Coloni israeliani irrompono nel quartier generale dell’UNRWA a Gerusalemme Est occupata

Redazione di MEMO

27 maggio 2025 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu ha riferito che ieri un gruppo di israeliani di destra ha fatto irruzione nel quartier generale dell’Agenzia ONU per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) a Gerusalemme Est occupata.

Oggi sono orgogliosa di liberare la ex-sede dell’UNRWA nel centro di Gerusalemme,” ha affermato Yulia Malinovsky, del partito di destra Yisrael Beiteinu (Israele è la Nostra Casa) in un video condiviso sul suo account X [precedentemente Twitter, ndt.] girato all’interno della struttura.

Malinovsky, deputata della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], ha collegato l’incursione all’anniversario dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est.

Governo israeliano, siamo qui. Siete invitati a venire e vedere come la sovranità è applicata,” ha detto.

Sono dentro la sede. L’UNRWA non è più qui. Non c’è ragione perché ritorni,” ha affermato Malinovsky.

Non ci sono stati commenti immediati da parte dell’UNRWA sull’incursione dei coloni.

Nell’ottobre 2024, la Knesset ha approvato due leggi che etichettano l’UNRWA come gruppo terroristico e che vietano le sue attività nei territori palestinesi occupati, incluse misure volte ad eliminare i privilegi dell’agenzia e ad impedire qualunque relazione con essa. Queste leggi sono entrate in vigore il 30 gennaio. Israele ha fatto forti pressioni per chiudere l’UNRWA in quanto è l’unica agenzia ONU ad avere un mandato specifico per prendersi cura dei bisogni di base dei rifugiati palestinesi. Se l’agenzia non esiste più, sostiene Israele, allora non deve più esistere neppure il problema dei rifugiati e il legittimo diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alla loro terra sarebbe ingiustificato. Israele ha negato il diritto al ritorno a partire dagli ultimi anni quaranta, anche se la sua accettazione come membro dell’ONU era condizionata alla possibilità per i palestinesi di ritornare alle loro case e alla loro terra.

Fondata nel 1949, l’UNRWA ha funzionato come fondamentale ancora di salvezza per i rifugiati palestinesi, supportando circa 5,9 milioni di persone a Gaza, in Cisgiordania, Giordania, Siria e Libano.

Israele ha occupato Gerusalemme durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980 con un’iniziativa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele caccia con la forza gli studenti e chiude una scuola UNRWA a Gerusalemme Est occupata

  1. Redazione di MEMO

18 febbraio 2025 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie Wafa ha riferito che le autorità israeliane hanno cacciato con la forza studenti palestinesi e hanno chiuso una scuola gestita dall’UN Relief and Works Agency (UNRWA) [l’Agenzia ONU di Soccorso e Lavoro per i Profughi Palestinesi, ndt.] a Gerusalemme Est occupata.

Il governatorato di Gerusalemme ha riferito che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione in una scuola elementare per bambini affiliata all’UNRWA nel quartiere di Wadi Al-Joz a Gerusalemme e hanno ordinato al personale di chiudere l’istituto dopo aver cacciato con la forza gli studenti.

L’azione segue un ordine del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di far rispettare il divieto all’UNRWA di operare nella città. Con le nuove restrizioni, le attività dell’UNRWA dentro le “aree sotto la sovranità israeliana” sono adesso proibite, inclusa l’operatività degli uffici di rappresentanza e l’erogazione di servizi. Anche agli israeliani è proibito avere contatti con l’agenzia. Gerusalemme Est è stata annessa dallo Stato di occupazione negli anni ’80, con un’iniziativa che non è stata riconosciuta dalla maggior parte delle Nazioni in quanto secondo il diritto internazionale l’annessione dei territori acquisiti con la forza delle armi è illegale.

A maggio 2024, la dirigenza dell’UNRWA è stata obbligata a chiudere le sedi sotto la pressione degli attacchi da parte dei coloni illegali che hanno raggiunto il punto in cui i suoi edifici sono stati incendiati due volte in una settimana. Il 10 ottobre dello scorso anno l’autorità israeliana che gestisce il territorio ha annunciato la confisca del terreno sul quale è collocata la sede dell’UNRWA nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est occupata e la trasformazione del sito in un avamposto illegale che comprende 1.440 unità abitative. Tutte le colonie israeliane e i coloni che ci vivono sono illegali per il diritto internazionale.

Il regime di occupazione ha anche colpito il centro di formazione di Kalandia e il 14 gennaio 2024 l’autorità israeliana per il territorio ha preso una decisione chiedendo all’UNRWA di liberarlo e di pagare una tassa di occupazione retroattiva di 17 milioni di shekels (circa 4,56 milioni di euro) con il pretesto di aver costruito e aver usato gli edifici senza permesso.

L’UNRWA fornisce servizi essenziali, inclusi aiuti umanitari, sanitari ed educativi, a più di 110.000 rifugiati palestinesi registrati nella sola Gerusalemme. Nella città occupata l’agenzia ONU gestisce due campi profughi, Shuafat e Kalandia.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il giorno in cui Israele è andato a prendere i librai

Oren Ziv

11 febbraio 2025 – +972 Magazine

Con un libro palestinese da colorare come prova di “istigazione all’odio”, la polizia israeliana ha fatto irruzione nella libreria di Gerusalemme est Educational Bookshop, famosa in tutto il mondo, e ne ha arrestato i proprietari.

Se in qualunque momento durante lo scorso anno e mezzo potreste aver pensato che le autorità israeliane avevano già superato qualunque possibile limite nel restringere la libertà di espressione dei palestinesi, vi sareste sbagliati. Perché ieri la polizia israeliana ha fatto irruzione nei due locali di una libreria famosa nel mondo nella Gerusalemme est occupata, ha arrestato il proprietario e suo nipote e sequestrato una serie di libri, tra cui un album per l’infanzia da colorare.

Durante l’udienza che si è tenuta oggi presso la pretura di Gerusalemme la rappresentante della polizia, sergente maggiore Ortal Malka, ha affermato che sono stati identificati otto libri dell’ Educational Bookshop che rispondono ai criteri di “istigazione all’odio”, ma non ha specificato quali. Si è anche rifiutata di commentare il fatto che la maggior parte dei libri non è neppure scritta in arabo e che la clientela del negozio è principalmente internazionale.

