La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sul “plausibile genocidio” a Gaza: una vittoria incompleta

Jeff Halper

29 gennaio 2024 Counterpunch

Qualsiasi valutazione sulla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio deve iniziare con un applauso per le sue delibere secondo cui (1) le azioni militari di Israele a Gaza rientrano nelle definizioni della Convenzione sul Genocidio; (2) che i palestinesi sono effettivamente un gruppo distinto che si trova a subire il crimine di genocidio e (3) che l’affermazione del Sudafrica sul coinvolgimento israeliano in un “plausibile genocidio” è valida, il che significa che la Corte inizierà a processare Israele per genocidio. Si tratta di un processo che richiederà diversi anni ma è estremamente importante.

Gli stessi atti del processo avranno un effetto immenso su quella che in realtà è la Corte Mondiale, la Corte dell’Opinione Pubblica, fornendo sostegno legale, politico e morale alla lotta per i diritti dei palestinesi e alla fine del genocidio e dell’apartheid israeliani. Potrebbe anche favorire il perseguimento di funzionari e personale militare israeliani per crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale, nonché iniziare a ritenere responsabili i complici dei crimini di Israele.

Se Israele alla fine verrà condannato per genocidio, i Paesi che ne hanno sostenuto le politiche o lo hanno armato potrebbero essere processati per complicità ai sensi della Convenzione sul Genocidio. A livello locale, cause come quella di Defense for Children International-Palestine et al. contro Biden et al. in cui il presidente Biden, il segretario di Stato Blinken e il segretario alla Difesa sono stati citati in giudizio in un tribunale distrettuale della California per “mancata prevenzione e complicità nel genocidio in corso contro Gaza”, potrebbero avere maggiori possibilità di successo.

La giornata di oggi segna una vittoria decisiva per lo stato del diritto internazionale e una pietra miliare significativa nella ricerca di giustizia per il popolo palestinese”, ha affermato il Ministero degli Esteri sudafricano. “Non esiste alcuna base credibile perché Israele continui a sostenere che le sue azioni militari sarebbero nel pieno rispetto del diritto internazionale, inclusa la Convenzione sul Genocidio, vista la sentenza della Corte”.

La CIG dovrebbe essere elogiata anche per le sei misure provvisorie che ha imposto a Israele, vale a dire:

– Adottare tutte le misure per garantire che a Gaza non abbiano luogo atti considerati genocidari ai sensi della Convenzione sul Genocidio

– Garantire che i suoi militari non commettano atti di genocidio

– Prevenire e punire l’incitamento al genocidio

– Consentire e facilitare la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria alla popolazione di Gaza

– Prevenire la distruzione e preservare le prove del genocidio nelle operazioni militari

– Riferire alla Corte sulla sua ottemperanza entro un mese.

Tutte queste misure, oltre alla spiegazione dettagliata della Corte del motivo per cui Israele è di fatto coinvolto in un genocidio “plausibile” e in corso, ci danno tutto il sostegno legale per fare pressione per una fine effettiva del genocidio israeliano, più immediatamente a Gaza ma senza dimenticare il genocidio in corso commesso contro l’intero popolo palestinese sia nella Palestina storica che nel contesto della persistente esistenza di palestinesi rifugiati.

I punti deboli della sentenza

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è quindi forte e importante nel prosieguo della lotta per i diritti dei palestinesi. Guardando la situazione, tuttavia, dalla prospettiva dell’immediata necessità di proteggere gli abitanti di Gaza dall’effettivo genocidio che stanno vivendo in questo momento – l’ordine urgente di imporre un cessate il fuoco chiesto dai sudafricani – dobbiamo unirci ai palestinesi nel deplorare la decisione della Corte di non aver emanato tale misura provvisoria. Il divieto di ogni atto di genocidio può assicurarsi il rispetto di Israele solo se rafforzato dall’imposizione di un cessate il fuoco. Ordinare semplicemente a Israele “di adottare tutte le misure in suo potere per non violare le disposizioni della Convenzione di Ginevra” e per garantire che le sue forze militari non la violino è, sul campo, poco effettivo e inefficace.

Finché Israele si astiene da atti apertamente genocidari – che ha già commesso e che ora potrebbe moderare – gli ordini possono ben poco per impedire l’effettivo scopo dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e, sì, del genocidio, che le operazioni militari in corso perpetuano. B’tselem, la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, è d’accordo. “L’unico modo per attuare gli ordini emessi oggi dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia”, si legge in una nota diffusa, “è con un cessate il fuoco immediato. È impossibile proteggere la vita dei civili finché continuano i combattimenti”.

Molti difensori della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, inclusa l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, sostengono che l’obbligo per Israele di porre fine o ridurre le sue operazioni militari è contenuto nella sentenza sul genocidio e nell’ordine delle misure provvisorie, dal momento che molte delle disposizioni – porre fine agli atti di genocidio, ad esempio, o consentire gli aiuti umanitari – non può essere realizzato senza un cessate il fuoco de facto.

Scrive l’avvocato per i diritti umani Robert Herbst: “All’interno della decisione sul genocidio e dell’ordine di misure provvisorie c’è, sub silentio, la richiesta che Israele interrompa o riduca le sue operazioni militari. Ciò potrebbe anche non equivalere ad un ‘cessate il fuoco’, ma potrebbe probabilmente realizzare in concreto la fine di tutti gli omicidi e i ferimenti di massa causati dal genocidio e della distruzione delle infrastrutture rimaste, e il massiccio ingresso di assistenza umanitaria che ripristinerebbe in certa misura la vita civile a Gaza”.

Mi permetto di dissentire. Quali azioni violino effettivamente le misure provvisorie è difficile da dire visto che per loro natura sono vaghe e manipolabili. Contro l’accusa che un atto sia genocida, ad esempio, Israele può invocare l’autodifesa. In effetti, è la loro incertezza che ha impedito alla Corte Internazionale di Giustizia di emettere l’ordine di cessate il fuoco. Affinché un “plausibile genocidio” possa essere effettivamente impedito, le sei misure provvisorie che vietano a Israele di continuare le sue azioni genocide devono essere emanate insieme a un cessate il fuoco immediato.

Stabilire che si tratta di genocidio prevede un processo a lungo termine volto a distruggere un popolo, in tutto o in parte (come nel caso del violento sfollamento dei palestinesi dalle loro terre e dalla loro patria da parte di Israele a partire dal 1948, o l’intento apertamente genocida del sionismo di sostituire la popolazione palestinese di Palestina con gli ebrei e trasformare un paese arabo in uno ebraico) o atti grossolanamente palesi di uccisione e distruzione (come Israele ha commesso a Gaza fino ad oggi).

Ma essere avvisato dalla Corte che sta esaminando specifici atti di genocidio consentirà a Israele di ridurre le operazioni militari in modo da astenersi apparentemente dal commettere atti specifici ritenuti genocidari senza, tuttavia, ridurre di fatto la letalità e la distruttività della sua guerra in corso. Così secondo la Corte l’uccisione di (finora) 27.000 palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, equivale ad un plausibile genocidio. Ma senza un ordine di cessate il fuoco e riducendo il comportamento genocida ad “atti”, Israele può affermare che ogni omicidio è uno sfortunato “danno collaterale” o un tragico errore.

La foresta del genocidio si perde a favore degli alberi delle azioni individuali. Israele ha già distrutto il 70% di Gaza e provocato lo sfollamento di oltre due milioni dei suoi abitanti. Può permettersi di andare avanti con più “attenzione”, mantenendo le sue operazioni militari al livello di “semplici” crimini di guerra e crimini contro l’umanità, il che significa che senza un cessate il fuoco le sei misure provvisorie non avranno alcun impatto sulle effettive operazioni militari.

Potrei sembrare troppo severo, ma in pratica il sottotesto della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sembra essere: Ti diamo, Israele, il permesso di continuare la tua campagna militare a Gaza (con le sue conseguenze genocide, anche se non saranno commessi nuovi atti genocidari) purché d’ora in poi vi asteniate da atti che possano essere interpretati come genocidi. È vero, la Corte Internazionale di Giustizia potrebbe rivedere la sua decisione in futuro, ma si può sentire il collettivo sospiro di sollievo di Israele fino all’Aja.

L’esame arriverà tra un altro mese, quando Israele presenterà il suo rapporto alla CIG su come stia rispettando le misure. La Corte potrebbe quindi valutare i suoi sforzi e, se ritenuti significativamente carenti (ciò che a mio avviso avverrà, malgrado tutto), emettere un ordine di cessate il fuoco. Questo resta da vedere. Proprio mentre scrivo, il giorno dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia Israele ha lanciato un grande attacco all’interno di Khan Yunis, circondando migliaia di civili intrappolati all’interno e iniziando la sua avanzata a sud verso Rafah, anche se “con attenzione”. Non vi è alcun indizio che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia abbia influenzato in qualche modo le operazioni militari. In effetti, le azioni odierne di Israele potrebbero essere viste come una “risposta sionista” alla Corte Internazionale di Giustizia. È proprio la preoccupazione che la sentenza della CIG abbia scarso effetto immediato su ciò che i palestinesi stanno effettivamente vivendo che ha provocato la delusione per il rifiuto della Corte Internazionale di ordinare un cessate il fuoco.

La palla è nel nostro campo

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia evidenzia il difetto fatale del sistema giuridico internazionale: accordi e leggi meravigliose, ponderate e potenti come la Carta delle Nazioni Unite, la Convenzione sul Genocidio e la Quarta Convenzione di Ginevra – ognuna delle quali, se effettivamente applicata, avrebbe causato il crollo dell’occupazione illegale di Israele, protetto il popolo palestinese e fornito gli strumenti per smantellare il regime coloniale israeliano. Invece, abbiamo una struttura legale gravata da un sistema di adempimento estremamente debole che sostanzialmente annulla le leggi stesse.

