La distruzione dei tesori delle molte culture di Gaza

Ibtisam Mahdi 

17 febbraio 2024 +972 Magazine

La guerra di Israele ha ridotto in rovine il ricco patrimonio di migliaia di anni a Gaza, e gli esperti palestinesi denunciano la distruzione come genocidio culturale

Dall’inizio dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza gli innumerevoli tesori del patrimonio culturale palestinese sono stati danneggiati o distrutti. Come gran parte del resto dell’enclave assediata, questi inestimabili e amati monumenti della storia del nostro popolo – siti archeologici, strutture religiose millenarie e musei con antiche collezioni – ora giacciono in rovina.

Il patrimonio culturale è una componente essenziale dell’identità di una nazione e ha un enorme significato simbolico, riconosciuto e protetto da innumerevoli convenzioni, trattati e organismi internazionali. Eppure il martellamento di Gaza da parte di Israele, giunto ormai al quinto mese, mostra uno spietato disprezzo per queste testimonianze della millenaria storia culturale di Gaza – a tal punto che potrebbe consistere in un genocidio culturale.

I ricercatori stanno cercando disperatamente di catalogare questi siti e di accertare il loro stato attuale, ma non riescono a tenere il passo con il ritmo della carneficina. E mentre la perdita di vite umane è la più grande tragedia di qualsiasi guerra, la distruzione da parte di Israele del patrimonio culturale materiale di Gaza raggiunge più o meno lo stesso obiettivo: la cancellazione del popolo palestinese. In effetti, molti degli intervistati in questo articolo ritengono che sia proprio questo il motivo per cui questi siti vengono presi di mira.

Tesori nazionali

Hamdan Taha è un rinomato studioso, archeologo ed ex direttore generale del Dipartimento palestinese delle Antichità di Gaza. Dopo essere riuscito a lasciare la Striscia, in un’intervista a +972 Magazine ha sottolineato il profondo ruolo storico e di civiltà svolto dalla Palestina in generale, e da Gaza in particolare, nonostante le piccole dimensioni geografiche.

Gaza è stata testimone di mescolanze culturali in cui le civiltà si sono intrecciate, dando origine a un patrimonio culturale ricco e diversificato”, ha spiegato. Taha ha sottolineato in particolare il porto di Gaza, che per secoli è stato un importante snodo commerciale attraverso il Mediterraneo e fulcro del suo multiculturalismo.

Il patrimonio culturale riflette la nostra identità nazionale”, ha continuato. “È la testimonianza delle epoche storiche e delle civiltà che hanno attraversato la nostra Patria. È tesoro nazionale”.

Secondo Taha, l’importanza nazionale di questi siti e il loro potenziale nel portare turismo e rilanciare l’economia di Gaza “ha portato Israele a distruggere intenzionalmente edifici storici e archeologici, con l’obiettivo di cancellare il legame tra il popolo di Gaza, la sua terra e la sua storia.” Israele, ha aggiunto Taha, “vuole scollegare il popolo di Gaza dalla storia del territorio, cercando allo stesso tempo di creare una propria narrativa di legame con il luogo”.

Durante la guerra su Gaza del 2014, Taha e altri archeologi formarono un comitato per valutare ufficialmente i danni causati dagli attacchi israeliani. Hanno lavorato per restaurare e catalogare tutte le antichità di Gaza, in parte per prepararsi a futuri bombardamenti. Eppure la portata della guerra attuale ha sopraffatto i loro sforzi.

Dato il continuo bombardamento della Striscia dal 7 ottobre è stato incredibilmente difficile per Taha e altri esperti valutare l’entità del danno, nonostante i migliori sforzi degli studiosi palestinesi e stranieri che stanno monitorando la situazione da remoto.

“La maggior parte delle informazioni che otteniamo provengono da giornalisti e persone che catturano immagini casualmente e fugacemente, ha spiegato. “E facciamo affidamento sulle informazioni fornite dai residenti che vivono nelle vicinanze delle aree prese di mira e sulle notizie dell’ultima ora”. Da questi resoconti sembra che i bombardamenti israeliani abbiano lasciato poco dietro di sé.

