È l’economia, bellezza: la trattativa riservata di Israele con i palestinesi

Noa Landau

24 marzo 2018, Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha sviluppato legami diplomatici più profondi con Ramallah di quanto non voglia rivelare.

La tensione dei giorni di rabbia che seguirono il riconoscimento da parte dell’America di Gerusalemme come capitale di Israele rimane palpabile. I palestinesi hanno tagliato del tutto i rapporti con l’amministrazione Trump. Un accordo di pace sembra più lontano che mai. E un anziano ministro israeliano è entrato a passo di marcia nella Muqata [il quartier generale dell’ANP ndt] a Ramallah e, con un grande sorriso sul volto, ha dichiarato in arabo “Rahat a-Quds!” (“Avete perso Gerusalemme!”)

In un altro luogo e in un altro tempo, questo sicuramente sarebbe stato un casus belli, ma in questa storia, che è accaduta alla fine del mese scorso, i presenti hanno risposto divertiti e tolleranti e hanno stretto la mano al loro ospite – il ministro delle finanze e membro del gabinetto di sicurezza Moshe Kahlon.

Non era la prima visita di Kahlon a Ramallah, né il suo primo incontro con alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il suo gesto è stato accettato con leggerezza perché hanno familiarità con lo stile diretto ma accattivante di Kahlon. Da quando è diventato ministro delle finanze, questo ex membro del Likud – che ora guida un partito, Kulanu, che non ha una chiara agenda diplomatica – è riuscito a sviluppare un canale riservato con la leadership palestinese. In primo luogo è stato per la cooperazione economica e il coordinamento sotto l’egida del sistema della sicurezza, mentre in seguito sono state affrontate altre questioni, mosse dall’abbraccio dell’orso americano. In sostanza, poiché i palestinesi hanno dichiarato che non siederanno al tavolo dei negoziati se Washington resta il mediatore, Kahlon è attualmente l’unico canale diplomatico attivo.

Alcuni funzionari palestinesi si riferiscono a lui con ironia come ministro del campo profughi, perché durante uno dei suoi incontri ha raccontato della difficile infanzia nei quartieri popolari di Givat Olga. Le sue conversazioni sono inframmezzate dall’arabo che ha imparato dai genitori tripolitani. Questo dettaglio ha attirato l’attenzione delle agenzie di stampa straniere, che lo hanno etichettato come “l’oratore arabo che potrebbe guidare Israele”. Solo Kahlon comprende veramente l’arabo: così hanno raccontato ad Haaretz persone al corrente di questi incontri, con una frecciata chiaramente rivolta al ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma si affrettano ad aggiungere che l’arabo di Kahlon è molto semplice e le sue conversazioni con i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese sono condotte con l’aiuto di interpreti o in inglese.

Sebbene questi incontri non siano mai stati veramente segreti, anche se tutti i dettagli non sono noti, il presidente di Kulanu si sforza molto di nascondere questo aspetto del suo lavoro. Su tutti i suoi vivaci social network, tra le centinaia di annunci sui nuovi benefici finanziari e le immagini della anziana madre (che vive ancora a Givat Olga), troverete solo una manciata di riferimenti agli affari diplomatici o di sicurezza in generale e ai suoi legami con Ramallah in particolare. Non è una coincidenza, ovviamente. Kahlon è orgoglioso del suo lavoro in quest’area, ma ha anche paura di erodere la propria immagine di destra.

Misure restrittive’

I contatti sono iniziati quando ha assunto il Ministero delle Finanze nel 2015, con una telefonata dal suo omologo palestinese Shukri Bishara, che ha portato a un incontro a cui ha preso parte anche il Ministro per gli affari civili dell’ANP Hussein al-Sheikh. Questo non era un gesto insolito né una dimostrazione di buona volontà. Con il Protocollo di Parigi che regola le relazioni economiche tra Israele e ANP – che è stato perfino aggiornato nel 2012 dal primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha dichiarato che era finalizzato a “sostenere la società palestinese e a rafforzare la sua economia” – Israele è obbligato a coordinare varie attività economiche con l’ANP, compreso il trasferimento delle imposte raccolte da Israele per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Nel corso degli anni, i governi israeliani hanno tenuto in ostaggio questi fondi palestinesi, ritardando o congelando il loro trasferimento come forma di pressione o di punizione. Stando così le cose, anche una decisione che regoli il trasferimento di fondi diventa una decisione diplomatica significativa, com’è la decisione del livello dei funzionari che partecipano alle riunioni. I colleghi di Kahlon dicono che anche il precedente ministro delle finanze, Yair Lapid, aveva incontrato Bishara nelle stesse circostanze, ma la relazione non fu mai così e non si riuscì ad affrontare [il problema] dei debiti.

Nel 2017 Kahlon ha iniziato a incontrare anche il primo ministro palestinese Rami Hamdallah, con il beneplacito e la benedizione di Netanyahu. I due si sono incontrati tre volte a Ramallah e si prevede che terranno un altro incontro a Gerusalemme. I due, insieme ai propri collaboratori, si connettono anche telefonicamente. A questi incontri parteciperà il Coordinatore delle attività del governo nei Territori, il generale Yoav Mordechai, che è responsabile anche dei meccanismi del coordinamento finanziario e della sicurezza. A volte ha partecipato anche il capo dell’intelligence palestinese Majid Faraj.

In assenza di un autentico processo diplomatico, le Forze di Difesa israeliane si sono da tempo concepite come l’adulto responsabile, mantenendo aperti i canali di dialogo con la Cisgiordania e Gaza nella maggior parte dei settori vitali. Ciò è sempre rappresentato come uno sforzo per mantenere il controllo sulla sicurezza. L’esercito ritiene che le misure di costruzione della fiducia siano un modo significativo per prevenire proteste violente. “Misure restrittive”, le chiamano gli alti funzionari della sicurezza.

Di tanto in tanto l’esercito coinvolge anche i politici, e Kahlon era un candidato perfetto. Il suo nuovo partito era sufficientemente libero dai tradizionali lacci politici, ha manifestato il desiderio di essere coinvolto e possiede un certo fascino personale. E poi, non aveva esperienza diplomatica. Gli incontri iniziati nel quadro degli Accordi di Oslo sono proseguiti, sotto la direzione di Mordechai, su altre questioni, principalmente l’accordo per risolvere il debito dell’Autorità Nazionale Palestinese verso l’Israel Electric Corp. e per regolare il settore energetico dell’Autorità Nazionale Palestinese, accordo che Kahlon ha firmato nel settembre 2016 e che includeva complesse garanzie e disposizioni.

Il primo incontro fra Kahlon e Hamdallah è avvenuto nel mese di giugno 2017 a Ramallah, quando hanno condiviso il pasto iftar che rompe il digiuno del Ramadan. Erano passati più di 10 anni da quando un funzionario israeliano di così alto livello aveva visitato il territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da allora le discussioni tra i loro staff hanno toccato questioni come facilitare le condizioni per le costruzioni palestinesi nell’area C della Cisgiordania, che è sotto il completo controllo israeliano, o gli insediamenti, la situazione a Gaza, la riconciliazione tra le fazioni palestinesi e il terrorismo.

Ma i temi principali sono stati quelli economici, questioni come aumentare il numero di palestinesi che possono lavorare in Israele; affrontare la crisi idrica e fognaria; il potenziamento della copertura per i cellulari; l’installazione di un sistema informatico comune che bloccherebbe l’evasione fiscale ai terminali commerciali; la regolamentazione delle pensioni per i lavoratori palestinesi in Israele; l’ipotesi di una zona industriale congiunta nell’insediamento di Betar Illit che impiegherebbe 2.000 lavoratori ultraortodossi e palestinesi; un terminale di carburante; i risarcimenti da Israele alle banche che forniscono servizi all’ANP, in base alle leggi internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco, e un fondo comune che sarà finanziato con le tasse di gestione che Israele raccoglie sulle imposte della ANP, che saranno utilizzate per incoraggiare iniziative congiunte ad alta tecnologia. (“Diciamo che un’azienda di Ra’anana che voglia lavorare con una compagnia di Ramallah otterrà dei finanziamenti”, dicono le fonti).

Fonti a conoscenza del contenuto degli incontri hanno detto ad Haaretz che, durante una delle discussioni sull’eliminazione dei debiti di riscossione, è scoppiato un litigio sull’ammontare totale. I palestinesi non avevano fatture da presentare, quindi le due parti si sono accordate sullo stesso importo dell’anno prima. Durante la discussione Kahlon gli ha detto: “Mi hanno riferito che non ci sono soldi per medicine o insegnanti. Vengo da una casa dove non si toglie il cibo di bocca ai bambini, e non importa se sono ebrei o palestinesi “. Questo commento ha facilitato il resto della conversazione.

Ma alcuni funzionari palestinesi sono meno entusiasti. Dicono che il rapporto con Kahlon è totalmente professionale e deriva dalla necessità di gestire gli accordi economici con Israele. Gli alti funzionari dell’ANP sottolineano che non hanno inclinazioni fra chi gestisce i contatti con loro, purché non sia un colono. Dicono che i palestinesi “comuni” preferirebbero tagliare tutti i contatti con Israele, ma non capiscono che l’ANP non può farlo perché ha degli obblighi.

Poco dopo che Donald Trump ha prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, il suo inviato speciale in Medio Oriente, Jason Greenblatt, si è inserito in questa relazione complessa e in via di sviluppo. Cominciò a incontrare Mordechai e in seguito capì il ruolo che stava giocando Kahlon. Il perseguimento della “pace economica” era qualcosa che Greenblatt aveva sempre sostenuto, ma la sua importanza crebbe quando divenne l’unica opzione sul tavolo a causa della brusca interruzione voluta dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Greenblatt e il segretario al tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin hanno incontrato Kahlon alcune volte e hanno iniziato a insistere per aumentare la cooperazione e ottenere risultati. Le poche immagini disponibili di questi incontri si trovano sull’account Twitter di Greenblatt, che in qualche misura ha spesso portato entrambe le parti fuori dall’armadio dove avrebbero preferito rimanere nascosti.