La CIG ci ha se non altro fornito una forte motivazione legale e morale per portare avanti la nostra campagna contro il genocidio a Gaza. Tuttavia, in termini di protezione effettiva del popolo di Gaza e del ritenere Israele responsabile del suo crimine di genocidio, la CIG ci ha passato la palla. Evidentemente la palla dovrebbe passare nel campo dei nostri governi. Sono loro ad avere la responsabilità di far rispettare il diritto internazionale – una responsabilità che non hanno mai veramente assunto e che violano impunemente.

Sta a noi accettare il giudizio della Corte secondo cui il genocidio è stato plausibilmente condotto davanti ai nostri occhi e fare ciò che la Corte Internazionale di Giustizia avrebbe potuto fare e non ha fatto: costringere i nostri governi a imporre un cessate il fuoco immediato. Dobbiamo essere i cani da guardia che denunciano non solo il crimine di genocidio che è l’assalto di Israele a Gaza, ma tutti i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che Israele continuerà a commettere e che sono connaturati al processo stesso di una pacificazione militare. Dobbiamo creare pressione pubblica sui nostri governi – in particolare su Stati Uniti e Germania – affinché interrompano i loro massicci trasferimenti di armi e impongano sanzioni economiche a Israele.

E dobbiamo essere consapevoli che il genocidio è in corso. Oltre a chiedere un cessate il fuoco, oltre a chiedere la fine del genocidio israeliano, dobbiamo ritenere Israele responsabile della situazione genocida che sta costruendo, e che continuerà anche dopo la fine delle ostilità.

Fermate subito il genocidio israeliano!

Immediato cessate il fuoco a Gaza!

Liberate tutti gli ostaggi israeliani e i prigionieri politici palestinesi

Jeff Halper è un antropologo israeliano anticoloniale, capo del Comitato Israeliano Contro le Demolizioni di Case (ICAHD) e membro fondatore della campagna One Democratic State. È l’autore di War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification (Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Londra: Pluto Press 2015). Il suo ultimo libro è Decolonizing Israel, Liberating Palestine: Zionism, Settler Colonialism and the Case for One Democratic State (Decolonizzare Israele, liberare la Palestina: sionismo, colonialismo di insediamento e il progetto di un unico Stato democratico, Londra: Pluto Press 2021). Può essere contattato all’indirizzo jeffhalper@gmail.com.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Palestina contro Biden: ‘La mia famiglia viene uccisa a mie spese. Il presidente Biden potrebbe porre fine a tutto ciò’

Amira Hass

29 gennaio 2024 – Haaretz

L’inaccettabile accostamento delle parole “genocidio,” “Israele” e “Gaza” è emerso venerdì non solo all’Aia, ma anche in un tribunale federale a Oakland, in California.

La pratica sulla scrivania del giudice cita come querelanti il ramo palestinese del movimento di base Defense for Children International, il gruppo palestinese per i diritti umani Al Haq, Laila El-Haddad, Omar al-Najjar, Wael al-Bahisi (residenti di Gaza) e altri, tutti rappresentati dal Center for Constitutional Rights. Gli imputati sono il presidente americano Joe Biden, il Segretario di Stato Antony Blinken e il Ministro della Difesa Lloyd Austin.

La causa intentata il 16 novembre contro i più alti livelli dell’amministrazione americana chiede al tribunale di ordinare agli Stati Uniti di cessare la vendita di armi a Israele e di smettere di sostenere il genocidio, come definito dai querelanti, fra cui cittadini palestinesi negli Stati Uniti con famiglie a Gaza. Poche ore dopo, quando il giudice americano presso la Corte Internazionale di Giustizia ha osservato che la popolazione civile a Gaza resta estremamente vulnerabile e che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto che la guerra sarebbe continuata per molto tempo, un altro giudice americano, Jeffrey White, ha ascoltato i querelanti e i loro avvocati a Oakland.

Egli deve decidere se accogliere la posizione dell’amministrazione presentata dal procuratore Jean Lin, che chiede l’archiviazione immediata del caso perché sarebbe un caso politico e non legale. Al contrario, Katherine Gallagher, avvocatessa del Center for Constitutional Rights, ha sostenuto che vendere armi a Israele viola la Convenzione sul Genocidio del 1948 e la legge americana del 1988 per la prevenzione del genocidio (introdotta niente meno che dall’allora senatore Joe Biden, come si legge sul sito del Congresso statunitense).

Il giudice ha fatto capire di avere dei dubbi sulla sua competenza a pronunciarsi sul caso, esprimendo le sue riserve sull’uso della definizione di “genocidio.” Ma di sua iniziativa ha cominciato la seduta con una lunga descrizione delle sofferenze dei civili di Gaza per gli attacchi aerei israeliani dopo, ha sottolineato, l’attacco di Hamas del 7 ottobre.

Ha poi ascoltato attentamente i querelanti palestinesi che gli hanno parlato dei numerosi parenti uccisi o feriti in questi attacchi aerei, delle famiglie che stavano fuggendo dai bombardamenti, spostandosi da un rifugio all’altro e delle case distrutte. A un certo punto, sentendo la voce strozzata di Haddad, le ha offerto di fare una pausa. Non ne ho bisogno, ha risposto lei, ma ha accettato la sua offerta e bevuto un sorso d’acqua. È stato dopo aver detto al tribunale che i suoi bambini protestavano perché in questo periodo non si sta occupando abbastanza di loro.

Haddad, scrittrice e giornalista nata in Kuwait da genitori gazawi, si è trasferita a Gaza per alcuni anni per far crescere là il suo primogenito. Si è conquistata l’attenzione internazionale con la sua ricerca sulle tradizioni culinarie di Gaza, specialmente durante l’assedio israeliano.

Quando le è stato chiesto in tribunale del numero dei suoi familiari uccisi, per quanto ne sapesse lei, ha risposto: “Cinque da parte di mio padre, 84 da parte di mia madre, la famiglia al-Fara a Khan Yunis.” Sua zia paterna, una miniera di ricordi e ricette con cui aveva passato molto tempo quando aveva abitato a Gaza, è stata uccisa quando una bomba israeliana è caduta sulla sua casa nel quartiere di Sheikh Radwan.

In quell’attacco sono stati uccisi anche i cugini di Haddad: Houda, Wafa e Hani, e Vera, la moglie di suo cugino. Un cugino sopravvissuto, ha continuato Haddad, le ha raccontato di come avesse cercato di estrarre la famiglia dalle macerie. L’ha raccontato freddamente, con un leggero tremito nella voce. Ciò aveva significato raccogliere le parti smembrate di sua sorella e della metà del corpo di sua madre. Suo fratello è morto dissanguato fra le sue braccia, ha aggiunto.

Al-Najjar, un giovane dottore specializzando, ha parlato su Zoom da un ospedale a Rafah, dove al momento sta lavorando. È del villaggio di Khuza, ha detto, e il secondo giorno della guerra la sua famiglia è dovuta fuggire dagli attacchi aerei israeliani. Dalla TV israeliana sa che la sua casa e quella della sua famiglia sono state abbattute. Non esistono più. Ho perso dei professori e docenti che sono stati uccisi, ha continuato, quando l’università è stata bombardata. 

Ha parlato dei feriti e dei molti pazienti cronici che non possono essere curati perché non ci sono medicine, letti o personale. Ha detto della suocera di sua sorella, che si è sentita male durante un attacco aereo. È stato impossibile trasferirla in ospedale dalla zona di Muassi, dove erano fuggiti. È morta. Ha raccontato di una mamma che non ha potuto ricorrere a un parto cesareo quando programmato per mancanza di anestetici. il bambino è nato con una paralisi cerebrale. Ha raccontato al giudice, che ascoltava ogni singola parola, che la famiglia è originaria del villaggio di Salameh, vicino a Giaffa. “I miei nonni sono stati espulsi dai sionisti nel 1948,” ha concluso.

Alla fine di almeno cinque ore di udienza trasmessa in diretta e disponibile sul sito della Corte del tribunale, durante la quale sono state ascoltate entrambe le parti, il giudice ha detto che, per i fatti in questione e dal punto di vista giuridico, questo è stato il caso più difficile della sua intera carriera. Ha promesso di esaminarlo attentamente, con la stessa serietà con cui ha ascoltato Haddad dire: “La mia famiglia viene uccisa con i miei soldi. Il Presidente Biden potrebbe porre fine a tutto ciò con una sola telefonata.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Vergogna a Israele che sfrutta l’Olocausto per giustificare il genocidio

Sig Giordano 

18 dicembre 2023, Mondoweiss

La storia dei miei nonni sopravvissuti all’Olocausto mi ha insegnato cos’è un genocidio, ed è così che posso condannare ciò che Israele sta facendo a Gaza in questo momento. Come osa Israele sfruttare la sofferenza della mia famiglia per cercare di giustificare il suo genocidio a Gaza?

Se i miei nonni fossero ancora vivi, in questo ottobre si sarebbe celebrato l’ottantesimo anniversario del loro incontro. Nel 1943 i miei nonni, Isidor e Marianne, si incontrarono a Theresienstadt, un campo di concentramento nella Cecoslovacchia occupata dai nazisti. Ero molto legato a mio nonno Isi, che sopravvisse alla nonna. Tra le sue cose mi affidò la stella “ebraica” di stoffa gialla con sopra la parola “Jude” che gli avevano fatto indossare nel campo.

Durante un incontro alle Nazioni Unite (ONU) il 31 ottobre, Gilad Erdan, ambasciatore israeliano all’ONU, ha indossato una stella ebraica simile a quella di mio nonno. Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato che indossava la stella per denunciare il silenzio del Consiglio riguardo all’attacco del 7 ottobre contro Israele. Erdan ha paragonato questo silenzio al silenzio che permise che si verificasse l’Olocausto. In risposta Dani Dayan, il direttore dello Yad Vashem, il museo israeliano memoriale dell’Olocausto, ha subito denunciato quell’uso improprio della stella, sostenendo che Erdan stava “disonorando le vittime dell’Olocausto, così come lo Stato di Israele”.

Dayan aveva assolutamente ragione nel richiamare l’attenzione su quanto fosse offensivo che Erdan indossasse la stella gialla. Le ragioni di Dayan, tuttavia, sono completamente sbagliate. Per sostenere il suo argomento, Dayan ha sostenuto che la stella gialla simboleggia la debolezza del popolo ebraico durante l’Olocausto, ribadendo una narrazione storica inquietante e falsa.