Dato che un arresto per sospetta “istigazione all’odio” richiede l’approvazione preventiva dell’ufficio della procura generale, il proprietario del negozio, Mahmoud Muna, e suo nipote Ahmad Muna, che lavora insieme a lui, sono stati arrestati per sospetto “disturbo alla quiete pubblica”, una prassi comune in casi riguardanti la libertà d’espressione. In un comunicato la polizia ha tuttavia sostenuto che il negozio vende libri che includono “contenuti che istigano all’odio e sostengono il terrorismo,” e che il mandato di perquisizione utilizzato dalla polizia per fare irruzione nei due locali del negozio citava come presunto reato il fatto di “aver espresso solidarietà con un’organizzazione terroristica”.

Durante la notte i due sono stati rinchiusi nel Russian Compound, un centro per gli interrogatori e carcerario di Gerusalemme ovest, e portati lunedì pomeriggio davanti al giudice per un’udienza sulla proroga della loro detenzione. Fuori dall’aula del tribunale si sono riunite decine di attivisti e di diplomatici per protestare a favore dei detenuti, mentre familiari e amici hanno affollato la zona cercando di entrare. Il giudice ha stabilito di prorogare la loro detenzione fino a martedì mattina, dopodiché ha raccomandato il loro rilascio. [Aggiornamento: Mahmoud e Ahmad sono stati rilasciato martedì con 5 giorni di arresti domiciliari e gli è stato proibito di recarsi alla libreria per 20 giorni].

Quando il loro avvocato, Nasser Odeh, ha chiesto perché i Muna fossero stati accusati di disturbo della quiete pubblica Malka ha risposto: “La polizia israeliana crede che, soprattutto durante questo periodo, e in particolare a Gerusalemme, vendere libri che contengono quello che sospettiamo rappresenti un pericolo, tenendo conto dei soggetti.”

Riguardo al numero di libri sequestrati – Odeh ha notato che la polizia ha lasciato il negozio portando via varie casse – Malka ha replicato: “Trenta, forse quaranta, non so quanti alla fine considereremo come incitamento all’odio. Abbiamo sequestrato almeno ottanta libri che sospettiamo di istigazione, forse di più, ma non è sicuro che tutti vengano classificati come tali. Gli agenti hanno preso tutto quello che hanno ritenuto rispondesse ai criteri.”

Quando Odeh ha chiesto di sapere i titoli dei libri sequestrati e i nomi dei loro autori, Malka ha risposto: “Non posso rispondere. Ci confronteremo con i Muna sui libri quando riceverò l’autorizzazione… Ci vorrà tempo per esaminarli, ed è per questo che siamo qui a chiedere una proroga della detenzione (dei Muna) per vari giorni… Molti dei libri sono in arabo, altri in inglese, e qualcun altro in tedesco. Non posso esaminarli uno per uno.”

In base a un’immagine di alcuni dei libri confiscati che poi sono stati restituiti, i titoli includono lavori di Noam Chomsky, Ilan Pappé e Banksy, insieme a libri sul conflitto israelo-palestinese, su rivolte studentesche e arte. Secondo un comunicato della polizia reso pubblico dopo l’irruzione, tra quelli sequestrati c’è un libro per bambini da colorare intitolato Dal Fiume al Mare dell’illustratore sudafricano Nathi Ngubane.

Tra le righe

I due locali di Educational Bookshop si trovano uno di fronte all’altro su via Salah Al-Din, la principale strada commerciale di Gerusalemme est, adiacente alla Porta di Damasco nella Città Vecchia. Fondata nel 1984, l’istituzione ora è considerata una delle librerie più importanti del Medio Oriente, frequentata da giornalisti, ricercatori, diplomatici e turisti per la sua estesa collezione di libri su politica e storia di Israele/Palestina in inglese, arabo e altre lingue. Ospita regolarmente anche eventi pubblici come presentazioni di libri.

Oltre a gestire i negozi, Mahmoud Muna è co-curatore di un’antologia di storie di scrittori di Gaza intitolata Daybreak in Gaza: Stories of Palestinian Lives and Culture [Alba a Gaza: storie di vite e cultura palestinesi], stilata sullo sfondo del massacro israeliano contro Gaza per “preservare l’eredità del popolo di Gaza attraverso letteratura, musica, storie e memorie.”

I negozi sono famosi tra la clientela internazionale e si trovano nei pressi della pretura, ma sono praticamente sconosciuti in Israele. I funzionari del tribunale, gli agenti di polizia e le guardie sono rimasti sorpresi dall’interessamento da parte di mezzi di comunicazione e diplomatici, e lunedì pomeriggio, quando l’udienza è iniziata, le librerie erano aperte e decine di israeliani e stranieri di sinistra sono andati a comprare libri e manifestare solidarietà.

Murad Muna, fratello di Mahmoud e zio di Ahmad, ha descritto a +972 l’irruzione e l’arresto come gli è stato raccontato da un terzo fratello che ha assistito agli eventi: “Alle 15 la polizia israeliana è arrivata ai due locali della libreria cercando libri con la bandiera palestinese,” ha detto. Benché molti dei volumi che hanno confiscato fossero in inglese non sapevano lo leggere, così hanno usato il traduttore di Google per capire di cosa trattassero.”

Mai, moglie di Mahmoud, ha detto a +972 che la loro figlia di 11 anni era presente durante l’incursione della polizia: “Sfortunatamente Laila era in negozio. Ha visto tutto ed era veramente scioccata. Ma le abbiamo parlato e detto che suo padre è forte e non deve preoccuparsi. Non capisce perché hanno preso i libri né quello che cercavano.” Mai nota di aver avuto paura che un tale momento sarebbe arrivato: “Ho sempre detto a Mahmoud di temere che qualcosa del genere sarebbe successo, l’ho visto arrivare.”

Secondo Murad “si tratta di un problema politico. I libri che vendiamo si possono trovare in rete, li puoi comprare ovunque. Trattano del conflitto israelo-palestinese. Abbiamo molti libri scritti da professori e accademici israeliani. Non credo che ci sia una logica o una ragione per arrestarli.” Con le lacrime agli occhi aggiunge: “Non è facile per la famiglia. Speriamo che vengano liberati oggi.”