Il secondo incontro Kahlon-Hamdallah, svoltosi in ottobre, è stato tenuto segreto fino a quando non è stato rivelato dalla Radio dell’esercito. I due, con l’incoraggiamento americano, hanno discusso di aumentare le ore di apertura dell’Allenby Bridge e degli altri valichi della Cisgiordania da e verso la Giordania.. Più o meno nello stesso periodo, una delegazione guidata dal direttore generale del ministero delle Finanze, Shai Babad, ha visitato la nuova città palestinese di Rawabi per far avanzare la pavimentazione di una strada di accesso alla città. Il ministro dell’Economia e dell’Industria Eli Cohen, anch’egli [membro] di Kulanu, ha visitato la Cisgiordania per mandare avanti la creazione di una zona industriale congiunta. Successivamente, Cohen si è anche incontrato a Parigi con il suo omologo palestinese, Abeer Odeh.

A gennaio Kahlon è apparso con rappresentanti americani e palestinesi in un servizio fotografico per l’inaugurazione di una nuova postazione di controllo con scansione presso il ponte Allenby, acquistata con gli aiuti europei. Alla cerimonia, Kahlon ha detto: “Sono arrivato al ministero delle finanze dopo che c’era stato un lungo blocco nelle relazioni tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità e portare avanti una serie di progetti comuni. Il progetto che stiamo inaugurando qui è un esempio di come una piccola cosa può operare un grande cambiamento. Abbiamo molti progetti per continuare la cooperazione economica con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Le fonti israeliane, tuttavia, minimizzavano il significato del progetto Allenby. “Non ci sarà più passaggio lì, ma gli americani volevano un risultato subito”, ha detto uno.

Durante il suo terzo incontro con Hamdallah, dopo il riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele, Kahlon era già diventato un canale significativo nelle comunicazioni tra l’amministrazione e i palestinesi. “Tornate a negoziare con gli americani, sono l’unico mediatore onesto nella regione”, avrebbe all’epoca detto Kahlon.

Sia Netanyahu che Abbas sono consapevoli di ciò che accade in questi incontri; a volte viene riferito anche agli altri membri del gabinetto di sicurezza. Avere là Kahlon, davanti e di fronte, fa bene a tutti. Quando c’è qualcosa di cui vantarsi, Netanyahu, che per anni ha promosso l’idea di “pace economica”, può farsi bello con l’amministrazione americana. Quando c’è una critica da destra, può dare la colpa a Kahlon.

Ma come sta progettando Kahlon di mantenere questo suo nuovo ruolo? Non è emerso alcun progetto diplomatico, nemmeno parziale. L’uomo che in passato ha detto a un intervistatore che la pace con i palestinesi potrebbe anche iniziare con “concorsi di cucina”, come per la diplomazia del ping-pong del presidente statunitense Richard Nixon, sta acquistando una significativa esperienza diplomatica, ma sta mantenendo le sue conclusioni per se stesso.

Né gli uffici di Kahlon né quelli di Hamdallah hanno reagito a questo articolo.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Droni e disaffezione nella causa palestinese

Ramona Wadi

14 marzo 2018,Middle East Monitor

Sui media israeliani sono comparse immagini di droni che lo scorso venerdì hanno fatto cadere candelotti lacrimogeni su manifestanti palestinesi nei pressi del confine a sud di Gaza. Il “Times of Israel” [giornale israeliano on line che si pretende “apolitico”, ndt.] e “Haaretz” hanno entrambi informato, con racconti leggermente diversi, del fatto che la protesta è stata presa di mira.

Il primo ha raccontato che un portavoce dell’esercito israeliano (IDF) ha negato responsabilità per l’operazione con il drone, affermando che era stata la polizia di frontiera israeliana. Invece Haaretz ha attribuito l’uso del drone all’IDF, riportando fonti militari che hanno affermato: “Questo metodo di controllo della folla è al momento sperimentale e non è ancora stato reso operativo.”

Da queste informazioni si possono ricavare due importanti conclusioni. C’è una chiara ammissione che Israele sperimenta nuovi armamenti sulla popolazione palestinese di Gaza. Inoltre, che Israele sta continuamente cercando sistemi per evitare di essere considerato responsabile rendendo normale la propria violenza contro civili palestinesi. Utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeno durante proteste legittime evita la necessità della presenza di militari sul posto. Ciò consentirà ad Israele di intensificare anche la propria narrazione sulla sicurezza, giustificando l’uso dei droni – finora sperimentale – per evitare vittime tra le truppe dell’IDF.

Essendo questa ancora una nuova forma di oppressione in nome della sicurezza, questo sviluppo consentirà inoltre a Israele di aggiungere un’ulteriore forma di violenza su cui la comunità internazionale chiuderà un occhio. L’assenza di uno scontro aperto ha molte conseguenze sui civili palestinesi. Israele non si sta astenendo dal prendere di mira i palestinesi, sta semplicemente affinando i propri metodi per farlo e lo sta sommando al disequilibrio di un’entità coloniale con potere militare preponderante che viola i diritti di una popolazione colonizzata che non ha l’opportunità di avvalersi del proprio diritto all’autodeterminazione.

Con l’uso dei droni Israele sta occultando agli occhi del mondo la sua violenza più visibile, come esemplificata dall’[intervento dell’] esercito. I media più importanti saranno in grado di sfruttare la falsa narrazione diffusa ovunque della resistenza palestinese come “terrorismo”. L’ONU e altre istituzioni internazionali faranno altrettanto, seppure all’inizio con una strategia più velata. Nel momento in cui il colonizzatore elimina dall’equazione la parte più violenta e visibile del colonialismo, la narrazione israeliana sul “terrorismo” diventa più accettabile per la comunità internazionale. In fin dei conti non sta stabilendo un precedente in termini di uso dei droni, ma estendendo la giustificazione per un simile uso, attraverso la sua stessa narrazione, proteggendo il proprio personale militare dal giudizio riguardo a palestinesi uccisi o feriti.

Israele può essere certo che il suo utilizzo dei droni per colpire i manifestanti palestinesi non metterà in allarme la comunità internazionale. In fin dei conti ha commesso azioni peggiori contro i civili palestinesi di Gaza. Mentre la guerra con i droni diventa un’opzione ideale, il mondo è diventato così insensibile alle vittime palestinesi che non solo non ha compassione per i civili, ma è anche incapace di sdegno nei confronti dei responsabili.

Per i palestinesi non si tratta solo di massacri. La più recente sperimentazione da parte di Israele non si limita alle ferite visibili, sta anche cercando l’approvazione internazionale per i suoi metodi. Una minore attenzione alla resistenza di Gaza è fondamentale per i progetti israeliani di imporre l’oblio sull’enclave. Aggiungere un’ulteriore forma di violenza alla lista delle misure già messe in atto non farà arrabbiare la comunità internazionale, ma fornirà semplicemente più materiale per statistiche e rapporti. Nel frattempo Gaza rimane imprigionata nella sua implosione, la sua voce viene eliminata da fonti ufficiali palestinesi o estere che diffondono la narrazione israeliana, mentre sostengono di parlare a favore di una popolazione civile imprigionata.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 27febbraio- 12 marzo ( due settimane)

Nell’area di Nablus, durante scontri seguiti a cinque episodi di infiltrazione di coloni israeliani armati all’interno di comunità palestinesi, un palestinese è stato ucciso e altri 50 sono stati feriti dalle forze israeliane.

Quattro degli episodi si sono verificati attorno agli insediamenti colonici di Yitzhar e Bracha. Da lunga data questi insediamenti sono fonte di vessazioni e violenze sistematiche nei confronti dei palestinesi residenti nei sei villaggi circostanti. L’uccisione del palestinese ventiduenne [di cui sopra] ed il ferimento, con arma da fuoco, di un quindicenne sono stati registrati entrambi il 10 marzo, nel villaggio di ‘Urif (Nablus). Su questo episodio le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Nei giorni precedenti, in Burin ed Einabus, ed anche in ‘Urif, si erano già verificati scontri simili che avevano causato il ferimento di 44 palestinesi. I restanti quattro feriti sono stati registrati nella città di Nablus, durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, in visita ad un sito religioso (la Tomba di Giuseppe).

Nei Territori palestinesi occupati, ulteriori scontri tra palestinesi e forze israeliane hanno portato all’uccisione di un palestinese e al ferimento di altre 478 persone, tra cui 219 minori. La vittima, un 24enne sordo, è stato ucciso il 12 marzo, nella città di Hebron, durante una manifestazione. Secondo l’esercito israeliano, gli spari che hanno provocato l’uccisione erano in risposta al lancio di bottiglia incendiaria. Testimoni oculari palestinesi hanno dichiarato che, quando gli hanno sparato, l’uomo non era coinvolto negli scontri. Cinquanta dei ferimenti di questo periodo si sono verificati in scontri vicino alla recinzione perimetrale di Gaza, i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi hanno avuto luogo durante le dimostrazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni all’accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh e Al Mazra’a al Qibliya (entrambi a Ramallah); altre durante le manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme quale capitale d’Israele, le più vaste delle quali si sono verificate in Al Bireh / DCO (Ramallah), nella città di Hebron e al checkpoint di Huwwara (Nablus); altre ancora nel corso di una protesta contro un’operazione militare condotta dalle forze israeliane nell’università di Birzeit (Ramallah). Ulteriori scontri, che non hanno provocato feriti, si sono verificati nella scuola di Lubban ash Sharqiya (Nablus), dopo che le forze israeliane hanno impedito agli studenti di entrare nella loro scuola, secondo quanto riferito, come punizione per aver lanciato pietre contro veicoli israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 457 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 243 palestinesi, compresi 21 minori. La maggior parte degli arresti (60, di cui 12 minori), si sono avuti nel governatorato di Gerusalemme, mentre nel governatorato di Ramallah è stato registrato il maggior numero di operazioni (84), compresa l’operazione nell’università di Birzeit (Ramallah), citata al paragrafo precedente.

