Attraverso gli occhi di chi è bendato: uno sguardo alle violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi

Samah Jabr

3 luglio 2024 – Middle East Monitor

Di recente sulle reti sociali sono comparsi molti video inquietanti di palestinesi bendati. Uno di questi mostra soldati israeliani nella Cisgiordania occupata che obbligano palestinesi arrestati e bendati ad ascoltare in continuazione per otto ore una canzoncina per bambini, “Meni Meni Meni Mamtera”. Questo video è diventato virale, scatenando la tendenza su Tik Tok per cui israeliani si prendono gioco dei detenuti palestinesi rievocando quella scena. Persino Yinon Magal, ex- parlamentare [del partito di estrema destra Casa Ebraica, ndt.] della Knesset e conduttore di programmi televisivi, ha partecipato a questa attività con i suoi bambini.

Avendo lavorato per quasi vent’anni con vittime palestinesi di tortura, posso testimoniare direttamente le gravissime conseguenze di tali pratiche. Bendare e incappucciare sono prassi comunemente utilizzate da esercito, polizia e investigatori israeliani durante la detenzione e gli interrogatori. Spesso messe in atto insieme alla tortura, queste pratiche rendono quasi impossibile per le vittime identificare i propri torturatori, impedendo di conseguenza i tentativi di denuncia. Questi atti sono diventati sempre più sfrontati, in quanto si svolgono spesso davanti a telecamere durante le azioni genocide che attualmente avvengono a Gaza. Molti detenuti raccontano di essere stati isolati dal loro contesto durante buona parte, quando non tutto il tempo passato in detenzione. Questa prassi riprovevole solleva gravi preoccupazioni legali, etiche e psicologiche.

Bendare gli occhi, in quanto metodo di deprivazione sensoriale, è particolarmente dannoso. Ha profonde conseguenze psicologiche e fisiologiche, sia a breve che a lungo termine, tra cui danni alla vista, traumi, ansia, attacchi di panico, disorientamento, problemi cognitivi e allucinazioni. La deprivazione sensoriale accentua la differenza di potere tra la vittima con gli occhi bendati e chi interroga, amplificando la sensazione di vulnerabilità, paura e impotenza. A causa di tale impedimento la vittima dipende maggiormente da altri sensi, che intensificano la sofferenza fisica e l’impatto dell’interrogatorio.

L’isolamento può portare ad accentuare lo stress e la disperazione, aumentando la possibilità che l’individuo fornisca informazioni o si adegui alle richieste di chi lo interroga. Questi risultati sono coerenti con la nostra conoscenza clinica secondo cui la deprivazione sensoriale può portare a gravi problemi di salute mentale e a conseguenze traumatiche.

Questa tecnica serve anche a disumanizzare la vittima. Gli investigatori impediscono il contatto visuale delle vittime con il loro contesto e con gli stessi investigatori, riducendone la sensazione di identità personale, soggettività e libero arbitrio, rendendo più facile per chi interroga esercitare il controllo. Il metodo accentua nella vittima la sensazione di disorientamento, oggettificazione e suggestionabilità. Questa deliberata deprivazione sensoriale intende creare un contesto in cui è più probabile che la vittima soccomba alle pressioni durante l’interrogatorio.

Molte delle vittime di tortura che ho esaminato e che durante la detenzione hanno subito settimane di deprivazione sensoriale, tra cui il bendaggio degli occhi, hanno descritto sintomi di dissociazione. Possono vivere esperienze di depersonalizzazione, una sensazione di irrealtà e un profondo distacco dal loro contesto; questi sintomi possono persistere anche quando la deprivazione visiva finisce e possono avere un impatto profondo sulla loro salute mentale. Altri hanno iniziato ad aver paura del buio e non riescono ad addormentarsi spontaneamente.

Mentre gli israeliani sostengono che bendare [i detenuti] è una misura efficace legata alla sicurezza, sappiamo che metodi psicologici estremi spesso forniscono informazioni inattendibili. Sotto costrizione è più probabile che le persone forniscano dichiarazioni false o esagerate.

Penso che bendare gli occhi serva senza dubbio a proteggere i soldati israeliani dallo sguardo dei palestinesi e da ogni possibilità di contatto visivo con le persone che stanno interrogando. Questa separazione dall’aspetto umano delle azioni israeliane è un meccanismo di difesa psicologico, e consente ai soldati di tenere una distanza emotiva dall’impatto del loro comportamento. Essa può contribuire a un più complessivo processo di disumanizzazione attraverso cui i soldati diventano insensibili al costo umano delle loro azioni. Studi sulla psicologia dei militari indicano che tale distacco può portare a una maggiore aggressività e probabilità di commettere violazioni dei diritti umani.

È fondamentale riconoscere che l’uso di bendare gli occhi e della tortura è generalmente definito una violazione dei diritti umani. Ma non possiamo dimenticare quello che abbiamo visto, anche quando Israele sta cercando di bendare gli occhi del mondo per non fargli vedere le sue azioni genocide e di ammanettare l’opinione pubblica internazionale perché non condanni queste azioni. I palestinesi chiedono alla comunità internazionale di fissare lo sguardo su Israele e chiedere conto a quanti perpetrano tali pratiche. Solo opponendoci a queste violazioni possiamo proteggere la nostra visione dei diritti umani e conservare la prospettiva di un mondo migliore.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La campagna diffamatoria contro la sinistra francese sa di disperazione

David Cronin

25 giugno 2024 – The Electronic Intifada

In Francia il razzismo contro i palestinesi è accettato.

Yonathan Arfi del CRIF [Conseil Représentatif des Institutions juives de France] la più importante organizzazione filo-israeliana a Parigi ha dichiarato allinizio di questanno che non esiste alcuna equivalenza morale tra le vittime collaterali, civili, che non sono state deliberatamente prese di mira, e le vittime del terrorismo”.

Il messaggio è chiaro: per Arfi le vite dei palestinesi non contano.

