Con la Grande Marcia del Ritorno, i palestinesi chiedono una vita dignitosa

Ahmad Abu Rtemah

The Nation – 6 aprile, 2018

La Nakba non è solo una memoria [da coltivare], è una realtà tuttora in atto. Possiamo accettare che alla fine dobbiamo morire tutti; a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

Khan Younis- Negli ultimi otto giorni, decine di migliaia di manifestanti a Gaza hanno ridato vita a un luogo che lentamente se ne stava impoverendo. Siamo venuti in massa, lanciando slogan e cantando una ninna nanna che tutti abbiamo desiderato, “Noi ritorneremo”, portando tutto quello che ci è rimasto da offrire nel tentativo di reclamare i nostri diritti a vivere in libertà e giustizia. Nonostante la nostra marcia pacifica, ci siamo imbattuti in una pioggia di gas lacrimogeni e di fuoco letale [lanciati] dai soldati israeliani. Sfortunatamente non è una novità per i palestinesi di Gaza che hanno vissuto molte guerre e un brutale assedio e blocco.

A Gaza abitano quasi 1 milione e 900.000 persone di cui 1 milione e 200.000 sono rifugiati espulsi dalle loro case e dalle loro terre durante la formazione di Israele 70 anni addietro, conosciuta come la Nakba ( la Catastrofe) per i palestinesi. Sin dall’inizio dell’assedio quasi 11 anni fa, il semplice obiettivo di sopravvivere ogni giorno si è dimostrato essere una sfida. Adesso solamente svegliarsi e potere usare acqua pulita ed elettricità è un lusso. L’assedio è stato particolarmente duro per i giovani, che soffrono a causa di un tasso di disoccupazione pari al 58%. Quello che è peggio è che tutto ciò è il risultato della politica di Israele che può essere cambiata. Questa vita dura e difficile non deve essere la realtà di Gaza.

I pescatori non possono avventurarsi oltre le sei miglia marine, il che trasforma in una sfida pescare abbastanza da mantenere i loro familiari. Dopo le guerre di Israele del 2008-09 e poi di nuovo del 2012 e del 2014 e tutte le uccisioni che sono avvenute in quel periodo, alla gente qui non è nemmeno concessa l’opportunità di ricostruire, giacché Israele ha ridotto i permessi di ingresso dei materiali di costruzione. Le condizioni degli ospedali sono allarmanti, e ai pazienti di rado viene data l’opportunità di andare a curarsi fuori [da Gaza]. Non vale la pena nemmeno di menzionare la perpetua condizione di oscurità in cui viviamo, praticamente senza elettricità o acqua pulita. Non è stato sufficiente averci cacciati; è come se tutta la memoria dei rifugiati palestinesi debba essere confinata e cancellata.

 Sono nato nel campo profughi di Rafah a Gaza. I miei genitori sono della città di Ramle in quello che ora è conosciuto come Israele. Come la maggior parte dei rifugiati palestinesi, ho sentito le storie dai membri più anziani della mia famiglia riguardo alla brutalità con cui sono stati cacciati dalle loro case durante la Nakba. Nonostante siano passati molti decenni, essi, come centinaia di migliaia di altre persone, non sono capaci di dimenticare gli orrori di cui sono stati testimoni durante il loro esproprio e tutte le violenze e sofferenze che si sono accompagnate a ciò.

Non ho mai visto la casa della mia famiglia a Ramle e i miei figli non hanno mai visto niente oltre i confini di Gaza e dell’assedio. Il mio più grande figlio di 7 anni e il più piccolo di 2 non conoscono nessuna realtà all’infuori del rumore delle bombe, del buio della notte senza elettricità, dell’impossibilità di viaggiare liberamente, o il fatto che queste cose non sono normali. Niente nella vita di Gaza è normale. La Nakba non è solo una pratica di memoria, è una realtà tuttora in atto. E se possiamo rassegnarci che tutti alla fine dobbiamo morire, a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

 E’ contro questa dura realtà che resistiamo. Gli ultimi due venerdì, abbiamo resistito contro tutte le potenze che ci dicevano di smettere e morire in silenzio e abbiamo deciso di marciare per la vita. Si tratta di una protesta di una popolazione che non vuole altro che vivere in dignità.

 Nel 2011 i palestinesi hanno marciato verso i confini dalla Siria , dal Libano, dalla Giordania, da Gaza e dalla Cisgiordania. Alcuni sono stati uccisi, altri che sono riusciti a oltrepassare il confine sono stati arrestati dai soldati israeliani. Ma molto tempo prima, nel 1976, i palestinesi hanno protestato contro l’esproprio da parte di Israele delle loro terre in quello che più tardi è stato conosciuto come il Giorno della Terra. Allora sei palestinesi furono uccisi e 42 anni dopo Israele sta ancora facendo ricorso a una violenza omicida per impedire ai rifugiati di ritornare, ammazzando almeno 25 palestinesi a Gaza dallo scorso venerdì. Quegli esseri umani hanno osato sognare [di andare] al di là di tutte le strade dei campi profughi; avevano avuto la visione di una casa che non hanno mai avuto l’occasione di vedere.

 Ero preoccupato per la nostra incolumità quando siamo arrivati in migliaia in quella che Israele ritiene “ zona da non percorrere”. Ho riflettuto sulle conseguenze. Quando mi sono trovato con la mia famiglia nei pressi della piazza della Marcia del Ritorno nella zona orientale di Khan Younis, abbiamo respirato i gas lacrimogeni, compresi i miei figli. Ho sofferto nel vedere l’infanzia innocente colpita da un’esperienza così traumatica. Ma quello che molte persone non riescono a riconoscere è che sia che stiamo a casa, sia che protestiamo all’aperto, non siamo mai veramente sicuri a Gaza, né siamo realmente vivi. È come se tutta la nostra esistenza e i sogni di ritornare a casa e vivere con dignità debba essere nascosta nell’oscurità.