I sionisti hanno a lungo cercato di raffigurare le vittime dell’Olocausto come deboli per sostenere la fondazione e poi il mantenimento dello Stato di Israele. Questa mossa iniziò anche prima dell’Olocausto, quando alcuni sionisti si allinearono con la scienza razziale eugenetica dell’epoca sostenendo che gli ebrei dovevano purificare la propria razza e creare una propria razza forte. Arthur Ruppin, eminente scienziato sociale e capo dell’ufficio palestinese dell’Organizzazione sionista mondiale all’inizio del XX secolo, promosse l’insediamento in Palestina come risposta ai pericolosi risultati della “mescolanza razziale” degli ebrei europei. Non era il solo, poiché molti intellettuali ebrei sostenevano che la formazione dello Stato sionista avrebbe consentito agli ebrei di “rigenerare i propri corpi” degenerati nelle condizioni di assimilazione nell’Europa occidentale e di oppressione in quella orientale.

Una volta fondato Israele, le vittime dell’Olocausto furono regolarmente trattate come deboli e come esempi all’opposto di ciò che rappresentava lo Stato sionista, il che portò al pessimo trattamento per i sopravvissuti che divennero cittadini israeliani. Come Dayan stesso ha ribadito, l’Olocausto rappresenterebbe un monito sul contrapporre la debolezza degli ebrei nella diaspora alla forza degli ebrei nello Stato di Israele.

Nonostante la distanza delle loro opinioni, leader israeliani come Erdan e Dayan fanno regolarmente uso dell’Olocausto per difendere la violenza di Stato contro i palestinesi. A differenza di Erdan e Dayan, conoscere il genocidio contro i miei antenati mi ha permesso di capire che ciò che sta accadendo oggi in Palestina è un genocidio. Sapere che si sta perpetrando un genocidio è doloroso di per sé. Sapere che un genocidio viene compiuto presumibilmente a mio nome (in quanto ebreo) è estremamente doloroso. Ma sapere che un genocidio viene giustificato con l’appropriazione della sofferenza della mia famiglia mi fa infuriare. Sono furioso. Come osa lo Stato di Israele insultare la storia della mia famiglia?

Gli orrori che la mia famiglia ha dovuto sopportare sono inimmaginabili per la maggior parte delle persone. Mia nonna e mio nonno, adolescenti quando si incontrarono al campo, sono gli unici membri sopravvissuti delle loro famiglie. Mio nonno faceva parte della resistenza nel campo, e nascondeva le persone che erano sulle liste per essere deportate ad Auschwitz. Mio nonno ha letteralmente salvato la vita a mia nonna. Questa non è una storia di debolezza. Tuttavia, è una storia dalla quale ho imparato molte lezioni sulle condizioni che consentono il genocidio.

Ricordo che avevo 8 o 9 anni e sedevo al tavolo di cucina a fare colazione mentre mia madre cucinava. La radio era accesa come ogni mattina e trasmetteva le notizie di 1010 WINS [radio privata di New York, ndt.]: “Dacci 22 minuti, ti daremo il mondo”. Nei titoli un gruppo di resistenza rivendicava la responsabilità di un attentato da qualche parte fuori dagli Stati Uniti. Ho chiesto a mia madre: “Cos’è un gruppo di resistenza?” Lei mi ha spiegato l’idea di resistenza parlando dell’Olocausto e della lotta di suo padre per reagire.

Anche se non tutte le persone che affermano di resistere sono automaticamente nel giusto, quando sono cresciuto mi sono reso conto che il modo in cui si vede la resistenza in una determinata situazione dipende dal proprio punto di vista. Ciò può sembrare ovvio, ma nei media occidentali, nella politica e nei contesti educativi vediamo regolarmente un’associazione tra gruppi di resistenza e terrorismo che crea un lato giusto e uno sbagliato dati per scontati.

Nei giorni successivi all’11 settembre 2001, come cittadino americano che vive negli Stati Uniti mi sono ricordato che quando mi opponevo all’idea di invadere l’Afghanistan ero “con noi” o “contro di noi”. Il nazionalismo forzato mi ha ricordato gli studi sull’Olocausto che avevo intrapreso durante il college. La creazione della mentalità “Noi contro loro” per proteggere la Germania era stata una parte fondamentale nel coinvolgere ampi segmenti di tedeschi non ebrei nella lotta contro il popolo ebraico.

La resistenza si muove contro coloro che detengono il potere. Inoltre essere oppressi, per definizione, significa essere dalla parte dei perdenti in una dinamica di potere. Allora, com’è possibile che Israele, un paese con uno degli eserciti più potenti del mondo, sostenuto dalla più potente potenza militare ed economica del mondo, gli Stati Uniti, abbia cercato di dipingersi come il campione di un popolo oppresso che deve lottare contro i movimenti di resistenza palestinesi?

Jonathan Greenblatt, direttore dell’Anti-Defamation League (ADL) [organizzazione non governativa ebraica internazionale con sede a New York in difesa dei diritti civili e contro l’antisemitismo, ndt.] ha pubblicato un articolo sulla rivista Time dopo l’attacco del 7 ottobre sostenendo che non c’è modo di interpretare l’attacco di Hamas se non come “odio” e “intolleranza tossica nella sua forma più pura”. E se invece di rendere eccezionale l’esperienza ebraica in modo che l’Olocausto diventi un esempio di migliaia di anni di odio per gli ebrei prestassimo attenzione alle reali lezioni che possiamo imparare dagli orrori dell’Olocausto? La lezione di cui abbiamo bisogno non è che gli ebrei sono sempre stati e sempre saranno odiati. La lezione dell’Olocausto è che coloro che detenevano il potere economico e politico usarono il nazionalismo e l’idea a giustificazione del genocidio che i tipi di persone cosidette inferiori costituissero una minaccia per lo Stato-nazione.

Molti ebrei e non ebrei resistettero per quanto poterono. Il problema non era una resistenza debole, il problema era la forza delle narrazioni nazionaliste ed eugenetiche.

La buona notizia è che milioni di persone e di ebrei stanno prendendo posizioni critiche della situazione e opponendosi ai messaggi che ci vengono porti dai più potenti leader israeliani e statunitensi. Siamo solidali con i palestinesi che lottano per il loro diritto all’esistenza e all’autodeterminazione. Vediamo cambiamenti nei sondaggi d’opinione pubblica, e il numero di azioni guidate e sostenute dagli ebrei contro l’attuale genocidio è più grande che mai. Molti parlano apertamente e dicono ad alta voce che “Mai più” significa “Mai più per nessuno”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nella guerra di Israele a Gaza le redazioni sono diventate campo di battaglia

Somdeep Sen


8 dicembre 2023, Al Jazeera

E nella battaglia su come viene raccontata la guerra da Gaza, i giornalisti sono le vittime principali.

Non molto tempo fa il mondo è stato testimone di immagini fortemente contrastanti.

Da un lato abbiamo visto sui nostri schermi il giornalista televisivo palestinese Salman al-Bashir visibilmente distrutto dal dolore alla notizia della morte del suo collega Mohammad Abu Hatab. Hatab era in onda 30 minuti prima. Tornato a casa Hatab e undici membri della sua famiglia sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano.

Al-Bashir era in lacrime: “Non ne possiamo più. Siamo esausti, siamo qui vittime e martiri in attesa della morte, uno dopo l’altro, e nessuno si preoccupa di noi o della immane catastrofe e del crimine a Gaza”. Poi si è tolto l’equipaggiamento protettivo aggiungendo: “Nessuna protezione, nessuna protezione internazionale, nessuna immunità verso nulla, questo equipaggiamento protettivo non ci protegge e nemmeno i caschi”.

Abbiamo visto anche le immagini della CNN, attentamente preparate e selezionate, che seguono l’operazione di terra dell’esercito israeliano a Gaza. Ci è stato detto che la CNN era “integrata” all’esercito. Come condizione per entrare a Gaza con il supporto aereo israeliano, i media sono tenuti a “presentare all’esercito israeliano tutto il materiale e i filmati all’esercito israeliano per la revisione prima della pubblicazione”. La CNN aveva accettato.

Se non era già abbastanza evidente, i media e il giornalismo sono diventati un campo di battaglia fondamentale in questa guerra Israele-Gaza. E nella lotta su come viene raccontata la guerra i giornalisti sono stati le vittime principali.

Il 3 dicembre Shima El-Gazzar, giornalista palestinese della rete Almajedat, è stata uccisa insieme ai suoi familiari in un attacco aereo israeliano sulla città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Il 23 novembre un attacco aereo sulla sua casa nel campo profughi di Nuseirat, al centro di Gaza, è costato la vita al giornalista Muhammad Moin Ayyash e a circa 20 membri della sua famiglia.

Il 19 novembre Bilal Jadallah, direttore di Press House-Palestine, un’organizzazione non-profit che sostiene lo sviluppo dei media palestinesi indipendenti, è stato ucciso da un attacco aereo israeliano contro la sua auto.

Il 7 novembre è stato riferito che il giornalista palestinese Mohammad Abu Hasira è stato ucciso insieme a 42 membri della sua famiglia in un attacco aereo israeliano sulla sua casa vicino a Gaza City.

Solo due giorni prima i media avevano riportato che Mohamed al-Jaja, un altro operatore dei media per Press House-Palestine, era stato ucciso insieme a sua moglie e due figli in un attacco aereo nel nord di Gaza.

Il 30 ottobre anche Nazmi al-Nadim, vicedirettore delle finanze e dell’amministrazione della TV palestinese, è stato ucciso in un attacco aereo insieme ai suoi familiari.

Il 26 ottobre, il mondo ha visto il capo dell’ufficio arabo di Al Jazeera Wael Dahdouh seppellire “moglie, figlio, figlia e nipote” uccisi in un attacco aereo sul campo di Nuseirat. In una dichiarazione l’esercito israeliano ha affermato che stava prendendo di mira “infrastrutture terroristiche nell’area”.