Lungi dallessere messo da parte per il palese fanatismo e l’atteggiamento sprezzante nei confronti del genocidio che Israele sta perpetrando a Gaza, Arfi e la sua organizzazione intrattengono ancora rapporti cordiali con l’élite al potere francese. A maggio pochi mesi dopo lo spregevole commento di Arfi Gabriel Attal, il primo ministro francese, ha partecipato alla cena annuale del CRIF.

Attal in quell’occasione ha cercato di compiacere i suoi ospiti inveendo contro il partito di sinistra La France Insoumise (LFI).

Diffamare quel partito costituisce un pensiero fisso della lobby filo-israeliana. E nellattuale stagione elettorale le calunnie sono state implacabili.

Arfi è andato fuori di sé quando qualche settimana fa Rima Hassan ha vinto un seggio per LFI al Parlamento Europeo.

Hassan ha trascorso la sua prima infanzia in un campo profughi palestinese vicino alla città siriana di Aleppo prima di trasferirsi in Francia all’età di 10 anni. È stata soprannominata Lady Gazaper la sua energica protesta contro lattuale genocidio.

Quando recentemente ad Arfi è stato chiesto alla radio se considerava la sua elezione al Parlamento europeo un pericolo per gli ebrei, ha risposto sì”.

Arfi non ha prodotto alcuna prova che Hassan rappresenti un pericolo del genere. Invece, ha potenzialmente messo a rischio Hassan sostenendo (ancora una volta senza prove) che lei sarebbe una portavoce di Hamas e che seguirebbe una cultura di violenza politica”.

Domenica prossima [domenica 30 giugno, ndt.] gli elettori francesi si recheranno alle urne per il primo turno delle elezioni dell’Assemblea Nazionale.

Arfi ha affermato che i frequenti riferimenti alla Palestina fatti da La France Insoumise nella sua campagna creano un clima estremamente dannosoper gli ebrei.

La France Insoumise ha stretto un patto elettorale con altri partiti per presentare un fronte comune contro il Raggruppamento Nazionale di estrema destra di Marine Le Pen.

La sola idea che LFI potesse far parte di quel fronte al fianco di partiti considerati più moderati ha rappresentato un anatema per Arfi, che ha anche sostenuto che LFI starebbe promuovendo lodio verso gli ebrei per fini elettorali.

La settimana scorsa Arfi ha affermato che il principale carburante dellantisemitismo dal 7 ottobre è lodio per Israele, che viene strumentalizzato. In precedenza aveva puntualizzato che le generazioni più giovani sarebbero più ricettive allodio per Israele.

Attraverso tali accuse Arfi rivela le sue vere paure.

Israele potrebbe essere percepito come un alleato dalla Francia e da altri governi dellUnione Europea. Tuttavia, il diffuso disgusto nellopinione pubblica nei confronti del genocidio di Gaza rivela come le fondamenta su cui è costruita lalleanza siano sempre più traballanti.

I sostenitori di Israele non oserebbero ammettere che il disgusto sia una risposta diretta alla barbarie di Israele. Quindi devono denigrare chiunque dimostri solidarietà verso i palestinesi descrivendoli come antisemiti.

Tali tattiche saranno familiari a coloro che hanno seguito il modo in cui la lobby filo-israeliana ha creato una crisi di antisemitismoin Gran Bretagna quando Jeremy Corbyn era a capo del partito laburista di quel Paese. Le calunnie contro LFI e il suo più noto rappresentante Jean-Luc Mélenchon sono praticamente identiche a quelle affrontate da Corbyn.

Tuttavia, mentre Corbyn ha cercato una conciliazione con i bulli filo-israeliani, finora LFI li ha contrastati. Si spera che continui a farlo.

David Cronin è un co-redattore di The Electronic Intifada. Tra i suoi libri Balfours Shadow: A Century of British Support for Zionism [L’ombra di Balfour: un secolo di appoggio britannico al Sionismo, ndt.] e Israel and Europes Alliance with Israel: Aiding the Occupation [Israele e l’alleanza europea: un aiuto all’occupazione, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sotto le macerie, imprigionati, sepolti” – a Gaza scomparsi 20.000 minori

Redazione di Palestine Chronicle

25 giugno 2024 – The Palestine Chronicle

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

Secondo lorganizzazione non governativa internazionale Save the Children a Gaza oltre 20.000 minori palestinesi risultano dispersi a causa dell’incessante attacco israeliano contro la Striscia.

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

In una dichiarazione rilasciata lunedì lorganizzazione benefica con sede nel Regno Unito ha descritto le difficoltà nell’impegno di raccolta e verifica delle informazioni nell’attuale situazione di Gaza, dove continuano gli attacchi terrestri e aerei israeliani.

Lorganizzazione stima che vi siano almeno 17.000 minori non accompagnati e separati dalle loro famiglie, circa 4.000 probabilmente intrappolati sotto le macerie e un numero imprecisato di sepolti in fosse comuni.

“Altri sono stati fatti scomparire con la forza, compreso un numero indefinito di minori arrestati e trasferiti forzatamente fuori da Gaza e la loro ubicazione è sconosciuta alle loro famiglie con denunce di maltrattamenti e torture”, dichiara Save the Children.

Le famiglie sono torturate sulla mancanza di notizie rispetto all’ubicazione dei i loro cari. Nessun genitore dovrebbe essere costretto a scavare tra le macerie o nelle fosse comuni nel tentativo di trovare il corpo del proprio figlio”, afferma Jeremy Stoner, direttore regionale di Save the Children per il Medio Oriente.

Nessun bambino dovrebbe trovarsi solo, senza protezione in una zona di guerra. Nessun bambino dovrebbe essere detenuto o tenuto in ostaggio”, aggiunge.

Genocidio a Gaza

Dal 7 ottobre Israele sta conducendo una guerra devastante contro Gaza e oggi è sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio nei confronti dei palestinesi.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza nel genocidio israeliano in corso dal 7 ottobre 37.626 palestinesi sono stati uccisi e 86.098 feriti.

Inoltre in tutta la Striscia almeno 7.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case.

Organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e minori.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con la morte di molti palestinesi, soprattutto minori.

Laggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone provenienti da tutta la Striscia di Gaza, costretti nella stragrande maggioranza a rifugiarsi nella sovraffollata città meridionale di Rafah, vicino al confine con lEgitto – in quello che è diventato il più grande esodo di massa dei palestinesi dalla Nakba del 1948.