In Cisgiordania, oltre alle incursioni riportate sopra, in dieci episodi di violenza ad opera di coloni, otto palestinesi sono stati feriti direttamente da coloni e proprietà palestinesi sono state vandalizzate oppure rubate. Tre di questi casi si sono verificati attorno ai già menzionati insediamenti di Yitzhar e Bracha a Nablus: l’aggressione fisica di tre contadini e il danneggiamento di un veicolo a Einabus; la vandalizzazione di 115 ulivi a Madama; il furto di un asino a Burin. Altri tre episodi di lancio di pietre contro veicoli palestinesi hanno provocato il ferimento di tre studenti che viaggiavano su uno scuolabus vicino a Salfit e danni a due veicoli. In tre diverse occasioni, coloni israeliani, secondo quanto riferito, provenienti dall’avamposto [= insediamento colonico non autorizzato da Israele] di Havat Ma’on, hanno danneggiato 18 alberi di proprietà palestinese nei pressi del villaggio di At Tuwani (Hebron). Dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi di coloni, con vittime palestinesi o danni alle proprietà, è aumentata del 50%, rispetto al 2017 e del 67% rispetto al 2016.

Il 4 marzo, ad est di Khan Younis, vicino alla recinzione perimetrale che circonda Gaza, nel contesto della persistente imposizione, da parte di Israele, delle restrizioni di accesso alle ARA [cioè le zone che Israele ha stabilito come “Aree ad Accesso Riservato”], un agricoltore palestinese di 59 anni, al lavoro sulla propria terra, è stato ucciso dalle forze israeliane. Secondo un gruppo per la difesa dei diritti umani, il contadino si trovava a circa 200 metri dalla recinzione [all’interno di essa]. In almeno altre 31 occasioni, nelle zone lungo la recinzione e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso contadini e pescatori, senza provocare feriti. Dall’inizio del 2018, in “Aree ad Accesso Riservato”, di terra o di mare, sono stati segnalati almeno 142 episodi di spari verso contadini o pescatori palestinesi, che hanno provocato 2 morti e 11 feriti. In un caso, undici pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e a nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane, dove sono stati arrestati; le loro barche e le reti da pesca sono state sequestrate. All’interno della Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, in cinque occasioni, le forze israeliane [sono entrate ed] hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo. Agricoltori palestinesi hanno riferito che, il 4 marzo, vicino alla recinzione nel nord di Gaza, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli.

Il 10 marzo, a Beit Lahiya (Gaza Nord), un palestinese è morto ed altri due sono rimasti feriti (tutti membri di un gruppo armato) dall’esplosione, nel sito del lancio, di un razzo che gruppi armati palestinesi di Gaza stavano tentando di sparare verso il sud di Israele.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato otto strutture di proprietà palestinese: non ci sono stati sfollamenti, ma sono stati colpiti i mezzi di sostentamento di circa 50 persone. Tutti gli episodi si sono verificati a causa della mancanza di permessi di costruzione. Quattro delle strutture colpite erano a Gerusalemme Est (Silwan, Beit Hanina e Al ‘Isawiya) e le altre quattro nell’Area C, ad Al’ Auja (Jericho) e Hizma (Gerusalemme).

Nell’area H2 di Hebron, controllata da Israele, a conclusione di una lunga controversia, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha ordinato l’evacuazione di alcune parti di un edificio di proprietà palestinese (Abu Rajab), che, nel luglio 2017, erano state occupate da coloni israeliani. Altre parti dell’edificio erano già state occupate da coloni nel 2012 e nel 2013. Nella città di Hebron, le politiche e le pratiche attuate dalle autorità israeliane e giustificate da ragioni di sicurezza, hanno portato al trasferimento forzato di palestinesi dalle loro case, riducendo una zona fiorente ad una “città fantasma”.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, sono stati segnalati almeno otto episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, da parte palestinese, contro veicoli israeliani: un israeliano è stato ferito e sette veicoli sono stati danneggiati. Gli episodi si sono verificati su strade vicino ad Al Khadr e Husan (entrambi a Betlemme), vicino al Campo profughi di Tuqu’ e Al ‘Arrub (entrambi in Hebron) e vicino a Gerico. Inoltre, a Gerusalemme Est, nella zona di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto solo per un giorno in una direzione, consentendo a 22 palestinesi di entrare a Gaza. Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per 7 giorni; quattro giorni in entrambe le direzioni e tre giorni in una direzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Chi c’è dietro il tentativo di assassinare il primo ministro palestinese?

Amira Hass

14 marzo 2018, Haaretz

È facile incolpare Hamas dell’attacco avvenuto a Gaza, ma ci sono sospetti molto più probabili.

Hamas non ha e non potrebbe avere alcun interesse nell’attaccare importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese mentre andavano ad inaugurare un impianto di trattamento delle acque reflue che gli abitanti della Striscia di Gaza attendevano da molto tempo.

Hamas non ha neppure interesse a far finta di niente e a lasciare che qualcun altro attacchi i visitatori [arrivati] da Ramallah. Hamas si vuole dipingere come una potenza forte che governa e che desidera cedere la propria parte di potere perché preoccupata per il popolo, e non a causa dei propri fallimenti. Il fatto che non sia riuscita a impedire questo attacco indebolirà la sua posizione nei colloqui con Egitto e Fatah, la fazione dominante nell’ANP.

Data la continua e prevedibile situazione di stallo del dialogo per la riconciliazione tra Hamas e Fatah, questo è un compromesso che conviene ad Hamas: controlla di fatto Gaza, ma gli Stati donatori che lo boicottano continuano a costruire, attraverso l’ANP, le infrastrutture vitali ed urgentemente necessarie. Il successo di questi progetti infrastrutturali mitiga il disastro ambientale ed umanitario provocato dall’assedio israeliano. Probabilmente ridurranno le enormi sofferenze della popolazione, anche se solo un poco, e di conseguenza neutralizzeranno anche una delle principali ragioni della rivolta sociale contro Hamas.

Nel 2007 cinque persone annegarono nelle acque reflue che fuoriuscirono dalla vasca del vecchio ed inadeguato impianto di trattamento di Beit Lahia. Per anni acque fognarie non trattate si sono riversate in mare e sono penetrate nell’acquifero, con tutte le implicazioni note ed ignote che ciò comporta.

L’attuale impianto, il cui costo di 75 milioni di dollari è stato coperto da Svezia, Belgio, Francia, Commissione Europea e Banca Mondiale, dovrebbe servire circa 400.000 persone. Il Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia) e il dipartimento di Stato USA hanno tenuto i contatti con le autorità israeliane in modo che consentissero l’ingresso a Gaza dei materiali da costruzione e degli esperti necessari. Senza la loro assistenza probabilmente la costruzione sarebbe durata molti più anni.

Secondo il comunicato stampa della Banca Mondiale, Israele e l’ANP hanno raggiunto un accordo temporaneo per la fornitura dell’energia elettrica necessaria per far funzionare l’impianto, senza la quale sarebbe stato una cattedrale nel deserto. Israele ha già accettato di attivare un’altra linea elettrica. Ma l’ANP ed Hamas devono ancora raggiungere un accordo su come pagare questa elettricità aggiuntiva.

La disputa sul finanziamento di servizi come l’elettricità per gli abitanti di Gaza è descritta come il principale ostacolo al progresso dei tentativi di riconciliazione tra Fatah ed Hamas. Ma queste discussioni di natura finanziaria – che avvengono nel momento in cui la popolazione di Gaza è sprofondata in una povertà e in una disperazione senza precedenti – sono semplicemente una copertura dell’inimicizia e della mancanza di fiducia tra i due principali movimenti palestinesi.

L’ANP sostiene di spendere una parte significativa del suo bilancio a Gaza, mentre Hamas non condivide le proprie entrate con L’ANP. Ma i gazawi affermano che una parte significativa di queste spese è coperta dai diritti di dogana che l’ANP riscuote sulle merci importate a Gaza via Israele.

Hamas chiede che l’ANP paghi i salari di circa 20.000 dipendenti pubblici che Hamas ha assunto durante i suoi anni al potere. Ramallah chiede che prima gli venga dato il controllo totale di ogni attività governativa a Gaza, compresa la riscossione delle tasse e dei versamenti.

Hamas continua a riscuotere imposte al consumo non ufficiali per finanziare la propria amministrazione nel territorio (le sue attività militari sono finanziate soprattutto con denaro dall’estero).

Hamas sta cercando di incrementare la quantità e varietà di beni importati attraverso l’Egitto, da cui ricava tasse. Gli abitanti di Gaza dicono che l’ANP ha fatto tutto quanto in suo potere per evitare che i prodotti arrivassero attraverso l’Egitto, proprio perché questi forniscono entrate ad Hamas. I gazawi sostengono anche che il governo del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha preparato ulteriori “misure punitive” contro Gaza – come il taglio del bilancio municipale e ulteriori tagli ai salari che Abbas eroga ai “suoi” lavoratori del pubblico impiego, che sono stati pagati per non lavorare fin da quando nel 2007 Hamas ha preso il potere a Gaza.

Che sia vero o no, quello che importa è che i gazawi accusano Abbas e Fatah di cercare di sottometterli economicamente in modo che Hamas rinunci alle proprie richieste di condivisione nell’assunzione di decisioni politiche e nelle istituzioni dell’OLP.

La richiesta di Abbas di “un solo governo, una sola forza armata” è logica e naturale, e tale è anche il suo timore che Hamas voglia rinunciare alle responsabilità sulle questioni civili e poi raccogliere un vantaggio politico, soprattutto tra i palestinesi della diaspora, dalla sua reputazione come “movimento di resistenza”. Ma al contempo Abbas non consente [che si tengano] nuove elezioni (in Cisgiordania e a Gaza), ha bloccato da 12 anni il Consiglio Legislativo Palestinese e controlla il sistema giudiziario.