Il 13 ottobre Issam Abdallah, eminente giornalista di Reuters– che indossava indumenti protettivi con sopra la dicitura “stampa” – è stato ucciso da un razzo israeliano lanciato attraverso il confine tra Israele e Libano.

In totale, secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ) [organizzazione indipendente e senza scopo di lucro che promuove la libertà di stampa in tutto il mondo, ndt.] nel periodo dei due mesi tra il 7 ottobre e il 6 dicembre dentro e intorno alla Striscia di Gaza sono stati uccisi 63 giornalisti e operatori dei media, per lo più palestinesi. Jonathan Dagher, responsabile dell’ufficio Medio Oriente di Reporter Senza Frontiere, ha dichiarato: “Ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza è una tragedia per il giornalismo… La situazione è drammatica. Chiediamo la protezione dei giornalisti nella Striscia e che sia consentito l’ingresso nel territorio a giornalisti stranieri che possano lavorare liberamente”.

Tuttavia la battaglia non riguarda solo chi potrà riferire di questa guerra. È anche una battaglia su come viene raccontata la guerra. Sono importanti le parole, le frasi e le immagini utilizzate in onda per descrivere gli eventi sul campo.

Durante una conversazione John Collins, professore di studi globali alla St Lawrence University e direttore del quotidiano indipendente Weave News, mi diceva: “Le parole costruiscono per noi la realtà. In tempo di guerra le parole usate dai giornalisti dovrebbero aiutarci a chiarire cosa sta succedendo e perché. Ma troppo spesso quelle parole servono a distrarci, a fuorviarci o a proteggere i potenti dalle loro responsabilità”.

Questo giornalismo fuorviante avviene a un livello molto elementare nel modo in cui le morti palestinesi vengono descritte nelle notizie. Mentre si dice che i palestinesi sono “morti”, gli israeliani vengono “uccisi”. La seconda formulazione riconosce un’azione attiva di uccisione da parte di qualcuno, ma la prima è passiva. Come a dire che nessuno è responsabile delle morti palestinesi o suggerire – come ha fatto il portavoce militare israeliano tenente colonnello Richard Hecht in seguito all’attacco al campo profughi di Jabalia – che le morti palestinesi siano semplicemente un’inevitabile “tragedia di guerra”.

Certamente una minimizzazione del bilancio delle vittime palestinesi è stata fatta anche dal presidente Biden quando ha messo in dubbio l’accuratezza dei numeri, visto che il Ministero della Sanità a Gaza è gestito da Hamas. Ha detto: “Sono sicuro che degli innocenti siano stati uccisi, ed è il prezzo da pagare nell’intraprendere una guerra… Ma non credo al numero che i palestinesi stanno dando”. Tale accusa ha effettivamente piantato il seme del dubbio sull’effettiva gravità della sofferenza palestinese, con diversi organi di stampa che hanno valutato e riportato il modo in cui il Ministero della Salute ha calcolato le vittime – questo mentre le agenzie umanitarie internazionali insistono che i numeri del ministero sono effettivamente affidabili.

Anche il modo in cui i media inquadrano il “perché”, il “come”, e il “cosa accadrà dopo” di questa guerra in corso, influenza l’opinione pubblica. In qualità di studioso di disinformazione e propaganda Nicholas Rabb ha scoperto che “la retorica fuorviante e la copertura incessantemente unilaterale” da parte dei media statunitensi e israeliani ha consentito la “demonizzazione acritica dei palestinesi”.

Ciò include i media di destra negli Stati Uniti che seminano allarme su un’imminente “Giornata globale della Jihad” indetta da Hamas. Un funzionario della Sicurezza Nazionale ha affermato che non c’erano prove credibili di una minaccia imminente sul suolo americano. Tuttavia, dopo aver ascoltato un discorso conservatore alla radio ed essersi allarmato per un imminente “Giorno della Jihad”, un uomo di 71 anni ha aggredito la sua inquilina, una donna palestinese americana, prima di pugnalarne a morte il figlio di sei anni.

Il gruppo Honest Reporting, che monitora e denuncia i pregiudizi anti-israeliani nei media, ha anche sollevato questioni etiche sui fotoreporter residenti a Gaza che lavorano con aziende del calibro di Reuters, Associated Press, CNN e New York Times e su come siano riusciti a catturare immagini dalle aree di confine forzate il 7 ottobre. Si chiedeva: “Cosa stavano facendo lì così presto in quello che normalmente sarebbe stato un tranquillo sabato mattina? È stato coordinato con Hamas? Le rispettabili agenzie di stampa che hanno pubblicato le loro foto avevano approvato la loro presenza in territorio nemico, insieme agli infiltrati terroristi?”

Mentre tutte le agenzie accusate negavano con veemenza le accuse secondo cui fossero a conoscenza dell’attacco, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cavalcato la cosa e ha detto: “Questi giornalisti sono complici di crimini contro l’umanità, le loro azioni sono contrarie all’etica professionale”.

Indignati per gli attacchi ai giornalisti, al giornalismo indipendente e alla rappresentazione della guerra da parte dei media, 750 giornalisti hanno firmato una lettera aperta chiedendo la protezione dei giornalisti. La lettera incoraggia inoltre i giornalisti a “dire tutta la verità senza timore o favoritismi” e a utilizzare “termini precisi e ben definiti dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani” come “apartheid”, “pulizia etnica” e “genocidio” nei servizi giornalistici. La lettera si conclude dicendo: “Riconoscere che distorcere le nostre parole per nascondere prove di crimini di guerra o di oppressione dei palestinesi da parte di Israele è una negligenza giornalistica e un’abdicazione alla limpidezza morale. L’urgenza del momento non può essere sottovalutata. È necessario cambiare rotta”.

Considerando la crisi umanitaria a Gaza pochi possono negare l’urgenza di questo momento. Tuttavia, solo il tempo dirà se ciò si tradurrà nel riconoscimento dell’importanza di proteggere i giornalisti e il giornalismo in un momento di crisi estrema.

Somdeep Sen è professore associato di Studi sullo Sviluppo Internazionale presso l’Università di Roskilde in Danimarca. È autore di Decolonizing Palestine: Hamas between the Anticolonial and the Postcolonial (Decolonizzare la Palestina: Hamas tra anticoloniale e postcoloniale, Cornell University Press, 2020).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Una rottura inevitabile: l’Operazione Al-Aqsa e la fine della partizione

Tareq Baconi 

26 novembre 2023, Al Shakaba 

L’offensiva a sorpresa di Hamas del 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo letale all’esercito e all’opinione pubblica israeliana dalla fondazione dello Stato nel 1948. Per ritorsione, Israele ha lanciato il più vasto attacco militare della storia a Gaza, distruggendo ampie parti del territorio e uccidendo oltre 14.000 palestinesi, più di un terzo dei quali minori. Con il via libera degli Stati Uniti e di gran parte dell’Europa, Israele ha portato avanti quella che studiosi ed esperti hanno definito una campagna di genocidio, cercando di sbarazzarsi dei palestinesi di Gaza con il pretesto di decimare Hamas.

La velocità con cui Israele si è mobilitato e la portata del suo attacco avvalorano la convinzione palestinese che il regime di occupazione coloniale stia attuando piani predisposti da tempo per l’espulsione di massa. Nel frattempo, i funzionari israeliani hanno utilizzato una campagna narrativa di disumanizzazione dei palestinesi per porre le basi per una giustificazione dell’immensa violenza.

In contrasto a questo scenario, questo articolo riconduce l’ultimo attacco israeliano a Gaza al suo contesto più ampio;e analizza la ghettizzazione della terra palestinese da parte di Israele attraverso la partizione in bantustan e individua l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa di Hamas come momento di rottura del sistema di partizione. È importante che si metta in primo piano la questione di ciò che verrà dopo la partizione e si ponga un freno alle crescenti possibilità di pulizia etnica dei palestinesi.

Gaza: il peggior bantustan d’Israele

Israele afferma di essere uno Stato sia ebraico che democratico, rifiutandosi di dichiarare i propri confini ufficiali e controllando totalmente un territorio all’interno dei cui confini vivono più palestinesi che ebrei. Per raggiungere questa realtà è necessaria una sofisticata struttura di ingegneria demografica, basata sulla diversificazione legale dei palestinesi e sullo stretto controllo dei loro movimenti e luoghi di residenza, confinandoli in enclave geografiche. Questo sistema è nato dall’ondata iniziale di espulsione di massa e pulizia etnica dei palestinesi avvenuta nel 1948, in cui più di 530 villaggi palestinesi furono spopolati per fare spazio ai coloni ebrei. Questa pratica coloniale di insediamento non è ancora chiusa nei libri di storia.

Ciò che i palestinesi chiamano Nakba è in corso da allora, con le quotidiane pratiche di colonizzazione di Israele che assumono forme diverse in diverse aree sotto il suo controllo. E costituisce un il pilastro centrale del regime di apartheid di Israele.

Gaza rappresenta storicamente la manifestazione più estrema del sistema israeliano di bantustan per i palestinesi. Con una delle più alte densità di popolazione del mondo, Gaza è composta prevalentemente da rifugiati espulsi dalle terre intorno alla Striscia durante l’istituzione di Israele nel 1948. In effetti, molti dei combattenti che hanno fatto irruzione nelle città israeliane il 7 ottobre sono probabilmente discendenti di rifugiati proprio da quelle terre in cui sono planati o strisciati, entrandovi per la prima volta dall’espulsione delle loro famiglie.

Dal 1948 Israele si è dedicato con impegno a recidere ogni nesso tra l’attuale resistenza anticoloniale e lo storico e corrente sistema di apartheid israeliano. Mentre molti pensano che Gaza sia sotto blocco perché governata da Hamas, Israele in realtà ha sperimentato dal 1948 un’infinità di tattiche per depoliticizzare il territorio e pacificarne la popolazione. Queste tattiche hanno incluso lo strangolamento economico e il blocco, decenni prima che Hamas fosse fondato, e senza alcun risultato.

