi da questa sublime e selettiva definizione. I 12 milioni di dollari che gli organizzatori hanno ricevuto da Israele e dai suoi sostenitori sono stati un prezzo sufficiente per ignorare la sofferenza dei palestinesi e per agevolare la normalizzazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese?

Purtroppo, nel caso di RCS Sport, la risposta è sì.

Molte persone in Italia e ancor più nel mondo, ovviamente, non sono d’accordo. Nonostante il ruolo dei media nello “sport-washing” israeliano, centinaia di italiani hanno protestato durante le varie tappe della gara.

La quarta tappa del Giro d’Italia, a Catania, in Sicilia, è stata ritardata dalla protesta contro una competizione ”sporca di sangue palestinese”, secondo le parole dell’attivista Alfonso Di Stefano.

Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è stato una delle prime voci italiane importanti a contestare la decisione di tenere la gara in Israele. “Avrei potuto rimanere indifferente, ma temo che sarei stato disprezzato dalle persone che stimo. Viva il popolo palestinese, libero sulla sua terra”, ha scritto in un post su Facebook.

RCS Sport ha causato al Giro, al ciclismo e agli italiani un danno imperdonabile in cambio di pochi milioni di dollari. Accettando di far partire la gara da un Paese colpevole di pratiche di apartheid e prolungata occupazione militare, [gli organizzatori, ndt.] hanno marchiato a vita la competizione.

Comunque, la generale ondata di indignazione provocata da questa decisione irresponsabile pare indicare che gli sforzi israeliani per normalizzare i propri crimini contro i palestinesi non stiano riuscendo a cambiare l’opinione pubblica e la percezione di Israele come potenza occupante, che merita di essere boicottata, non accettata.

  • Romana Rubeo, scrittrice italiana, ha contribuito a questo articolo.


Il Dr. Ramzy Barud scrive di Medio Oriente da oltre vent’anni. Editorialista di livello internazionale, esperto in comunicazione, è autore di diversi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ”My father was a freedom fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londra). Sito web: ramzybaroud.net

(Traduzione di Elena Bellini)

 

 




Come Israele testa la sua tecnologia avanzata sui manifestanti palestinesi

Daniel Hilton

18 maggio 2018, Middle East Eye

I candelotti lacrimogeni lanciati dai droni israeliani hanno provocato il panico, causato molti feriti e seminato morte durante le manifestazioni di questa settimana a Gaza e in Cisgiordania.

Il divario tra i manifestanti palestinesi e le forze israeliane è stato spesso paragonato alla lotta di Davide contro Golia. Ormai Golia non ha nemmeno più bisogno di scendere sul campo di battaglia.

Grazie ad una nuova invenzione, l’esercito israeliano ha utilizzato piccoli droni per lanciare gas lacrimogeni sulle manifestazioni dei palestinesi lungo il confine della Striscia di Gaza con Israele e nella Cisgiordania occupata.

Visti per la prima volta all’inizio di marzo, quando la catena libanese Al-Mayadeen ha filmato un gruppo di manifestanti di Gaza presi di mira da uno di essi, i droni che trasportano gas sono stati ampiamente utilizzati nelle manifestazioni di lunedì e martedì nell’enclave costiera e nella Cisgiordania occupata.

Sembra che per lanciare gas vengano utilizzati tre tipi di droni.

Il primo, sviluppato dall’impresa israeliana ISPRA e conosciuto col nome “Cyclone Riot Control Drone System”, è un piccolo drone che trasporta una scatola contenente nove cartucce in alluminio leggero che esplodono dopo il lancio.

Tuttavia sembra che siano stati utilizzati da Israele altri due modelli, che secondo esperti interpellati da MEE non sono mai stati visti prima.

Uno è un drone che libera gas direttamente dall’apparecchio, come uno spray, spandendo una nube su coloro che vi si trovano sotto.

L’altro, un dispositivo potenzialmente molto più pericoloso, è un drone tipo elicottero che trasporta granate esplosive in gomma con delle spirali metalliche che cadendo disperdono il gas.

Secondo gli esperti interpellati da MEE, quando le manifestazioni della ‘Grande Marcia del Ritorno’ hanno raggiunto il loro culmine all’inizio di questa settimana, il terzo tipo di drone è diventato quello di gran lunga più utilizzato.

Esso non sembra essere uno strumento sofisticato.

«E’ più sofisticato (di un drone commerciale), non è qualcosa che si possa acquistare a buon prezzo su Amazon, ma penso che sia abbastanza simile», ha dichiarato a MEE Itay Mack, un avvocato per i diritti umani ed attivista israeliano che si occupa delle esportazioni militari di Israele.