Tuttavia, quest’anno, dopo il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e la possibilità di realizzare quello che ha definito come “l’accordo del secolo”, i palestinesi hanno sentito un’imminente minaccia al diritto al ritorno dei rifugiati, nonostante venga riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. È una preoccupazione di tutti che i nostri diritti in quanto rifugiati siano in serio pericolo e noi dobbiamo resistere in un modo nuovo, unitario, rivoluzionario, un modo che è al di fuori delle modalità dei negoziati e di quelle delle fazioni, per fare pressione su Israele e reclamare i nostri diritti.

Nei 70 anni trascorsi, Israele ha continuamente cacciato e umiliato i palestinesi. L’abbiamo visto nel ’48 e di nuovo nel ’67 e ora ancora ne siamo testimoni con l’espansione delle colonie. Mentre Israele butta fuori i palestinesi, porta nuovi immigrati da ogni parte del globo e li insedia su terre rubate ai palestinesi in violazione del diritto internazionale. Tuttora Israele continua ad essere incoraggiata dalla mancanza di pressioni da parte della comunità internazionale e dal sostegno dell’amministrazione Trump, cosicché le colonie continuano inesorabilmente ad espandersi.

Israele vorrebbe che il mondo credesse che noi palestinesi abbiamo lasciato volontariamente le nostre case ed abbiamo scelto questa vita di umiliazione, senza i diritti umani fondamentali, e che abbiamo imposto tutto ciò a noi stessi.

 Oggi i palestinesi di Gaza stanno provando a rompere le catene in cui Israele ha tentato così duramente di imprigionarci. Siamo dei manifestanti inermi che affrontano, protestando pacificamente, soldati pesantemente armati. Come risultato è difficile per Israele calunniarci e giustificare la sua brutale violenza e il mondo ha davanti a sé la realtà che innocenti civili vengono uccisi solo per avere esercitato il loro diritto a protestare pacificamente. Le scuse che Israele usa per giustificare le sue politiche nei confronti dei palestinesi stanno lentamente perdendo la loro efficacia, dal momento che a livello mondiale le persone realizzano sempre più che il vero volto di Israele è quello di un brutale regime di apartheid.

Nonostante la violenza voluta e mirata verso manifestanti inermi da parte di Israele, con la nostra Grande Marcia del Ritorno noi palestinesi a Gaza stiamo affermando ad alta voce e chiaramente che noi siamo ancora qui. Per Israele , è la nostra identità il nostro crimine, ma noi stiamo celebrando proprio quell’ identità che Israele cerca di criminalizzare. Persone di tutti i ceti stanno partecipando alla marcia. Artisti contribuiscono con la tradizionale danza dabka, intellettuali organizzano circoli di lettura, volontari si vestono da clown e giocano con i bambini. Quello che è più sorprendente sono i giovani che vivono e giocano, la loro risata, la più grande protesta fra tutte.

Le Nazioni Unite hanno ammonito che Gaza può essere invivibile entro soli due anni. Resistendo al destino che Israele ha programmato per noi, stiamo lottando pacificamente con i nostri corpi e il nostro amore per la vita, appellandoci alla giustizia che rimane nel mondo.

Ahmad Abu Rtemah è uno scrittore indipendente di Gaza, attivista di un social media e uno degli organizzatori della Grande Marcia del Ritorno.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Una fucilazione di massa sponsorizzata dallo Stato

Michael Schaeffer Omer-Man

7 aprile 2018, +972

Nel giorno in cui cecchini dell’esercito sparano a centinaia di manifestanti disarmati, l’esercito dichiara che “le circostanze in cui dei giornalisti sono stati feriti sono ignote.” Le circostanze non potrebbero essere più chiare.

La scorsa settimana tiratori scelti e cecchini dell’esercito israeliano hanno sparato a oltre 1.000 dimostranti palestinesi disarmati all’interno della Striscia di Gaza, uccidendo più di 30 persone. Lo scorso venerdì almeno sei giornalisti palestinesi sarebbero stati tra le persone colpite durante la “Grande Marcia del Ritorno”. Uno di loro, Yasser Murtaja, un fotografo di “Ain Media”[una televisione locale, ndt.], che a quanto si dice aveva un elmetto e un giubbotto che indicava chiaramente “Stampa” quando è stato colpito, è morto in seguito per le ferite riportate.

L’esercito israeliano non prende di mira i giornalisti,” ha affermato sabato un portavoce israeliano, citato da numerose pubblicazioni, aggiungendo che “le circostanze in cui giornalisti sono stati feriti, apparentemente da fuoco dell’esercito israeliano, sono sconosciute e sono in via di accertamento.”

Fermiamoci proprio su questo punto.

Le circostanze in cui i giornalisti palestinesi sono stati colpiti dal fuoco dell’esercito israeliano non potrebbero essere più chiare. Le circostanze sono che l’esercito israeliano ha sparato contro 1.000 manifestanti disarmati nell’arco di una settimana.

Le circostanze sono che l’esercito israeliano, che insiste nel dire di non prendere di mira giornalisti, ha un record veramente scoraggiante nel non rendere responsabili i suoi soldati, piloti e generali del fatto di aver colpito ed ucciso giornalisti a Gaza. Ciò include l’assassinio nel 2012 di due giornalisti che stavano viaggiando in un’auto su cui c’era chiaramente scritto “TV”, numerosi attacchi aerei contro media e sedi informative, ed altro.