Per gli esperti è difficile documentare mentre vengono presi di mira”

Uno dei fotoreporter che documentano questo disastro è Ismail al-Ghoul, che attualmente risiede a Gaza City e lavora per Al Jazeera. Ha fotografato le rovine della chiesa bizantina antica di 1.600 anni nel distretto di Jabalia e l’hammam al-Sammara, un “bagno turco” secolare nel quartiere di Zeitoun.

L’ultimo hammam storico rimasto nella Striscia di Gaza, con una storia che dura da quasi mille anni, ora giace in totale rovina”, ha lamentato. “La maggior parte delle persone a Gaza frequentavano questo hammam e vi vivevano un’esperienza bellissima e indimenticabile. Anche i visitatori di Gaza cercavano di sperimentare le sue famose proprietà curative e terapeutiche”.

Al-Ghoul ha anche fotografato le rovine del Qasr al-Basha (Palazzo del Pascià) del XIII secolo, che si distingueva per la notevole conservazione dei dettagli architettonici. Più del 90% del palazzo è stato distrutto dai bombardamenti israeliani e dalle successive demolizioni, lasciandone in piedi solo una piccola parte. 

Nonostante la dedizione di fotoreporter come al-Ghoul, la guerra ha reso impossibile documentare l’intera portata dei danni. “È difficile per gli esperti tenere il conto mentre si trovano essi stessi in una condizione di sfollamento, presi di mira e costretti a spostarsi continuamente da un luogo all’altro”, ha spiegato Taha. “Abbiamo perso più di 10 esperti di antichità, tra cui quattro archeologi”.

Tra gli altri siti del patrimonio che si conferma abbiano subito gravi danni c’è la Grande Moschea Omari, la più grande e antica del nord di Gaza, con una storia che, secondo alcuni resoconti, risale a 2.500 anni fa. L’intera struttura è stata distrutta, tranne il solo minareto. La moschea incarnava la ricca e diversificata storia della Striscia: originariamente un antico tempio pagano, fu successivamente trasformato in chiesa bizantina e infine convertita in moschea durante le conquiste islamiche.

Anche la moschea Sayyed Hashim di Gaza City è stata gravemente danneggiata. Situata nella città vecchia, la moschea ospitava la tomba di Hashim ibn Abd Manaf, il nonno del profeta Maometto, così strettamente identificato con la città che nella letteratura palestinese viene spesso definita “la Gaza di Hashim”. Anche la Chiesa di San Porfirio, localmente chiamata “Chiesa greco-ortodossa” – che, costruita nel 425 d.C., era una delle chiese più antiche del mondo – è stata danneggiata e uno degli edifici nel comprensorio della chiesa è stato completamente distrutto. 

Taha ha sottolineato che i danni non sono limitati esclusivamente al nord della Striscia. Il Museo di Rafah, nel sud di Gaza, l’unico museo della zona, è stato completamente distrutto. Il Museo Al Qarara vicino a Khan Younis, che aveva una collezione di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel II secolo a.C., è stato gravemente danneggiato. Anche il santuario di Al-Khader nella città della zona centrale Deir al-Balah, che riveste un significato speciale in quanto primo e più antico monastero cristiano costruito in Palestina, è stato danneggiato nel bombardamento di un’area vicina.

In tutta la Striscia, Israele ha danneggiato e distrutto siti storici secolari come sono quelli affiliati all’Islam e al Cristianesimo. Tutto è un obiettivo.

Tutta la storia di Gaza è sull’orlo del collasso”

Haneen Al-Amassi, ricercatrice archeologica e direttrice esecutiva della fondazione Eyes on Heritage varata lo scorso anno, vede la distruzione dei siti archeologici come parte di una più ampia campagna contro l’esistenza dei palestinesi.