Per smentire l’accusa di istigazione all’odio da parte della procura, durante l’udienza Odeh ha cercato di spiegare al tribunale che i clienti dei negozi sono per lo più stranieri: diplomatici, giornalisti e turisti. Il rappresentante della polizia ha replicato: “Non so (chi siano i clienti), e ciò non ha importanza. La cosa importante è che c’è un pubblico e il tribunale dovrebbe capirlo.”

“Dal momento in cui ho saputo degli arresti,” ha proseguito Odeh, “mi sono ricordato di due attacchi drammatici. Nel 1258, quando i mongoli invasero Baghdad, entrarono nelle biblioteche, confiscarono e bruciarono libri e ne buttarono alcuni nel fiume nel tentativo di controllare il sapere dell’opinione pubblica, solo per vendetta. Il secondo caso fu in Germania nel 1933, quando la comunità ebraica venne perseguitata. Non sto facendo un confronto, (ma) scrittori e autori furono arrestati per evitare che la loro arte fosse una critica delle atrocità del regime.”

Lunedì in un comunicato il portavoce della polizia ha affermato: “E’ stata effettuata una perquisizione in due librerie di Gerusalemme est sospettate di vendere libri che contengono istigazioni. I sospetti che vendevano i libri sono stati arrestati da agenti di polizia. Come parte dell’inchiesta gli investigatori… si sono trovati davanti a numerosi libri che contengono vari materiali di natura nazionalista palestinese che istigano all’odio, compreso un libro da colorare per bambini intitolato Dal Fiume al Mare. I sospetti, sulla trentina, sono stati arrestati dagli agenti e trattenuti per essere interrogati.

Oggi i due saranno portati davanti al tribunale in quanto la polizia chiede di prorogare la loro detenzione per completare l’indagine. La polizia israeliana continuerà nei suoi sforzi per impedire l’istigazione all’odio e il sostegno al terrorismo utilizzando ogni risorsa disponibile, comprese potenzialità tecnologiche avanzate. Ciò include individuare e arrestare quanti sono coinvolti in reati intesi a minare la sicurezza di cittadini israeliani, ovunque essi siano.”

Oren Ziv è un fotogiornalista, inviato di Local Call [versione in ebraico di +972, ndt.] e membro fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




78 palestinesi uccisi e 340 demolizioni registrate a Gerusalemme dal 7 ottobre 2023

Redazione di MEMO

9 ottobre 2024 – Middle East Monitor

Ieri la Palestinian Press Agency [agenzia di stampa palestinese, ndt.] (SAFA) ha riferito che il governatorato di Gerusalemme ha affermato che dal 7 ottobre 2023 le forze di occupazione israeliane hanno ucciso 78 palestinesi, ne hanno arrestati 1.791 e hanno effettuato 340 demolizioni e operazioni con i bulldozer nel governatorato.

In un rapporto che dettaglia la situazione a Gerusalemme durante l’ultimo anno, il governatorato ha evidenziato la crescita senza precedenti di incursioni nella moschea di Al-Aqsa. Ha registrato che 50.475 coloni hanno preso d’assalto la moschea, azione che è parte di un più ampio piano per imporre divisioni temporali e spaziali sul luogo santo.

In aggiunta il rapporto ha rivelato che Gerusalemme ha visto una campagna senza precedenti di sfollamenti forzati di palestinesi dai loro quartieri storici come Sheikh Jarrah e Silwan che l’occupazione cerca di svuotare dei loro abitanti per far posto ai coloni illegali.

Durante lo scorso anno la demolizione ed il sequestro di case palestinesi non sono cessati ma sono sistematicamente raddoppiati per creare una nuova situazione funzionale al progetto di colonizzazione, con 340 demolizioni e operazioni con i bulldozer registrate nel governatorato.

Inoltre nel rapporto si afferma che l’occupazione ha imposto un soffocante assedio economico ai palestinesi di Gerusalemme, limitando il movimento di beni e persone, insieme a misure arbitrarie contro commercianti e investitori gerosolimitani.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Al canto di ‘bruciare Shu’afat’ e ‘spianare Gaza’, una moltitudine di persone partecipa alla marcia delle bandiere a Gerusalemme

Oren Ziv

6 giugno 2024 – +972Magazine

Ministri israeliani si sono uniti all’annuale celebrazione della conquista di Gerusalemme est, durante la quale slogan razzisti e aggressioni ai giornalisti sono diventati dominanti.

L’annuale Marcia delle Bandiere del “Giorno di Gerusalemme” è stata a lungo famigerata per la sua aperta ostentazione della supremazia ebraica. Ogni anno, in ricordo dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967 e della continuazione del controllo sulla città, decine di migliaia di ebrei israeliani, per la maggior parte giovani, si scatenano nella Città Vecchia, attaccano e aggrediscono gli abitanti palestinesi e gridano slogan razzisti – il tutto sotto la protezione della polizia.

Tuttavia, se in passato si poteva dire che solo alcuni dei gruppi partecipanti si comportavano in tal modo, quest’anno questa è diventata la norma. Incoraggiati dalla brutale guerra di vendetta del loro governo contro la Striscia di Gaza quasi tutti i gruppi che ieri pomeriggio si sono radunati alla Porta di Damasco prima della marcia si sono uniti alle incitazioni.

I cori includevano: “Che il tuo villaggio possa bruciare”, “Shuafat va a fuoco”, “Maometto è morto” e il canto di vendetta genocida che comprende una ingiunzione biblica trasferita sui palestinesi: “Possa il loro nome essere cancellato”. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich sono arrivati entrambi alla Porta di Damasco con le loro guardie del corpo verso la fine dei festeggiamenti e si sono uniti gioiosamente a coloro che festeggiavano mentre cantavano e danzavano.

Oltre ai cori, alcuni partecipanti recavano bandiere del gruppo suprematista ebraico Lehava e cartelli con le scritte: “Un proiettile nella testa di ogni terrorista” e “Kahane aveva ragione”. Alcuni si riferivano esplicitamente all’attuale attacco a Gaza, auspicando di “spianare Rafah” e sventolavano la bandiera di Gush Katif, il blocco di insediamenti israeliani evacuato come parte del “disimpegno” del 2005 e che molta parte della destra israeliana spera di vedere ricostruito. Alcuni portavano cartelli raffiguranti gli ostaggi ancora in mano a Hamas a Gaza.