Le circostanze sono che, una settimana dopo l’altra, le forze di sicurezza israeliane in modo sistematico non hanno fatto nessuna differenza tra i giornalisti palestinesi e le proteste e gli avvenimenti su cui stavano informando, utilizzando indistintamente la violenza contro entrambi. In innumerevoli casi, sia documentati che no, dei giornalisti sono stati chiaramente presi di mira dalle truppe – e l’esercito spesso difende sfacciatamente questa violenza.

In genere esito a fare qualunque tipo di previsione, ma ecco come vedo quello che succederà. L’esercito israeliano alla fine se ne uscirà con un comunicato in merito a come non possa arrivare a alcuna conclusione definitiva su chi abbia sparato a Yasser Murtaja, o sul perché sia stato colpito, ma sarà in grado di concludere in modo definitivo che l’esercito israeliano non prende di mira giornalisti – per cui è stato sicuramente colpito per errore. Una tragedia che può essere interamente attribuita ad Hamas (la colpa è sempre di Hamas).

Ma Murtaja non è stato l’unico giornalista a cui quel giorno i cecchini israeliani hanno sparato. Sparare alla persona sbagliata potrebbe ragionevolmente essere un caso. Sei giornalisti colpiti lo stesso giorno suggeriscono qualcosa di più sinistro.

Sappiamo già che nelle precedenti proteste a Gaza ai soldati non sono state praticamente fornite linee guida riguardo a chi colpire – solo di sparare alla gente. Sappiamo anche che nel passato importanti fonti ufficiali israeliane hanno giustificato il fatto di prendere di mira giornalisti palestinesi (puntualmente, sabato notte il ministro della Difesa israeliano ha pubblicamente giustificato l’uccisione di Murtaja). Sappiamo anche che raramente i soldati sono chiamati a rispondere per aver ferito giornalisti, soprattutto se palestinesi. E poi ci sono casi come le uccisioni del “Giorno della Nakba” nel 2014, quando uno scellerato cecchino in divisa semplicemente decise di iniziare ad uccidere persone.

Probabilmente non sapremo mai chi ha ucciso Yasser Murtaja.

La verità in merito è che, mentre è particolarmente vergognoso quando le forze di sicurezza colpiscono giornalisti, soprattutto se si è giornalisti, l’uso arbitrario di proiettili letali contro persone disarmate che manifestano dall’altro lato di un confine fortificato, indipendentemente da quello che stanno facendo in quel momento e da quale sia la loro professione o affiliazione politica, è semplicemente indifendibile.

È tempo di iniziare a chiamare tutto ciò per quello che è: una serie di fucilazioni di massa sponsorizzate dallo Stato, che ci possiamo aspettare si ripeteranno nelle prossime cinque settimane. Chiedere che l’esercito faccia un’indagine per l’uccisione di un giornalista non è abbastanza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Comunicato del procuratore della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, in merito al peggioramento della situazione a Gaza

8 aprile 2018, Fonte : Ufficio del Procuratore

È con grave preoccupazione che io assisto alla violenza e al deterioramento della situazione nella Striscia di Gaza riguardo alle recenti dimostrazioni di massa. Dal 30 marzo 2018 almeno 27 palestinesi sono stati uccisi dalle Forze israeliane di difesa (IDF) con ancora oltre un migliaio di feriti molti in seguito a pallottole vere o a quelle rivestite di gomma. La violenza contro civili, in una situazione come quella che prevale a Gaza, potrebbe costituire crimine sotto il profilo dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (“ICC” o “la Corte”) come lo potrebbe l’uso della presenza di civili nelle attività militari aventi lo scopo di scudi umani.

Ricordo a tutte le parti in causa che dal mio ufficio la situazione in Palestina è sotto esame preliminare. Dato che un esame preliminare non vuol dire inchiesta, qualsiasi presunto nuovo crimine commesso nel contesto della situazione in Palestina, può essere soggetta all’indagine del mio ufficio. Questo si applica agli eventi delle passate settimane e a qualsiasi incidente futuro.

Sono consapevole che nella Striscia di Gaza le manifestazioni sono previste continuare ulteriormente. Il mio ufficio continuerà ad analizzare da vicino la situazione e registrerà qualunque istigazione o ricorso alla forza illegale. Invito tutti quelli coinvolti di astenersi da un ulteriore aggravamento di questa tragica situazione.

Chiunque istiga o intraprende atti di violenza quali comandare, richiedere, incoraggiare o contribuire in qualsiasi altro modo all’esecuzione di crimini all’interno della giurisdizione della Corte Penale Internazionale è passibile di azione penale presso la Corte con pieno rispetto per il principio di complementarietà. Il ricorso alla violenza deve cessare.

L’Ufficio del procuratore dell’ICC svolge accertamenti preliminari indipendenti e imparziali, indagini e azioni processuali contro il crimine di genocidio, il crimine contro l’umanità e i crimini di guerra. Fin dal 2003 , l’Ufficio ha iniziato indagini in molte situazioni all’interno della giurisdizione dell’ICC, in particolare in Uganda, nella Repubblica Democratica del Congo, nel Darfur, in Sudan, nella Repubblica Centrale Africana (due distinte situazioni), in Kenya, in Libia, in Costa d’Avorio, in Mali, in Georgia e in Burundi. La seconda Camera preliminare si è fatta carico della richiesta del pubblico ministero per l’autorizzazione a iniziare un’indagine sulla situazione della Repubblica Islamica dell’Afghanistan. L’Ufficio sta anche conducendo esami preliminari in merito alle situazioni in Colombia, nella Repubblica di Gabon, in Guinea, in Iraq/Uk, in Nigeria, in Palestina, nelle Filippine, in Venezuela e in Ucraina.

OTPNewsDesk@icc-cpi.int

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Perché l’esercito israeliano ha confiscato i soldi della figlia di un palestinese cieca e in lutto?