Con la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, ai leader israeliani si è presentata un’opportunità: utilizzando la retorica del terrorismo, Israele ha posto Gaza sotto un blocco ermetico ignorando il programma politico del movimento sulla cui base era stato democraticamente eletto. Inizialmente il blocco doveva essere una tattica punitiva per forzare la capitolazione di Hamas, ma si è rapidamente trasformato in una struttura volta a contenere Hamas e a separare l’enclave costiera dal resto della Palestina. Con oltre due milioni di palestinesi invisibili dietro i muri e sotto assedio e blocco, il governo israeliano e gran parte dell’opinione pubblica israeliana – per non parlare dei leader occidentali – potevano lavarsi le mani della realtà che avevano creato.

Il blocco imposto dal regime di Israele serve all’obiettivo di contenimento sia dei palestinesi che di Hamas. Nel corso degli ultimi sedici anni, Israele ha fatto affidamento principalmente su Hamas per governare la popolazione di Gaza, pur mantenendo il controllo esterno dell’enclave. Hamas e il regime israeliano sono caduti in un equilibrio instabile, spesso sfociato in episodi di infinita violenza in cui migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Per Israele questa dinamica ha funzionato così bene che non è mai stata necessaria una strategia politica per Gaza. Come altrove in tutta la Palestina, Israele ha fatto affidamento sulla gestione dell’occupazione piuttosto che affrontarne i fattori politici, mantenendosi signore supremo dell’occupazione nelle varie enclave palestinesi governate da entità sotto il suo controllo sovrano.

L’unico obiettivo che Israele ha perseguito negli ultimi quindici anni è stato quello di cercare di garantire una relativa calma agli israeliani, in particolare a quelli che risiedono nelle aree circostanti Gaza. Lo ha fatto utilizzando una forza militare schiacciante, anche se quella calma è raggiunta a costo dell’imprigionamento di una popolazione di milioni di persone e del loro mantenimento in condizioni prossime alla fame. Gaza è stata così completamente cancellata dalla psiche israeliana che i manifestanti che marciavano per proteggere la cosiddetta democrazia israeliana all’inizio del 2023 si illudevano di fatto che democrazia e apartheid fossero verosimili compagni di letto.

Il collasso del sistema di partizioni

Quindi per la maggior parte del pubblico israeliano e dei sostenitori di Israele all’estero l’offensiva di Hamas è arrivata dal nulla. Uscendo dalla prigione, le Brigate Al-Qassam – l’ala militare di Hamas – hanno rivelato la povertà strategica del presupposto secondo cui i palestinesi avrebbero consentito indefinitamente alla propria prigionia e sottomissione. Ancora più importante, l’operazione ha devastato la stessa fattibilità dell’approccio partizionista di Israele: la convinzione che i palestinesi possano essere dirottati nei bantustan mentre lo Stato colonizzatore continua a godere di pace e sicurezza – e persino espande le sue relazioni diplomatiche ed economiche nella regione circostante. Distruggendo l’idea che Gaza possa essere cancellata dall’equazione politica generale, Hamas ha fatto a brandelli l’illusione che la divisione etnica in Palestina sia una forma sostenibile o efficace di ingegneria demografica, per non parlare di morale o legalità.

Nel giro di poche ore dall’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, l’infrastruttura che era stata messa in atto per contenere Hamas – e con essa, per cacciare i palestinesi da Gaza – è stata distrutta davanti agli occhi spesso increduli di tutti. Mentre i combattenti di Hamas irrompevano nel territorio controllato da Israele, la collisione tra il mito di Israele come Stato democratico e la sua realtà di portatore di un violento apartheid è stata scioccante, tragica e, in definitiva, irreversibile. Di conseguenza, israeliani e palestinesi sono stati gettati in un paradigma post-partizione, in cui sia la convinzione di Israele della sostenibilità dell’ingegneria demografica sia l’infrastruttura dei bantustan utilizzata si sono rivelate temporanee e inefficaci.

Il crollo del quadro partizionista ha presentato un paradosso: da un lato, i palestinesi e i loro alleati hanno cercato di diffondere la consapevolezza che Israele è uno Stato di apartheid coloniale di insediamento. Questa consapevolezza è servita agli sforzi di alcuni volti a promuovere la decolonizzazione e il perseguimento di un sistema politico radicato nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza e nell’autodeterminazione. Molti palestinesi credono che il risultato della loro lotta per la liberazione sarà l’architettura politica di un tale spazio decolonizzato, una volta smantellati gli elementi centrali dell’apartheid – pulizia etnica, rifiuto di consentire il ritorno dei rifugiati e partizione.

D’altra parte, in assenza di un progetto politico in grado di sostenere questa lotta decoloniale, il collasso del 7 ottobre del sistema di partizione ha accelerato l’impegno di Israele alla pulizia etnica. Allo stesso modo ha rafforzato la convinzione fascista ed etnico-tribale secondo cui, senza partizione, solo gli ebrei possano esistere in sicurezza nella terra della Palestina colonizzata, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In altre parole, il collasso delle possibilità partizioniste potrebbe aver gettato le basi per un’altra Nakba piuttosto che per un futuro decolonizzato.

I calcoli politici di Hamas

Questo paradosso spiega, in parte, il risentimento espresso nei confronti dell’offensiva di Hamas da parte anche di alcuni palestinesi che vedono nell’attacco l’inizio di un’altra crisi per la loro lotta collettiva. L’incombente possibilità di una pulizia etnica non deve essere sottovalutata, e lo sbalorditivo bilancio delle vittime che i civili di Gaza stanno sperimentando deve indurre tutti a riflettere sull’enorme costo provocato dall’operazione di Hamas, anche quando la responsabilità primaria di questa violenza ricada direttamente sul regime coloniale israeliano.

Tuttavia tale lettura travisa i calcoli politici di Hamas. Ovviamente c’è qualcosa di vero nell’insinuare che questa violenza sia stata scatenata dall’attacco di Hamas. Eppure la realtà era letale per i palestinesi anche prima dell’offensiva, anche se in misura minore di quanto avvenuto dopo il 7 ottobre. Era una violenza che si era normalizzata e che, nella sua essenza, aveva lo stesso scopo: uccidere i palestinesi in massa. La violenza a cui abbiamo assistito nel 2023 non è altro che lo scatenarsi della brutalità che ha sempre costituito le basi della lotta di Israele con i palestinesi in generale, e con quelli di Gaza in particolare.

La rottura era quindi inevitabile. Il contenimento di Hamas è stato efficace, ma dato l’impegno del movimento per la liberazione palestinese e il suo fermo rifiuto di concedere il riconoscimento dello Stato di Israele, è probabile che il contenimento sia sempre temporaneo a meno che non vengano compiuti seri sforzi per affrontare i fattori politici al centro della lotta palestinese per la liberazione. Con una popolazione in crescita a Gaza e carenze di governance sempre più acute, l’idea che Hamas non ribaltasse quella realtà – soprattutto con l’estendersi dell’impunità israeliana – era miope.

Ciò di cui Hamas è responsabile, e ciò di cui i palestinesi devono ritenerli responsabili, è la misura di una pianificazione – o la sua mancanza – per il giorno successivo all’attacco. Con la consapevolezza che Hamas e altri hanno acquisito nel corso degli anni, non ci potevano essere dubbi sul fatto che l’attacco di Hamas si sarebbe tradotto in furia scatenata contro i palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Il movimento avrebbe dovuto essere – e forse lo era – preparato alla violenza che si è abbattuta successivamente su Gaza. Stabilire se i calcoli erano giusti, nonostante la tragica perdita di vite umane, è qualcosa con cui i palestinesi dovranno confrontarsi negli anni a venire.

Ipocrisia e colpe dell’Occidente

Invece di tentare di frenare l’attacco israeliano su Gaza, l’amministrazione Biden ha solo gettato benzina sul fuoco. Nel suo primo discorso dopo l’attentato, il presidente americano ha descritto Hamas come “male assoluto”, paragonandone l’offensiva a quelle dell’Isis; ha anche paragonato il 7 ottobre all’11 settembre e ha ripetutamente fatto riferimento a pretese brutalità poi ampiamente smentite per fomentare luoghi comuni orientalisti e islamofobici nel tentativo di giustificare la ferocia della risposta di Israele.

È importante notare che gli sforzi per collegare la resistenza palestinese in tutte le sue forme – pacifica o armata – al terrorismo sono molto anteriori all’attacco di Hamas. Durante la Seconda Intifada, evocare l’11 settembre da parte di Ariel Sharon trovò un pubblico ricettivo nell’amministrazione Bush, che era nelle prime fasi di elaborazione della sua dottrina di Guerra al Terrore. I mesi successivi videro Israele lanciare invasioni militari estremamente distruttive contro i campi profughi in Cisgiordania sotto il cartello della lotta al terrorismo.

Nel frattempo i principali media e gli spazi politici occidentali continuano a mancare di analisi approfondite e fondate sull’evolversi della situazione. Invece è stato proposto un imperante modello di disumanizzazione palestinese in modo così totale che qualsiasi tentativo di utilizzare le piattaforme dei media per smantellare – o semplicemente mettere in discussione – il sistema di dominio israeliano incontra reazioni perplesse e una condanna uniforme. In questa lettura Hamas avrebbe agito in modo irrazionale, i palestinesi di Gaza erano a disposizione del movimento come scudi umani e il sistema coloniale israeliano nel suo insieme era tranquillo e sostenibile prima del 7 ottobre. Queste reazioni, più che altro, segnalano l’ipocrisia occidentale e il razzismo anti-palestinese.

Ciò che è chiaro è che i leader occidentali si rifiutano pervicacemente di riconoscere l’attacco di Hamas per quello che è stato: una dimostrazione senza precedenti di violenza anticoloniale. L’Operazione Diluvio di Al-Aqsa è stata la risposta inevitabile all’incessante e interminabile provocazione di Israele con il furto di terre, l’occupazione militare, il blocco e l’assedio e la negazione del diritto fondamentale al ritorno in patria da più di 75 anni. Invece di riproporre analogie astoriche e rispolverare vecchie narrazioni, è giunto il momento che la comunità internazionale si confronti con la vera causa principale della violenza a cui stiamo assistendo: l’occupazione dei coloni israeliani e l’apartheid.