Il drone sembra essere dotato di un supporto a molla, che si apre per lasciar cadere un certo numero di candelotti lacrimogeni.

«Penso che la sicura dei candelotti venga sganciata manualmente quando vengono fissati al supporto prima del decollo», ha dichiarato a MEE James Bevan, direttore esecutivo di ‘Conflict Armament Research’.

Il supporto viene quindi rilasciato una volta che il drone si trova sulla zona su cui chi lo manovra intende sganciare il gas.

«Può trattarsi di una cosa semplice come un perno retraibile attaccato a un servomotore, che è collegato ai circuiti del drone», spiega Bevan. «È ciò che lo “Stato islamico” ha utilizzato in Iraq e in Siria. »

Secondo Bevan, lo “Stato islamico” è l’unico gruppo per il quale esistono prove concrete di utilizzo di questi piccoli droni elicotteri in situazioni di combattimento, soprattutto a Mosul (Iraq) e a Tall Afar (Siria).

«Constatiamo l’utilizzo di droni in altri scenari, anche da parte di organizzazioni non statali, ma si tratta di droni militari ad ala fissa », ha spiegato.

Nuova gittata, nuovo pericolo

Le manifestazioni di lunedì a Gaza coincidevano con la cerimonia di inaugurazione ufficiale della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, mentre quelle di martedì segnavano il 70^ anniversario della Nakba – o “Catastrofe” – durante la quale 700.000 palestinesi furono espulsi dalle loro case nel 1948.

Durante questi due giorni 62 palestinesi sono stati uccisi da proiettili veri o da gas lacrimogeni sparati dalle forze israeliane che cercavano di reprimere le manifestazioni.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che almeno 980 palestinesi, tra cui molti minori, sono stati feriti dai gas lacrimogeni lanciati durante le manifestazioni di lunedì.

«Il problema dei candelotti lacrimogeni è che sono particolarmente pericolosi per i bambini e gli anziani.»

I droni hanno accresciuto il raggio d’azione delle forze israeliane. Prima i candelotti lacrimogeni venivano lanciati nella Striscia di Gaza da veicoli situati dal lato israeliano della linea di confine.

La grande barriera che separa l’enclave assediata da Israele limita la capacità dell’esercito israeliano di lanciare il gas dall’altro lato del confine, diversamente dalla Cisgiordania, dove i soldati sparano i candelotti con fucili appositamente attrezzati.

Le forze israeliane raramente fanno incursioni nella Striscia di Gaza, da cui si sono ritirate nel 2005, mentre mantengono una presenza significativa nella Cisgiordania occupata.

Questa nuova gittata consente agli israeliani di prendere di mira delle zone lontane dall’area di frontiera, quelle in cui è più probabile che vivano famiglie, minori e anziani.

Il gas, una minaccia per le persone vulnerabili

Il gas può essere mortale in due modi: asfissia e dose eccessiva, a seconda dei prodotti chimici utilizzati.

Negli ultimi anni la morte di parecchi palestinesi in Cisgiordania è stata legata all’inalazione di gas lacrimogeno. Nel 2015 un bimbo di otto mesi è morto nel villaggio di Beit Fajjar dopo che dei soldati hanno lanciato gas lacrimogeno sulla sua casa.

Nel 2014 anche il ministro palestinese Ziad Abu Ein è morto in seguito a complicanze legate all’inalazione di gas lacrimogeno, dopo aver partecipato ad una manifestazione vicino al villaggio di Turmusaya.

L’anno scorso un rapporto descriveva il campo profughi di Aida, nel sud della Cisgiordania, come «la comunità più esposta ai gas lacrimogeni al mondo.»

Durante le manifestazioni di questa settimana nella Striscia di Gaza, è stata uccisa dai gas lacrimogeni anche una neonata di otto mesi, Leila al-Ghandour. Sarebbe stata esposta al gas mentre si trovava in un luogo di proteste lontano dalla barriera di separazione israeliana, anche se, al momento in cui viene pubblicato questo articolo, MEE non ha potuto verificare in modo indipendente le circostanze della sua morte.

Proiettili sparati a caso

Anche se sono fatti di gomma, i candelotti lacrimogeni sganciati dai droni sono pesanti e il loro congegno a spirale è di metallo.

L’esercito israeliano è sottoposto a regolamenti che vietano di prendere di mira direttamente le persone con questi proiettili. I candelotti di gas sparati da fucili appositamente adattati sono particolarmente pericolosi a breve distanza.