Tuttavia il focus principale per i partecipanti non era Gaza, ma il Monte del Tempio/Moschea di Haram al-Sharif. La giornata è iniziata con più di 1000 ebrei che sono saliti alla spianata, che è sacra sia per gli ebrei che per i musulmani e amministrata congiuntamente dalla polizia israeliana e dalla fondazione islamica Waqf. Molti di loro avevano bandiere israeliane e alcuni hanno violato lo “status quo” di lunga data del sito mettendosi a pregare.

Erano guidati da attivisti che intendono non solo permettere agli ebrei di pregare nel sito, ma ricostruire un tempio ebraico sul sito della Moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia. Nella marcia un gruppo di giovani indossava magliette raffiguranti la Cupola della Roccia demolita.

A parte arrestare una manciata di manifestanti che hanno aggredito dei giornalisti, la polizia – compresi il capo della polizia e diversi comandanti di alto grado – non ha fatto niente per impedire o punire le istigazioni. Questa mancanza di intervento era particolarmente spudorata vista la repressione seguita al 7 ottobre, che ha visto la polizia arrestare e accusare di istigazione a delinquere centinaia di cittadini palestinesi per essersi opposti alla guerra di Gaza sia sui social media che in piccole proteste nonviolente.

Questo doppio standard è intrinseco alla politica del governo: ciò che conta non è il contenuto di quel che viene detto, ma chi lo dice. Così, mentre i palestinesi vengono arrestati per i post sui social media, agli ebrei viene lasciato libero sfogo per celebrare il Giorno di Gerusalemme aggredendo i palestinesi e auspicando la loro morte.

Giornalisti aggrediti

Le violenze sono iniziate circa alle 13. A quell’ora la polizia aveva già sgombrato un percorso attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia costringendo gli abitanti palestinesi a restare dentro le loro case e i proprietari di negozi a chiuderli.

Perciò i soli obbiettivi rimasti verso cui i primi arrivati per partecipare ai festeggiamenti hanno potuto dirigere la propria rabbia erano alcuni giornalisti già arrivati per documentare la marcia. Il giornalista palestinese Saif Kwasmi è stato aggredito dalla folla, mentre anche il giornalista di Haaretz Nir Hasson è stato gettato a terra e preso a calci. Ma invece di arrestare qualcuno dei manifestanti, la polizia in seguito ha fermato e interrogato Kwasmi, che è stato accusato di istigazione.

La maggior parte dei giornalisti non è riuscita ad arrivare vicino ai manifestanti. Prima dell’arrivo del grosso della folla la polizia ha spinto tutti i giornalisti in una piccola area prospicente la Porta di Damasco: secondo i comandanti della polizia permettere ai giornalisti di seguire i partecipanti attraverso la Città Vecchia sarebbe stata una provocazione pericolosa, data l’ostilità dei manifestanti nei confronti dei media.

Dopo parecchie ore e molte richieste all’ufficio del capo della polizia ai giornalisti è stato permesso di andare in mezzo alla folla festante, ma solo dopo essere stati avvisati che lo facevano a proprio rischio. A quel punto i manifestanti avevano già lanciato molte bottiglie di plastica nella zona della stampa e schernito i giornalisti dal basso.

Poco prima della fine delle celebrazioni Ben Gvir è arrivato alla Porta di Damasco. Circondato da una folta scorta che impediva ai giornalisti di avvicinarsi e fare domande, il ministro ha colto l’opportunità di dichiarare il proprio totale ripudio del delicato status quo religioso sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, che ha da tempo statuito che gli ebrei hanno il diritto di visitare il sito, ma non di pregarvi.

Sono tornato qui per mandare un messaggio a Hamas e in ogni casa a Gaza e in Libano: Gerusalemme è nostra. La Porta di Damasco è nostra. Il Monte del Tempio è nostro”, ha proclamato. “Oggi, seguendo le mie indicazioni, gli ebrei sono entrati liberamente nella Città Vecchia e hanno pregato liberamente sul Monte del Tempio. Lo diciamo nel modo più semplice: tutto questo è nostro.”

Nelle precedenti marce per il Giorno di Gerusalemme Ben Gvir era solo uno dei partecipanti. Oggi è il ministro in carica della polizia, che è responsabile della sicurezza della marcia e della facilitazione della salita degli ebrei alla spianata di Al-Aqsa. Benché il primo ministro benjamin netanyahu abbia preso le distanze dalla dichiarata intenzione di Ben Gvir di sovvertire lo status quo, in ultima istanza è il ministro della sicurezza nazionale ad imporre la linea di condotta.

Una volta il Giorno di Gerusalemme era un evento eccezionale, in cui il razzismo e la supremazia ebraica che da sempre sono esistiti nella società israeliana si rendevano evidenti a tutti. Ma oggi, mentre l’orgia di vendetta dell’esercito prosegue a Gaza con l’attivo sostegno della maggior parte degli israeliani, tra la crescente violenza dell’esercito e dei coloni in Cisgiordania e le campagne di persecuzione e silenziamento del dissenso all’interno della Linea Verde, la Marcia delle Bandiere è diventata solo un ulteriore esempio di come Israele abbia normalizzato l’estremismo.

Oren Ziv è un fotogiornalista, lavora per Local Call ed è membro fondatore del collettivo di fotografia ‘Activestills’.

(Traduzione dall’inglese di cristiana Cavagna)




Il caso di al-Shifa: indagine sull’attacco al più grande ospedale di Gaza

Louisa Loveluck, Evan Hill, Jonathan Baran, Jarrett Ley, Ellen Nakashima

21 dicembre 2023, Washington Post

Un’analisi del Washington Post su immagini open source e satellitari fa luce sulle affermazioni delle forze di difesa israeliane dell’uso da parte di Hamas dell’ospedale al-Shifa a Gaza City.

GERUSALEMME – Settimane prima che Israele inviasse truppe nell’ospedale al-Shifa, il suo portavoce iniziò a montare un caso.