I siti archeologici sono prove fisiche e tangibili che attestano il diritto dei palestinesi alla terra di Palestina e la loro esistenza storica su di essa, dall’età della pietra ai giorni nostri”, ha detto a +972. “La distruzione di questi siti nella Striscia di Gaza in modo così brutale e sistematico è un tentativo disperato da parte dell’esercito di occupazione di cancellare le prove del diritto del popolo palestinese alla propria terra”.

Al-Amassi ha elencato numerose perdite significative. L’antico porto di Gaza, noto anche come porto di Anthedon o Al-Balakhiya, che risale all’800 a.C., è stato distrutto. Anche Dar al-Saqqa (casa Al-Saqqa) nel quartiere Shuja’iya, nella parte orientale di Gaza City, costruita nel 1661 e considerata il primo forum economico in Palestina, è stata gravemente danneggiata.

La distruzione di questi monumenti e siti archeologici, ha sottolineato Al-Amassi, rappresenta una perdita significativa per il popolo palestinese, che sarà difficile, se non impossibile, compensare. “È impossibile restaurare questi monumenti di fronte ai continui bombardamenti”, ha detto. “E con il vergognoso silenzio degli attori internazionali, ci saranno solo altri bombardamenti sui siti archeologici di Gaza. Tutta la sua storia e sacralità sono sull’orlo del collasso”.

Anche quando non sono l’obiettivo principale dei bombardamenti israeliani, i siti archeologici vengono comunque gravemente danneggiati. Al-Amassi piange il Museo Khoudary, noto anche come Mat’haf al-Funduq (Museum Hotel) nel nord di Gaza, che ospitava migliaia di pezzi archeologici unici, alcuni risalenti ai periodi cananeo e greco; il museo è stato notevolmente danneggiato dal bombardamento dell’adiacente moschea Khalid ibn al-Walid.

Allo stesso modo, il Khan di Amir Younis al-Nawruzi, un forte storico costruito nel 1387 nel centro della città meridionale di Khan Younis, è stato danneggiato quando è stato bombardato il vicino edificio del comune. Anche il Monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm el-Amr vicino a Deir al-Balah, che risale a più di 1600 anni fa, e la Casa Al-Ghussein di Gaza City, un edificio storico risalente al tardo periodo ottomano, sono stati entrambi danneggiati quando sono state bombardate delle zone nelle vicinanze.

L’Euro-Med Human Rights Monitor, con sede a Ginevra, ha accusato Israele di “prendere di mira chiaramente e intenzionalmente tutte le strutture storiche della Striscia di Gaza”. Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza ha affermato lo stesso in un comunicato stampa di fine dicembre: “L’occupazione sta deliberatamente commettendo un massacro contro i siti storici e archeologici della città vecchia di Gaza, assassinando la storia e le tracce delle civiltà che sono passate attraverso la Striscia di Gaza per migliaia di anni.”

Tale distruzione, mirata o meno, costituisce una violazione della Convenzione dell’Aja del 1954, che mira a proteggere il patrimonio culturale sia in tempo di pace che in guerra. Al-Amassi spera che l’Autorità Palestinese includa queste violazioni nella sua petizione alla Corte Penale Internazionale.

Una decisa accelerazione di pratiche consolidate

Come hanno sottolineato numerosi ricercatori, la distruzione in corso a Gaza è in linea con la lunga storia delle pratiche di cancellazione e appropriazione israeliane. Eyad Salim, storico e ricercatore archeologo di Gerusalemme, ha elencato diversi siti del patrimonio che sono stati distrutti dalle forze israeliane dopo la Nakba del 1948.

Nei villaggi palestinesi distrutti nel 1948, le moschee, i santuari islamici e i siti del patrimonio culturale furono chiusi, distrutti o convertiti in sinagoghe”, ha detto. “Si tratta di una lunga e ampia questione .”

Altri esempi includono la distruzione dei quartieri Sharaf e Mughrabi insieme a molte tombe di musulmani giusti nella Città Vecchia di Gerusalemme all’indomani della guerra del 1967 al fine di creare una piazza di fronte al Muro del Pianto. Salim sottolinea che vari enti statali israeliani – l’esercito, l’Autorità per le Antichità e l’Amministrazione Civile – hanno tutti avuto un ruolo in questa distruzione e appropriazione.

