Alla ricerca del “gene ebraico”

Sylvain Cypel

5 febbraio 2020 – Orient XXI

Il 5 febbraio Sylvain Cypel ha pubblicato “L’État d’Israël contre les Juifs” [Lo Stato di Israele contro gli ebrei, La Decouverte, 2020], un libro che studia l’evoluzione della società israeliana dopo due decenni. Presentiamo un’anticipazione tratta dal quarto capitolo, che riguarda “la ricerca del gene ebraico”. Quando il libro è stato scritto la Corte Suprema israeliana non aveva ancora confermato, come ha fatto lo scorso 24 gennaio, il diritto del grande rabbinato a ricorrere alla genetica per verificare l’ebraicità di una persona, cosa messa in discussione dal partito Israele Casa Nostra (estrema destra laica [che rappresenta soprattutto gli immigrati da territori dell’ex-Unione Sovietica, ndtr.]) e da alcune organizzazioni laiche.

Dietro a questa spinta per accogliere le tesi dei suprematisti bianchi, che in Israele resta limitata ai circoli colonialisti più attivi, si profila un fenomeno che è invece in forte espansione: l’idea di preservare la purezza razziale. Questa idea è evidentemente legata al desiderio profondo di stare tra noi, concepito come un vero e proprio ideale di vita. Il 9 febbraio 2016 Netanyahu ha così annunciato un “piano pluriennale per circondare Israele di recinzioni per la sicurezza.” Sapendo che questa idea avrebbe ricevuto un’accoglienza molto favorevole da parte dell’opinione pubblica, ha proseguito: “In fin dei conti lo Stato di Israele per come lo vedo io sarà totalmente recintato. Mi si dirà: insomma, cos’è che volete, proteggere la villa? La risposta è: sì. Circonderemo tutto lo Stato di Israele di barriere e recinzioni? La risposta è: sì. Nel contesto in cui viviamo, ci dobbiamo difendere di fronte a bestie selvagge.” La metafora della “villa nella giungla”, di un Israele unico Stato civilizzato circondato da animali selvatici, era già stata formulata dal primo ministro laburista di allora, Ehud Barak, dopo il fallimento dei negoziati di pace a Camp David nell’estate del 2000.

Sposare una norvegese?

Questa concezione è alla base del ripiegamento su se stessi che esclude la presenza dell’altro. Può portare a tendenze razzializzanti desunte da motivi diversi dal solo bisogno di sicurezza e che sono, per lo più, di ispirazione religiosa e ancor più derivano dall’intreccio tra misticismo e nazionalismo. Nella religione ebraica, per come viene praticata in Israele, dove un rabbinato molto tradizionalista si è visto concedere dai pubblici poteri la gestione di tutta la vita familiare (nascita, matrimonio, divorzio, morte, ecc.) e dove il matrimonio civile è legalmente sconosciuto, i “matrimoni misti”, cioè le unioni tra ebrei e non ebrei, sono impossibili.

Questo rifiuto, inizialmente di carattere teologico, spesso va ad aggiungersi a espressioni più o meno accentuate di razzismo. Così, quando nel gennaio 2014 venne resa pubblica la relazione che Yair Netanyahu, figlio del primo ministro, aveva con Sandra Likanger, una studentessa norvegese, la rivelazione provocò immediatamente le reazioni estreme dei sostenitori della purezza ebraica. “Qualunque ebreo che intenda conservare le proprie radici vuole vedere il proprio figlio sposato a un’ebrea. In quanto primo ministro di Israele e del popolo ebraico (Benjamin Netanyahu) deve dar prova di responsabilità nazionale difendendo a casa propria i valori che rappresenta,” dichiarò al Jerusalem Post Nissim Ze’ev, deputato del partito ultraortodosso Shas. Questa relazione provocò problemi persino all’interno del Likud [partito di destra di Netanyahu, ndtr.]. Molti ricordarono che se, dio non voglia, il figlio del primo ministro avesse avuto dei bambini con quella norvegese, essi non sarebbero stati ebrei, dato che l’ebraicità viene trasmessa per via materna, almeno per quelli, purtroppo numerosi, che credono a queste fesserie biologico-culturali. Sarebbe stato un tradimento della razza, il dramma finale. Cosa si sarebbe detto della Norvegia se le sue autorità cristiane e i suoi parlamentari si fossero lamentati della storia sentimentale del figlio del primo ministro con una studentessa ebrea? Che sono razzisti, no?