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

L’esercito israeliano ha confiscato il denaro di Yasmin Eshtayyeh a un valico di frontiera, definendolo “denaro terrorista” – senza prove, interrogatori o processi. Lei non ha permesso che le avversità le impedissero di lottare per riaverlo.

Circa 5.000 shekel (1.425 dollari) mi hanno portato a Yasmin Eshtayyeh; più precisamente, una combinazione di 357 dollari, 500 shekel e 668 dinari giordani. Sono le valute e gli importi che le autorità israeliane al valico di confine con la Giordania hanno tolto, sequestrato e confiscato dalle borse di Eshtayyeh e di sua sorella Suhad nel 2013. Lo scorso 14 febbraio, un anonimo soldato dell’ufficio del difensore civico della direzione del Comando Centrale delle Forze di Difesa Israeliane ha stabilito che Eshtayyeh non ha il diritto di appello o obiezione. Fine della discussione.

E immediatamente, dietro un’esile storia di israeliani che confiscano denaro, è apparsa l’intera vita di una giovane donna di 31 anni cieca dalla nascita. La memoria le dice che si è accorta di essere diversa solo a 5 anni. I suoi genitori, e in particolare suo padre, Sael, l’hanno circondata e coccolata protettivamente. Sua madre, Muna, l’ha sempre lavata e vestita (ancor oggi sua madre le sceglie i vestiti).

Una volta, una cuginetta andò a trovarla e fecero il bagno insieme. All’improvviso la cugina scomparve. Dov’era? Era andata a vestirsi. E fu allora che Yasmin, 5 anni, capì che i bambini della sua età si vestivano da soli. Poi, o prima, notò anche che per strada gli altri bambini correvano, saltavano, andavano al supermercato da soli, mentre lei – qualcuno la teneva sempre per mano. Gli indizi erano sempre più numerosi. Il concetto di vista non le era ancora del tutto chiaro, ma lo era la sua differenza dagli altri.

La coscienza dell’esistenza di un’entità suprema che tutto governa ha preceduto la sua consapevolezza della cecità e del senso della vista. Almeno questo è quello che le dice la memoria. All’età di 4 anni o giù di lì – nel 1991 – la famiglia era seduta nel cortile di casa nel villaggio di Salem, a est di Nablus.

“All’improvviso qualcuno ha gridato: ‘Vieni qui, altrimenti sparo'”, racconta. Il “vieni qui” era in ebraico, il resto in arabo. Sapeva già cosa fosse sparare. A quanto pare aveva anche sentito la parola “esercito”. I colpi sull’asfalto che aveva sentito, lo sapeva, erano pietre lanciate dai bambini. Le parole non si erano ancora trasformate in un concetto completo. Quello fu il suo primo incontro cosciente con la voce di un soldato, rappresentante del dominio in terra.

“Pensavo che un soldato fosse un essere gigantesco”, ricorda. “Più grande delle persone normali. Non capivo come potesse comportarsi in questo modo, contro gli esseri umani.” Come per molti altri, “ebreo” e “soldato” divennero sinonimi nel suo lessico. Fu la più grande tragedia della sua vita, a 17 anni, a permetterle di distinguere tra i due.

Richiesta respinta”

Non dimenticherà mai il soldato di nome Uri. “Uno dei peggiori che ho visto nella mia vita”, dice. Usando proprio questa parola: “visto”. Nel dicembre 2013 partecipava con altre donne palestinesi ad un incontro ad Amman sul progresso dei diritti delle donne disabili in Medio Oriente. La ragazza che aveva scoperto solo a 5 anni che le bambine si vestono da sole era ora titolare di un master in inglese e in traduzione, e abile rappresentante delle donne disabili che vogliono integrarsi nella società e nel lavoro.

Eshtayyeh lavorava per l’organizzazione palestinese ‘Stars of Hope’, fondata per promuovere l’integrazione delle donne con disabilità, e ha rappresentato l’organizzazione ad una conferenza sotto l’egida delle Nazioni Unite in dicembre. Sua sorella si è unita a lei come accompagnatrice. Quando sono tornate, il 22 dicembre, le altre donne hanno attraversato il valico al-Karameh (“dignità” in arabo) (noto anche come il valico di Allenby) senza incidenti ma, con loro grande stupore, lei e sua sorella sono state trattenute.

Furono fermate al controllo dei passaporti, fu loro chiesto di rimuovere i copricapo e i cappotti e di togliersi le scarpe. Furono perquisite corporalmente e furono presi loro i soldi trovati nelle borse. Eshtayyeh racconta della stanza angusta in cui furono portate, dell’acqua potabile che non venne loro offerta e del bagno a cui non fu loro permesso di andare, e del soldato Uri, che non le lasciava muovere, e gli urlava contro. C’era anche un poliziotto israeliano che si presentò come Ahmed. “Mi disse: ‘Siamo preoccupati che qualcuno di Hamas possa usarti.’ Risposi che avevo studiato all’università, viaggiato all’estero e lavorato, e che non avevo mai permesso a nessuno di approfittarsi di me.”

Furono interrogate sulla provenienza del denaro. La risposta era facile: 500 shekel (attualmente $ 142) e altri 98 dinari ($ 138) provenivano dal suo stipendio alla Birzeit University, dove lavorava come consulente presso il Center for Development Studies. Era molto orgogliosa di potersi mantenere e aiutare la famiglia. Aveva ricevuto altri dollari da ‘Stars of Hope’ per coprire le spese del viaggio, e avrebbe dovuto restituire quanto rimasto. Il denaro preso a sua sorella veniva da alcune ragazze e donne della famiglia che volevano gli comprassero dei cosmetici nella capitale giordana. Ma le giornate alla conferenza erano state più lunghe e intense di quanto ci si aspettasse, avevano avuto poco tempo per fare compere e, soprattutto, avevano scoperto che Amman non era meno cara.