Per attuare il piano di costruire il suo ‘Stato ebraico’, Israele deve confrontarsi con sfide identitarie, geografiche e demografiche”, ha continuato. “Quindi attribuisce a sé le città, i villaggi, i punti di riferimento urbani, la moda, il cibo, l’artigianato e le industrie tradizionali [palestinesi] promuovendoli nei forum internazionali e utilizzandoli come parte del suo progetto giudaizzante”.

Gran parte di questa obliterazione avviene in modo subdolo, semplicemente rendendo difficile la sopravvivenza delle istituzioni del patrimonio culturale palestinese. Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme, ha spiegato Salim, dove il Comune applica tasse irragionevolmente elevate, sorveglia le istituzioni culturali, richiede arbitrariamente informazioni, blocca i finanziamenti, minaccia chiusure e vieta qualsiasi segnale di sostegno ufficiale del governo palestinese ad istituzioni in Gerusalemme.

Ciò a cui stiamo assistendo attualmente a Gaza, tuttavia, è una forte accelerazione nella cancellazione del patrimonio palestinese da parte di Israele. E la rapida distruzione di così tanti siti preziosi durante le prime settimane di guerra ha innestato rapidamente una grande preoccupazione per gli archeologi e i ricercatori di tutto il mondo arabo.

L’11 e il 12 novembre l’Egitto ha ospitato la XXVI Conferenza Internazionale della Lega degli Archeologi Arabi, incentrata sulla solidarietà con il popolo di Gaza.

A rappresentare la Palestina c’era Husam Abu Nasr, uno storico di Gaza che stava accompagnando sua madre in Egitto per cure mediche quando è scoppiata la guerra. Abu Nasr ha presentato un rapporto sui musei della Striscia che fino a quel momento erano stati danneggiati dalla guerra, e la Lega ha istituito un fondo per sostenere la ricostruzione e il restauro di tutti i siti e le istituzioni del patrimonio, così come di tutte le istituzioni educative che sono state distrutte a Gaza. Ha anche promesso di fornire consulenza sugli sforzi di ripristino quando la guerra finirà.

Prendendo di mira edifici e siti storici, archeologi, accademici e i ricercatori, Israele cerca di cancellare l’identità palestinese e in particolare l’identità di Gaza, per renderla priva di storia e civiltà”, ha detto Abu Nasr a +972. “Israele vuole cancellare la nostra memoria nazionale, promuovere la distorsione dei fatti e combattere la narrativa palestinese”. Ciò, ha sottolineato, costituisce una violazione del diritto internazionale e umanitario.

Dando una prospettiva alla distruzione del patrimonio di Gaza da parte di Israele, Taha ha sottolineato che “le vite umane sono la cosa più importante, e nulla viene prima di esse. Ma allo stesso tempo preservare e proteggere il patrimonio e la cultura è parte integrante della protezione delle persone e della loro anima.

Non solo i palestinesi di Gaza, ma l’umanità intera subirà una grande perdita se Israele continuerà a distruggere il patrimonio culturale della Striscia di Gaza senza affrontarne le conseguenze”.

In una dichiarazione a +972, il portavoce dell’IDF ha affermato: “L’IDF evita il più possibile i danni alle antichità e ai siti storici. Come documentato e presentato dall’IDF durante la guerra, l’assimilazione e l’utilizzo di Hamas dell’ambiente civile avviene su vasta scala ed è senza precedenti.

“Hamas utilizza sistematicamente edifici pubblici che servono a scopi civili, compresi edifici governativi, istituzioni educative, istituzioni mediche, edifici religiosi e siti del patrimonio”, continua la dichiarazione. “Nell’ambito della distruzione delle capacità militari di Hamas, esiste, tra le altre cose, la necessità operativa di distruggere o attaccare le strutture in cui l’organizzazione terroristica colloca un’infrastruttura di combattimento. Ciò include le strutture che Hamas ha regolarmente riconvertito per combattere. L’IDF è impegnata nel rispetto del diritto internazionale e agisce in base ad esso e ai valori dell’IDF”.