Per limitare il sangue che sarà versato quando il sistema di apartheid israeliano sarà messo in discussione, la comunità internazionale e in particolare l’Occidente devono prima fare i conti con il fatto di aver reso possibile un sistema politico etno-nazionalista che ha fatto a pezzi i diritti e le vite dei palestinesi. Il mondo deve affrontare la realtà, che le richieste politiche palestinesi non possono essere cancellate o messe da parte sotto la bandiera onnicomprensiva ma poco convincente della lotta al terrorismo. Invece di imparare la lezione, i politici occidentali sembrano contenti di servire come partner attivi nell’attuale campagna di pulizia etnica del regime israeliano: la nakba della mia generazione.

Tareq Baconi è presidente del consiglio direttivo di Al-Shabaka. È stato borsista di Al-Shabaka per la politica statunitense dal 2016 al 2017. Tareq è ex analista senior per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti presso l’International Crisis Group con sede a Ramallah, e autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestine Resistance (Contenere Hamas: l’ascesa e la pacificazione della resistenza palestinese, Stanford University Press, 2018). Gli scritti di Tareq sono apparsi tra gli altri su London Review of Books, New York Review of Books, Washington Post, ed è di frequente cronista nei media regionali e internazionali. È redattore delle recensioni di libri per il Journal of Palestine Studies.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il Brasile denuncia la guerra di Israele contro Gaza come ‘genocidio’

Redazione di MEMO

27 ottobre 2023 – Middle East Monitor

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva ha denunciato la guerra di Israele contro la Striscia di Gaza assediata come “genocidio”.

In un incontro tenutosi nel palazzo presidenziale Planalto nella capitale Brasilia, da Silva ha affermato: “Ciò che sta accadendo non è una guerra. È un genocidio che porta ad uccidere circa 2.000 minori che non avevano niente a che fare con questa guerra. Essi sono le vittime di questa guerra”.“Francamente non so come una persona possa andare in guerra sapendo che il risultato di quella guerra è la morte di minori innocenti,” ha aggiunto.

Il presidente brasiliano ha messo in guardia che gli sviluppi nel Medio Oriente sono “pericolosi”, aggiungendo che la questione non è discutere “chi ha ragione e chi ha torto, chi ha sparato la prima pallottola e chi la seconda.”

Il Brasile supporta il rilascio degli ostaggi e la creazione di un corridoio umanitario per permettere agli aiuti di essere inviati ai civili palestinesi nella Striscia di Gaza,” ha aggiunto.

.Da Silva ha parlato con il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, con l’emiro del Qatar Tamim Bin Hamad Al Thani, il presidente iraniano Ibrahim Raisi, il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed Bin Zayed Al Nahyan e con altri nel tentativo di raggiungere una soluzione che riporti la pace.

Mercoledì il Brasile si è astenuto nella votazione sulla bozza di risoluzione americana presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che non chiedeva la fine delle operazioni militari israeliane a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra Israele-Palestina: funzionari del Dipartimento di Stato preparano dispacci di dissenso contro l’assalto a Gaza

Azad Essa, New York e Umar A Farooq, Washington

25 ottobre 2023 – Middle East Eye

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha insediato l’Amministrazione più diversificata della storia, ma diversi funzionari ritengono di aver avuto solo incarichi simbolici.

Middle East Eye è a conoscenza del fatto che lo staff del Dipartimento di Stato americano sta preparando urgenti messaggi di dissenso sul sostegno di Washington all’incessante campagna di bombardamenti israeliani su Gaza.

Diverse fonti hanno riferito a MEE che allinterno del dipartimento le tensioni sono al culmine poiché i funzionari sono sempre più frustrati dallaperto sostegno dellamministrazione Biden a ciò che gli attivisti per i diritti umani chiamano crimini di guerra contro i palestinesi all’interno della Striscia di Gaza assediata.

MEE è venuta a conoscenza che diversi diplomatici sono combattuti tra restare al lavoro per cercare di influenzare la politica o andarsene per protestare contro il sostegno incondizionato di Biden ai bombardamenti israeliani e allimminente invasione di terra.

Da quando Israele ha iniziato il bombardamento aereo di Gaza in seguito allattacco del 7 ottobre da parte dei combattenti palestinesi provenienti da Gaza sono stati uccisi più di 6.000 palestinesi tra cui 2.000 minorenni.

Da quando i combattenti guidati da Hamas hanno sfondato la barriera che separa la Striscia di Gaza assediata da Israele sono stati uccisi circa 1.400 israeliani.

IIn una bozza di dissenso visionata da MEE i diplomatici scrivono che l’attacco di Hamas contro Israele non può essere usato come giustificazione per portare Israele a compiere l’uccisione indiscriminata di persone innocenti a Gaza.

La bozza chiede la cessazione immediata delle ostilità in Israele, a Gaza e nella Cisgiordania occupata e supplica Washington di promuovere messaggi pubblici veritieri ed equilibrati verso la risoluzione della crisi che sta lentamente andando fuori controllo.

“Fino a quando i funzionari israeliani non faranno distinzione tra Hamas e i civili di Gaza e gli attacchi prenderanno di mira o minacceranno istituzioni civili come luoghi di culto, scuole o strutture mediche – Israele dovrà lavorare il doppio per rientrare nella adesione alle norme internazionali che tanto orgogliosamente, e giustamente, predichiamo ad altre nazioni”, dice il messaggio.

Il messaggio di dissenso è un documento presentato attraverso un canale interno che consente ai diplomatici di sollevare preoccupazioni o questioni contro le dannose decisioni di politica estera degli Stati Uniti e fa seguito alle voci secondo cui all’interno del Dipartimento di Stato si sta preparando “un ammutinamento” a causa del fermo sostegno pubblico di Biden alle azioni di Israele a Gaza.

Contattato per un commento un portavoce del Dipartimento di Stato ha detto a MEE: “Come pratica generale, non commentiamo i resoconti delle comunicazioni interne del Dipartimento”.

“In linea generale il canale del dissenso è stato a disposizione dei dipendenti fin dalla guerra del Vietnam e siamo orgogliosi che il Dipartimento abbia una procedura consolidata che consente ai dipendenti di articolare i disaccordi politici direttamente all’attenzione dei principali dirigenti del Dipartimento senza timore di ritorsioni.”

“L’ultima chance prima delle dimissioni”

Un diplomatico del Dipartimento di Stato ha detto a MEE che c’è la sensazione che i normali metodi di elaborazione delle politiche nel dipartimento abbiano fallito.

Nonostante le proteste dei nostri stessi funzionari, le denunce provenienti dal territorio, dalle organizzazioni internazionali e dall’opinione pubblica americana, non c’è stato alcun cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti con Israele se non quello di aumentare il sostegno e i finanziamenti per continuare a uccidere civili palestinesi innocenti,” riferisce la fonte chiedendo di parlare sotto anonimato.

“Un messaggio di dissenso è una delle nostre ultime chance, a parte le dimissioni, per informare il Segretario della gravità di questa situazione e far sapere al Dipartimento di Stato e alla leadership della Casa Bianca che chiediamo con decisione un cessate il fuoco immediato.

“Per lo meno verrà ufficialmente registrato che ci sono e ci sono stati tentativi da parte di funzionari del Dipartimento di Stato di fermare il genocidio in modo che le generazioni future possano assicurarsi che ciò non si ripeta mai più”, aggiunge la fonte.

La settimana scorsa diversi funzionari hanno riferito all’HuffPost che c’era una frustrazione diffusa per il rifiuto del segretario di Stato americano Antony Blinken di prestare ascolto a critiche e preoccupazioni.

Un altro funzionario dellamministrazione Biden, che ha parlato anche lui a condizione di anonimato, ha affermato che i vari messaggi sono stati presi in considerazione separatamente piuttosto che come un grande messaggio unitario di dissenso.

“Sembra davvero che ci siano molteplici iniziative diffuse e ciò è piuttosto raro. Per quello che posso dire non circola un’istanza organizzativa unitaria”, afferma il funzionario.

“Ci sono molte persone che non sono d’accordo con l’attuale politica stabilita dai vertici.”

Solo voci simboliche

Alcuni giorni dopo l’attacco a Israele, Blinken è volato per offrire le sue condoglianze al popolo israeliano. Durante la sua visita, ha equiparato Hamas all’organizzazione dello Stato Islamico (ISIS), una mossa che secondo gli osservatori è stato interpretata come un via libera a Israele per ritorsioni con ogni mezzo necessario.

Lunedì Blinken ha tenuto un’audizione con rappresentanti di organizzazioni palestinesi e arabo-americane durante la quale si è discusso della loro crescente rabbia nei confronti di Biden per la sua gestione della guerra Israele-Gaza, ha riferito una fonte a The National.

Un articolo di Politico pubblicato martedì afferma che lamministrazione ha anche tenuto un’audizione con dipendenti musulmani, arabi e palestinesi.

Un funzionario ha detto a MEE che negli ultimi giorni c’è stato un maggior coinvolgimento tra i livelli più alti dellamministrazione e altri funzionari, compresi gli incaricati musulmani, più di 100 nellattuale amministrazione.

In precedenza Biden aveva pubblicizzato la sua amministrazione come la più diversificata nella storia degli Stati Uniti. Ma finora lamministrazione ha fatto ben poco per modificare il suo pieno sostegno agli sforzi bellici di Israele. Ha chiesto una pausa umanitaria per consentire l’ingresso degli aiuti a Gaza, ma ha detto che non sosterrà un cessate il fuoco.

Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby ha detto martedì che Washington non sosterrà un cessate il fuoco e che “in futuro civili innocenti verranno colpiti” a Gaza.

“Ciò contro cui io e molti dei miei colleghi ci scontriamo è il fatto che queste persone vengono coinvolte per poter sentire le loro varie voci. Ma se non ti sforzi di ascoltarle, sono solo dei gesti simbolici“, sostiene il funzionario, aggiungendo che molti dei dipendenti hanno in mente di dimettersi.