Le affermazioni erano straordinariamente specifiche: che cinque edifici ospedalieri sarebbero stati direttamente implicati nelle attività di Hamas; che gli edifici si troverebbero sopra i tunnel sotterranei utilizzati dai militanti per dirigere attacchi missilistici e comandare i combattenti e che ai tunnel fosse possibile accedere dall’interno dei reparti ospedalieri. Le affermazioni sarebbero supportate da “prove concrete”, ha affermato il portavoce delle forze di difesa israeliane Daniel Hagari esponendo il caso in un briefing del 27 ottobre.

Dopo aver preso d’assalto il complesso il 15 novembre, l’IDF ha pubblicato una serie di fotografie e video che, secondo loro, ne dimostrerebbero la tesi centrale.

I terroristi venivano qui a dirigere le loro operazioni”, ha detto Hagari in un video pubblicato il 22 novembre, accompagnando gli spettatori attraverso un tunnel sotterraneo, illuminando stanze buie e vuote sotto al-Shifa.

Secondo l’analisi del Washington Post di immagini open source, satellitari e di tutti i materiali dell’IDF rilasciati pubblicamente, le prove presentate dal governo israeliano non riescono a dimostrare che Hamas utilizzasse l’ospedale come centro di comando e controllo. La cosa solleva interrogativi critici, dicono gli esperti legali e umanitari, sul fatto se i danni ai civili causati dalle operazioni militari israeliane contro l’ospedale – l’accerchiamento, l’assedio e infine il raid nella struttura e nel tunnel sottostante – fossero proporzionati alla minaccia stimata.

L’analisi del Post dimostra che:

Le stanze collegate alla rete di tunnel scoperte dalle truppe dell’IDF non offrono prove dirette di un uso militare da parte di Hamas.

Nessuno dei cinque edifici ospedalieri indicati da Hagari sembra essere collegato alla rete di tunnel.

Non ci sono prove che sia possibile accedere ai tunnel dall’interno dei reparti ospedalieri.

Ore prima che le truppe dell’IDF entrassero nel complesso, l’amministrazione Biden aveva desecretato le valutazioni dell’intelligence statunitense che supportavano le affermazioni di Israele. All’indomani del raid, i funzionari israeliani e statunitensi sono rimasti fedeli alle loro dichiarazioni iniziali.

“Abbiamo totale fiducia nell’intelligence… che Hamas lo stesse usando come nodo di comando e controllo”, ha detto la settimana scorsa al Post un alto funzionario dell’amministrazione statunitense, parlando a condizione di restare anonimo per discutere risultati sensibili. “Hamas aveva tenuto gli ostaggi nel complesso dell’ospedale fino a poco prima che Israele entrasse”.

Il governo degli Stati Uniti non ha reso pubblico il materiale desecretato e il funzionario non ha voluto condividere i dati su cui si basava questa valutazione.

“L’IDF ha pubblicato prove ampie e inconfutabili che indicano l’uso strumentale del complesso ospedaliero di Shifa da parte di Hamas per scopi terroristici e attività terroristiche clandestine”, ha detto al Post un portavoce dell’IDF.

Quando è stato chiesto se fossero disponibili ulteriori prove su al-Shifa, il portavoce ha detto: “Non possiamo fornire ulteriori informazioni”. Il 24 novembre l’esercito israeliano ha annunciato in un comunicato di aver distrutto il tunnel nell’area dell’ospedale; subito dopo le truppe si sono ritirate.

All’inizio ero convinto che [al-Shifa] fosse il luogo in cui si svolgevano le operazioni”, ha detto al Post un membro senior del Congresso americano, parlando a condizione di restare anonimo a causa della delicatezza della questione. Ma ora, ha detto, “Penso ci debba essere un nuovo livello di chiarimenti. A questo punto vorremmo avere più prove”.

Il fatto che un alleato degli Stati Uniti abbia preso di mira un complesso che ospita centinaia di pazienti malati e morenti e migliaia di sfollati non ha precedenti negli ultimi decenni. L’avanzata su al-Shifa ha causato il collasso delle operazioni dell’ospedale. Mentre le truppe israeliane si avvicinavano e i combattimenti si intensificavano finiva il carburante, i rifornimenti non potevano entrare e le ambulanze non riuscivano a raccogliere le vittime dalle strade.

Citando il personale ospedaliero, le Nazioni Unite hanno riferito che, prima che le truppe entrassero nel complesso, i medici avevano scavato una fossa comune per circa 180 persone. L’obitorio aveva cessato di funzionare da tempo. Diversi giorni dopo, quando i medici dell’OMS arrivarono per evacuare le persone ancora all’interno, dissero che il luogo della guarigione era diventato una “zona di morte”. Almeno 40 pazienti – tra cui quattro bambini prematuri – erano morti nei giorni precedenti il raid e per le sue conseguenze, hanno detto le Nazioni Unite.

Nelle settimane successive altri ospedali di Gaza sono stati attaccati in modo simile a quanto accaduto ad al-Shifa, facendone non solo un momento spartiacque nel conflitto, ma un fondamentale case study del rispetto di Israele della legislazione di guerra.

Status protetto

Il complesso medico di al-Shifa era l’ospedale più avanzato e meglio attrezzato di Gaza. Dopo che Israele ha lanciato la sua devastante campagna di attacchi aerei in rappresaglia per il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, al-Shifa è diventato il cuore pulsante del vacillante sistema sanitario dell’enclave, nonché un luogo di rifugio per decine di migliaia di sfollati di Gaza che temevano sarebbero stati uccisi nelle loro case.

Le strutture mediche godono di una protezione speciale – anche in tempo di guerra – perdendo il loro status solo “se vengono utilizzate al di fuori della loro funzione medica per commettere atti dannosi per il nemico”, ha affermato Adil Haque, professore di diritto alla Rutgers University.

Senza una conoscenza completa dei dati dell’intelligence israeliana e dei suoi piani di battaglia, la legalità delle operazioni militari israeliane contro al-Shifa rimane una questione aperta.

Ma nel suo briefing del 27 ottobre, Hagari ha fornito un quadro chiaro di ciò che pensava le forze israeliane avrebbero trovato, mostrando un video animato di ciò che presumibilmente si trovava sotto la struttura. Nel film militanti mascherati pattugliavano un livello collegato a un labirinto di stanze più sotterranee con computer portatili e zone notte.

“La legge riguarda ciò che l’aggressore avesse in mente nel momento in cui ha pianificato ed eseguito la missione rispetto sia al danno collaterale che si aspettava di causare sia al vantaggio militare che prevedeva di ottenere”, ha affermato Michael Schmitt, professore emerito presso il Naval War College degli Stati Uniti.