Israele afferma che il 7 ottobre durante loperazione Al-Aqsa sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che rivelano come quel giorno molti israeliani siano stati uccisi dal fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Manifestanti pro-Palestina bloccano il porto italiano di Genova

Redazione di Middle East Monitor

25 giugno 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì attivisti solidali con la Palestina hanno inscenato una protesta al porto di Genova, nel Nord Italia, contro una consegna di armi ad Israele.

Martedì mattina presto i manifestanti, che comprendevano associazioni della società civile e sindacati dei portuali, hanno bloccato il porto in solidarietà con i palestinesi della Striscia di Gaza.

L’agenzia di stato italiana ANSA ha riferito che oltre 500 manifestanti hanno impedito il passaggio di camion che trasportavano container che dovevano essere caricati sulle navi.

I gruppi hanno criticato la fornitura di armi a Israele e hanno sostenuto che il porto di Genova è un punto di transito per le armi usate nel “massacro” dei palestinesi.

Un gruppo chiamato “giovanipalestinesi” ha scritto su Instagram che i container in arrivo al porto sono stati bloccati martedì mattina alle 6 ore locali.

Il gruppo ha aggiunto: “Sappiamo molto bene che la macchina da guerra comincia dalla logistica che invia armi, munizioni e tecnologia che hanno causato il genocidio del nostro popolo.”

Dall’incursione di Hamas oltre il confine del 7 ottobre 2023 che ha provocato 1.200 vittime, Israele ha ucciso più di 37.600 palestinesi. Il massacro ha ridotto il territorio in macerie e ha provocato una carestia.

Tuttavia da allora Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che elicotteri e carri armati dell’esercito israeliano hanno di fatto ucciso molti del 1.139 soldati e civili che Israele ha dichiarato essere stati ammazzati dalla resistenza palestinese.

Avendo violato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un immediato cessate il fuoco, Israele ha dovuto affrontare una condanna internazionale a fronte della sua continua e brutale offensiva a Gaza [iniziata] dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Israele è accusato di genocidio dalla Corte Internazionale di Giustizia, che con la sua ultima sentenza ha ordinato a Tel Aviv di fermare immediatamente le sue operazioni nella città meridionale di Rafah, dove un milione di palestinesi aveva cercato rifugio dalla guerra prima che fosse invasa il 6 maggio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il crollo del sionismo

Ilan Pappé

21 giugno 2024-The New Left Review

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già a farsi vedere, ma ora sono visibili fin dalle fondamenta. A più di 120 anni dalla sua nascita il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe essere di fronte alla prospettiva del collasso? Storicamente una pluralità di fattori può causare il capovolgimento di uno stato. Può derivare da continui attacchi da parte dei paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può derivare dal crollo delle istituzioni pubbliche che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che acquista slancio e poi, in un breve periodo di tempo, fa crollare strutture che una volta apparivano solide e stabili.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. Qui sosterrò che questi sono più chiari che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, all’inizio di uno – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, allora stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché una volta che Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano nei suoi ultimi giorni.

1.

Un primo indicatore è la frattura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due schieramenti rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dalle anomalie nel definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre a volte l’identità ebraica in Israele è sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Questa lotta viene combattuta non solo nei media ma anche nelle strade.

Un campo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende ebrei europei più laici, liberali e soprattutto, ma non esclusivamente, appartenenti alla classe media e ai loro discendenti, che furono determinanti nella creazione dello Stato nel 1948 e rimasero egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non lasciatevi fuorviare, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non influisce sulla loro adesione al sistema di apartheid che viene imposto in vari modi a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista dalla quale gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo “Stato della Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode ​​di livelli crescenti di sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza ai vertici dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato della Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estenda su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo è determinato a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri credono che ciò consentirà loro di rinnovare l’era d’oro dei Regni Biblici. Per loro se gli ebrei laici rifiutano di unirsi a questo sforzo essi sono eretici quanto i palestinesi.

I due campi avevano cominciato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane dopo l’assalto sembravano accantonare le loro divergenze di fronte a un nemico comune. Ma questa era un’illusione. Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile vedere cosa potrebbe portare alla riconciliazione. Il risultato più probabile si sta già svolgendo davanti ai nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, appartenenti alla fazione “Stato di Israele”, hanno lasciato il Paese da ottobre, segno che il Paese viene inghiottito dallo “Stato di Giudea”. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.

2.

Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a conflitti armati perpetui, oltre a diventare sempre più dipendente dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire questa situazione. Al contrario la congiuntura economica non potrà che peggiorare se Israele porterà avanti la sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah e allo stesso tempo intensificherà l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare misure economiche sanzionatorie.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che incanala costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra per il resto incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo “Stato di Israele” e lo “Stato di Giudea”, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta portando alcune élite economiche e finanziarie a spostare i propri capitali fuori dallo Stato. Coloro che stanno pensando di delocalizzare i propri investimenti costituiscono una parte significativa del 20% degli israeliani che pagano l’80% delle tasse.

3.

Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele che sta gradualmente diventando uno stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era riuscito a galvanizzare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a promuovere la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi [occidentali, n.d.t.] il sostegno a Israele è rimasto incrollabile tra l’establishment politico ed economico.

In questo contesto le recenti decisioni della CIG e della CPI – secondo cui: è plausibile che Israele stia commettendo un genocidio; esso deve fermare la sua offensiva a Rafah; i suoi leader potrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di tenere conto delle opinioni della società civile mondiale, invece di riflettere semplicemente l’opinione delle élite. I tribunali non hanno attenuato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che provengono sempre più sia dall’alto che dal basso.

4.

Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambiamento epocale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi molti ora sembrano disposti ad abbandonare il loro legame con Israele e con il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’efficace immunità contro le critiche. La perdita, o almeno la perdita parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora fare affidamento sui sionisti cristiani per assistere e puntellare i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.

5.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Eppure i suoi limiti sono stati messi in luce il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito all’ attacco in modo coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di fare disperatamente affidamento su una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni oltre a missili balistici e guidati. Oggi più che mai il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud.