Anche i lancia-granate a lunga gittata e di calibro 40 mm utilizzati da Israele sono considerati pericolosi in quanto la precisione dei loro tiri è ridotta.

Un portavoce dell’‘Omega Research Foundation’, un organismo che studia la fabbricazione, il commercio e l’utilizzo delle tecnologie militari, di polizia e di sicurezza, ha dichiarato a MEE che i droni potrebbero essere utilizzati per aumentare la precisione del rilascio dei gas lacrimogeni.

«Da un punto di vista meramente tecnico, i droni possono volare ad un’altezza che consente di lanciare in completa sicurezza i candelotti e di mirare alle persone che costituiscono una minaccia”, ha dichiarato il portavoce, che ha chiesto di restare anonimo.

Tuttavia, sequenze video delle proteste di questa settimana sembrano mostrare dei candelotti lanciati da grande altezza, il che riduce la precisione ed aumenta il rischio di ferite alla testa.

Una minaccia inesistente

Israele ha accusato a più riprese i manifestanti di Gaza di cercare di oltrepassare la barriera di confine e di piazzare degli esplosivi in territorio israeliano. Secondo Israele l’impiego di proiettili veri e di gas lacrimogeni è giustificato dalla minaccia che i manifestanti rappresenterebbero nel caso superassero la barriera.

I droni possono «sorvolare certe zone e sganciare lacrimogeni in settori dove non si vuole vi siano manifestanti», ha dichiarato all’AFP [Agenzia France Presse] Micky Rosenfeld, portavoce della polizia israeliana.

Tuttavia inviati di MEE presenti a Gaza e in Cisgiordania ed anche video diffusi online portano a pensare che le forze israeliane abbiano preso di mira aree lontane dalla zona di confine e persone che non sembravano costituire una minaccia.

Lunedì un giornalista di MEE e parecchi altri operatori dell’informazione sono stati colpiti dal gas lanciato da un drone. La zona presa di mira era chiaramente occupata da molti giornalisti e da veicoli che portavano una scritta “STAMPA” messa ben in evidenza.

In un’altra sequenza video un drone sgancia del gas su una tenda collettiva piena di donne e bambini, a quanto pare situata a più di 450 metri dal confine.

Sembra che in certe situazioni il lancio dei lacrimogeni dal cielo abbia seminato confusione e panico tra la gente invece di disperderla verso altri luoghi.

Martedì, durante una manifestazione vicino alla colonia israeliana illegale di Beit El, in Cisgiordania, almeno quattro droni hanno sganciato gas direttamente sui manifestanti.

Secondo un manifestante di 20 anni, che ha chiesto di parlare con MEE in forma anonima, « ne è derivato uno stato di panico» quando in cielo sono apparsi i droni.

«La gente correva in tutte le direzioni senza sapere dove andare, mentre i droni volavano sopra le nostre teste in attesa di sganciare i gas lacrimogeni», ha detto a MEE.

«Gli israeliani hanno cominciato ad utilizzare questi droni solo da qualche settimana. Agiscono in modo indiscriminato e sono spietati.”

Secondo Gabriel Avner, un consulente israeliano per la sicurezza, la politica condotta da Israele a Gaza si discosta dai metodi abituali di controllo delle masse.

«La situazione a Gaza in questo momento è completamente diversa da ciò che succede altrove (….). Loro [gli israeliani] vi vedono una zona di conflitto di grandi dimensioni», ha spiegato a MEE.

«C’è motivo di preoccuparsi in quanto le regole di ingaggio siano rigide » ha detto, prima di aggiungere che l’esercito israeliano avrebbe dovuto assicurarsi che i soldati fossero ben addestrati a comprendere le potenziali conseguenze dell’introduzione di questo tipo di nuove tecnologie.

Un «terrorismo degli aquiloni»

Tuttavia i droni non servono solo a lanciare gas lacrimogeni.

Alcuni palestinesi fanno volare degli aquiloni dall’altro lato del confine, spesso con lo scopo di appiccare incendi: questi aquiloni trasportano brace ardente per innescare incendi boschivi in territorio israeliano.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’esercito israeliano si è rivolto a piloti di droni da competizione per intercettare gli aquiloni servendosi delle eliche e dei ganci attaccati agli apparecchi per tagliarne il filo e farli deviare.

Haaretz ha riferito che i droni che intercettano gli aquiloni non sono pilotati da professionisti e possono raggiungere una velocità di 110 metri al secondo.