“So che alcuni di loro sono alla ricerca di un altro impiego perché attualmente non si sentono a proprio agio nel rappresentare l’amministrazione”, dice il funzionario.

Le voci dissenzienti sono la maggioranza

Secondo il funzionario uno dei motivi è che alcuni individui che non sono d’accordo con la politica dell’amministrazione e cercano di esprimere la loro opposizione “non vengono presi in considerazione”.

Finora solo un funzionario si è dimesso affermando di non poter sostenere moralmente il sostegno incondizionato di Washington alle azioni militari di Israele.

“Vorrei essere chiaro: l’attacco di Hamas a Israele non è stato solo una mostruosità ma la peggiore delle mostruosità”, ha scritto in una nota Josh Paul che ha lavorato per più di un decennio presso l’Ufficio per gli affari politico-militari del Dipartimento di Stato.

“Ma credo nel profondo della mia anima che la risposta che Israele sta dando, e con essa il sostegno americano sia a quella risposta che allo status quo dell’occupazione, porterà solo a sofferenze maggiori e più profonde sia per gli israeliani che per il popolo palestinese, e questo non va nella direzione degli interessi americani”.

Inoltre lapproccio dellamministrazione Biden non sembra corrispondere alla visione della guerra da parte dell’opinione pubblica americana. Secondo un recente sondaggio condotto dallorganizzazione progressista Data for Progress, il 66% di tutti i probabili elettori sostiene un cessate il fuoco e una riduzione del conflitto.

Penso che le manifestazioni di dissenso siano importanti in questi tempi, soprattutto per quelle persone che sono al servizio di questa amministrazione”, ha detto a MEE Ahmad Abuznaid, direttore esecutivo della Campagna Statunitense per i Diritti dei Palestinesi.

“Ma ciò che mi colpisce è che sembra che questa volta in realtà sia la maggioranza a dissentire e che il presidente stia operando sulla base di una posizione sostenuta in effetti da una piccola minoranza di persone”, aggiunge.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Quello che sappiamo finora dell’attacco mortale ad un ospedale di Gaza

Redazione di Al Jazeera

18 ottobre 2023 – Al Jazeera

Funzionari palestinesi affermano che almeno 500 persone sono state uccise in un raid aereo israeliano sull’ospedale arabo Al-Ahli a Gaza.

Almeno 500 persone sono state uccise in un attacco aereo israeliano contro l’ospedale arabo Al-Ahli nella Striscia di Gaza assediata, hanno detto funzionari palestinesi.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che l’esplosione nell’ospedale è stata causata da un raid aereo israeliano. Israele ha attribuito l’esplosione ad un lancio difettoso di un razzo da parte del gruppo armato della Jihad islamica palestinese (PIJ). La PIJ ha negato l’accusa.

Al Jazeera non è stata in grado di verificare in modo indipendente i resoconti.

Mentre la tensione continua a crescere, ecco cosa sappiamo finora dell’esplosione:

Centinaia di morti

Il ministero della Sanità di Gaza afferma che almeno 500 persone sono state uccise nell’esplosione, di gran lunga il più alto numero di vittime di qualsiasi singolo incidente avvenuto a Gaza durante l’attuale guerra tra Israele e Hamas.

Il ministero ha detto che centinaia di altre vittime sono rimaste sotto le macerie.

Hamas ha affermato che l’esplosione ha ucciso soprattutto sfollati.

Il ministro della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mai Alkaila, ha accusato Israele di aver compiuto “un massacro”.

Situato nel centro di Gaza l’ospedale, gestito dalla diocesi episcopale di Gerusalemme, è stato colpito mentre era ultra affollato da migliaia di palestinesi in cerca di rifugio nel mezzo di una campagna di brutali attacchi aerei israeliani su gran parte della Striscia di Gaza assediata.

Come ha reagito il mondo?

I leader mondiali hanno denunciato il bombardamento e i leader di tutto il Medio Oriente hanno rilasciato le dichiarazioni più ferme.

Inoltre proteste sono scoppiate in tutto il Medio Oriente compresa la Giordania e la Cisgiordania occupata da Israele dove le proteste palestinesi si sono scontrate con le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La Giordania ha annullato il vertice previsto nella capitale Amman con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e i leader arabi.

Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha affermato che l’incontro si terrà in un momento in cui tutti i presenti potranno concordare di lavorare per porre fine alla “guerra e ai massacri contro i palestinesi”.

Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, che avrebbe dovuto partecipare al vertice, ha dichiarato di condannare “nei termini più forti possibili” il bombardamento israeliano dell’ospedale di Gaza.

Anche l’Arabia Saudita ha rilasciato una ferma dichiarazione, condannando “nei termini più forti possibili l’atroce crimine commesso dalle forze di occupazione israeliane con il bombardamento dell’ospedale battista Al Ahli a Gaza”.

I leader occidentali non hanno incolpato Israele per l’attacco, il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato in un post sui social media che “niente può giustificare un attacco contro un ospedale” e ha aggiunto che “bisogna far luce sulle circostanze”.

Biden in un comunicato ha espresso “le più sentite condoglianze per le vite innocenti perse nell’esplosione dell’ospedale di Gaza”.

Cosa dice Israele?

Le autorità israeliane hanno detto che l’ospedale è stato colpito da un razzo vagante lanciato dalla Jihad islamica palestinese che opera all’interno della Striscia di Gaza.

“Un’analisi compiuta dai sistemi operativi dell’IDF [l’esercito israeliano] indica che una raffica di razzi è stata lanciata da terroristi a Gaza, passando in prossimità dell’ospedale Al Ahli di Gaza nel momento in cui è stato colpito”, ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un post sui social media.

Le informazioni provenienti da molteplici fonti che in nostro possesso indicano che la Jihad islamica è responsabile del fallito lancio di un razzo che ha colpito l’ospedale di Gaza”.

Il portavoce militare israeliano, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha detto ai giornalisti che i razzi lanciati dalla PIJ sono passati vicino all’ospedale al momento dell’attacco che, secondo lui, ha colpito il parcheggio della struttura.

Hagari ha affermato che non c’è stato alcun attacco diretto sulla struttura e che le riprese dei droni militari hanno mostrato “una sorta di impatto nel parcheggio”.

Ha detto che in effetti nel momento dell’esplosione all’ospedale i militari avevano un’operazione dell’aeronautica israeliana in corso nell’area “ma è stato impiegato un tipo diverso di munizioni che non… si adatta al filmato che abbiamo [dell’] ospedale”.

Cosa dice PIJ?

La PIJ ha respinto l’accusa israeliana secondo cui sarebbe stata responsabile dell’attacco.

In un comunicato ha affermato: “Il nemico sionista sta facendo del suo meglio per eludere le proprie responsabilità per il brutale massacro commesso con il bombardamento dell’Ospedale nazionale arabo battista di Gaza attraverso la sua consueta fabbricazione di bugie e puntando il dito contro il movimento della Jihad islamica in Palestina”.

Il comunicato prosegue: “Affermiamo quindi che le accuse avanzate dal nemico sono false e infondate”

Imran Khan, giornalista di Al Jazeera, ha notato che alcuni osservatori hanno messo in dubbio la versione israeliana degli eventi e inoltre hanno sottolineato che Israele ha una lunga storia di false attribuzioni degli atti compiuti dalle sue stesse forze a gruppi armati palestinesi.

Martedì Khan ha affermato; “Abbiamo già visto questo tipo di cose da parte degli israeliani”.

Prendiamo ad esempio l’uccisione della nostra collega Shireen Abu Akleh. All’inizio gli israeliani hanno incolpato i combattenti all’interno del campo di Jenin per la sua morte. Solo più tardi hanno ammesso che era stato uno di loro”.

(Traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




**La Corte Suprema emette una sentenza contraria a rivelare il ruolo di Israele nel genocidio in Bosnia

John Brown* (Tradotto da Tal Haran)

5 dicembre 2016 – +972 Magazine

Evocando un potenziale danno alla politica estera di Israele, la Corte Suprema respinge una petizione che chiede di rivelare dettagli sulle esportazioni di armi da parte del governo all’esercito serbo durante il genocidio in Bosnia.

**Nota redazionale: nonostante si tratti di un articolo che risale al dicembre 2016, riteniamo interessante tradurre questo articolo perché smentisce la rappresentazione ed autorappresentazione di sé di Israele come Stato etico e nato dal rifiuto di crimini contro l’umanità, e in particolare dell’Olocausto. Si tratta di un impegno selettivo, come dimostrano questo ed altri episodi. Ciò è ancora più significato oggi, nel momento in cui Israele e i suoi sostenitori utilizzano in modo strumentale e sempre più spudorato l’antisemitismo e l’antirazzismo per attaccare i palestinesi e chi ne sostiene la causa.

Il mese scorso la Corte Suprema israeliana ha respinto una petizione che chiedeva di rivelare i dettagli delle esportazioni israeliane per la difesa all’ex Jugoslavia durante il genocidio in Bosnia negli anni ’90. La Corte ha deliberato che rivelare il coinvolgimento israeliano nel genocidio avrebbe danneggiato la politica estera del Paese ad un punto tale da prevalere sull’interesse pubblico a conoscere quelle informazioni e la possibile incriminazione dei soggetti coinvolti.

I ricorrenti, l’avvocato Itay Mack e il professor Yair Oron, hanno presentato alla Corte prove concrete delle esportazioni della difesa israeliana alle forze serbe a quell’epoca, inclusi addestramento, munizioni e fucili. Tra le altre cose, hanno presentato il diario personale del generale Ratko Mladic, attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per aver commesso crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Il diario di Mladic menziona in modo esplicito le vaste connessioni relative ad armamenti con Israele a quel tempo.

Le esportazioni sono avvenute molto tempo dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva posto un embargo sulle armi in varie parti della ex Jugoslavia, e dopo la pubblicazione di una serie di testimonianze che hanno rivelato il genocidio e la creazione di campi di concentramento.