A fine aprile il Consiglio Nazionale Palestinese, il parlamento dell’OLP, si dovrebbe riunire a Ramallah. I suoi parlamentari includono tutti i membri di Hamas eletti al consiglio legislativo nel 2006. Il solo fatto che si riunisca a Ramallah piuttosto che in un posto come Il Cairo o Amman è una chiara prova che Abbas e Fatah non sono interessati alla partecipazione di delegati di Hamas e di altri gruppi di opposizione, a cui Israele non vuol concedere di uscire da Gaza o di entrare in Cisgiordania.

In questa situazione persino le ragionevoli richieste politiche di Abbas ad Hamas sono viste come passi per consolidare il suo potere autoritario e conservare il controllo di Fatah sull’OLP e sull’ANP.

Prima di arrivare alla conclusione che Mohammed Dahlan, il rivale di Abbas, o gruppi salafiti siano dietro l’attacco di martedì contro il convoglio del primo ministro palestinese Rami Hamdallah, è altrettanto possibile immaginare un altro scenario, in cui i responsabili siano stati alcuni giovani, senza un progetto politico ma con accesso ad esplosivi, influenzati dalla descrizione di Fatah e dell’ANP come collaborazionisti che hanno abbandonato Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I sogni rinviati della Striscia di Gaza

Mariam Abu Alatta

13 marzo 2017, Haaretz

Dopo aver lottato per sviluppare una carriera da architetto nella Striscia di Gaza, è cresciuta in me la consapevolezza che la promozione dei diritti delle donne era un altro modo di contribuire al miglioramento della mia comunità.

Sognavo di diventare architetto da quando ero una ragazza, cresciuta in Kuwait e poi in Iraq, figlia di palestinesi della Striscia di Gaza che furono espulsi con la forza nel1967. Mi sono trasferita di nuovo nella Striscia nel 2001 e ho studiato architettura all’Università Islamica di Gaza.

I miei genitori erano preoccupati che l’architettura potesse essere un settore difficile in cui avere successo, soprattutto per una donna. Mi incoraggiarono a studiare piuttosto qualcosa legato all’informatica. Ma il mio sogno di diventare un architetto perdurava. Sognavo di mettere le mani sul paesaggio e sui luoghi storici di Gaza, immaginando come avrebbe potuto essere la mia città, Gaza City, se solo ne avesse avuto la possibilità.

L’anno in cui mi laureai, il 2006, ci furono le elezioni nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ne derivò un periodo teso di rivalità politiche tra le fazioni palestinesi Hamas e Fatah, seguito da un’imponente operazione militare israeliana e dall’invasione di terra nella Striscia. Coloro che mi conoscevano personalmente quando ero studentessa possono confermare quanto fossi positiva e piena di energia, a quei tempi. Ero solita fare volontariato in diversi luoghi e le mie giornate erano febbrili di attività.

Quando compresi che la mia laurea non mi avrebbe assicurato un lavoro fisso nel campo dell’architettura, data l’incertezza politica e sociale della situazione, cominciai a deprimermi. Mi rivedo stesa sul letto, fissare il soffitto e pensare intensamente: “Cosa dovrei fare?”.

Laurearsi è un shock che porta a domande esistenziali sul futuro, e che diventa un peso tangibile nel cercare un lavoro. Laurearsi in una zona di guerra porta questa tensione all’estremo. Immaginate di non essere certi se sia prudente uscire; domandarsi ogni volta che uscite di casa se riuscirete a tornarci. Ecco, queste domande sono parte della quotidianità degli abitanti della Striscia.

Ho ricevuto la mia prima offerta di lavoro come architetto all’inizio del 2007, grazie a un progetto di promozione dei giovani che aiuta i laureati a trovare un impiego. Mi offrirono un contratto di sei mesi per lavorare alla costruzione di un nuovo edificio ad Al-Zahra, qualche chilometro a sud di Gaza City. Nonostante la vicinanza, era quasi impossibile arrivarci. C’erano numerosi posti di controllo della polizia locale che bloccavano il traffico tra le due aree a causa dei continui scontri tra le forze leali ad Hamas e quelle a Fatah.

Nei primi quattro mesi in cui lavoravo lì, ero riuscita a visitare il sito di costruzione dieci volte. Poi Hamas assunse il controllo della Striscia e fu irrigidita la chiusura da parte di Israele. Praticamente nulla e nessuno era autorizzato a entrare o uscire, compresi i materiali da costruzione. L’azienda di architettura per cui lavoravo chiuse due mesi prima della fine del mio breve contratto. Non riuscii mai a partecipare al completamento dell’edificio.

Nell’ottobre del 2008, quando fui assunta al municipio di Gaza City, pensai che il mio sogno di lavorare come architetto si fosse finalmente avverato. Poi nel marzo 2010, il progetto a cui stavo lavorando fu interrotto per problemi di finanziamenti. Qualche mese dopo, il Comune mise a bando il mio precedente impiego, e un’ulteriore assunzione a tempo pieno. Nonostante abbia preso parte al test, abbia ottenuto il punteggio più alto e sia stata raccomandata dal comitato consultivo la mia assunzione, entrambi i posti furono dati a due uomini, sorpassando me e un’altra candidata che aveva ottenuto un punteggio molto alto, anche se avevamo già alle spalle mesi di importante esperienza.

Ho trascorso quasi un anno riempiendo moduli di reclamo riguardo all’episodio, ma senza risultati. A quel tempo, me la presi come una questione personale. Fu solo più tardi che scoprii quanto la mia vicenda fosse comune tra le professioniste di Gaza.

Nonostante il blocco virtuale nel settore delle costruzioni a causa della chiusura imposta da Israele, continuavo a sperare che avrei trovato lavoro. Per gli architetti, come per altri lavoratori impiegati in molti settori che dipendono da materiali e attrezzature provenienti dall’esterno di Gaza, la chiusura portò le attività al minimo. Non c’è tempo per la pianificazione urbana se le case della gente sono in rovina. Le aziende di ingegneria civile nella Striscia furono costrette a ridurre la portata delle loro operazioni; molte furono chiuse negli anni seguenti, e nessuno assumeva. In seguito ad insistenti richieste da parte mia, mi consentirono di fare volontariato presso un grande studio di architettura, ma non c’era lavoro. Durante il mese in cui sono stata lì, non ho fatto altro che progettare un’unica rampa di scale.

Pensai di emigrare in un altro Paese e cercare un lavoro da un’altra parte. A un certo punto, mi offrirono un lavoro negli Emirati Arabi, ma dopo lunghe considerazioni, decisi di declinare l’offerta. Essendo cresciuta lontano da Gaza, avevo già fatto esperienza della vita da straniera. Ricordavo mio padre dire di non aver mai sentito di appartenere a nessun altro luogo. Quando tornai nella mia patria, promisi a me stessa che non me ne sarei mai più andata. Volevo contribuire alla mia società e alla mia comunità.

Quella decisione divenne molto significativa. Nel 2011 venni a sapere di un’organizzazione chiamata Aisha, che lavora per proteggere e legittimare le donne e i bambini marginalizzati. Anche se non mi ero mai immaginata di fare null’altro se non l’architetto, trovai una nuova motivazione nel lavoro di Aisha per dare voce ai meno fortunati. Iniziai a lavorare lì come project manager e organizzando raccolte fondi, e crebbe in me la consapevolezza che la promozione dei diritti delle donne era un altro modo per contribuire al miglioramento della mia comunità.

Ad Aisha ho imparato che il mio sforzo di realizzare il mio sogno non era un’esperienza singola. Come donna, la ricerca di un impiego a Gaza è estremamente difficile. Tanto per cominciare devi affrontare una considerevole mancanza di lavoro, così come preferenze discriminatorie a favore degli uomini, che sono visti come i principali percettori di reddito per le loro famiglie.

I tassi di disoccupazione sono cresciuti sensibilmente da quando Israele ha inasprito il blocco, toccando attualmente il livello del 35% per gli uomini e quasi del 66% per le donne. Persino coloro che sono calcolati tra quanti hanno un lavoro affrontano diverse difficoltà. La maggior parte dei contratti di lavoro, sia con agenzie governative, organizzazioni della società civile, o nel settore privato, sono per periodi da uno a cinque mesi, quindi non c’è nessuna sicurezza di un lavoro a tempo indeterminato. A coloro che trovano un lavoro, raramente concesse prestazioni di sicurezza sociale, e i pagamenti sono spesso ritardati di mesi.

La tremenda situazione economica sta causando la perdita di ogni speranza nei giovani laureati, portando all’aumento della tossicodipendenza, della violenza, della depressione e addirittura al suicidio. Non dovrebbe essere così. Il blocco [isrealiano] deve finire; le restrizioni dei nostri movimenti e del transito di beni da e per la Striscia devono essere rimosse.

La gente di Gaza, uomini e donne, meritano di vivere dignitosamente, guadagnarsi un salario, prosperare e realizzare i loro sogni. Il mio è ancora in sospeso.

Mariam Abu Alatta è project manager e organizzatrice di raccolte fondi presso Aisha, Associazione per la protezione della donna e del bambino, che lavora per raggiungere l’integrazione dei generi attraverso la legittimazione e il supporto psicosociale a donne bambini emarginati di Gaza. Ha contribuito al nuovo rapporto di Gisha [organizzazione israeliana che si batte per la libertà di movimento dei palestinesi, ndt.], dal titolo “I Sogni Rinviati: l’impatto della chiusura sulle donne nella Striscia di Gaza”, pubblicato in occasione della Giornata Internazionale della Donna 2018.

( Traduzione di Veronica Garbarini)




Gaza sotto assedio: con il crollo degli affari gli imprenditori si trovano ad affrontare la prigione

Amjad Ayman

Giovedì 1 marzo 2018, Middle East Eye

Con uneconomia sotto assedio che strangola il commercio, i piccoli imprenditori finiscono in prigione perché non riescono a pagare i loro debiti.

GAZA – Mohammed Abu Beid, un produttore di abbigliamento, dice che il 2017 è stato un anno fra i peggiori per gli affari. Dopo aver perduto più di un milione di dollari, sta annegando nei debiti.