Secondo il quotidiano, si sospettava che uno degli aquiloni che ha raggiunto il lato israeliano della linea di separazione trasportasse una bomba telecomandata.

Benché il congegno non sia esploso – i pompieri dei servizi di polizia hanno affermato che forse si trattava di una bomba difettosa o finta – il quotidiano ha ipotizzato che questo episodio possa essere l’annuncio di una nuova fase di ciò che ha descritto come un “terrorismo degli aquiloni” lungo il confine.

Molti di questi aquiloni sono comunque inoffensivi, frequentemente utilizzati dai manifestanti per far sventolare la bandiera palestinese.

Se non vengono intercettati dai droni, sono spesso abbattuti da spari di proiettili veri.

Tecnologie in vendita

Israele è uno dei leader mondiali della tecnologia dei droni.

Il suo uso di aerei senza pilota risale alla fine degli anni ’70; all’epoca, erano utilizzati dall’esercito per operazioni di controllo nel sud del Libano, prima di essere impiegati ampiamente nel 1982 durante l’invasione di Israele del suo vicino settentrionale.

Secondo Itay Mack, l’avvocato dei diritti umani, Israele si è servito dei precedenti conflitti per mettere in mostra le sue armi al fine di venderle.

Israele vende i suoi armamenti e tecnologie a molti Paesi. Il mese scorso il ministero della Difesa tedesco ha annunciato l’intenzione di firmare un contratto di un miliardo di dollari con ‘Israel Aerospace Industries’ [“Industrie aerospaziali Israeliane”, impresa pubblica e principale produttrice di armi del Paese, ndtr.] per affittare degli aerei senza pilota.

Israele è stato oggetto di critiche per aver venduto armi a governi che hanno pessimi precedenti in tema di diritti umani, tra cui ultimamente la Birmania, che avrebbe acquistato apparecchiature militari israeliane nell’ambito della sua operazione contro la minoranza rohingya. L’attacco del governo birmano contro le comunità rohingya è stato ampiamente descritto come una pulizia etnica.

A dicembre anche la società israeliana “Global Group” ha venduto per parecchi milioni di dollari droni di sorveglianza al governo del Sud Sudan, sotto assedio e a corto di denaro.

Dopo lo scoppio della guerra civile nel Paese nel 2013 le forze governative del Sud Sudan sono state accusate dall’ONU di gravi violazioni dei diritti umani.

L’utilizzo di droni da parte dell’esercito israeliano per sganciare gas a Gaza e in Cisgiordania lascia intendere che i modelli venduti al Sud Sudan potrebbero anche essere adattati per lanciare gas lacrimogeni o altri ordigni.

«I droni commerciali di maggiore dimensione (…) sono ideati per trasportare un’intera gamma di carichi (grandi telecamere per gli eventi sportivi, dispositivi per irrorare le coltivazioni). Sono quindi concepiti per essere guidati a distanza a seconda delle funzioni dei diversi carichi. Sarebbe molto facile da impostare», ha detto James Bevan, di ‘Conflict Armament Research’.

Hanno contribuito a questo reportage Kaamil Ahmed, Tessa Fox e Hind Khoudary. 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

 




‘Noi moriamo comunque, quindi che sia davanti alle telecamere’: conversazioni con abitanti di Gaza

Amira Hass

20 maggio 2018, Haaretz

I miei amici di Gaza sono indignati dall’accusa di Israele che sia Hamas a guidare tutto. ‘Il vostro popolo ci ha sempre guardati dall’alto in basso, perciò è difficile per voi capire che nessuno manifesta nel nome di qualcun altro’.

“La capacità di noi palestinesi di essere uccisi è più grande della capacità di voi israeliani di uccidere”, mi ha detto un abitante del campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme all’inizio della Seconda Intifada. Ottimista da sempre, intendeva dire che a causa di questa differenza alla fine le due parti raggiungeranno un giusto accordo.

Martedì di questa settimana, lungo la barriera di confine e di fronte a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza, il fatto che si sia sbagliato è diventato nuovamente evidente. C’è un limite alla capacità dei palestinesi di essere uccisi. Il mattino seguente al lunedì di sangue i manifestanti hanno fatto una pausa. Sessanta nuovi morti e centinaia di nuovi feriti hanno giustificato il momento di calma che chiedevano. Il giorno seguente, il giorno della Nakba, che ci si aspettava fosse il peggiore, in realtà è stato il giorno in cui hanno rinunciato alla simbolica ‘Marcia del Ritorno’ di massa alla barriera di confine.