Ibtisam Mahdi è una giornalista freelance di Gaza specializzata in reportage su questioni sociali, in particolare riguardanti donne e bambini. Lavora anche con organizzazioni femministe a Gaza per reportage e comunicazioni.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’arte dei bambini palestinesi mette in luce il genocidio culturale israeliano

Ramzy Baroud

7 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il seguente messaggio di testo racconta l’intera storia di ciò per cui le comunità filo-palestinesi di tutto il mondo stanno combattendo e contro cui combattono i filo-israeliani: “Siamo lieti di annunciare che il Chelsea e il Westminster Hospital ha rimosso un’esposizione di opere d’arte disegnate da bambini provenienti da Gaza”.

Questo è il riassunto di una notizia pubblicata sulla homepage del gruppo lobbista filo-israeliano UK Lawyers for Israel [Avvocati Britannici per Israele, ndt.] (UKLFI). L’associazione è accreditata – se credito è la parola giusta – come lo schieramento che è riuscito a convincere l’amministrazione di un ospedale nella zona ovest di Londra a rimuovere alcune opere d’arte create dai bambini rifugiati nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Per spiegare la logica alla base della loro incessante campagna per la rimozione dell’arte dei bambini, UKLFI ha affermato che i “pazienti ebrei” in ospedale “si sentivano vulnerabili e colpevolizzati dall’esibizione”. Le poche opere d’arte raffiguravano la Cupola della Roccia nella Gerusalemme Est occupata, la bandiera palestinese e altri simboli che non dovrebbero realmente “colpevolizzare” nessuno. L’articolo dell’ UKLFI è stato successivamente modificato, con la rimozione del riassunto offensivo, sebbene sia ancora accessibile sui social media.

Per quanto ridicola possa sembrare questa storia, in realtà è l’essenza stessa della campagna anti-palestinese lanciata da Israele e dai suoi alleati in tutto il mondo. Mentre i palestinesi si battono per i diritti umani fondamentali, la libertà e la sovranità come sancito dal diritto internazionale, il campo filo-israeliano si batte per la totale cancellazione di tutto ciò che è palestinese.

Alcuni chiamano ciò genocidio o etnocidio culturale. Sebbene i palestinesi abbiano familiarità con questa pratica israeliana in Palestina sin dall’inizio dello stato di occupazione, i confini della guerra sono stati ampliati per raggiungere qualsiasi parte del mondo, specialmente nell’emisfero occidentale.

La disumanità dell’UKLFI e dei suoi alleati è abbastanza palpabile, ma l’associazione non può essere l’unica da biasimare. Quegli avvocati non sono che la continuazione di una cultura coloniale israeliana che osserva l’esistenza stessa di un popolo palestinese, inclusa l’arte dei bambini rifugiati, attraverso una visione politica, come una “minaccia esistenziale” per lo stato di occupazione.

Il rapporto tra l’esistenza stessa di un Paese e l’arte dei bambini può sembrare assurdo, – e lo è – ma ha una sua, seppur strana, logica: finché questi bambini profughi si riconosceranno come palestinesi continueranno a vedere se stessi, ed essere considerati da altri, come parte di un tutto più grande, il popolo palestinese. Questa autoconsapevolezza e il riconoscimento da parte di altri – per esempio, pazienti e personale di un ospedale di Londra – di questa identità palestinese collettiva, rende difficile, di fatto impossibile, per Israele vincere.

Per palestinesi e israeliani la vittoria significa due cose completamente diverse, che sono conciliabili. Per i palestinesi la vittoria significa libertà per il popolo palestinese e uguaglianza per tutti. Per Israele la vittoria può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione dei palestinesi sul piano geografico, storico, culturale e sulla base di ogni altro aspetto che potrebbe costituire parte dell’identità di un popolo.