Abu Beid ha importato vestiti da uomo e donna dalla Cina e li ha venduti a Gaza in tre grandi mercati all’aperto per circa vent’anni. Con i ritardi nelle consegne dovuti al bocco israeliano e con la decisione dell’Autorità Nazionale Palestinese di tagliare i salari degli impiegati statali del 30%, la sofferente economia di Gaza e il potere d’acquisto sono rapidamente crollati. Gli affari di Abu Beid, un tempo fiorenti, sono arrivati economicamente allo stremo. “Dal 2017 la gente non ha più i soldi per comprarsi vestiti nuovi,” ha detto Abu Beid a Middle East Eye.

In febbraio Abu Beid è stato arrestato e tenuto in prigione per 10 giorni per non aver pagato un debito di 200.000 dollari. presi a prestito da un collega imprenditore di Gaza per tenere a galla i propri affari.

Non riuscivo a sopportare I muri della prigione, senza sapere cosa sarebbe potuto accadere alla mia famiglia se io fossi rimasto in carcere. Sono uscito di prigione quando un amico ha concordato con il creditore che il debito venga restituito in due anni, a condizione di pagare 10.000 dollari al mese”, ha detto.

Se Abu Beid non riesce a restituire il denaro, rischia 90 giorni di prigione. Questa disavventura non è stata pesante per la moglie di Abu Beid e per i loro quattro figli solo dal punto di vista emotivo, ma li ha anche privati di molti dei bisogni essenziali dal momento che hanno ipotecato la casa per ripagare una parte del debito. Con il potere d’acquisto che continua a diminuire e le piccole imprese che lottano per sopravvivere, Abu Beid non è il solo a finire in prigione.

Mi ha scioccato vedere tanti commercianti in carcere”, ha detto Abu Beid. Molte piccole imprese sono crollate sotto la pressione dei debiti, del soffocante blocco israeliano e delle divisioni interne fra I palestinesi.

Il portavoce della polizia Ayman al-Batniji ha detto a MEE che il numero di mandati di arresto emessi per casi di passivi finanziari, tra cui il mancato pagamento di debiti o delle rate bancarie, ha raggiunto i 98.314 casi nel 2017. Questa cifra è quasi cinque volte quella del 2016, quando i casi erano stati 21.235.

Ci sono attualmente 300 commercianti in prigione per reati finanziari che non hanno nessuna possibilità di pagare i debiti. Altri cercano di firmare cambiali per pagare a rate, e allora vengono rilasciati.”

Al-Batniji afferma che il numero di casi di indebitamento tra i proprietari di piccole imprese è in realtà molto più alto di quello registrato dalla polizia.

“Molti di loro cercano di risolvere i problemi legali attraverso un mukhtar che interviene per raggiungere un accordo tra commercianti per pagare il debito. Comprendiamo la situazione [e] cerchiamo di creare una qualche soluzione per aiutare questi commercianti “, ha detto. Un mukhtar è un saggio leader della comunità che trae la sua legittimità dal carisma personale o dal prestigio familiare.

Al-Batniji afferma che, a causa delle difficili condizioni economiche, le autorità danno alle persone con pendenze finanziarie tre possibilità di restituire il denaro prima di eseguire un ordine di detenzione fino a 15 giorni. Il caso viene quindi rinviato in tribunale, che può, in conformità con la legge, condannare coloro che hanno un debito con una pena fino a un massimo di 90 giorni di carcere.

“Quando si tratta di soldi, la situazione è difficile, poiché ci sono i diritti delle persone, e la legge non può trascurare questi diritti, a meno che non vi sia riconciliazione tra le parti. Alcune persone possono condonare i debiti, ma rappresentano solo il 20% dei casi”, ha spiegato al-Batniji.

A gennaio, molti commercianti hanno preso parte a una campagna di condono del debito e hanno cancellato i debiti dei loro clienti con l’hashtag  “Perdona e sarai ricompensato”. Ma con l’economia bloccata, non tutti possono permettersi di mettere una pietra sopra la grande quantità di debiti che ha rovinato molti.

Ho perso molto’

Il 21 gennaio, Mohamed al-Jamal è stato arrestato dopo che uno dei suoi assegni è risultato scoperto. Di conseguenza, questo padre di cinque figli e il solo a provvedere a loro è stato rinchiuso nella prigione di Al-Nuseirat, al centro della Striscia di Gaza. Al-Jamal non aveva mai pensato che un giorno avrebbe potuto finire in carcere.

Una volta lì, dice che non poteva far altro che pensare alla famiglia. Con due grandi negozi nel centro di Gaza che vendevano articoli da cucina come piatti e utensili, si era sempre considerato un uomo d’affari di successo.

Ma anche proponendo grossi sconti per promuovere i suoi prodotti, la maggior parte dei due milioni di persone nell’enclave non poteva comunque permettersi di comprare nulla. Ora deve 32.000 dollari, che pagherà a rate. Se non sarà in grado di effettuare i pagamenti nonostante il suo piano di una campagna di sconti ancora maggiori, del 40-60% sui prezzi normali, rischia di perdere la sua attività e tornare in prigione.

“Non ho realizzato profitti negli ultimi sei mesi e speravo che l’intera faccenda migliorasse dopo l’accordo di riconciliazione palestinese nell’ottobre 2017. Ho comprato grandi quantità di merce, sperando di ottenere buoni profitti, ma le cose sono andate diversamente dalle mie aspettative e ho perso molto”.

Nell’ottobre 2017 è stato raggiunto un accordo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese dopo una faida di 10 anni.

Sebbene l’accordo abbia portato a un calo significativo dei prezzi, solo un numero limitato di persone può permettersi di comprare qualcosa, poiché l’ANP continua a imporre un taglio dello stipendio del 30% sui 60.000 dipendenti pubblici, entrato in vigore da aprile 2017.

Secondo la Palestinian Monetary Authority (PMA), l’ammontare degli assegni respinti a Gaza è quasi raddoppiato, da 37 a 62 milioni di dollari tra il 2015 e il 2016, e poi ancora a 112 nel 2017.

L’economista Maher al-Tabaa, che è anche direttore delle relazioni pubbliche presso la Camera di Commercio di Gaza, afferma che il settore del commercio privato nell’enclave costiera, come mercati e negozi, sta perdendo milioni di dollari al mese. Secondo al-Tabaa, negli ultimi 10 mesi si è registrata una perdita di ricavi di mercato di circa 180 milioni di dollari, in tutti i settori industriali e commerciali.

“Gli uomini d’affari sono preoccupati per l’attuale deterioramento della situazione economica e stanno subendo gravi perdite. Ciò è dovuto ai continui tagli salariali per i dipendenti pubblici. Di conseguenza, la perdita di mercato è stimata in 20 milioni di dollari al mese”, spiega.

Gli uffici legali sono stati recentemente sommersi da molti casi di passività finanziarie. L’avvocato Ahmed al-Masri ha detto di aver avuto più di 90 casi simili nel 2017.

“Il periodo di detenzione è di 15 giorni, poi le parti in causa vengono convocate in tribunale. Comunque, in questo caso le parti tendono a cercare un accordo per pagare i debiti a rate. Purtroppo, la maggior parte non ci riesce.” ha detto Masri.

Nabil Essa, proprietario di un negozio di mobili, continua a lottare per pagare il suo debito di 410.000 dollari. Essa è stato imprigionato per la prima volta a novembre perché non poteva restituire i soldi. 

È stato rilasciato a dicembre, dopo che il mukhtar della sua famiglia è intervenuto e ha proposto un piano di pagamento. Incapace di pagare le rate concordate, è stato nuovamente incarcerato per circa otto giorni prima che il mukhtar intervenisse una seconda volta per mediare un diverso piano di pagamento.

Essa ha tempo fino a metà marzo per trovare una soluzione ai suoi problemi finanziari, altrimenti andrà in prigione per 90 giorni.

“Non posso pagare il debito. Le persone non acquistano mobili da anni. La maggior parte di loro tende a riparare i mobili piuttosto che comprarne di nuovi, perché non hanno soldi “, ha detto.

“La mia famiglia ora dipende da mio padre: mangiano da lui perché io non posso comprare il cibo per loro”, ha aggiunto.

(traduzione di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 13-26 febbraio ( due settimane)

Gaza: il 17 febbraio, a sud-est di Rafah, due minori palestinesi di 15 e 17 anni sono stati uccisi ed altri due sono rimasti feriti dalle forze israeliane che hanno aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi che, a quanto riferito, si avvicinava al recinto per entrare in Israele.

Lo stesso giorno, presso la recinzione, ad est di Khan Younis, quattro soldati israeliani sono rimasti feriti per l’esplosione di un ordigno. In conseguenza di questo episodio, le forze israeliane hanno lanciato numerosi attacchi, a quanto riferito contro siti militari ed aree aperte all’interno di Gaza. Tre case adiacenti a questi obiettivi hanno subito danni. Gruppi palestinesi hanno lanciato diversi razzi verso il sud di Israele, uno dei quali ha colpito e danneggiato una casa israeliana.

Sempre a Gaza, al largo di Beit Lahiya, il 25 febbraio, un pescatore palestinese di 18 anni è stato ucciso e altri due sono stati feriti dalle forze navali israeliane che hanno aperto il fuoco contro una barca da pesca. Secondo un portavoce dell’esercito israeliano, il pescatore stava navigando oltre la zona consentita e si è rifiutato di fermarsi, nonostante diversi avvertimenti. In almeno altre 22 occasioni, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso pescatori che navigavano nell’Area di mare ad Accesso Riservato (ARA), provocando il ferimento di un altro pescatore. Finora, nel 2018, in mare, ci sono stati almeno 68 casi di apertura del fuoco [verso pescatori palestinesi] che hanno provocato l’uccisione di cui sopra e undici feriti.