In mezzo ai campi di girasole e di patate dei kibbutz, invidiavo i miei colleghi che trasmettevano con così grande autoconvinzione le dichiarazioni dell’esercito e dei politici israeliani. Secondo i portavoce israeliani, sia militari che civili, la tregua lungo la barriera di confine è la prova inequivocabile che i leader di Hamas controllano tutto, e tutti sono sottoposti alla loro autorità, sono loro che hanno mandato la gente a morire il giorno prima, sono loro che hanno cambiato il copione il giorno dopo. Molto semplice.

Secondo questi rapporti, l’Egitto ha dato istruzioni di fermare il processo – dietro richiesta israeliana – e Hamas ha obbedito. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh è stato umiliato, e questo ha funzionato. Tutto ciò viene recepito in Israele come dato di fatto, giornalismo investigativo e ulteriore vittoria israeliana. Non c’è bisogno di essere a Gaza per sapere e non conta che l’esercito impedisca ai giornalisti israeliani di entrare nella Striscia.

Tutta la nostra strumentazione bionica è al lavoro: aerostati per scattare foto, droni, intercettazioni, collaboratori e una dichiarazione fuori-onda di un importante dirigente di Fatah a Ramallah. Tutto sembra fornire ciò che noi interpretiamo come verità divina. In confronto, la quantità di dettagli, spiegazioni, ipotesi, negazioni, esitazioni e contraddizioni che riceviamo da parte palestinese è considerata giornalismo scorretto, che non fornisce una spiegazione definitiva.

Accanto agli irrigatori che spruzzano gioiosamente acqua nei campi israeliani, mi sono chiesta: se voi sapevate che Hamas ha pianificato di mandare cinicamente la gente a morire in modo da guadagnarsi nuovamente l’attenzione e dipingere Israele come il demonio, perché state facendo quello che loro volevano? Perché anche voi, che non avete usato mezzi non letali, ubbidite ad Hamas?

C’è una barriera interna, una barriera di sicurezza e un terrapieno che è stato costruito con terra riportata dagli scavi della nuova barriera sotterranea di Israele. E c’è una strada di sicurezza e un’altra ancora. E poi i campi. Intorno a tutto questo ci sono postazioni di vigilanza e al disopra ci sono palloni aerostatici e droni. E tutto ciò che avete potuto fare è stato dimostrare la capacità di Israele di uccidere e mutilare?

Vicinanza silenziosa

Da una collina nei campi del kibbutz Nir Am si possono vedere chiaramente Beit Hanun, Izbet Abed Rabo e i contorni di Shujaiyeh nel nord di Gaza. Ed anche gli alti blocchi residenziali, che svettano alti. L’ ininterrotta area costruita da Beit Lahia all’estremità sud di Gaza sembra molto vicina. Un solo furgone pickup bianco è passato lungo la linea di confine tra i campi coltivati palestinesi e l’ampia striscia di terra in cui Israele vieta di coltivare, e un carro trainato da cavalli andava verso nord.

La silenziosa vicinanza, senza alcun contatto, ha dimostrato la situazione di imprigionamento dal lato opposto. Dopotutto, io una volta ho abitato là, sono andata in tutti quei luoghi che ora vedo col binocolo e ricordo i fatti che ho raccontato e la gente di cui ho scritto, tra una guerra e l’altra, durante le guerre, durante le rivolte e per così dire le tregue.

Ora questi luoghi sono un film, da vedere e non toccare. A uno o due chilometri di distanza ci sono i miei amici, a cui voglio bene, e non ci è più permesso di vederci. Uno di loro ha detto scherzando che sarebbe venuto al campo della ‘Marcia del Ritorno’ sventolando una grande bandiera palestinese per salutarmi. Ma è meglio WhatsApp.

Al telefono i miei amici si indignano e ognuno lo dice a suo modo: dire che Hamas controlla tutto questo significa togliere ad ogni palestinese non solo il suo diritto alla libertà di movimento e ad un livello di vita dignitoso, ma anche il diritto ad una profonda frustrazione e disperazione – ed il suo diritto di esprimerla.

“Gli israeliani ci guardano dall’alto in basso e lo hanno sempre fatto. Ai vostri occhi, un arabo buono è un collaborazionista o un [arabo] morto”, ha detto uno di loro ed ha aggiunto: “Perciò per voi è difficile capire che nessuno manifesta in nome di qualcun altro. Ognuno va là per sé stesso. Noi siamo un popolo senza risorse ed ora senza una strategia e un programma, ed al punto più basso in termini di appoggio internazionale e di organizzazione interna. Ma siamo andati a manifestare per disturbare i festeggiamenti per il trasferimento dell’ambasciata. Gerusalemme ci sta molto a cuore. Andiamo per non morire in silenzio. Perché siamo stufi e stanchi di morire in silenzio, nelle nostre case.”