L’IDF non ha voluto commentare il vantaggio militare cercato o ottenuto.

Qual era l’urgenza? La cosa non è ancora stata dimostrata”, ha affermato Yousuf Syed Khan, avvocato senior presso Global Rights Compliance, lo studio legale che ha redatto i documenti delle Nazioni Unite sulla guerra d’assedio.

Anche se il tunnel sotterraneo scoperto dalle forze israeliane dopo il raid indicasse una possibile presenza di militanti sotto l’ospedale in un qualche momento, non prova che un nodo di comando operasse lì durante la guerra.

Stiamo avendo una comprensione più dettagliata e tridimensionale dell’ospedale al-Shifa e dei tunnel sottostanti”, ha affermato Brian Finucane, ex consulente legale del Dipartimento di Stato e ora consulente senior presso Crisis Group [ONG indipendente impegnata a prevenire e risolvere i conflitti, ndt.]

Ciò che manca davvero qui è una conoscenza affidabile e sicura della quarta dimensione, che è il tempo. Quando sono stati utilizzati in un determinato modo i vari elementi dell’ospedale? E i tunnel sotto il complesso ospedaliero?

La conferenza stampa del 27 ottobre ha provocato soprassalti di paura nell’ospedale, e il personale l’ha vista come il pretesto per un’azione militare. Poche ore dopo le reti di comunicazione dell’enclave si sono interrotte. “Dopodiché, sono iniziati i bombardamenti sugli edifici circostanti al-Shifa”, ricorda Ghassan Abu Sitta, un chirurgo anglopalestinese che lavorava all’ospedale quella notte. “Il bombardamento era molto vicino e l’edificio tremava violentemente.”

All’inizio di novembre migliaia di civili terrorizzati erano rimasti intrappolati all’interno dell’area dell’ospedale mentre l’operazione militare israeliana isolava di fatto il complesso dal mondo esterno.

Almeno due bambini prematuri sono morti l’11 novembre quando l’ospedale è rimasto senza elettricità per alimentare le incubatrici, ha detto il personale.

Diverse decine di altri pazienti in terapia intensiva sono morte nei giorni successivi, hanno riferito i medici. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha detto che non ha più potuto inviare ambulanze per assistere o evacuare i feriti.

Nelle prime ore del 15 novembre l’IDF ha dichiarato che stava effettuando una “operazione precisa e mirata” contro Hamas in un’area specifica del complesso e che aveva ucciso un certo numero di militanti all’esterno del complesso “prima di entrare. “

Nella tarda mattinata i medici all’interno della struttura e i funzionari del Ministero della Sanità di Gaza hanno affermato che le forze israeliane ne avevano preso il completo controllo. Le truppe erano andate di stanza in stanza interrogando il personale e i pazienti e chiedendo ad alcuni di riunirsi nel cortile, non lontano dalla fossa comune dove i morti venivano sepolti senza nessuna cerimonia.

Il Post ha analizzato le immagini satellitari e le fotografie sui social media per mappare i danni all’ospedale e localizzare la fossa comune, appena dentro i cancelli orientali del complesso ospedaliero.

“Si è trattato di un’operazione militare molto precisa e mirata che Israele ha condotto con molti sforzi per ridurre le vittime civili”, ha detto l’alto funzionario dell’amministrazione americana.

Quando il 18 novembre sono arrivati gli operatori umanitari dell’OMS, medici e pazienti hanno implorato la squadra di fornire un passaggio sicuro, ha riferito l’organizzazione.

Nel pronto soccorso diverse decine di bambini prematuri piangevano, come hanno mostrato i video e detto i medici. Altri due erano morti prima dell’arrivo dei mezzi per l’evacuazione dell’OMS.

Emergono le prove

Durante l’occupazione di al-Shifa da parte dell’IDF, durata più di una settimana, l’IDF ha pubblicato numerose serie di foto e video che mostravano presunte prove dell’attività militare di Hamas all’interno e sotto l’ospedale.

Meno di 24 ore dopo che le forze israeliane erano entrate nel complesso, l’IDF ha diffuso un filmato che mostrava il portavoce Jonathan Conricus mentre attraversava l’unità di radiologia. Dietro una macchina per la risonanza magnetica indica quella che lui chiama una “pesca miracolosa” contenente un fucile tipo kalashnikov e un caricatore di munizioni.

Le foto rilasciate dai militari più tardi lo stesso giorno mostravano l’intero bottino di armi recuperate in ospedale: circa 12 fucili tipo kalashnikov oltre a caricatori di munizioni e diverse granate e giubbotti antiproiettile.

Il Post non è stato in grado di verificare in modo indipendente a chi appartenessero le armi o come fossero finite all’interno dell’unità di radiologia.

Nei giorni successivi sarebbero emerse prove più ampie che sembravano indicare l’attività dei militanti sotto la struttura. Il 16 novembre i militari israeliani hanno diffuso immagini che mostrano l’ingresso di un tunnel nell’angolo nord-est del complesso ospedaliero, vicino all’edificio della chirurgia specialistica.

Le immagini satellitari indicavano che le truppe israeliane avevano trovato l’ingresso all’interno di un piccolo edificio che avevano demolito.

In seguito i militari hanno pubblicato video delle loro truppe e di Hagari mentre esploravano la rete di tunnel collegata al pozzo d’ingresso. Il filmato mostrava un lungo tunnel che si estendeva a est dal pozzo e correva a sud sotto l’unità di chirurgia specialistica; un’altra sezione si dirigeva a nord, lontano dal complesso dell’ospedale. Dai video non è stato possibile determinare la distanza o la direzione finale della sezione nord del tunnel.

È bloccato e sigillato; sanno che saremmo venuti qui da più di un mese e l’hanno sigillato”, ha detto Hagari in un video.

Il Post ha mappato il percorso del tunnel geolocalizzando i siti scavati all’interno di al-Shifa e analizzando i video fotogramma per fotogramma per determinare la direzionalità e la lunghezza della rete. Il Post ha poi sovrapposto i percorsi dei tunnel sulla mappa originale rilasciata dall’IDF il 27 ottobre, che secondo loro mostrava l’intera estensione dell’infrastruttura di comando e controllo di Hamas.