Il 22 febbraio, nella città di Gerico, durante un’operazione di ricerca-arresto, un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani. Una sequenza videoregistrata mostra l’uomo che corre con un grosso oggetto verso un gruppo di soldati che gli sparano da distanza ravvicinata, quindi lo aggrediscono fisicamente e lo trascinano in un veicolo militare. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Il corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Ciò porta a cinque, dall’inizio del 2018, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in operazioni di ricerca-arresto; le uccisioni nel 2017erano state nove. In aggiunta a quanto sopra, in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est , le forze israeliane hanno condotto 258 operazioni di ricerca-arresto; di queste almeno 61 hanno innescato scontri nel corso dei quali 55 palestinesi sono stati feriti.

Un palestinese è morto per le ferite riportate durante una manifestazione che ha avuto luogo nel precedente periodo di riferimento [30 gennaio -12 febbraio] mentre, nel periodo relativo al presente bollettino, 384 palestinesi, tra cui almeno 115 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in manifestazioni e scontri. Il giovane deceduto aveva18 anni ed era stato ferito durante una manifestazione che si era tenuta il 16 febbraio in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale. Dei [384] feriti di questo periodo [13-26 febbraio], 74 si sono avuti in scontri vicino alla recinzione di Gaza ed i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi si sono verificati durante le dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh, Ni’lin, Bil’in e Al Mazra’a al Qibliya (tutti a Ramallah), e in manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale d’Israele. Di queste, le più ampie si sono verificate ad Al Bireh (Ramallah) e al checkpoint di Huwwara (Nablus). Altri feriti sono state segnalati durante scontri all’ingresso di Beit ‘Ummar e del Campo profughi Al ‘Arrub (entrambi a Hebron); altri ancora per l’intervento delle forze israeliane a seguito di scontri tra palestinesi e gruppi di coloni israeliani (vedi sotto). Di tutte le lesioni, 59 sono state causate da armi da fuoco, 102 da proiettili di gomma e 205 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente un intervento medico, o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

Nella Striscia di Gaza, due bambini palestinesi (di 6 e 11 anni) sono rimasti feriti in seguito alla detonazione di un ordigno inesploso (UXO). L’episodio è avvenuto a Jabalia (nel nord della Striscia), quando uno dei bambini ha raccolto e cominciato a maneggiare l’ordigno trovato sul terreno, innescando la sua esplosione.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 18 persone, tra cui 10 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 70 persone circa. Tutti i provvedimenti di cui sopra sono stati motivati con la mancanza dei permessi di costruzione. 15 delle strutture prese di mira si trovavano in Gerusalemme Est e cinque in Area C, nelle Comunità di Al Baqa’a, Al Bowereh e Khirbet al Hasaka, a Hebron, e nella Comunità beduina di Jabal al Baba nel governatorato di Gerusalemme. Tre delle cinque strutture in Area C erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni.

In attacchi e incursioni ad opera di coloni israeliani sono stati feriti sedici palestinesi, e proprietà palestinesi sono andate perdute o sono state danneggiate. Quattro degli episodi si sono verificati nei villaggi di Einabus e Asira al Qibliya (Nablus) e, a quanto riferito, sono opera di coloni provenienti dagli insediamenti di Yitzhar, Bracha e dai loro circostanti avamposti: è stato aggredito fisicamente e ferito un vecchio di 91 anni; sono state uccise 17 pecore e rubate altre 37; una abitazione è stata vandalizzata. Nella stessa zona, cinque palestinesi sono stati feriti dai soldati israeliani durante scontri scoppiati dopo un’incursione di coloni all’interno di un villaggio. Nella Zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro tre case palestinesi e, negli scontri successivi, hanno ferito sei palestinesi, tra cui due minori. Altri quattro palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in quattro distinti episodi verificatisi in altre località della Cisgiordania. Sei veicoli di proprietà palestinese sono stati danneggiati in cinque episodi di lancio di pietre. Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni è in aumento, con una media settimanale di sei attacchi, contro una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

Da media israeliani sono stati segnalati almeno tredici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani con conseguenti danni a cinque veicoli. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Umm Safa e Sinjil (Ramallah), vicino a Tuqu’, Beit’ Ummar e nei pressi del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron) e vicino ad Al Khadr (Betlemme). Inoltre, nella zona di Shu’fat a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per due giorni in entrambe le direzioni e per un giorno in una sola direzione, consentendo a 1.665 persone di attraversare (1.317 in uscita, 348 in entrata). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018 il valico è stato aperto per 6 giorni (nel 2017 lo era stato per 36 giorni); in alcuni di questi giorni, l’attraversamento è stato consentito solo in una direzione.

Nella Striscia di Gaza proseguono le interruzioni di energia elettrica fino a 20 ore al giorno, compromettendo gravemente l’erogazione dei servizi. Rispetto al periodo precedente ciò rappresenta un leggero aumento dei blackout elettrici, attribuibile alla interruzione della fornitura di energia elettrica egiziana, determinata dal malfunzionamento tecnico delle tre linee di alimentazione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una controversa definizione di antisemitismo incontra resistenze riguardo a preoccupazioni per la libertà di parola

Ben White

22 febbraio 2018, Middle East Monitor

In Gran Bretagna gruppi filoisraeliani stanno incontrando resistenze ai loro tentativi di utilizzare una controversa definizione di antisemitismo per zittire l’attivismo in solidarietà con la Palestina. Università e autorità locali hanno dato ascolto alle preoccupazioni riguardanti la libertà di parola, un incoraggiamento per gli attivisti per i diritti della Palestina che attualmente stanno tenendo, o si stanno preparando a tenere, iniziative per la “Israeli Apartheid Week [Settimana dell’apartheid israeliana, ndt.] (IAW) nelle università di tutto il Paese.

Nel dicembre 2016 il governo britannico ha annunciato di aver “adottato” la definizione di antisemitismo accolta all’inizio di quell’anno dall’“International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ndt.] (IHRA). Descritta come “straordinariamente imprecisa” da David Feldman, direttore del “Pears Institute for the Study of Anti-Semitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, ndt.], la definizione è promossa dall’IHRA ed è accompagnata da un elenco di 11 esempi su come oggi si possa manifestare l’antisemitismo, che comprendono critiche a Israele.

Fin da quando il governo di Theresa May ha dato il suo (non legale, non vincolante) appoggio, in Gran Bretagna un certo numero di gruppi ha dedicato tempo e risorse considerevoli per cercare di ottenere appoggio alla definizione da parte di consigli comunali e istituzioni dell’educazione superiore, tra gli altri. Tuttavia quasi subito c’è stato un rifiuto da parte di chi ha visto nella definizione e nel modo in cui è stata utilizzata, consistenti pericoli per la libertà di parola e per l’attivismo politico legittimo.

Nel marzo 2017 la direttrice della “London’s School of Oriental and African Studies” [Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra, ndt.] (SOAS), Valerie Amos, ha detto alla BBC che la sua università non intende adottare questa definizione. “Ho consultato su questo il nostro ‘Centro di Studi Ebraici’,” ha spiegato, “che ha fondamentalmente detto che questa definizione è discutibile.”

Quello stesso mese l’avvocato dei diritti umani Hugh Tomlinson, patrocinante della Corona [corrispettivo inglese dell’avvocato di cassazione in Italia, ndt.], ha pubblicato un parere legale che evidenzia “gravi errori” nella definizione e nelle linee guida allegate.

Nel maggio 2017 il sindacato dell’università e dei college – che rappresenta 110.000 professori e altri membri del personale – ha approvato a stragrande maggioranza una mozione che respinge l’uso della definizione dell’IHRA e che evidenzia “tentativi ispirati dal governo di mettere al bando iniziative di solidarietà con la Palestina “ come l’”Israel Apartheid Week”.

Ora anche la “London School of Economics” [Scuola di Economia di Londra, ndt., una delle più prestigiose istituzioni accademiche inglesi, ndt.] (LSE) si è unita a quanti, pur accettando la definizione di antisemitismo di 38 parole formulata dall’IHRA, hanno esplicitamente respinto l’elenco di esempi suggeriti, che include critiche a Israele. “La Scuola intende chiarire che criticare il governo di Israele, senza ulteriori prove che suggeriscano intenzioni antisemite, non è antisemitismo,” ha scritto un dirigente della LSE in una lettera lo scorso mese. “La Scuola non accetta neppure che tutti gli esempi che l’IHRA elenca come esemplificazioni di antisemitismo ricadano nella definizione di antisemitismo, a meno che non ci siano ulteriori prove per suggerire intenzioni antisemite.” L’autenticità della lettera, pubblicata su un sito filoisraeliano, mi è stata confermata da un dirigente della LSE.

Frattanto “Università del Regno Unito”, l’influente organizzazione rappresentativa delle università, ha resistito ai tentativi da parte di gruppi filoisraeliani perché manifestasse il proprio appoggio alla definizione dell’IHRA. Secondo un portavoce, che ha parlato con me all’inizio del mese, “Università del Regno Unito” non ha una posizione in merito.

In una richiesta a una commissione parlamentare d’inchiesta in corso sulla libertà di parola nelle università, il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” ha detto ai parlamentari che le università dovrebbero “adottare la definizione dell’IHRA per consentire loro di esprimere giudizi meditati su cosa sia o non sia considerato antisemitismo.” Il Comitato ha riconosciuto: “Tuttavia c’è una preoccupante resistenza da parte delle università ad adottarla e la libertà di parola viene addotta come la principale ragione della loro riluttanza.”

Questa riluttanza è ben fondata. Lo scorso anno, un evento dell’IAW all’università del Lancashire Centrale è stato annullato dai dirigenti dell’università sulla base del fatto che avrebbe trasgredito la definizione dell’IHRA (e in seguito a pressioni da parte di gruppi filoisraeliani). Questa settimana la “Campagna contro l’Antisemitismo” ha affermato di augurarsi che ci siano “successi simili” nell’ottenere che iniziative dell’IAW organizzate dagli studenti quest’anno vengano annullate. Anche l’”Alleanza Israele-Gran Bretagna – un progetto della Federazione Sionista – sta fondando sulla definizione dell’IHRA i propri “sforzi per bloccare…eventi (dell’IAW)”.