“Se muori, che sia di fronte alle telecamere. Facendo rumore. Io sto andando alla moschea. Non vi è stato nessun ordine dall’alto di andare alla manifestazione. Sento dei giovani dire che domani andranno a morire alla barriera, come se parlassero di un picnic o di caramelle. Sono andato al campo della ‘Marcia del Ritorno’ due o tre volte, e non mi è piaciuto. Troppa confusione. Se Hamas avesse avuto il controllo dell’intera iniziativa non ci sarebbe stato quel caos. Dopotutto, lo sapete quanto gli eventi di Hamas siano sempre ordinati, organizzati, disciplinati.”

È vero, c’era personale della sicurezza di Hamas in abiti civili; non erano là come Hamas, ma per mantenere l’ordine pubblico a nome del governo in carica, come in ogni evento di massa – per impedire a persone armate di avvicinarsi alla barriera, per evitare provocazioni di collaborazionisti, per intervenire in caso di risse o molestie sessuali.

Hamas ha perso popolarità a Gaza a causa dei fallimenti e dei disastri degli ultimi dieci anni, mi ha giurato un amico dopo avermi ricordato che a lui “non piacciono per niente.” Dice che all’inizio, [i dirigenti di Hamas] non erano entusiasti dell’idea della ‘Marcia del Ritorno’, dopo che dei giovani militanti avevano proposto l’idea a tutti i leader delle fazioni politiche.

In seguito anche Hamas ha aderito all’iniziativa. In quanto organizzazione, Hamas è in grado di offrire ciò che altri gruppi non possono: trasferimenti ai campi della ‘Marcia del Ritorno’, magari un panino e una bottiglia di coca cola e tende. “Ma non possono obbligarci a venire e mettere a rischio noi stessi. Dopotutto, è pericoloso stare ad una distanza anche solo di 300 o 400 metri, perché i soldati ci sparano.”

Uno straniero a Gaza ha avuto questa impressione: “Hamas non può ordinare alla gente di andare alle manifestazioni e mettere a rischio la propria vita, ma può impedire che si avvicini alla barriera.” Uno dei modi è fare dichiarazioni ai media.

I molti morti non di Hamas

Mercoledì è arrivata a molti organi di informazione israeliani la stessa notizia secondo cui un leader di Hamas, Salah al-Bardawil, “ha ammesso in un’intervista alla televisione palestinese che 50 dei 60 uccisi negli scorsi due giorni erano membri di Hamas.” In Israele si è tirato un gran sospiro di sollievo. Hamas? In altri termini, terroristi per definizione, in altri termini, c’è il permesso di ucciderli. C’è persino un ordine in tal senso.

La fonte di informazione era un tweet in lingua araba di Avichay Adraee dell’ufficio del portavoce dell’esercito israeliano. Ha incollato sul tweet un pezzettino di un’intervista di oltre un’ora con Bardawil sul canale di notizie Baladna trasmesso su Facebook.

L’intervistatore, Ahmed Sa’id, ha posto spinose domande che aveva ascoltato per strada, per la maggior parte poste da sostenitori di Fatah: che dite dell’umiliazione che avete subito in Egitto e perché Hamas manda la gente a morire alla barriera – mentre voi ne cogliete i frutti (politici)?

Bardawil ha dovuto difendere la sua organizzazione e dire che non era vero, che non vi è stata nessuna umiliazione e che i membri di Hamas stavano manifestando come chiunque altro, insieme a tutti gli altri.

“Purtroppo questa è l’organizzazione che oggi alimenta le motivazioni e la consapevolezza, soprattutto tra i giovani”, mi aveva precedentemente spiegato uno dei miei amici.

Torniamo a Bardawil. Ha detto che 50 dei 60 uccisi erano membri di Hamas. Ho controllato e mi è stato detto che le cifre ufficiali in possesso di Hamas sono che, dall’inizio della ‘Marcia del Ritorno’ del 30 marzo, c’erano 42 persone legate ad Hamas tra le 120 uccise: membri del movimento, noti militanti, membri di famiglie di Hamas.