La risposta del Procuratore di Stato israeliano e il respingimento del ricorso da parte della Corte sono un’ammissione de facto da parte di Israele di aver cooperato con il genocidio bosniaco: se il governo non avesse avuto niente da nascondere, i documenti in questione non avrebbero rappresentato nessuna minaccia per la politica estera.

I più tremendi atti di crudeltà dopo l’Olocausto

Tra il 1991 e il 1995 la ex Jugoslavia si dissolse, passando da una repubblica multi-nazionale ad un insieme di Nazioni in conflitto tra di loro in una sanguinosa guerra civile che incluse massacri e infine il genocidio.

I serbi combatterono una guerra contro la Croazia dal 1991 al 1992 e contro la Bosnia dal 1992 al 1995. In entrambe le guerre commisero genocidio e pulizia etnica dei musulmani nelle zone che occupavano, portando alla morte di 250.000 persone. Decine di migliaia di altre furono ferite e affamate, moltissime donne stuprate e molte persone incarcerate in campi di concentramento. Anche altre parti in conflitto commisero crimini di guerra, ma il ricorso si concentra sulla collaborazione di Israele con le forze serbe. Gli atti orribilmente crudeli in Jugoslavia sono stati la cosa peggiore che l’Europa abbia visto dopo l’Olocausto.

Uno dei massacri più noti fu perpetrato dai soldati agli ordini del generale serbo Ratko Mladic intorno alla città di Srebrenica nel luglio 1995. Le forze serbe comandate dal generale uccisero circa 8.000 bosniaci e li seppellirono in fosse comuni durante una campagna di pulizia etnica che stavano conducendo contro i musulmani in quella zona. Pur se la città doveva essere sotto la protezione delle Nazioni Unite, quando iniziò il massacro le truppe ONU non intervennero. Nel 2012 Mladic venne estradato alla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja ed è tuttora sotto processo.

A quel tempo importanti organizzazioni ebraiche fecero appello per una immediata fine del genocidio e lo smantellamento dei campi di morte. Non così fece lo Stato di Israele. Esteriormente condannò il massacro, ma dietro le quinte stava fornendo armi ai massacratori e addestrando le loro truppe.

L’avvocato Mack e il professor Oron hanno raccolto molte testimonianze sulla fornitura di armi da Israele alla Serbia, che hanno presentato nel loro ricorso. Hanno fornito prove che tali esportazioni hanno avuto luogo molto dopo che l’embargo del Consiglio di Sicurezza ONU era entrato in vigore nel settembre 1991. Le testimonianze sono state sottoposte a verifiche incrociate e vengono qui riportate così come presentate nel ricorso, con le necessarie abbreviazioni.

Nel 1992 un’ex alta dirigente del Ministero della Difesa serbo pubblicò un libro, ‘The Serbian Army’ [L’esercito serbo], in cui scrisse dell’accordo sulle armi tra Israele e la Serbia, firmato circa un mese dopo l’embargo: “Uno dei più ampi accordi fu concluso nell’ottobre 1991. Per ovvi motivi l’accordo con gli ebrei non fu reso pubblico in quel momento.”

Un israeliano che al tempo era volontario in un’organizzazione umanitaria in Bosnia ha testimoniato che nel 1994 un dirigente dell’ONU gli chiese di vedere i resti di una granata da 120 mm – con sopra scritte in ebraico – che era esplosa sulla pista di atterraggio dell’aeroporto di Sarajevo. Ha anche testimoniato di aver visto dei serbi che giravano per la Bosnia muniti di fucili Uzi fabbricati in Israele.

Nel 1995 fu riferito che trafficanti d’armi israeliani in collaborazione coi francesi strinsero un accordo per fornire alla Serbia missili LAW. Secondo rapporti del 1992, una delegazione del Ministero della Difesa israeliano si recò a Belgrado e firmò un accordo per la fornitura di granate.

Lo stesso generale Mladic, che è attualmente incriminato per crimini di guerra e genocidio, scrisse nel suo diario che “da Israele hanno proposto di unirsi alla lotta contro gli estremisti islamici. Si sono offerti di addestrare i nostri uomini in Grecia e di fornirci gratis fucili di precisione.” Un rapporto stilato su richiesta del governo olandese durante l’inchiesta sugli eventi di Srebrenica contiene quanto segue: “Belgrado considerava Israele, la Russia e la Grecia come i suoi migliori amici. Nell’autunno 1991 la Serbia strinse un accordo segreto sulle armi con Israele.”

Nel 1995 fu riferito che trafficanti di armi israeliani fornirono armi al VRS – l’esercito della ‘Republika Srpska’, l’esercito serbo bosniaco. Questa fornitura deve essere stata eseguita con il benestare del governo israeliano.

I serbi non erano gli unici in questa guerra a cui i trafficanti di armi israeliani cercarono di vendere armi. In base ai rapporti, ci fu anche un tentativo di fare un accordo con il regime antisemita della Croazia, che alla fine andò in fumo. Il ricorso ha anche presentato rapporti di attivisti per i diritti umani sull’addestramento israeliano all’esercito serbo, e sul fatto che l’accordo sulle armi con i serbi consentì agli ebrei di lasciare Sarajevo, che era sotto assedio.

Mentre tutto ciò avveniva in relativa segretezza, pubblicamente il governo israeliano esprimeva in modo poco convincente la sua apprensione per la situazione, come se si trattasse di cause di forza maggiore e non di una carneficina per mano di uomini. Nel luglio 1994 l’allora capo della Commissione Relazioni Estere e Difesa del parlamento israeliano, deputato Ori Or, si recò a Belgrado e disse: “La nostra memoria è viva. Sappiamo cosa significa vivere sotto boicottaggio. Ogni Risoluzione dell’ONU contro di noi è stata decisa con la maggioranza di due terzi.” In quell’anno l’allora vice presidente degli Stati Uniti Al Gore convocò l’ambasciatore israeliano e intimò ad Israele di sospendere questa collaborazione.

Tra parentesi, nel 2013 Israele non si è fatto problemi ad estradare in Bosnia-Erzegovina un cittadino immigrato in Israele sette anni prima, che era ricercato per sospetto coinvolgimento in un massacro in Bosnia nel 1995. In altri termini, ad un certo punto lo Stato stesso ha riconosciuto la gravità della questione.

La Corte Suprema al servizio dei crimini di guerra

L’udienza della Corte Suprema in merito alla risposta dello Stato al ricorso si è svolta ex parte, cioè ai ricorrenti non è stato permesso di assistere. I giudici Danziger, Mazouz e Fogelman hanno respinto il ricorso ed hanno accettato la posizione dello Stato secondo cui rivelare i dettagli delle esportazioni della difesa israeliana alla Serbia durante il genocidio avrebbe danneggiato le relazioni estere e la sicurezza di Israele, e questo danno potenziale era prevalente rispetto all’interesse pubblico alla rivelazione di quanto accadde.

Questa sentenza è pericolosa per diverse ragioni. In primo luogo, l’accettazione della Corte della certezza dello Stato sul grave danno che sarebbe stato arrecato alle relazioni estere di Israele lascia perplessi. All’inizio di quest’anno la stessa Corte Suprema ha respinto un’accusa simile relativa alle esportazioni della difesa durante il genocidio del Rwanda, però un mese dopo lo Stato ha dichiarato che le esportazioni sono state sospese sei giorni dopo l’inizio del massacro. Se persino lo Stato non vede nessun pericolo nel rivelare – almeno parzialmente – queste informazioni riguardo al Rwanda, perché un mese prima è stata imposta una stretta riservatezza sulla questione? Perché i giudici della Corte Suprema hanno sottovalutato questo inganno, arrivando a rifiutare di accettarlo come prova come richiesto dai ricorrenti? Dopotutto, lo Stato ha ovviamente esagerato nel sostenere che questa informazione avrebbe danneggiato la politica estere.

In secondo luogo, è veramente di pubblico interesse rivelare il coinvolgimento dello Stato in un genocidio, per di più attraverso trafficanti d’armi, in particolare in quanto Stato fondato sulla devastazione del suo popolo in seguito all’Olocausto. È per questo motivo che Israele, per esempio, ha voluto disconoscere la sovranità dell’Argentina quando ha rapito Eichmann e lo ha portato in tribunale nel proprio territorio. È nell’interesse non solo degli israeliani, ma anche di coloro che sono state vittime dell’Olocausto. Quando la Corte si occupa dei crimini di guerra, è corretto che prenda in considerazione anche il loro interesse.

Quando la Corte sentenzia, in casi di genocidio, che il danno alla sicurezza dello Stato – cosa che resta tutta da provare – prevale sul perseguimento della giustizia per le vittime di tali crimini, manda un chiaro messaggio: che il diritto dello Stato alla sicurezza, reale o presunta, è assoluto e ha precedenza rispetto ai diritti dei suoi cittadini e di altri.

La sentenza della Corte Suprema potrebbe portare alla conclusione che più grave è il crimine, più facile è occultarlo. Più armi sono state vendute e più sono stati i massacratori addestrati, maggiore sarebbe il danno per le relazioni estere e per la sicurezza dello Stato se questi crimini venissero divulgati, ed il peso di un tale presunto danno prevarrà necessariamente sull’interesse pubblico. Questo è inaccettabile. Trasforma i giudici – come hanno detto i ricorrenti – in complici. In questo modo i giudici rendono anche un’ inconsapevole popolazione israeliana complice di crimini di guerra e le negano il diritto democratico di discutere nel merito.

Lo Stato deve affrontare simili ricorsi relativamente alla sua collaborazione con gli assassini della giunta argentina, del regime di Pinochet in Cile e dello Sri Lanka. L’avvocato Mack ha intenzione di presentare ulteriori casi entro la fine dell’anno. Anche se fosse interesse dello Stato respingere questi ricorsi, la Corte Suprema deve smettere di aiutare a coprire questi crimini – se non per il desiderio di perseguire gli autori delle atrocità del passato, almeno per fermarli nel tempo presente.

*John Brown è lo pseudonimo di un accademico e blogger israeliano. Questo articolo è comparso per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’, di cui egli è un blogger.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)