Frattanto l’onorevole conservatore Matthew Offord martedì ha detto in parlamento che “le parole “settimana dell’apartheid israeliano” sono palesemente antisemite,” in base alla definizione dell’IHRA. Quindi, ha sostenuto, i ministri dovrebbero prendere in considerazione il fatto di “portare avanti le leggi necessarie per impedire (iniziative dell’IAW).”

Anche a Bruxelles gli effetti agghiaccianti della definizione dell’IHRA, così come viene utilizzata dai gruppi filoisraeliani, sono già stati dimostrati nei tentativi per far annullare un evento del parlamento europeo che ospita il difensore palestinese dei diritti umani Omar Barghouti. In una lettera al presidente del parlamento europeo Antonio Tajani i gruppi filoisraeliani sostengono che Barghouti e il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), di cui è co-fondatore, sono colpevoli rispettivamente di affermazioni e di obiettivi “antisemiti” “in base alla (definizione dell’IHRA).”

Tuttavia, mentre i sostenitori di Israele vedono chiaramente la definizione dell’IHRA come un mezzo per l’eliminazione dell’attivismo in solidarietà con la Palestina e delle voci palestinesi, c’è una discussione interessante, ed una mancanza di chiarezza, riguardo a in cosa consista esattamente la definizione. La “definizione di antisemitismo non vincolante dal punto di vista legale” dell’IHRA è pubblicata in rete all’interno di un riquadro nero chiaramente evidenziato. È un testo di 38 parole, che dice quanto segue: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio nei confronti degli ebrei: manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui ebrei e non ebrei e/o loro proprietà, verso istituzioni e strutture religiose della comunità ebraica.” Lo stesso testo è comparso, anch’esso in un riquadro nero a parte, nel maggio 2016 su un comunicato stampa dell’IHRA che annunciava l’adozione della definizione.

Queste 38 parole sono poi seguite da un testo più lungo, che include l’elenco degli esempi di come si può manifestare l’antisemitismo contemporaneo; questa è la parte in cui è inclusa, in modo discutibile, la critica contro Israele. Tuttavia questi esempi sono effettivamente parte della definizione stessa?

Secondo l’ufficio permanente dell’IHRA a Berlino la risposta è no. In un messaggio mail datato 12 settembre 2017 un rappresentante dell’IHRA ha confermato che la definizione consiste solo nel “testo nel riquadro”, mentre gli esempi intendono “servire come illustrazione” di come “possa manifestarsi” l’antisemitismo.

Sembra che questa conferma sia stata un passo falso o, quanto meno, non è stata ripetuta. Mi sono rivolto all’ufficio permanente dell’IHRA a questo proposito e, stranamente, mi è risultato impossibile, sia con email che al telefono, avere una chiara conferma su cosa sia effettivamente la definizione. In una conversazione di cinque minuti all’inizio di questo mese un funzionario dell’IHRA ha ribattuto alla mia richiesta di chiarire se la definizione consista solo nel testo di 38 parole dicendo che io dovrei “fare riferimento all’informazione sul nostro sito”, o “semplicemente inserire un link sul sito dell’IHRA.” Quando ho fatto notare che certe istituzioni hanno accolto il testo di 38 parole, ma non l’elenco di esempi che lo accompagna, il funzionario ha riconosciuto che “dipende dalla discrezionalità delle istituzioni e delle autorità adottare qualunque cosa ritengano utile,” ma si è di nuovo rifiutato di rispondere alla semplice domanda.

Mentre l’IHRA è curiosamente reticente nel chiarire quello che costituisce la definizione, altri hanno già deciso: una dichiarazione che ho ricevuto dal portavoce della Commissione Europea fa una chiara distinzione tra la “definizione” da una parte e “gli esempi non esaustivi” dall’altra.

Alcune autorità locali in Gran Bretagna hanno allo stesso modo adottato solo il testo di 38 parole; recenti esempi includono il consiglio comunale di Manchester e il consiglio regionale del South Northamptonshire. Quando il consiglio comunale di Liverpool ha accolto solo la definizione di 38 parole, un attivista filoisraeliano si è infuriato – spingendo gli “Amici di Israele di Merseyside” ad affermare che i due testi sono, di fatto, “la definizione effettiva.”

La confusione – e l’ambiguità probabilmente intenzionale da parte dell’IHRA – su cosa costituisca la definizione, l’opposizione alla libertà di parola e il rozzo tentativo di censura da parte di quanti (falsamente) sostengono che la definizione “dimostra” che iniziative come l’IAW sono antisemite, sono tutti ben noti. È per questo che la storia della definizione dell’IHRA è ripresa nel resoconto del suo infausto predecessore, la proposta di definizione provvisoria dell’EUMC [Centro Europeo per il Monitoraggio del Razzismo e della Xenofobia, ndt.]. Alla fine è stata screditata ed abbandonata dopo che sostenitori di Israele l’hanno utilizzata – nelle parole di uno degli estensori della definizione – “con la delicatezza di un martello”.

Nonostante questi tentativi, l’attivismo in solidarietà con la Palestina e in particolare la campagna BDS sono cresciuti e si sono estesi in tutta Europa, compresa la Gran Bretagna, in rapporto diretto con le politiche di un governo israeliano che continua a colonizzare la Cisgiordania e a devastare la Striscia di Gaza.

Gli apologeti di Israele non smetteranno di ridefinire l’antisemitismo per prendere di mira la solidarietà con i palestinesi. Tuttavia è improbabile che soffochino un movimento contro l’apartheid che, in un’epoca segnata da Trump e dalla annessione israeliana, in tutto il mondo troverà solo più adesioni sia dentro che fuori dai campus.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Bisognava uccidere qualche palestinese

Amira Hass

20 febbraio 2018 Haaretz

L’imbarazzo provocato dalla negligenza dei soldati israeliani sabato non poteva essere cancellato bombardando le postazioni di Hamas. Era necessario qualcos’altro.

Nell’attacco terroristico al confine di Gaza alle 21,30 di sabato due ragazzi di 15 e 17 anni sono stati uccisi ed altri due, di 16 e 17 anni, feriti. Dei soldati israeliani hanno sparato circa 10 granate in territorio palestinese contro i quattro, che si trovavano a circa 50 metri ad ovest del confine.

I corpi di Abdullah Armilat e di Salem Sabah sono stati trovati da una squadra della Mezzaluna Rossa palestinese, che è riuscita a raggiungerli solo domenica mattina. Sia il quindicenne Armilat che il diciassettenne Sabah sono probabilmente morti dissanguati dopo essere stati feriti da proiettili delle granate israeliane.

Il luogo, ad est di Shokka nel sud della Striscia di Gaza, è conosciuto come un posto attraverso il quale i giovani, che sperano o di trovare lavoro o di essere arrestati, fuggendo così dalla vita di povertà senza speranza a cui sono condannati, cercano di passare in Israele. Secondo i dati più recenti, circa il 60% dei giovani di Gaza sono disoccupati. In televisione, o dalle poche alture di Gaza, i giovani palestinesi possono vedere le ampie comunità ebraiche, immerse nel verde, che alimentano la delusione dei gazawi rispetto al lavoro, alle opportunità e agli spazi aperti.

Un altro punto di passaggio, o di tentativo di passaggio, ben noto all’esercito israeliano, si trova nel centro di Gaza. Proprio in questo mese cinque giovani usciti di là per cercare lavoro sono stati catturati ed arrestati. Molti di coloro che cercano di passare in Israele lo fanno di notte, come Armilat e Sabah. La grande maggioranza, come Armilat, Sabah e i loro due amici, provengono da famiglie beduine della zona.

I due ragazzi che si sono salvati sono ora curati all’ospedale europeo di Gaza, nel sud della città. Uno, con ferite più leggere, ha detto ad un ricercatore del Centro palestinese per i diritti umani che lui e i suoi amici, le cui vite sono state spezzate in così giovane età, effettivamente speravano di passare il confine e cercare lavoro in Israele. Quando il medico ha detto al suo angosciato padre che suo figlio sarebbe stato dimesso il giorno successivo, lui è scoppiato in lacrime ed ha baciato la mano del medico.

Recentemente c’è stato un ulteriore incremento nel numero di persone che tentano di entrare in Israele senza permesso. Di fronte all’opprimente povertà ed alla crescente disperazione, i giovani si sono fatti più audaci.

“L’esercito israeliano è strano: a volte è difficile capirlo”, ha detto un abitante di Rafah che è per me come un fratello minore. Non ci siamo visti per 10 anni, ma abbiamo mantenuto confidenza e strette relazioni per telefono.

“A volte vedi che l’esercito si pone dei limiti, dimostrando di saper fare distinzioni”, ha continuato. “Normalmente, se chi viene fermato dai soldati ha meno di 18 anni, lo rilasciano immediatamente e lo rimandano a Gaza. I soldati conoscono bene questo posto e sanno che le persone che passano di lì sperano di trovare lavoro. Sono attrezzati per vedere di notte e avrebbero potuto vedere che i quattro ragazzini erano disarmati. Quindi perché colpirli direttamente ed ucciderli?”.

Hai torto, mio giovane amico, non è assolutamente così. Già da sabato mattina, quando dei soldati israeliani sono stati gravemente feriti da una bomba nel territorio di Gaza, i portavoce sia delle fonti ufficiali che dei media hanno preparato il terreno per una rapida vendetta. Hanno detto che dal 2014, durante l’operazione ‘Margine Protettivo’ (l’attacco israeliano a Gaza, ndtr.), non vi era stato un incidente così grave. L’esplosione di un ordigno destinato a soldati ben addestrati e ben armati è stato riportato dai media come un attacco terroristico. Il capo del Comando sud dell’esercito, Eyal Zamir, domenica ha dichiarato che “L’attacco a soldati dell’esercito israeliano è un grave atto terroristico”, come se l’obbiettivo fossero stati dei bambini in un asilo o delle donne sull’autobus che tornavano con le loro borse dal mercato. La rabbia è esplosa nei programmi televisivi del sabato e ha continuato a crescere.