Nessuno dei cinque edifici evidenziati dall’IDF sembra collegarsi ai tunnel, e non è stata prodotta alcuna prova che dimostri che si potesse accedere ai tunnel dall’interno dei reparti dell’ospedale, come aveva affermato Hagari.

Il Post ha analizzato le prove visive dell’IDF che mappano il tunnel sotto al-Shifa e le ha confrontate con le affermazioni iniziali dei militari.

In una sezione sotto l’edificio dell’ambulatorio sono collegati al tunnel due piccoli bagni, un lavandino e due stanze vuote. Hagari ha detto che le stanze e il tunnel ricevevano elettricità, acqua e aria condizionata da al-Shifa. Una stanza, ha detto Hagari, era una “sala operativa”, e l’ha detto dando il cablaggio elettrico come prova.

Le stanze spoglie, piastrellate di bianco, non mostravano alcuna prova immediata di utilizzo, per comando e controllo o altro. Non ci sono segni di abitazione recente come rifiuti, contenitori per cibo, vestiti o altri oggetti personali.

Questa stanza è stata evacuata e tutta l’attrezzatura è stata evacuata. Immagino che sia stato evacuato quando hanno saputo o capito che saremmo entrati nell’ospedale di Shifa”, ha detto Hagari nel video.

Non ha spiegato quando si pensa che i militanti avessero operato nel tunnel o quando sarebbe avvenuta la loro presunta partenza. L’IDF non ha risposto alle richieste di chiarimenti.

“Se alla fine non trovi quello che avevi detto che avresti trovato è legittimo essere scettici sul fatto che la tua valutazione del valore militare dell’operazione fosse fondata o meno”, ha detto Geoffrey Corn, professore di diritto alla Texas Tech University ed ex consigliere senior per la legislazione di guerra dell’esercito degli Stati Uniti. “Non è certamente decisivo. La domanda finale è se, date le circostanze, la valutazione del vantaggio militare fosse ragionevole”.

In una dichiarazione del 18 novembre Hamas ha descritto le affermazioni sul suo utilizzo di al-Shifa come parte di una “campagna di palesi bugie”. I funzionari non hanno risposto a una richiesta di commenti sul presunto utilizzo dei tunnel da parte del gruppo.

Il giorno successivo l’IDF ha pubblicato un’ulteriore prova: il filmato di una telecamera di sicurezza che mostrava militanti armati condurre attraverso l’ospedale due ostaggi dei circa 240 catturati durante l’assalto al sud di Israele il 7 ottobre. Uno sembrava ferito ed è su una barella. Non è chiaro se gli ostaggi siano stati portati in ospedale per cure mediche o per altri scopi.

La presa di ostaggi è un crimine secondo il diritto internazionale. Ma “l’uso improprio dell’ospedale cinque settimane prima dell’operazione dell’IDF non chiarisce la legalità dell’operazione dell’IDF”, ha detto Haque.

Gli ospedali come obiettivi

Mentre la polvere si depositava su al-Shifa, gli esperti mettevano in guardia sul precedente che aveva creato.

Penso che ci sia il rischio che ciò che Israele ha cercato di fare qui sia scusare in anticipo le future operazioni contro gli ospedali. Non si dovrebbe presumere che gli ospedali possano in genere essere presi di mira in base a ciò che Israele ha ipotizzato riguardo a Shifa”, ha affermato Finucane.

Al momento dell’operazione militare del 15 novembre quasi la metà delle principali strutture mediche nel nord di Gaza era stata presa di mira o danneggiata nei combattimenti, secondo un’analisi che il Post ha fatto dei dati di Insecurity Insight, un gruppo di ricerca senza scopo di lucro.

Nel mese seguente una serie di altri ospedali hanno chiuso o ridotto le operazioni al punto di essere a malapena funzionanti, mentre gli attacchi aerei continuano e le vittime aumentano.

Il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato domenica di essere “sconvolto dall’effettiva distruzione” dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, che ha causato la morte di almeno otto pazienti e messo fuori servizio la struttura.

Martedì, dopo aver arrestato il direttore dell’ospedale Ahmed al-Kahlot, Israele ha diffuso un video di interrogatorio in cui Kahlot ammetteva di essere un membro di Hamas e affermava che l’ospedale era sotto il controllo delle Brigate Izzedine al-Qassam, il braccio armato del gruppo. In risposta, il Ministero della Sanità di Gaza ha affermato che la dichiarazione è stata fatta “sotto la forza dell’oppressione, della tortura e dell’intimidazione” per “giustificare i successivi crimini [di Israele], soprattutto contro il sistema sanitario”.

L’ospedale Al-Awda, tra gli ultimi ospedali funzionanti nel nord, è stato assediato dalle truppe israeliane all’inizio di questo mese mentre i medici continuavano a curare i loro pazienti e carburante e cibo scarseggiavano, come hanno detto medici e Medici Senza Frontiere (MSF).

Cerchiamo di essere chiari: Al-Awda è un ospedale funzionante con personale medico e molti pazienti in condizioni vulnerabili”, ha affermato in una nota il capo missione di MSF, Renzo Fricke.

Martedì MSF ha affermato che le forze israeliane avevano preso il controllo della struttura. Uomini e ragazzi sopra i 16 anni, compresi i medici, sono stati portati fuori e spogliati, legati e interrogati. C’erano ancora dozzine di pazienti nei reparti, ha aggiunto l’organizzazione, ma le scorte di anestetici e ossigeno erano finite.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I soldati israeliani che hanno ucciso i terroristi a Gerusalemme hanno colpito a morte anche un civile

Nir Hasson

30 novembre 2023 – Haaretz

Nel video dellattacco alla fermata dellautobus di Gerusalemme pubblicato sui social media, si vede Yuval Doron Kastelman alzare le mani e implorare i soldati israeliani di non sparare dopodiché gli sparano e cade a terra

In base alle riprese dell’attacco pubblicate sui social media i soldati israeliani che giovedì hanno ucciso due terroristi alla periferia di Gerusalemme hanno sparato e ucciso sul posto anche un civile.