Sembra che circa 20 membri dell’ala militare di Hamas siano stati uccisi, e non vicino alla zona delle proteste, ma in circostanze ancora da chiarire. Ma gli altri erano semplici manifestanti disarmati. E manifestavano perché erano di Gaza. Ma una volta che Bardawil ha detto quel che ha detto, è difficile contestare le sue parole in pubblico. “Questa (la cifra di 50) è un’altra delle nostre tipiche esagerazioni”, ha detto il mio amico che non è venuto a sventolare la sua bandiera per salutarmi.

Quanto alle esagerazioni, “l’idea che la ‘Marcia del Ritorno’ interrompa lo stallo e fermi la lenta rovina di Gaza – tutti lo vorremmo, anch’io”, ha detto un altro. “Ma sono i dettagli che non mi piacciono. Che cosa è questa follia della ‘Marcia del Ritorno’ e di togliere il blocco? Non hanno nemmeno riflettuto in modo adeguato sugli slogan. Poiché, se lo scopo è ritornare ai villaggi, il blocco è una questione irrilevante.”

Tra i girasole e i pochi incendi [di copertoni] scoppiati martedì, i soldati erano in allerta nelle loro postazioni. Ondeggiavano continuamente tra un iperattivismo borioso e l’indolenza di un picnic. Erano posizionati entro i perimetri dei kibbutz, a brevissima distanza dalle case. Anche i blindati erano alla distanza di una passeggiata mattutina.

È ciò che viene chiamata una presenza militare nel cuore di una popolazione civile. Ricordo la situazione opposta, di postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza che servivano da scusa ad Israele per diffamare l’organizzazione che si sarebbe fatta scudo dei civili, e all’esercito israeliano per bombardare chiunque si trovasse vicino a loro [alle postazioni].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




Gaza. Qualcosa si muove. Ma in che verso?

Patrizia Cecconi

20 maggio 2018, Pressenza

Forse le fucilazioni in diretta di dimostranti disarmati da parte degli snipers israeliani hanno mosso la coscienza giuridica del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHCR) perché, nonostante le manipolazioni mediatiche basate su veline israeliane, le testimonianze documentate in diretta non lasciavano dubbi.

Infatti alcuni giorni fa i 47 membri del Consiglio si sono espressi a larga maggioranza condannando i crimini israeliani e chiedendo l’apertura di una commissione d’inchiesta per indagare sulle violazioni del diritto internazionale nel contesto delle proteste di massa in Cisgiordania e lungo i confini della Striscia di Gaza.

La Risoluzione ha visto 2 voti contrari, tra cui quello degli USA, come ovvio visto che con le sue dichiarazioni e con le sue azioni il presidente USA si è posto non più come ipotetico arbitro ma come rivendicato “goodfather” di Israele.

Sebbene la sentenza di questa Commissione non avrà alcun potere dirimente sull’operato futuro di Israele, così come mostrano le esperienze passate, lo Stato imputato di crimini ha respinto la Risoluzione con sdegno e il ministro Lieberman, uno dei falchi ancor più a destra del premier Netanyahu, nella sua indignazione ha addirittura toccato il ridicolo chiedendo che il suo Stato esca dal Consiglio dei diritti umani, dimenticando che non ne fa parte e quindi non può uscirne!

Un breve ripasso sulla struttura del Consiglio è d’obbligo per comprendere, al di là del contingente, il senso di questo rifiuto. Dunque, il Consiglio per i diritti umani, è stato costituito nel 2006 in sostituzione della Commissione per i diritti umani istituita nel 1946 e più debole in quanto ad efficacia per garantire, o tentare di garantire, il rispetto dei diritti umani nel mondo. I membri che lo compongono sono 47, estratti a sorte nel rispetto del peso numerico dei vari continenti. Alla sua costituzione, nel 2006, non tutti i paesi membri dell’ONU votarono a favore, infatti USA ed Israele si dichiararono contro.

Il loro voto contrario all’istituzione di un organismo basato sui criteri fondamentali della Dichiarazione universale dei Diritti Umani, emanata nel 1948 – pochi mesi dopo la proclamazione della nascita dello Stato di Israele – non è certo un buon segnale, pur tuttavia è un dato storico che viene regolarmente sottaciuto, ma che noi riteniamo sia bene tener presente. E’ pure bene tener presente che aver votato contro non pone uno schermo contro la supervisione delle eventuali violazioni in quanto questa riguarda tutti gli stati facenti parte delle Nazioni Unite.  Va pure precisato che la Risoluzione che deriva dalla Commissione d’inchiesta autorizzata ad indagare sulle violazioni osservate, per quanto significativa, non è vincolante in quanto non prevede sanzioni per i paesi accusati di violazioni dei diritti umani. In realtà si limita ad una funzione informativa dell’opinione pubblica mondiale così come successo per la Birmania, il Congo, la Corea del Nord ed altri paesi tra cui lo stesso Israele, più volte ma inutilmente condannato per violazione dei diritti umani, producendo come unica risposta quella di fornire un ulteriore attacco difensivo da parte degli Usa e dello stesso Israele con la dichiarazione pubblica che il Consiglio dei diritti umani ha “un’ossessione patologica contro Israele”.