L’imbarazzo causato dalla penosa negligenza dei soldati non poteva essere cancellato semplicemente bombardando le vuote postazioni di Hamas. Ci voleva qualcosa di più. In altri termini, alcuni palestinesi disponibili per essere uccisi, che potessero essere sepolti in una generica frase negli articoli dei media, con l’aiuto del monopolio che noi deteniamo sul diritto di definire che cosa costituisca terrorismo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Per poter lasciare Gaza, Israele chiede ai minorenni palestinesi di impegnarsi a non ritornare per un anno

Amira Hass

24 febbraio 2018, Haaretz

Israele impone drastiche restrizioni ai ragazzi di Gaza che lasciano la Striscia per andare all’estero, chiedendo loro di firmare un impegno a rimanere lontani.

Il 24 gennaio la diciassettenne Hadil ed i suoi tre fratelli sono arrivati al checkpoint di Erez al confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Il giorno prima avevano ricevuto un permesso israeliano per lasciare Gaza, passando da Israele alla Giordania attraverso il ponte Allenby (ponte sul fiume Giordano, passaggio tra Cisgiordania e Giordania, ndtr). Poiché Israele non ha permesso al loro fratello maggiore di accompagnarli nel viaggio per incontrare il loro padre, che vive in Svezia, Hadil ha assunto il ruolo di adulta responsabile.

A Erez un rappresentante dell’Ufficio israeliano di Coordinamento e Contatto ha chiesto ai quattro di firmare un impegno a non rientrare a Gaza per un intero anno, aggiungendo che, se non avessero firmato, non avrebbero potuto partire. Non avendo scelta, Hadil ha firmato per tutti loro.

Hadil non avrebbe mai immaginato che la sua firma su quell’accordo avrebbe fatto sì che l’Ufficio di Contatto emettesse disposizioni ancora più restrittive alla sua controparte palestinese, la Commissione palestinese per gli Affari Civili, e che quest’ultima sfidasse le nuove regole.

Questo caso getta luce su un problema generale relativo allo status della Commissione per gli Affari Civili, il cui compito è ricevere le richieste palestinesi di uscita da Gaza e trasmetterle ad Israele per l’approvazione o il respingimento. Il problema che sorge qui, e non per la prima volta, è dove stia il confine tra una necessaria cooperazione su questioni civili che riguardano la vita dei palestinesi e una collaborazione da parte dei responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese con i burocrati israeliani che sabotano i diritti fondamentali dei palestinesi.

Far firmare a dei minori un accordo così impegnativo è illegale, secondo Gisha – Centro Legale per la Libertà di Movimento, il cui intervento ha garantito i permessi di uscita a Hadil e ai suoi fratelli. L’avvocata di Gisha, Osnat Cohen-Lifshitz, lo ha scritto al capitano Nadav Glass, consulente legale del dipartimento di Gaza dell’Ufficio di Contatto.

“Non è la prima volta che i rappresentanti dell’Ufficio di Contatto fanno firmare a dei minori accordi la cui legittimità è dubbia persino quando siano degli adulti costretti a firmarli”, ha scritto. “Questo è ancor più vero quando dei minori non accompagnati sono costretti a firmare un documento senza il consenso e la firma dei loro genitori.”

Il 7 febbraio Glass ha risposto che le firme dei minori non erano valide. D’ora in poi, ha scritto, l’ufficio avrebbe controllato che gli impegni a non ritornare a Gaza per un anno sarebbero stati firmati da un genitore o da un tutore del minore.

“Per assicurare un comportamento corretto su questa questione in particolare, e sulla firma di accordi in generale, abbiamo deciso di ribadire che le richieste da parte di residenti della Striscia di Gaza, sia adulti che minori, di entrare in Israele per viaggiare all’estero per lunghi periodi siano trasmesse dalla Commissione Affari Civili con già allegato un impegno legalmente sottoscritto”, ha aggiunto. “Se le richieste vengono inoltrate senza il richiesto documento firmato, verranno respinte. E’ stata inviata una dichiarazione in tal senso alla Commissione Affari Civili.”

A partire dal 1997 Israele ha vietato agli abitanti di Gaza di andare all’estero attraverso il ponte Allenby senza un permesso speciale, che viene rilasciato col contagocce. Questa nuova disposizione era una delle tante restrizioni israeliane alla libertà di movimento, divenute più severe dopo la firma degli Accordi di Oslo del 1993, che hanno progressivamente isolato Gaza dalla Cisgiordania.

Finché il valico di confine di Rafah tra Gaza e l’Egitto restava aperto più o meno regolarmente, come nel 1997, questa restrizione era tollerabile. Ma attualmente Rafah è aperto solo alcuni giorni all’anno.

Inoltre nel 2007 Israele ha istituito un divieto indiscriminato per i palestinesi ad uscire da Gaza attraverso il checkpoint di Erez, tranne in alcuni casi umanitari rigorosamente stabiliti (malattia, morte, matrimonio o parentele di primo grado). Nel tempo questa restrizione si è un poco allentata, ma anche oggi solo poche migliaia dei due milioni di abitanti di Gaza hanno il permesso di uscire attraverso Erez.

Nel febbraio 2016 Israele ha deciso di permettere ai gazawi di andare all’estero attraverso Allenby, ma solo se promettevano di non ritornare per un anno. Questa condizione non costituiva un problema per le persone alle quali era destinata la modifica – i palestinesi residenti all’estero rimasti “bloccati” a Gaza durante una visita, o che avessero programmato lunghi soggiorni all’estero per studio o lavoro.

Una fonte palestinese ha detto che la Commissione Affari Civili e le autorità israeliane avevano stabilito questo accordo tra di loro. Le persone che viaggiavano a causa di malattie o eventi familiari e gli accademici che uscivano per brevi viaggi dovevano essere esonerati dall’impegno a non tornare per un anno.

Tuttavia, la Commissione non ha mai preteso che le persone che richiedevano permessi di uscita firmassero l’impegno a non tornare per un anno. Perciò veniva loro richiesto di firmare a Erez o ad Allenby. Chiunque rifiutasse doveva ritornare a casa.

In seguito al caso di Hadil e i suoi fratelli, la Commissione ha detto a Gisha che l’Ufficio di Contatto israeliano aveva iniziato a chiedere che fosse accluso ad ogni richiesta di uscita un impegno firmato. L’ufficio rifiuta di esaminare richieste che arrivano prive del documento firmato, ma la Commissione Affari Civili (palestinese) continua a rifiutarsi di chiedere alle persone di firmarlo.

L’Ufficio di Contatto recentemente ha anche chiesto alla Commissione di classificare più richieste di uscita come “per lungo soggiorno” all’estero, anche in casi umanitari come la partecipazione ad un matrimonio o la visita ad un ammalato. Effettivamente, in base alle ultime indicazioni ricevute dalla Commissione, chiunque si rechi all’estero deve firmare un impegno a non rientrare a Gaza per un anno.

Un mese fa, per esempio, Gisha ha inviato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a nome di una giovane donna, suo padre e una zia, che volevano andare in Giordania per il suo matrimonio. L’Ufficio di Contatto ha detto a Gisha che tutte le tre richieste sarebbero state classificate come “lungo soggiorno”, chiedendo loro di firmare l’impegno a non tornare per un anno.

La Corte ha ordinato all’ufficio di riconsiderare il caso e i legali del governo hanno detto che non avrebbero insistito per la firma della sposa. Ma quando i tre sono arrivati a Erez, alla sposa è stato chiesto di firmare l’impegno. Solo l’intervento di Gisha ha fatto in modo che venisse annullato.

I dati ottenuti da Gisha, in base alla Legge sulla libertà di informazione, dal Coordinatore israeliano per le Attività di Governo nei Territori (COGAT) rivelano un largo scarto tra il numero di gazawi che richiedono permessi di uscita attraverso Allenby ed il numero di concessioni, ed anche tra questo ed il numero effettivamente utilizzato. Per esempio, nell’agosto 2017, sono state sottoposte 475 richieste, ne sono state approvate 169 e 39 respinte. Ma solo 96 persone sono realmente uscite, compresi 28 minori.

Il COGAT non ha detto se questa discrepanza fosse dovuta ad un rifiuto di firmare l’impegno a Erez. Ha anche rifiutato di dire quanti gazawi abbiano cercato di tornare a Gaza prima della scadenza dell’impegno annuale, o di specificare i “motivi umanitari” che consentono a chi ha firmato di chiedere di tornare a casa prima.

Un portavoce del COGAT, alla richiesta di spiegare la logica retrostante all’impegno a non tornare, ha risposto: “ Nel 2016 è stata presa la decisione di aiutare i residenti della Striscia di Gaza che non possedevano i requisiti vigenti per andare all’estero (essere pazienti, studenti ed accademici). All’interno di quella decisione, è stato aggiunto un criterio per i residenti di Gaza che andavano all’estero attraverso Israele. Per ottemperare a questa decisione, devono firmare che si tratta di un lungo soggiorno all’estero, di oltre un anno. Da quando è stato aggiunto il suddetto criterio le procedure per la firma di questo documento non sono cambiate. Tuttavia, per regolare e semplificare il procedimento, è stato recentemente deciso che i documenti firmati devono essere inoltrati con largo anticipo.”

Gisha ha detto che i criteri, “che Israele ha inventato e che cambia quando vuole”, sono rigidi e che chiedere alle persone di promettere di non ritornare per un anno è immorale, illegale e inumano.

La Commissione Affari Civili, come rappresentante dell’ANP, mantiene finora il rifiuto di inviare le richieste per permessi di uscita all’Ufficio di Contatto con un impegno firmato di non tornare a casa per un anno. Questa posizione di principio significa che le richieste di permesso di uscita non vengono esaminate, per cui le persone non possono andare all’estero. Ma è molto probabile che l’impellente bisogno delle persone di spostarsi avrà la meglio su questa istanza di principio nazionale, come è successo più di una volta nei rapporti tra l’ANP e Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)