In ogni caso non sposare un arabo

Ovviamente la questione si mette male quando un ebreo o un’ebrea intendono sposare un coniuge arabo. Il fatto che si tratti di un arabo contribuisce in Israele a rendere ancora più grave il tradimento della razza. Quando nel 2018 l’attore e cantante israeliano Tsahi Halevi ha annunciato che, dopo quattro anni di vita in comune, avrebbe celebrato il suo fittizio (in quanto proibito dalla legge) “matrimonio” con la giornalista e presentatrice della televisione Lucy Aharish, una palestinese di Israele musulmana, l’indignazione è stata molto maggiore. Il ministro degli Interni dell’epoca, Arye Dery, si è lanciato in un avvertimento. Ha dichiarato alla radio militare: “Questo matrimonio non è una buona cosa. I vostri figli avranno dei problemi riguardo al loro status”, poi ha suggerito alla signorina di convertirsi all’ebraismo. Oren Hazan, deputato del Likud, ha chiesto che lo Stato non riconoscesse le unioni tra membri di comunità diverse. “Lucy, niente di personale, ma dovresti sapere che Tsahi è mio fratello, il popolo ebraico è composto dai miei fratelli. Abbasso l’assimilazione!” ha twittato prima di accusare Halevi di “islamizzarsi”.

Altri, come il deputato Yair Lapid [leader di un partito di centro, ndtr.] o il ministro religioso Naftali Bennett [di un partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] hanno espresso anche loro il rifiuto di questa unione. Il deputato palestinese alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr] Salman Masalha ha denunciato il “razzismo” veicolato da questi commenti e il disgusto che gli provocavano. Ha ricordato a tutti questi difensori della purezza ebraica che nei Paesi musulmani vige il divieto totale alle donne di sposare un non–musulmano e che, se ai maschi viene data l’autorizzazione, la cosa è di fatto vietata. “I Dery, Lapid e Bennett”, ha concluso, “non sono diversi” dai loro equivalenti nei Paesi musulmani.

Resta il fatto che la salvaguardia della purezza ebraica non è una questione senza conseguenze. La manifestazione più inaudita di questa ideologia nello Stato di Israele per come è diventato è l’emergere di una scuola scientifica che intende fare della “genetica ebraica” l’alfa e l’omega della giustificazione del sionismo, cioè del “diritto storico” degli ebrei a tornare alla propria terra ancestrale e del carattere unico, nel senso di eccezionale, di eletto, di questa nazione. Il 13 gennaio 2014 si tenne a Tel Aviv un simposio accademico sul tema “Ebrei e razza: genetica, storia e cultura”. I docenti universitari discussero parecchio, alcuni sostenendo l’esistenza di una “razza” ebraica, altri mostrandosi di parere radicalmente contrario. Ma anche solo il titolo degli interventi provoca un forte malessere: “Le razze hanno una storia?”, “Razza ebraica o razze ebraiche?”, “La genetica può decidere chi è ebreo?”, ecc.

L’ebraicità può essere individuata con l’analisi genetica”

Si resta un po’ sconcertati. Certo, tra gli anglosassoni, che influenzano tutta l’università israeliana, il termine “razza” ha un doppio significato: senza mettere in dubbio l’unicità della razza umana, serve anche ad indicare i gruppi umani, soprattutto in funzione del colore della loro pelle, non associarvi necessariamente una dimensione razzista. Detto ciò, che numerosi conferenzieri durante questo colloquio abbiano utilizzato l’espressione “identità razziale ebraica” ha fatto rizzare i capelli in testa a molti altri. Alla confluenza tra biologia, demografia e geografia, gli specialisti della “genetica delle popolazioni” sono l’avanguardia di questa moda. E in Israele i loro collegamenti sono sempre più attivi. Esistono istituzioni accademiche, in Israele e negli Stati Uniti, che ormai si dedicano alla ricerca del “gene ebraico”, cioè di una caratteristica genetica che non apparterrebbe che agli ebrei e che intenderebbero portare alla luce.

Per esempio, il professore americano Harry Ostrer, che dirige un laboratorio di genetica nella facoltà di medicina dell’università ebraica privata Yeshiva, a New York, nel 2012 fece scalpore con la pubblicazione di un’opera intitolata “Patrimonio. Una storia genetica del popolo ebraico”. Ostrer vi evoca quello che chiama un “fondamento genetico dell’ebraicità”. I titoli dei sei capitoli sono espliciti: il primo è “Avere l’aria da ebreo”, il secondo “Fondatori”, il terzo “Genealogie”, il quarto “Tribù”, il quinto “Caratteri” e l’ultimo inevitabilmente s’intitola “Identità”. Il libro provocò sulla New York Review of Books [importante rivista bisettimanale USA con articoli su letteratura, cultura e attualità, ndtr.] la critica di un celebre genetista di Harvard, Richard Lewontin, che lo respinse in toto.