Il passaggio da oppressore ad oppresso (rispetto ai palestinesi) da parte di Israele è ormai una costante e lo si è visto anche nei giorni scorsi a Ginevra dove la dura accusa pronunciata dall’Alto commissario per i diritti umani ha avuto la replica scontata della rappresentante israeliana Aviva Raz Shechter la quale – buttandosi dietro le spalle i circa 110 morti palestinesi fucilati a freddo al momento della sua dichiarazione, nonché gli oltre 6000 feriti compresi ben 110 giornalisti e 200 paramedici con unica funzione di osservatori i primi e di soccorritori i secondi – ha accusato l’organismo delle Nazioni Unite di “voler sostenere Hamas e la sua strategia terroristica”. Negando sia l’evidenza, sia le dichiarazioni del portavoce dell’IDF (le forze armate israeliane), la signora Shechter ha persino dichiarato che Israele ha fatto di tutto per evitare vittime tra i civili palestinesi, il che in fondo è in linea con le dichiarazioni del “falchi” israeliani i quali avevano dichiarato che non ci sono civili tra i palestinesi. La conclusione quindi, nella narrazione israeliana, risulta persino logica.

Ma mentre il Consiglio dei diritti umani si esprimeva chiedendo una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni dei palestinesi lungo i confini della Striscia di Gaza, indagine che già nella sua definizione ha una involontaria e macabra ironia, anche paesi non certo ascrivibili alla categoria democratica si esprimevano contro Israele, sia per l’uso delle armi sia, soprattutto, per il tentativo di espropriazione di Gerusalemme al di fuori di ogni legittimità e di ogni legalità internazionale.

Il presidente Erdogan da Istanbul, non certo paladino dei diritti umani nel suo Paese, esprimeva una forte condanna verso Usa e Israele, in sintonia con l’OCI, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica i cui 57 stati membri si sono riuniti in assemblea a Istanbul per condannare verbalmente in modo durissimo (più di quanto fatto dalla Lega araba al Cairo) il tentativo di appropriazione di Gerusalemme e il massacro di Gaza.

Nonostante queste dure condanne, molti palestinesi temono che restino parole in quanto la richiesta di ritirare tutti gli ambasciatori arabi da Washington non ha avuto adeguata risposta.

Intanto la diplomazia sta lavorando. Forse la marcia, che è stata prolungata fino al 5 giugno, si spegnerà gradualmente grazie al raggiungimento di alcuni compromessi tra il governo della Striscia e il Cairo con la forte impronta anche del Qatar. Non si parla solo di apertura del valico di Rafah, cosa che comunque toglierebbe forza alle richieste palestinesi, lasciando intatto l’assedio israeliano. Si parla anche di miglioramenti delle condizioni di vita dei gazawi, quali la fornitura di acqua e di elettricità e la presa in carico da parte del Qatar degli stipendi che l’Anp ha smesso di pagare. Tutto questo sarebbe di sicuro un miglioramento a breve della vita all’interno della Striscia, ma sarebbe la vittoria di chi, fin dal primo momento e in totale negazione della verità, ha attribuito ad Hamas la paternità di quest’immensa manifestazione popolare, distorcendone il significato e, in ultima analisi, rischiando di farne fallire l’obiettivo primario, cioè l’applicazione della Risoluzione Onu 194 per il ritorno dei profughi e la fine dell’assedio.

Ma Gaza riserva sempre sorprese e poi, in chiusura è bene ricordarlo, Gaza non è soltanto Hamas. Hamas è la forza politica che governa la Striscia ma non è l’unica forza politica della Striscia. Questo la grande marcia del ritorno l’ha abbondantemente dimostrato, nonostante i media mainstream abbiano fatto di tutto per nasconderlo, finendo per regalare ad Hamas la paternità di questa grande iniziativa che il partito al governo, consapevole o meno della trappola mediatica, ha fatto propria provando a gestirla sia all’interno sia negli accordi diplomatici che si stanno concretizzando.