C’è ora tra la popolazione ebraica del paese una percezione diffusa dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarne a migliaia. Ciò difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito – che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.

6.

L’ultimo indicatore è la rinnovata energia delle giovani generazioni di palestinesi. Queste sono molto più unite, organicamente connesse e chiare riguardo alle loro prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo questa nuova fascia di età avrà un’enorme influenza nel corso della lotta di liberazione. Le discussioni che hanno luogo tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che sono preoccupati di creare un’organizzazione genuinamente democratica – o un’OLP rinnovata, o una nuova del tutto – che persegua una visione di emancipazione che è antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire una soluzione a uno Stato rispetto a uno screditato modello a due Stati.

Saranno in grado di organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Al crollo di un progetto statale non sempre segue un’alternativa più brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere i risultati. In questo caso si tratterebbe di decolonizzazione e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà postcoloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che un robusto movimento di liberazione sia lì per riempire il vuoto.

Per più di 56 anni quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative americano-israeliane alle quali si chiedeva ai palestinesi di rispondere. Oggi la “pace” deve essere sostituita con la decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione per la regione, mentre gli israeliani devono rispondere. Ciò segnerebbe la prima volta, almeno da molti decenni, in cui il movimento palestinese prenderebbe l’iniziativa di presentare le sue proposte per una Palestina postcoloniale e non sionista (o come verrà chiamata la nuova entità). Nel fare ciò, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove i gruppi religiosi secolarizzati si trasformarono gradualmente in gruppi etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che le persone accolgano l’idea o la temano, il collasso di Israele è diventato prevedibile. Questa possibilità dovrebbe orientare il dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà inserito all’ordine del giorno man mano che le persone si renderanno conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo sta lentamente giungendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora sono di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con la violenza la propria volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire i coloni dovranno abbandonare questo approccio e mostrare la loro volontà di vivere come cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le violenze che non fanno mai notizia

Adam Horowitz

23 giugno 2024 – Mondoweiss

 

Le morti quotidiane e il numero delle vittime che abbiamo conteggiato da ottobre si riferiscono solo a coloro che sono stati uccisi direttamente dall’offensiva militare israeliana. E quelli che sono stati uccisi dalla distruzione di una società? Questa è una domanda che mi ha perseguitato per mesi. Cosa è successo ai pazienti oncologici? Come hanno fatto i palestinesi con altri problemi di salute a ottenere le cure di cui hanno bisogno?

Parte della risposta è stata chiarita da una storia di Tareq Hajjaj che abbiamo pubblicato questa settimana sulle condizioni del settore medico a Gaza. I momenti di violenza più scioccanti di cui siamo stati testimoni nei passati 8 mesi, l’assedio degli ospedali, il massacro dei palestinesi che cercavano di ricevere aiuti, lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di persone sotto la minaccia delle armi sono solo la punta dell’iceberg della violenza a cui sono stati sottoposti i palestinesi di Gaza.

Tareq racconta la storia di Nabil Kuhail, un paziente di 3 anni affetto da leucemia che semplicemente non ha potuto ricevere le cure mediche necessarie perché gli ospedali di Gaza sono stati distrutti. “La storia di Nabil è una di tante,” scrive Tareq. “Sono innumerevoli i pazienti che lottano per avere i trattamenti per varie malattie, quelle comuni spesso più mortali di quelle serie.”

Tale distruzione della vita palestinese è la prova dell’intento genocida di Israele a Gaza. E, come Jonathan Ofir ci ha aiutato a confermare questa settimana, il sostegno per queste politiche si estende a tutto lo spettro politico israeliano, inclusi quelli spesso lodati in Occidente come i campioni più progressisti della “democrazia” israeliana.”

Naturalmente questa violenza quotidiana che i palestinesi affrontano oltre a quella riportata nei titoli dei giornali non è solo nella Striscia di Gaza. Shatha Hanaysha ci ha riferito del caso di sadismo dei soldati israeliani che hanno usato un palestinese ferito come scudo umano durante un attacco a Jenin in Cisgiordania questo fine settimana. 

Shatha racconta:

Un testimone oculare che preferisce rimanere anonimo ha detto a Mondoweiss che i soldati israeliani hanno deliberatamente maltrattato il ferito.

Sembrava che lo facessero per divertirsi,” ha detto il testimone, aggiungendo che l’uomo non era né ricercato né un combattente della resistenza, ma un civile disarmato. Ciò era evidente dal fatto che i militari israeliani non l’hanno arrestato, ma l’hanno consegnato all’ambulanza palestinese dopo che era rimasto legato sul cofano del veicolo per parecchi minuti nel caldo estivo.

Questa storia probabilmente non arriverà sulle testate internazionali ma ci dice di più sulla realtà dell’occupazione israeliana e l’apartheid che testimoniano molte relazioni sui diritti umani. 

E le minacce di violenza sembrano solo aumentare. Leggete questa relazione di Qassam Muaddi sulla crescente minaccia di un attacco israeliano su larga scala contro il Libano. Come chiarisce Qassam, probabilmente spetterà all’amministrazione Biden fermare un attacco israeliano che potrebbe avere conseguenze regionali gigantesche e devastanti. Sfortunatamente sembra che gli USA non vogliano opporsi a Israele. 

Tuttavia gli sforzi della politica statunitense continuano con molti occhi puntati sulle imminenti elezioni USA. Questa settimana Michael Arria ha delineato due importanti tentativi di sfidare lo status quo politico. 