Nonostante le spiegazioni, prima che se ne andassero fu consegnata loro una notifica della polizia israeliana in cui si dichiarava che i loro soldi erano stati sequestrati “per via del sospetto trasferimento di fondi collegati a un’associazione illegale, e il comandante delle forze israeliane in Giudea e Samaria [ la Cisgiordania] intende confiscare il denaro sequestrato”. Verso le 01:30, di quel giorno di dicembre di quattro anni fa, dopo un ritardo di otto ore, fu loro permesso di lasciare il terminal vuoto. Pregarono che gli fossero lasciati un po’ di soldi per poter prendere un taxi per tornare a casa. Quelli che avevano preso i loro soldi rifiutarono. Allora aspettarono qualche ora in più che uno zio arrivasse in macchina nel mezzo della notte dall’area di Nablus per venirle a prendere.

Quello fu l’inizio di una saga burocratica e legale che continua fino ad oggi, che ha introdotto nella vita di Yasmin Eshtayyeh non solo soldati e agenti di polizia ma anche i giudici della Corte Suprema Elyakim Rubinstein (ora in pensione), Noam Sohlberg e Menachem Mazuz.

Due amici israeliani hanno scritto al consulente legale militare in Giudea e Samaria, chiedendo che i soldi fossero restituiti. La risposta del consulente legale è arrivata l’8 aprile 2014. Dichiarava che solo un giorno prima, cioè il 7 aprile, era stato emesso un ordine di confisca del denaro, “alla luce della presentazione di informazioni di intelligence affidabili e comprovate.” Senza prove, senza evidenze, senza spiegazioni né dettagli, senza ascoltare ciò che le donne avevano da dire. Non sono state arrestate, non sono state convocate per un interrogatorio sul reato che avrebbero presumibilmente commesso, non sono state processate.

Fino al 25 dicembre 2013, i palestinesi le cui proprietà fossero state confiscate per ordine del comandante militare potevano almeno ricorrere a un tribunale militare. Ma quel giorno il maggiore Gen. Nitzan Alon, all’epoca capo del Comando centrale e sovrano in Cisgiordania, firmò un ordine che privava i tribunali militari di tale autorità ed esonerava quindi i confiscatori dal dover fornire una parvenza di prova e trasparenza.

In una società in cui famiglie anche numerose dipendono da un solo stipendio, dove il salario minimo mensile è di 1.400 shekel ($ 405), e molte donne guadagnano anche meno di questo, 5.000 shekel ($ 1.425) sono una grande quantità di denaro. Le sorelle si sono rivolte a Yesh Din: Volunteers for Human Rights, un’organizzazione che opera in Israele e in Cisgiordania. Gli avvocati di Yesh Din Michael Sfard, Emily Schaeffer Omer-Man e Noa Amrami hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a loro nome. La petizione sosteneva che l’ordine di confisca era illegale, così come la negazione del diritto di ricorso. L’Alta Corte ha unito la loro petizione a due casi simili. I giudici non hanno nemmeno considerato i casi di confisca nelle petizioni e hanno stabilito che non vi fosse alcun impedimento legale nell’ordine del capo del Comando centrale che negava il diritto di appello. Allo stesso tempo, hanno suggerito che l’esercito rendesse possibile “un forum di opposizione o appello sulle decisioni di confisca”, per ridurre il numero di petizioni all’Alta Corte. Pensavano che i casi specifici che erano stati loro sottoposti avrebbero potuto essere risolti nel quadro di un simile “forum”.

L’esercito ha accettato la proposta, con una differenza sostanziale: è stata debitamente istituita una commissione composta da rappresentanti dell’ufficio dell’avvocato militare, del Corpo di intelligence e dell’Amministrazione civile, ma la sua autorità è stata limitata a discutere di “sequestro di oggetti”, una fase precedente alla confisca. Chiunque la cui proprietà fosse già stata dichiarata confiscata avrebbe dovuto dirle addio. Lo scorso maggio, i giudici hanno espresso soddisfazione, hanno dichiarato che la petizione aveva “raggiunto un obiettivo importante” e ordinato allo stato di pagare ai rappresentanti dei tre ricorrenti le spese legali di 10.000 shekel ($ 2.850).

Per Yasmin e Suhad Eshtayyeh questo era un risultato kafkiano. Grazie alla loro e ad altre petizioni, i giudici avevano suggerito che l’ordine fosse emendato ed è stata istituita una commissione militare per ascoltare le obiezioni, ma esse stesse non potevano comparire dinanzi alla commissione perché i loro soldi erano già stati dichiarati “confiscati”. Sfard e un altro avvocato di Yesh Din, Sophia Brodsky, hanno chiesto a un rappresentante del pubblico ministero, l’avvocato Roy Shweika, di trovare una via d’uscita. Questi ha rifiutato. Hanno chiesto un chiarimento al tribunale, che aveva erroneamente pensato che il verdetto avesse suggerito una soluzione anche per i ricorrenti. Lo scorso novembre, il giudice Sohlberg ha stabilito che, per quanto lo riguardava, le sorelle potevano presentare una nuova petizione. In altre parole, altre spese legali da pagare, e altro impegno. Più tempo e risorse mentali e materiali sprecate.

Gli avvocati quindi hanno scritto all’attuale capo del Comando Centrale, il generale maggiore Roni Numa, e al consigliere legale, tenente generale Eyal Toledano, nella speranza che forse avrebbero accettato di essere più flessibili, revocare l’ordine di confisca e consentire alle sorelle di presentare la loro obiezione alla commissione che era stata istituita grazie alla loro petizione. Ma il soldato anonimo dell’ufficio del difensore civico nell’ufficio del consulente legale, che ha risposto il mese scorso, si è attenuto ad una spiegazione che si morde la coda: le informazioni che hanno portato alla confisca (senza il diritto di appello) erano solide e affidabili, la commissione discute solo ricorsi sui sequestri prima della confisca. “Il caso del vostro cliente non è compatibile con l’autorità della commissione.” Richiesta negata.