Tuttavia il professor Ostrer ha numerosi emuli in Israele in certi circoli universitari, come alla clinica universitaria dell’ospedale Rambam di Haifa. Nel 2014 per fare un’inchiesta vi incontrai il genetista Gil Atzmon. “È dimostrato che l’ebraicità può essere identificata dall’analisi genetica, per cui la nozione di popolo ebraico è convincente”, dichiarò (come se la storia da sola non fosse sufficiente). Prudente, respingeva l’idea di “un gene ebraico distintivo”, ma, aggiunse, “ciò non significa che la scienza non lo troverà, la ricerca avanza.” In compenso, secondo lui, “i geni permettono di ricostruire in modo sempre più netto la storia ininterrotta di un popolo ebraico legato ai suoi geni e a un fenotipo (l’insieme dei caratteri comuni)”. E quella popolazione in 25 secoli sarebbe rimasta “geneticamente” omogenea?

Il ricercatore conviene che ci furono importanti conversioni all’ebraismo, soprattutto tra il I e il IV secolo, e anche in seguito, nel bacino del Mediterraneo. “Ma,” affermò, “non sono state abbastanza significative da bloccare la tendenza.” Gli ebrei, per ragioni dovute alle persecuzioni e alla loro conseguente propensione a rinchiudersi per proteggersi, avrebbero pertanto conservato una “identità genetica”.

Nazionalisti che avanzano mascherati”

Sarebbe riduttivo dire che queste tesi sollevano indignazione, in primo luogo tra molti genetisti e ancor di più tra gli storici. Questi ultimi, che siano ultranazionalisti o progressisti, si sono opposti tutti quasi senza eccezione a queste “costruzioni”. La ricercatrice israeliana Eva Jablonka, co-autrice di “L’evoluzione in quattro dimensioni”, adepta appassionata dell’uso della genetica nelle scienze sociali, rifiuta tuttavia radicalmente l’uso che ne fanno i ricercatori del “gene ebraico”, “nazionalisti che avanzano mascherati”, dice, e che non cercano altro che dimostrare quello a cui credono: l’esistenza di un popolo trimillenario rimasto inalterato, quindi unico. Un’assurdità, continua, altrettanto insulsa che credere che i Galli siano gli antenati dei francesi di oggi. Ma un’assurdità che trova sempre più adepti in Israele, soprattutto da parte dei mistici ultranazionalisti.

L’ideologia di Hitler era corretta al 100%”

Così il rabbinato israeliano ha iniziato a fare appello alla genetica per testare l’ebraicità delle persone giudicate “dubbie”. In questo modo, ha notato l’analista israeliano Noah Slepkov, “spingendo (le persone) a fare test genetici, il rabbinato israeliano cade nella trappola della scienza delle razze del XIX secolo.”

Si dirà, e con ragione, che queste tendenze inquietanti, queste tesi sull’ideologia “corretta al 100% di Hitler” – in precedenza, nello stesso capitolo, il libro cita le affermazioni del rabbino Giora Redel, responsabile della scuola militare religiosa Bnei David, che nell’aprile 2019 ha dichiarato in pubblico che “l’ideologia di Hitler era corretta al 100%, ma diretta contro la parte sbagliata”, in altri termini Hitler avrebbe sbagliato bersaglio, prendendosela con gli ebrei invece che con i veri demoni, gli arabi o i musulmani -, queste tesi sulla “genetica ebraica”, sul “popolo-razza”, rimangono marginali in Israele. Ma si sbaglierebbe a non prendere sul serio la loro costante espansione.

Nel 1967, quando Israele si impadronì del Muro del Pianto, il grande rabbino dell’esercito, Shlomo Goren, in un momento di fervore mistico chiese immediatamente di far saltare in aria la Cupola della Roccia, un luogo santo musulmano, per ricostruire al suo posto il Terzo Tempio. La classe politica israeliana lo prese per quello che era: un pazzo pericoloso.

Moshe Dayan, il vincitore della guerra (era ministro della Difesa) replicò: “Ma chi ha bisogno di un Vaticano ebraico?” Cinquantatré anni dopo i sostenitori della “ricostruzione del Tempio” non sono più degli emarginati da deridere, hanno deputati, associazioni generosamente finanziate, propagandisti ascoltati. El-Ad, un’organizzazione che fa parte di questo movimento, è stata ufficialmente incaricata dal governo israeliano di fare degli scavi archeologici nei pressi della Spianata delle Moschee. Si avrebbe torto a ignorare il peso di questa estrema destra, che sia laica o ancor più mistica, nell’evoluzione di Israele. Le sue idee progrediscono costantemente. È lei che sostiene in primo luogo tutte queste tesi razziali e razziste. Se domani dovesse arrivare al potere – a cui è già fortemente legata senza detenerne ancora le principali leve – è tutto il Medio Oriente che potrebbe ritrovarsi trascinato verso una deflagrazione letteralmente vertiginosa che fin d’ora fa gelare il sangue.

Sylvain Cypel è stato membro della redazione di Le Monde [giornale francese di centro-sinistra, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier intenational [settimanale francese simile a Internazionale in Italia, ndtr.]. È autore di “Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse” [Chiusi dietro un muro. La società israeliana in una situazione senza uscita] La Découverte, 2006.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)