Da quando la campagna “Uncommitted” per esprimere disapprovazione verso l’amministrazione Biden ha cominciato a comparire a sorpresa sui titoli dei giornali durante le primarie del partito Democratico la domanda è: cosa succederà dopo? Questa settimana Michael ha parlato con Lexis Zeidan, co-direttore di Listen to Michigan, per scoprirlo. Michael ha anche parlato con Usamah Andrabi, portavoce di Justice Democrats, sulla coalizione Reject AIPAC [Contro AIPAC, principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] per un podcast di Mondoweiss. Per favore, prestategli ascolto.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gaza: la causa avviata dalla società civile presso la Corte Penale Internazionale contro Ursula von der Leyen alza la posta in gioco sulla complicità nel genocidio

Richard Falk

6 giugno 2024-Middle East Eye

Molti esperti sollecitano la Corte Penale Internazionale ad indagare la Presidente della Commissione Europea sul suo presunto sostegno all’assalto genocida di Israele contro il popolo palestinese

Nei quasi 80 anni di esistenza delle Nazioni Unite mai prima d’ora è stata intrapresa una tale gamma di strategie giudiziarie presso i tribunali internazionali nel tentativo, finora inutile, di fermare un genocidio che continua a devastare la vita di 2,3 milioni di palestinesi a Gaza.

Da gennaio non solo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha emesso tre ordinanze provvisorie che impongono a Israele di fermare il suo “plausibile genocidio”, ma a quello Stato è stato anche ordinato di smettere di interferire con la fornitura di aiuti di emergenza ai palestinesi affamati.

Durante lo stesso periodo il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto contro i leader israeliani e di Hamas.

Questa impennata dell’attività giudiziaria internazionale arriva in mezzo alle frustrazioni delle Nazioni Unite per i tentativi falliti di imporre un cessate il fuoco mentre la guerra israeliana determina condizioni sempre più drammatiche a Gaza. Gli Stati Uniti hanno usato il veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere il loro alleato criminale dalle pressioni delle Nazioni Unite.

Israele ha reagito agli ultimi sviluppi con furia e atteggiamenti di sfida e ha goduto, seppur espresso in modo più discreto, del sostegno degli Stati Uniti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetutamente sostenuto che, alla luce dell’Olocausto, Israele non potrà mai essere accusato del crimine di genocidio, che dal 7 ottobre Israele esercita il proprio diritto all’autodifesa contro un attacco terroristico di Hamas e che i mandati di arresto proposti dalla Corte Penale Internazionale, se emessi, minerebbero la capacità delle democrazie di difendersi in futuro.

Ha anche invitato, con un certo successo, il governo degli Stati Uniti e altre Nazioni che sostengono Israele a esercitare pressioni sulla Corte Penale Internazionale affinché respinga la richiesta dal procuratore.

Massimizzare la pressione

In mezzo a tutte queste controversie legali sta diventando evidente che a Israele importa moltissimo di essere marchiato come criminale da questi tribunali che deride in quanto non avrebbero competenza per accogliere denunce sul suo comportamento.

Questa apparente contraddizione suggerisce che Israele si rende conto che il suo rifiuto di conformarsi alle sentenze di questi tribunali internazionali non cancellerà la loro influenza sull‘opinione pubblica e questo rende vitale esercitare la massima pressione per scoraggiare tali valutazioni della CIG/CPI sul presunto comportamento criminale di Israele a Gaza, in particolare per quanto riguarda il genocidio, il crimine dei crimini.

In questo contesto, alla fine del mese scorso il Geneva International Peace Research Institute [Istituto Internazionale di Ricerca sulla pace di Ginevra] (GIPRI) ha aggiunto un’ulteriore dimensione di complessità giuridica invitando la Corte Penale Internazionale a indagare sulla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per presunta “complicità nei crimini di guerra e genocidio commessi da Israele”.

Lo Statuto di Roma del 2002, che stabilisce il quadro del trattato che modella il lavoro della CPI, conferisce alle ONG e ai singoli individui il diritto, ai sensi dell’articolo 15, di portare prove di atti criminali all’attenzione del procuratore, che può decidere se le prove presentate sono sufficientemente convincenti da giustificare un’indagine.

A differenza della CIG– che si occupa di risolvere controversie legali tra Stati sovrani, funzionando come il braccio giudiziario delle Nazioni Unite – la CPI ha l’autorità di indagare, arrestare, incriminare, perseguire e punire individui giudicati da un collegio di giudici di essere colpevoli di un crimine previsto dal diritto internazionale.

Tutti i membri delle Nazioni Unite aderiscono allo statuto che governa la CIG, mentre gli Stati devono dare la loro approvazione per diventare parti della CPI e non hanno alcun obbligo di farlo – sebbene 124 Stati lo abbiano fatto, comprese le democrazie dell’Europa occidentale e la Palestina (considerata a questo fine come Stato).

Di rilievo è il fatto che né Israele né gli Stati Uniti hanno aderito allo Statuto di Roma, né lo hanno fatto Russia, Cina, India e pochi altri. Gli Stati Uniti, tuttavia, non hanno esitato a spingere la Corte Penale Internazionale ad incriminare il presidente russo Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022, opponendosi nel medesimo tempo alla sua applicabilità a Israele per la situazione di Gaza sulla base del fatto che quest’ultima non ne fa parte. (Lo Statuto di Roma conferisce alla CPI l’autorità di agire contro individui che commettono crimini nel territorio di qualsiasi Stato che aderisce al trattato, in questo caso la Palestina).

Complicità e favoreggiamento

L’iniziativa del GIPRI è interessante perché riguarda la questione relativamente trascurata della complicità o del favoreggiamento nella commissione di un crimine internazionale. Questa questione si basa sul dovere legale, incorporato nella Convenzione sul Genocidio e nello Statuto di Roma, che rende perseguibile il favoreggiamento e la complicità nei crimini in violazione del diritto umanitario internazionale.

Il Nicaragua ha avviato una denuncia di questo tipo presso la CIG contro la Germania, chiedendo un ordine di emergenza per far cessare attività che potrebbero plausibilmente essere considerate come complicità con un genocidio. L’accusa principale contro la Germania era quella di aver fornito a Israele armamenti funzionali alla condotta genocida di Israele.

Ad aprile, l’ICJ ha respinto la richiesta del Nicaragua con un voto di 15-1, affermando che le circostanze non giustificavano un ordine di emergenza. Ma la corte ha anche bocciato il tentativo della Germania di respingere la denuncia del Nicaragua per complicità: il che significa che la Corte Internazionale di Giustizia a tempo debito esaminerà le argomentazioni di entrambe le parti sul merito fattuale della controversia e alla fine raggiungerà una decisione di merito.