L’Unità Portavoce dell’esercito israeliano, rispondendo a una richiesta di chiarificazioni, ha detto ad Haaretz: “Nel 2014, i soldi confiscati ai palestinesi citati nell’articolo, secondo informazioni attendibili, erano denaro del terrorismo proveniente dall’organizzazione di Hamas”. Tra l’altro, Hamas non è mai stato menzionato nelle notifiche ufficiali che le due hanno ricevuto.

Vedere il mare

“Sappiamo che il cambiamento è possibile”, afferma la “Guida per la sensibilizzazione (pubblica) e la difesa dei soggetti disabili: concetti e relativa applicazione”, pubblicata dal Centro di studi sullo sviluppo della Birzeit University. Yasmin Eshtayyeh è uno degli autori della guida. Il centro unisce lo sviluppo del pensiero teorico all’attività pubblica e sociale. Yasmin vi ha lavorato come consulente in un progetto che è durato circa un anno e mezzo, sull’atteggiamento della società nei confronti delle persone con disabilità. La guida menziona, come prova della possibilità di cambiare, le attività delle associazioni palestinesi di persone disabili e una legge palestinese del 1999 che chiarisce i loro diritti. Nell’aprile 2015, ha preso parte a un evento pubblico in cui ha parlato di come le persone possano aiutare il cambiamento col loro crederci. L’occasione era l’annuale cerimonia del Memorial Day tenuta dall’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace (Combattenti per la Pace), a cui era stata invitata come figlia in lutto: un colono di Itamar, Yehoshua Elitzur, aveva assassinato suo padre Sael il 27 settembre 2004.

Nel suo discorso ha dichiarato: “La rabbia e l’odio che mi accompagnavano avrebbero probabilmente continuato a perseguitarmi se non avessi incontrato altri ebrei”. Pochi giorni dopo l’omicidio di suo padre, gli attivisti del ‘Villages Group’ (associazione di israeliani e palestinesi finalizzata a sviluppare reciproci rapporti umani, ndtr.) in Israele si sono recati nel suo villaggio per esprimere le loro condoglianze e la loro rabbia. Eshtayyeh ha detto al pubblico alla cerimonia che in un primo momento si era rifiutata di stringere la mano a una delle attiviste, “perché era ebrea.” Gradualmente, ha ceduto e ha conosciuto altri membri del gruppo di attivisti. Loro e altri ebrei israeliani l’hanno portata a credere nei cambiamenti che possono promuovere le persone. Al villaggio uno degli attivisti ha dato lezioni di musica. Eshtayyeh è stata invitata come interprete. Si è innamorata dell’arpa, che le ha permesso di “vedere il mare, dove non sono mai andata”, e ha cominciato a imparare a suonare lo strumento.

Dopo la cerimonia si è unita al Parents Circle-Families Forum (il forum delle famiglie in lutto) e da allora ne è membro attivo.

Suo padre ha lavorato per 18 anni in una società con sede a Rishon Letzion che distribuisce bombole di gas da cucina. Fu licenziato da quel lavoro durante la seconda intifada. All’età di 46 anni, ha iniziato a lavorare come conducente di un taxi collettivo. Ai tempi dei blocchi stradali e delle strade chiuse ai palestinesi, ciò significava viaggiare su strade sterrate e superare le lunghe code ai posti di blocco per portare la gente al lavoro, a scuola, al mercato e alle cliniche mediche.

Alla cerimonia commemorativa ha detto: “Mio padre era l’unico a provvedere per noi. E il peggior incubo della nostra vita accadde il 27 settembre 2004. Mio padre andò a lavorare come faceva ogni giorno, e quando imboccò una tangenziale costruita dai coloni, in modo che potessero viaggiare senza sfiorare i palestinesi, un colono lo attaccò e gli sparò al cuore. L’assassino è un tedesco che si è convertito al giudaismo e vive in un avamposto di coloni vicino a Itamar.

L’assassino, che fu condannato per omicidio colposo, fu per qualche ragione messo agli arresti domiciliari dopo l’omicidio e di nuovo dopo la condanna. Prima che la sentenza fosse pronunciata, scomparve. Il corrispondente di Haaretz Shay Fogelman lo ha cercato, in un viaggio labirintico che combinava il lavoro investigativo con la storia, a cui ha dedicato cinque anni della sua vita e che si è trasformata in un film che sarebbe stato proiettato pochi mesi dopo. Nel frattempo, Yehoshua Elitzur è stato rintracciato in Brasile, da cui è stato estradato in Israele a metà gennaio di quest’anno. Ora è in prigione, in attesa della condanna.

La caccia a Elitzur ha portato Fogelman vicino alla famiglia Eshtayyeh. Yasmin lo ricorda con particolare affetto. È stato testimone dell’assurda situazione in cui si trovano molte famiglie palestinesi i cui cari siano stati uccisi da soldati o civili israeliani: il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito li considerano “pericolosi”. La conseguenza è che quasi ogni anno i soldati vengono mandati a irrompere nella casa della famiglia di Yasmin nel cuore della notte a fare perquisizioni. “Va bene che perquisiscano, ma lasciano sempre dietro di sé cose rotte e un gran casino”, dice.