Purtroppo il Chelsea and Westminster Hospital assume ora una parte attiva in questa tragica cancellazione dei palestinesi, allo stesso modo in cui nel 2018 Virgin Airlines [compagnia aerea privata britannica, ndt.] ha ceduto alle pressioni quando ha accettato di rimuovere il “cuscus di ispirazione palestinese” dal suo menu. All’epoca questa storia sembrò un bizzarro episodio del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”, anche se in realtà la vicenda rappresentava il nucleo stesso di questo “conflitto”.

Per Israele la guerra in Palestina ruota attorno a tre finalità fondamentali: acquisire terra; cancellare le persone; riscrivere la storia. Il primo obiettivo è stato in gran parte raggiunto attraverso un processo di pulizia etnica e di folle colonizzazione della Palestina dal 1947-48. L’attuale governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu spera solo di portare a termine questo processo. Il secondo compito va oltre la pulizia etnica, perché anche la semplice consapevolezza della loro identità collettiva da parte dei palestinesi, ovunque si trovino, costituisce un problema. Da qui il processo attivo del genocidio culturale. E sebbene Israele sia riuscito a riscrivere la storia per molti anni, questo compito viene ora sfidato, grazie alla tenacia dei palestinesi e dei loro alleati e al potere delle reti sociali e digitali.

I palestinesi sono senza dubbio i maggiori beneficiari dello sviluppo dei media digitali. Questi hanno contribuito al decentramento delle narrazioni politiche e persino storiche. Per decenni la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di cosa rappresentino “Israele” e “Palestina” nell’immaginario dominante è stata ampiamente controllata attraverso una specifica narrazione approvata da Israele. Coloro che deviavano da questa narrazione venivano attaccati ed emarginati, e quasi sempre accusati di “antisemitismo”. Sebbene queste tattiche siano ancora scatenate contro i critici di Israele, il risultato non è più garantito.

Ad esempio, un singolo tweet che descrive la “gioia” dell’UKLFI ha ricevuto oltre 2 milioni di visualizzazioni su Twitter. Milioni di britannici indignati e utenti di social media in tutto il mondo hanno trasformato quella che doveva essere una vicenda locale in uno degli argomenti riguardanti Palestina e Israele più discussi in tutto il mondo. Com’era prevedibile, non molti utenti dei social media hanno condiviso la “gioia” dell’ UKLFI, costringendo così il gruppo di pressione a riformulare l’articolo originale. Ancora più importante, in un solo giorno milioni di persone sono venuti a conoscenza di un argomento completamente nuovo su Palestina e Israele: la cancellazione culturale. La “vittoria” si è trasformata in un’assoluta figuraccia per la lobby filo-israeliana, forse addirittura una sconfitta.

Grazie alla crescente popolarità della causa palestinese e all’impatto dei social media, le iniziali vittorie israeliane quasi sempre gli si ritorcono contro. Un altro esempio recente è stato il licenziamento e la rapida reintegrazione dell’ex direttore di Human Rights Watch [una delle principali ong per i diritti umani, ndt.] (HRW), Kenneth Roth. A gennaio, il dottorato di Roth presso la Kennedy School dell’Università di Harvard è stata revocato a causa del rapporto di HRW che definisce Israele un regime di apartheid. Un’importante campagna avviata da piccole organizzazioni di media alternativi ha portato in pochi giorni alla reintegrazione di Roth. Questo e altri casi dimostrano che criticare Israele non determina più la fine di una carriera, come spesso accadeva in passato.

Israele continua ad impiegare tattiche obsolete per controllare il confronto e la narrazione sulla sua occupazione della Palestina. Sta fallendo perché quelle tattiche tradizionali non possono più funzionare in un mondo moderno in cui l’accesso alle informazioni è decentrato e dove nessuna censura può controllare il confronto. Per i palestinesi questa nuova realtà è un’opportunità per ampliare la loro rete di sostegno in tutto il mondo. Per Israele la missione è fragile, soprattutto quando le vittorie iniziali possono diventare in poche ore sconfitte totali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)