Al contrario l’iniziativa del GIPRI è arrivata sotto forma di una dichiarazione approvata da vari esperti di diritto internazionale, compreso il sottoscritto, consegnata al procuratore della CPI a maggio.

Anche la dichiarazione del GIPRI si basa su una ipotesi di complicità penale e di favoreggiamento, ma il bersaglio è necessariamente un individuo, Von der Leyen, piuttosto che uno Stato. Il GIPRI sostiene che il sostegno della Commissione Europea “ha avuto un effetto sostanziale sulla commissione e sulla continuazione di crimini da parte di Israele, compreso il genocidio”.

La GIPRI fa notare che questo favoreggiamento è consistito nel sostegno politico, nel materiale militare e nella mancata adozione di misure ragionevoli per prevenire il genocidio.

Comunque vada a finire l’iniziativa del GIPRI, essa illustra l’ampiezza del potenziale della Corte Penale Internazionale e mostra un tentativo della società civile di ricorrere al diritto internazionale visto il fallimento delle Nazioni Unite o del sistema intergovernativo nel prevenire e punire un genocidio così evidente.

Insieme a iniziative di solidarietà come la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e le proteste universitarie, soprattutto negli Stati Uniti, la società civile si sta rivelando un attore politico che persino Israele capisce di non poter ignorare se vuole avere qualche speranza di evitare nel lungo termine lo status di paria.

Qualunque sia la risposta della Corte Penale Internazionale a questa iniziativa del GIPRI, si tratta di un ulteriore segno che la società civile sta diventando un attore politico sulla scena globale.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali che ha insegnato all’Università di Princeton per quarant’anni. Nel 2008 è stato anche nominato dalle Nazioni Unite per un mandato di sei anni come relatore speciale sui diritti umani palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le macabre rassicurazioni USA che autorizzano il genocidio da parte di Israele

Ramona Wadi

14 maggio 2024 – Middle East Monitor

La scorsa domenica l’ambasciatore USA in Israele Jack Lew ha difeso l’azione genocida e la complicità con essa quando ha spiegato che “fondamentalmente niente è cambiato nel rapporto basilare” tra USA e Israele. Si tratta di parole che ovviamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non aveva bisogno di sentire, ma che tuttavia affermano, per quanto riguarda Washington, la superiorità della narrazione sionista sulle leggi internazionali.

Strategicamente prima del rapporto del Dipartimento di Stato, che senza dubbio è stato riempito di intenzionale inconsistenza retorica, Lew ha ricordato al mondo che gli USA hanno ritardato l’invio di un solo carico di armi. Gli USA non possono negare che le loro armi siano state utilizzate da Israele per commettere un genocidio a Gaza, ma ovviamente aggiungere la narrazione sionista come contesto del motivo per cui le armi sono state utilizzate giustifica futuri invii di armi.

In definitiva il rapporto si è basato sulla costruzione e distruzione di verità sul genocidio da parte di Israele, perché quando si tratta di Israele persino la verità è ipotetica.

“Quello che il presidente ha detto è che non pensa che sia una buona idea fare una massiccia campagna di terra in un’area densamente popolata,” Lew ha proposto come spiegazione. “Ma ha specificamente affermato che le bombe da 900 chili non dovrebbero essere utilizzate in quel contesto.” Finora, ha aggiunto Lew, l’operazione militare israeliana a Rafah non ha “oltrepassato la zona che riguarda il nostro disaccordo.” Ma ovviamente non c’è alcuna area di disaccordo tra Israele e gli USA. Neppure il genocidio. Anzi, tali macabre rassicurazioni esprimono l’autorizzazione statunitense del genocidio israeliano.

È persino peggio il fatto che Lew non stia minimizzando il blocco alla consegna delle armi da parte di Biden, ma che la realtà che sta dietro all’immagine patinata aggiunta per il consumo dei media e dell’opinione pubblica rimanga la stessa. Ciò nonostante il fatto che molta della pretesa inconcludenza del rapporto del Dipartimento di Stato, che è stato pubblicato dopo il simbolico e irrilevante gesto di Biden, abbia chiaramente denunciato una mancanza di cooperazione da parte delle autorità israeliane riguardo al fatto che siano state commesse o meno violazioni delle leggi internazionali. Dato che agli occhi degli americani le azioni di Israele non parlano da sé, nonostante la quantità di prove, e che come sempre Israele rifiuta di collaborare, gli USA non vedono alcuna ragione di sospendere permanentemente l’invio di armi allo Stato di apartheid.

Non si dimentichi che gli USA hanno invaso Paesi e creato Stati falliti in base a prove false. “Portare la democrazia” era una giustificazione sufficiente. Quando si tratta di Israele, tuttavia, le prove non sono mai sufficienti, benché continuino ad accumularsi corpi di palestinesi uccisi e l’esercito israeliano si vanti apertamente dei bombardamenti e derida i palestinesi perché non sono capaci di vivere in mezzo alla devastazione creata dall’entità israeliana colonialista di insediamento. Solo l’assoluto potere politico consente a Israele di commettere apertamente un genocidio a Gaza, mentre gli USA dicono che non ci sono prove sufficienti.

Ovviamente Rafah non porterà alcun disaccordo tra Israele e gli USA. Proprio come Israele vuole portare a termine il suo piano genocida, lo stesso fanno gli USA. Allo stesso modo l’ONU non è mai tornato sui suoi passi dopo il piano di partizione del 1947. Perché invece non creare un giorno di solidarietà per i palestinesi, in cambio del fatto di averli obbligati a diventare rifugiati, vittime di pulizia etnica e ora ad affrontare per mesi un genocidio? L’ONU ha sostenuto Israele attraverso risoluzioni che gli chiedevano di tenerne conto. Gli USA appoggiano Israele con armi e sostegno diplomatico. Sempre lo stesso, giorno dopo giorno. Si tratterebbe di uno squallido intrigo, se non fosse per il fatto che questa ripetizione significa più palestinesi uccisi da Israele solo in nome della protezione di un progetto colonialista che in primo luogo non avrebbe mai dovuto nascere.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele vuole distruggere Gaza e annettere la Cisgiordania, ma i palestinesi cosa vogliono?