Due anni fa, Eshtayyeh e suo fratello minore, Mohammed, anche lui cieco dalla nascita, sono andati allo Sheba Medical Center di Tel Hashomer per una visita oculistica speciale. I due potrebbero essere idonei all’impianto di un dispositivo che consenta loro di vedere. La madre, che ha 57 anni, li ha accompagnati. Al checkpoint le è stato detto: “Accesso negato”. I due hanno aspettato che degli amici del forum delle famiglie delle vittime venissero a accompagnarli. Da quando ha intensificato la sua attività nel forum, anche Yasmin è stata aggiunta alla lista dei palestinesi cui viene negato l’ingresso in Israele, dopo molti anni in cui ha sempre ottenuto i permessi.

Nonostante i suoi titoli accademici e il successo in progetti a tempo definito, Eshtayyeh non riesce a trovare un lavoro fisso – il suo più grande desiderio. L’implementazione della legge palestinese per l’integrazione dei disabili nella società è in ritardo, afferma, e le persone con disabilità continuano a sentirsi discriminate. Anche quelli che ci vedono e non hanno bisogno di usare una sedia a rotelle spesso hanno bisogno di appoggi per trovare un lavoro. La discriminazione contro le donne con disabilità è ancora più acuta e le diffidenze della società sono ancora più forti: una donna cieca ha poche possibilità di crescere una famiglia.

Eppure, raccontami dei giorni felici della tua vita, le ho chiesto qualche settimana fa mentre eravamo sedute sulla veranda della loro casa. Un grande sorriso ha illuminato la sua faccia: “I due giorni più felici della mia vita sono state le feste che la mamma ha organizzato per me in onore della mia prima laurea, in lingua e letteratura inglese, e poi per la mia seconda laurea, in traduzione”, ha detto. C’erano tutti e di tutto. Le danze popolari di Debka, i fuochi d’artificio, i vestiti delle feste, una pettinatura speciale sotto il fazzoletto e decine di persone della famiglia e del villaggio venute a condividere la sua gioia e il suo orgoglio.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




B’Tselem esorta i soldati a rifiutarsi di sparare sui manifestanti a Gaza: sparare a manifestanti disarmati è illegale, e l’ordine di farlo è totalmente illegale

4 aprile 2018, B’Tselem

Domani (giovedì 5) B’Tselem lancerà una campagna dal titolo “Mi spiace, comandante, non posso sparare”. La campagna prevede annunci sui giornali che spiegano ai soldati che devono rifiutarsi di aprire il fuoco su dimostranti disarmati. L’organizzazione intraprende questo insolito passo dopo gli eventi di venerdì scorso, quando i soldati hanno sparato vere pallottole contro manifestanti disarmati. Su 17 palestinesi uccisi quel giorno, almeno 12 sono stati uccisi durante le proteste. Altre centinaia sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Le forze armate si stanno preparando alle manifestazioni, ma invece di tentare di ridurre il numero di morti o feriti, fonti ufficiali hanno annunciato in anticipo che i soldati faranno fuoco contro i manifestanti anche se si trovano a centinaia di metri dal confine. B’Tselem ha messo in guardia dal verosimile risultato di questa politica e ora, in vista delle manifestazioni previste questo venerdì, sta nuovamente specificando che sparare a manifestanti disarmati è illegale e che gli ordini di sparare in tal modo sono manifestamente illegali.

La responsabilità di diramare questi ordini illegali e le loro conseguenze letali ricadono sui responsabili politici e, soprattutto, sul primo ministro israeliano, sul ministro della difesa e sul capo di stato maggiore. Sono sempre loro che hanno anche l’obbligo di modificare queste regole immediatamente, prima delle proteste pianificate per questo venerdì, al fine di evitare ulteriori vittime. Detto questo, è comunque un reato osservare degli ordini palesemente illegali. Pertanto, fino a quando i soldati sul campo continueranno a ricevere l’ordine di fare fuoco contro civili disarmati, hanno il dovere di rifiutarsi di obbedire.

B’Tselem vuole sottolineare che l’illegalità di tali ordini “non è una questione di forma, né trascurabile, né parzialmente opinabile”. Al contrario, si tratta di “un’illegalità inconfondibile palesemente evidente nell’ordine stesso, è un comando di natura chiaramente criminale o tale che le azioni che ordina sono chiaramente di natura criminale. È un’illegalità che offende l’occhio e oltraggia il cuore, se l’occhio non è cieco e il cuore non è insensibile o corrotto “.

Contrariamente all’impressione che danno gli alti ufficiali militari e i ministri del governo, all’esercito non è permesso agire come meglio crede, né Israele può determinare da solo ciò che è lecito e ciò che non lo è quando si tratta di manifestanti. Come per tutti i paesi, le azioni di Israele sono soggette alle disposizioni del diritto internazionale e alle restrizioni imposte sull’uso delle armi, e in particolare sull’uso dei proiettili. Le disposizioni ne limitano l’uso a casi che comportino un pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di altre alternative. Israele non può semplicemente decidere di svincolarsi da queste regole.

L’uso di munizioni vere è palesemente illegale nel caso di soldati che sparino da una grande distanza contro manifestanti situati dall’altra parte della recinzione che separa Israele dalla Striscia di Gaza. Inoltre, non è consentito ordinare ai soldati di sparare munizioni vere a persone che si avvicinano alla recinzione, la danneggiano o tentano di attraversarla. Ovviamente, l’esercito è autorizzato a prevenire tali azioni, e persino ad arrestare persone che tentino di eseguirle, ma gli è assolutamente proibito sparare vere munizioni solo per questi motivi.

(traduzione. di Luciana Galliano)




A Gaza Israele va oltre la sua consueta ferocia

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

Gli israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro dimostranti disarmati.

Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come soldati, anche a noi è stato detto di aprire il fuoco contro i manifestanti a Gaza

Shai Eluk

2 aprile 2018,+972 Magazine

Sei anni fa ero sul confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte. L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro di Pasqua a Gaza

Neve Gordon

1 aprile 2018, Al Jazeera

Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese

Per decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora l’occupazione finirebbe.”

Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato Israele.

Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach, che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.

L’accusa che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante, prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto, la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino ad arrivare al Sud Africa.

Nonviolenza palestinese

La “Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia feriti dall’esercito israeliano.

In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]). Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato inevitabilmente affrontato con la violenza.

Appena tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi, diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.

Eppure sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco, la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti di loro vennero torturati.

Quindi il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente affrontata da Israele con la violenza e la repressione.

Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”

Immaginiamo per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto, anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere. Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.

Anche se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del proprio disonore.”

Si potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.

Ironicamente questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù. Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero liberati.

Questa di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue. Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: il sogno di un giovane scultore fermato da un cecchino israeliano

Patrizia Cecconi

1 aprile 2018, Pressenza

L’hanno ucciso così, con un colpo in fronte. Esecuzione senza processo detta pure assassinio. Era un artista. Aveva 28 anni, si chiamava Mohammed Abu Amr. Era scultore e gli piaceva realizzare alcune opere sulla spiaggia di Gaza. Come per tanti altri artisti palestinesi i temi delle sue creazioni  nascevano dalle particolari condizioni imposte dall’illegalità e dalla profonda ingiustizia subite da questo popolo da troppi decenni.
Usava la grafia araba in forma artistica Mohammed, e l’ultima delle sue opere, realizzata il giorno prima di essere assassinato, rappresentava il suo sogno, che poi è il sogno collettivo rivendicato nella “grande marcia del ritorno”che un popolo festoso ma determinato ha iniziato il 30 marzo, giornata della terra, e concluderà il 15 maggio, giornata della naqba, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Era il sogno del ritorno.
Manifestava a Shujaya a est di Gaza city, insieme a decine di migliaia di altre persone di ogni età, sesso e colore e di diverso credo religioso perchè – cosa che molti ignorano – in tutta la Palestina, Gaza compresa, i palestinesi sono sia cristiani, benchè in minoranza, che musulmani, e subiscono la stessa sorte.
La “grande marcia”, organizzata  da giovani palestinesi al di fuori dei partiti politici e quindi trasversale alle diverse fazioni,  aveva tutta l’aria di una grande festa di popolo, di questo popolo che viene spesso descritto in modo assolutamente opposto a quel che realmente è: un popolo che nelle avversità più incredibili riesce a trovare la capacità di vivere senza rinunciare, per quanto possibile,  alla gioia.
Non c’erano che tre o quattro internazionali nella Striscia a testimoniare l’evento, e le loro testimonianze coincidono tutte: una grande manifestazione pacifica, con bambini, vecchi, addirittura persone invalide, uomini e donne di ogni ceto sociale. La loro unica arma era la determinazione a marciare verso il border per dire agli assedianti che Gaza non ne può più, per ricordare al mondo le continue violazioni subite e, in particolare, per rivendicare il diritto al ritorno nelle loro case sancito dalla Risoluzione Onu 194, inapplicata da Israele come tante altre decine di Risoluzioni senza avere per questo alcuna sanzione.
Al solito, i media principali italiani hanno fatto a gara nel raccontare con grande sicurezza versioni lontane dalla realtà, pur non avendo i loro inviati nella Striscia. Tv e giornali hanno parlato per due giorni, quelli che ne hanno parlato, di scontri e battaglie  ed hanno aggiunto, come da velina israeliana pubblicamente diffusa, il tutto voluto dai vertici di  Hamas. Invece non si è trattato di battaglia, ma di un vero e proprio tirassegno a uomini, donne e bambini che manifestavano pacificamente e a mani nude.
Mohammed è stato uno dei primi martiri ad essere colpito. Potremmo dire vittima, e infatti lo è, ma le vittime degli oppressori sono testimoni del diritto a resistere e pertanto, anche etimologicamente, divengono martiri. I tiratori scelti che Israele aveva appostato lungo il border l’hanno colpito a distanza, e con mira perfetta lo hanno centrato sulla fronte. Le parole di Mohammed, consegnate alla memoria in seguito a un’intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, ora sembrano un monumento alla speranza. Il giovane scultore non avrà il futuro che sognava, i cecchini israeliani hanno fermato la sua vita e la sua carriera a soli 28 anni e Mohammed non sarà più un artista, perché da ieri è diventato un martire e un eroe. Aveva detto nell’ultima intervista “sii umano, sii ottimista, fissa un obiettivo nella tua vita e apriti agli altri…. possiamo realizzare nei sogni quello che non siamo riusciti a realizzare nella realtà…immaginiamo che i nostri sogni diventino noi stessi come una realtà incarnata e superiamo così alcune delle nostre difficoltà e dei nostri conflitti psicologici”. Questa era la sua filosofia, ora è il suo testamento ideale.
Adesso lo scultore Mohammed, insieme ad altri 16 ragazzi, alcuni quasi bambini, arricchirà la lista degli eroi. Gaza ha perso un artista ed ha guadagnato un testimone e questo Israele, sempre pronto a convincere il mondo del suo bisogno di sicurezza dovrebbe capirlo.
Soprattutto dovrebbero capirlo i Governi e le Istituzioni che sostengono questo Paese sempre più ricco di manifesta illegalità. Dovrebbero capirlo non solo per quel principio di giustizia che i palestinesi rivendicano e che la comunità umana avrebbe diritto a veder rispettato, ma anche per la stessa sicurezza del Paese loro amico il quale,  macchiandosi di crimini sempre impuniti, incrementa l’odio e non certo la sicurezza.  E il sogno di Mohammed Abu Amr e degli altri sognatori uccisi con lui, seguiterà  ad essere  il sogno dei palestinesi  l’incubo di Israele.




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)