Ramzy Baroud

7 maggio 2024 – Middle East Monitor

Ciò che sta succedendo nella Palestina occupata non è un conflitto fra, più o meno, uguali, ma un inequivocabile caso di occupazione militare illegale, apartheid, pulizia etnica e un vero e proprio genocidio di una parte pesantemente armata, Israele, contro un’altra largamente disarmata, i palestinesi. Coloro che insistono nell’usare un linguaggio “neutrale” per descrivere la crisi in Palestina stanno danneggiando il popolo palestinese ben oltre le loro parole apparentemente innocue.

Questo linguaggio moderato ed eticamente evasivo è quanto sta avvenendo ora a Gaza. È là che si sente di più il danno di questa “imparzialità”. “Se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto il lato dell’oppressore,” disse il defunto arcivescovo Desmond Tutu, attivista anti apartheid sudafricano. La sua saggezza è eterna.

Se in tutto il mondo la maggioranza dei Paesi e delle persone non sta di certo prendendo le parti dell’oppressore israeliano, alcuni, intenzionalmente o meno, lo fanno. Ci sono quelli che stanno prendendo le parti di Israele alimentando e finanziando direttamente la macchina omicida israeliana nella Striscia di Gaza, mentre danno la colpa ai palestinesi per la guerra e il suo devastante impatto, come se la storia fosse cominciata solo il 7 ottobre: non è così.

Tuttavia sostenere Israele non implica solo la fornitura di armi,  i legami commerciali o proteggerlo da dover dar conto delle sue azioni ai sensi del diritto internazionale. Ignorare le priorità palestinesi e mettere in evidenza il dibattito politico e le aspettative israeliane sono anche un modo di sostenere Israele denigrando la Palestina e il suo popolo.

Fin dal 7 ottobre ci si è chiesti cosa Israele voglia a Gaza. Il 7 novembre mentre prometteva di distruggere Hamas, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele doveva mantenere “la responsabilità in materia di sicurezza” sulla Striscia di Gaza per “un periodo indefinito”.

Gli americani sono d’accordo. “Non si può tornare allo status quo,” ha detto il presidente USA Joe Biden il 26 ottobre, il che “significa garantire che Hamas non possa più terrorizzare Israele e usare i civili palestinesi come scudi umani.”

Gli europei, che si sono spesso presentati come partner equidistanti tra Israele e l’Autorità Palestinese, hanno adottato un atteggiamento simile. Per esempio Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha esposto una proposta per Gaza, includendo una versione “rinforzata” dell’attuale AP, “con una legittimità da definire e decidere da parte del Consiglio di Sicurezza [ONU]” invece che del popolo palestinese.

Appena è diventato ovvio che la resistenza palestinese era troppo forte per permettere a Israele di ottenere qualcuno dei suoi nobili obiettivi, funzionari governativi, esperti e analisti dei media hanno cominciato a mettere in guardia lo Stato di occupazione che nella Striscia non era possibile nessuna vittoria militare. Essi hanno sostenuto che Israele deve anche sviluppare una strategia “realistica” per governare Gaza dopo la distruzione della resistenza. Alcune di queste affermazioni sono state applaudite persino dai media filopalestinesi, arabi e mediorientali, come un esempio del cambiamento della narrazione occidentale sulla Palestina.

In realtà, però, la narrazione è rimasta la stessa. Quello che è cambiato è il livello senza precedenti della resilienza palestinese, sumud, che ha ispirato il mondo e spaventato gli alleati di Israele sul drammatico scenario che attende Tel Aviv se le sue forze di occupazione subissero una sconfitta totale a Gaza.

Anche se molti fra gli alleati occidentali di Israele possono essere sembrati critici verso Netanyahu, essi si stanno ancora comportandosi prima di tutto perché preoccupati per Tel Aviv, senza amore né rispetto per i palestinesi. Non c’è nulla di nuovo in tutto ciò.

Dalla distruzione della patria palestinese, la Nakba avvenuta nel 1948, sono emerse due narrazioni. Quella israeliana è stata abbracciata in toto dai principali media, politici e accademici occidentali che si sono impegnati a travisare il “conflitto”. Hanno descritto Israele come uno “Stato ebraico” che lotta per sopravvivere in un mondo arabo ostile e fra interessi arabi in competizione fra loro, e i palestinesi come faziosi e disuniti che si trovano d’accordo su una cosa sola: vogliono distruggere Israele.

La narrazione palestinese è che la giustizia è indivisibile e che la pietra angolare di ogni pace durevole in Palestina è la restituzione della loro patria ai rifugiati palestinesi spossessati, tramite il loro legittimo Diritto al Ritorno, che è stato sempre negato da Israele.

Quando nel 1967 Israele ha occupato il resto della Palestina storica ed esteso il suo sistema di apartheid ai territori recentemente occupati è stato solo naturale che la fine all’occupazione militare israeliana e lo smantellamento del sistema razzista diventasse una richiesta palestinese fondamentale. Tuttavia questo è avvenuto senza ignorare l’ingiustizia originaria che ha colpito tutti i palestinesi nel 1948.

Gli alleati di Israele in occidente hanno usato l’occupazione israeliana come un’opportunità per distogliere l’attenzione dalle cause alla radice del “conflitto”. Con il tempo hanno ridotto il dibattito sulla Palestina a quello delle colonie illegali che Israele ha cominciato a costruire, violando il diritto internazionale, dopo averne completato l’occupazione militare nel 1967.

Ogni palestinese che sostenga che il problema non è per niente un “conflitto” e che la causa prima è la creazione dello Stato di Israele in Palestina, era, e continua ad essere, definito un radicale o peggio. Questo pensiero riduzionista è ora applicato a Gaza, dove ogni riferimento storico è intenzionalmente accantonato e dove il discorso politico palestinese è evitato a favore del linguaggio menzognero di Israele.

Comunque, non importa quanto spesso i media occidentali continuino a parlare del “terrorismo palestinese” e della necessità di rilasciare gli ostaggi israeliani e di dare la priorità alla sicurezza israeliana, mentre ignorando il terrorismo israeliano, i detenuti e le aspirazioni politiche palestinesi non ci sarà una soluzione di questo problema, ora o in futuro, se i diritti palestinesi non sono accettati, rispettati e soddisfatti.

Né il suo passato né il suo futuro possono essere capiti o immaginati senza comprendere la lotta palestinese in tutta la Palestina, inclusa quella dei palestinesi autoctoni dell’odierno Israele, il 20% della sua popolazione.

Questa non è un’opinione, ma la vera essenza del dibattito politico proveniente da tutti i gruppi politici di Gaza. La stessa asserzione può essere fatta circa il dibattito politico dei palestinesi in Cisgiordania, nella Palestina storica, e di quelli della diaspora, shatat.

Israele e gli USA possono provare a immaginare tutti i futuri che vogliono per Gaza, e possono anche cercare di ottenere un futuro con missili, bombe stupide [a caduta libera] e missili anti bunker. Però nessuna potenza militare o dispiegamento di armamenti può alterare la storia o ridefinire la giustizia.

In definitiva quello che Gaza vuole è il riconoscimento dell’ingiustizia storica, il rispetto del diritto internazionale, la libertà per tutti i palestinesi e che Israele venga chiamato a rispondere giuridicamente dei suoi crimini. Queste non sono affatto posizioni estreme, specialmente quando paragonate alla molto evidente politica israeliana di distruggere Gaza, annettere la Cisgiordania e portare a termine la pulizia etnica del popolo palestinese. Washington e i suoi alleati occidentali capiranno e riconosceranno mai questo fatto?

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Quasi 200 corpi trovati in una fossa comune nell’ospedale Khan Younis di Gaza

Redazione Al Jazeera

21 aprile 2024 – Al Jazeera

Le autorità palestinesi affermano che 180 corpi sono stati recuperati dal complesso ospedaliero Nasser mentre Israele continua gli attacchi mortali a Gaza.

Al Jazeera ha appreso che le squadre della protezione civile palestinese hanno scoperto una fossa comune all’interno del complesso ospedaliero Nasser a Khan Younis, a Gaza, con 180 corpi recuperati finora, mentre Israele continua il bombardamento dell’enclave costiera devastata da più di sei mesi.

La scoperta di sabato, che prosegue durante la domenica, arriva dopo che l’esercito israeliano ha ritirato le sue truppe dalla città meridionale il 7 aprile. Gran parte di Khan Younis è ora in rovina.

Domenica Hani Mahmoud di Al Jazeera riporta da Khan Younis che: “Nel cortile dell’ospedale membri della protezione civile e paramedici hanno recuperato 180 corpi, tra cui donne anziane, bambini e giovani uomini, sepolti in questa fossa comune dall’esercito israeliano”.

In una dichiarazione di sabato scorso i servizi di emergenza palestinesi hanno affermato: “Le nostre squadre continueranno le loro operazioni di ricerca e recupero dei restanti martiri nei prossimi giorni poiché ce ne sono ancora molti”.

Le identità delle persone sepolte nella fossa comune dai militari devono ancora essere determinate, e non è chiaro quando siano morte durante l’assalto israeliano.

All’inizio di questa settimana una fossa comune è stata scoperta presso l’ospedale al-Shifa dopo un assedio durato due settimane. Era una delle numerose fosse comuni trovate ad al-Shifa, la più grande struttura medica nell’enclave costiera.

Secondo i funzionari sanitari locali la guerra di Israele a Gaza ha ucciso più di 34.000 palestinesi, ha devastato le due città più grandi di Gaza e ha lasciato una scia di distruzione in tutto il territorio.

Almeno due terzi delle vittime sono minori e donne. Si dice anche che il bilancio reale sia probabilmente più alto poiché molti corpi sono rimasti bloccati sotto le macerie lasciate dagli attacchi aerei o si trovano in aree irraggiungibili per le squadre mediche.

Israele ha lanciato la sua guerra a Gaza dopo che combattenti di Hamas e altri gruppi palestinesi hanno effettuato un attacco all’interno di Israele il 7 ottobre uccidendo circa 1.139 persone e facendone prigioniere più di 200.

Israele uccide 18 minori a Rafah

Nel frattempo sono in corso attacchi israeliani nell’enclave costiera, anche nella città di Rafah, nel sud di Gaza, dove i raid notturni hanno ucciso 22 persone, tra cui 18 minori, hanno dichiarato domenica funzionari sanitari.

Secondo il vicino ospedale kuwaitiano, che ha ricevuto i corpi, il primo attacco, avvenuto domenica mattina presto, ha ucciso un uomo, sua moglie e il loro bambino di tre anni. La donna era incinta e i medici sono riusciti a salvare il bambino, ha riferito l’ospedale.

Israele ha effettuato raid aerei quasi giornalieri su Rafah dove più della metà della popolazione di Gaza, composta da 2,3 milioni di abitanti, ha cercato rifugio dai combattimenti in altre zone.

Secondo i registri ospedalieri il secondo attacco ha ucciso 17 minori e due donne tutti appartenenti alla stessa famiglia. La notte prima un attacco aereo a Rafah aveva ucciso nove persone, tra cui sei minori.

Hani Mahmoud di Al Jazeera in un reportage da Rafah ha detto che le minacce di un’imminente invasione di terra a Rafah stanno “crescendo”.

“Intere famiglie vengono prese di mira direttamente all’interno delle case residenziali in cui si rifugiano”, ha detto.

“Qualsiasi senso di sicurezza e protezione è andato in frantumi per le persone già traumatizzate dalla fuga da un luogo all’altro”.

Israele si è anche impegnato ad espandere la sua offensiva di terra nella città al confine con l’Egitto, nonostante le richieste internazionali di moderazione, anche da parte degli Stati Uniti.

Tuttavia mentre spingono per la fine delle ostilità della guerra che si protrae da sei mesi gli Stati Uniti continuano le forniture di armi a Israele. Sabato la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, con un ampio sostegno bipartisan, ha approvato un pacchetto legislativo da 95 miliardi di dollari che fornisce assistenza in materia di sicurezza a Ucraina, Israele e Taiwan.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)