La vittima si chiamava Yuval Doron Kastelman, 38 anni di Mevasseret Tzion, un avvocato che lavorava per la Commissione sul Servizio Civile. Secondo la sua famiglia stava andando al lavoro quando ha notato l’aggressione dall’altra parte della strada. È sceso dal suo veicolo, armato della sua arma da fuoco autorizzata, per fronteggiare i terroristi.

Nel video si vede Kastelman alzare le mani e implorare i soldati di non sparare, dopodiché gli sparano e cade a terra.

Il filmato mostra chiaramente che è stato colpito allo stomaco. È stato portato d’urgenza in ospedale in condizioni critiche e in seguito è morto per le ferite. La polizia ha affermato di essere a conoscenza della situazione e che sono in corso indagini.

Un’altra ripresa della scena dell’attacco mostra colpi di arma da fuoco contro un civile che ha appena sparato a uno dei terroristi da distanza ravvicinata.

Nel video si vede il civile gettare via la sua arma dopo aver sparato al terrorista, alzare le mani e togliersi il cappotto per dimostrare che è disarmato. Non è chiaro se si tratti dello stesso civile ferito o di qualcun altro.

Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha annunciato sul luogo dell’attacco che la sua soluzione al terrorismo è continuare la politica di distribuzione di armi ai civili. “Mi rivolgo ai cittadini di Israele, i poliziotti non sono ovunque, quindi dove i cittadini sono in possesso di armi, ciò può salvare vite umane”, ha detto Ben-Gvir.

Dallo scoppio della guerra migliaia di armi da fuoco sono state distribuite ai civili e sono state rilasciate più di 20.000 nuove licenze per il porto d’armi. Una delle principali preoccupazioni sul possesso delle armi da parte di civili non addestrati è che ciò potrebbe portare ad episodi di fuoco incrociato, come è accaduto oggi.

Nell’attacco a Gerusalemme tre israeliani sono stati uccisi e altri sei sono rimasti feriti. I terroristi, due fratelli palestinesi del quartiere di Gerusalemme Est, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. L’attacco è stato rivendicato da Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Armando migliaia di israeliani Ben -Gvir gioca con il fuoco

Eyal Lurie-Pardes

3 novembre 2023 – Dawnmena

All’indomani dell’orrendo attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, Itamar Ben-Gvir, il ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, di estrema destra, continua a premere per realizzare il suo programma suprematista ebraico rischiando nuove tensioni e ulteriore violenza tra ebrei israeliani e palestinesi. La sua priorità è rendere meno rigide le norme sulle armi per semplificarne l’acquisto da parte dei cittadini israeliani, invocando un riarmo di massa degli ebrei in Israele. Secondo Ben-Gvir i fucili sono essenziali per la sicurezza pubblica e per prepararsi a uno “scenario di Guardiano delle Mura 2.0,in riferimento ai disordini e alle violenze intercomunitarie nelle città israeliane a popolazione mista ebraico-araba scoppiati durante le proteste nel maggio 2021 a causa dell’espulsione di palestinesi da Gerusalemme Est e delle operazioni militari israeliane a Gaza.

Ora che Israele è consumato da rabbia nazionalista, ostilità e paura nei confronti dei palestinesi in seguito agli attacchi di Hamas, la nuova politica delle armi—armare migliaia di israeliani, inclusi i coloni—aumenta il rischio di innescare questo scenario da incubo.

Da lungo tempo Ben-Gvir propone il possesso delle armi [da parte dei civili]. Da quando è entrato nel governo israeliano nella coalizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, il numero delle licenze di porto d’armi è aumentato considerevolmente. Come parte della risposta del ministero della Sicurezza Nazionale all’attacco di Hamas, Ben-Gvir ha adottato modifiche ai requisiti per il porto d’armi intese a estendere l’idoneità e velocizzarne il rilascio. Attraverso un nuovo processo di selezione da remoto, con queste nuove norme un permesso viene rilasciato dopo solo una settimana a chiunque soddisfi i nuovi criteri per l’autodifesa. Sono anche state prorogate le date di scadenza degli attuali permessi ed è stato raddoppiato il numero delle pallottole che è possibile acquistare. Dal 7 ottobre oltre 120.000 persone hanno fatto domanda per il porto d’armi.

In generale le leggi israeliani sulle armi discriminano i non ebrei, rendendo quasi impossibile per loro l’ottenimento di un permesso. Per esempio, le norme concedono una certa discrezione ai funzionari del ministero riguardo alla richiesta ai richiedenti di fornire prova di “sufficiente padronanza dell’ebraico.” Il nuovo criterio per l’autodifesa al centro di tali norme meno rigorose sulle armi è ancora più discriminatorio. Include due requisiti principali: aver prestato il servizio militare o nazionale in determinate unità e la residenza in una “città eleggibile.” I cittadini palestinesi in Israele sono collettivamente esentati dal servizio militare. Anche se soddisfacessero tale requisito sarebbe probabilmente loro negato il porto d’armi in base al luogo di residenza, perché le “città eleggibili” designate sono a gran maggioranza ebraiche. Le norme vanno anche a favore dei coloni ebrei, in particolare in Cisgiordania, dato che l’eleggibilità favorisce le città considerate “pericolose” anche oltre la Linea Verde del 1967. Di 100 città e paesi con il numero più alto di porto d’armi in Israele, 86 sono colonie ebraiche in Cisgiordania.

Un’altra componente della politica sulle armi di Ben-Gvir è istituire più squadre di risposta rapida—conosciute in ebraico come kitat konenut —che da lungo tempo fanno parte delle forze di sicurezza israeliane nelle zone rurali, specialmente in Cisgiordania. Sono gruppi di civili, abitanti di un villaggio o kibbutz, che in caso d’emergenza agiscono come forza volontaria di difesa fino all’intervento della polizia o dell’esercito. Hanno giocato un ruolo chiave nel combattere Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, quando villaggi e kibbutz sotto attacco hanno aspettato che arrivassero i soldati per molte ore, talvolta anche più a lungo.

Nelle settimane seguenti l’attacco di Hamas, il ministero della Sicurezza Nazionale si è attivato per creare 600 nuove squadre di risposta rapida nelle aree urbane e rurali. Simili ai criteri per il porto d’armi, queste squadre sono autorizzate principalmente nelle città ebraiche ed è richiesto aver fatto il servizio militare, per cui discriminano i cittadini palestinesi di Israele. A differenza delle zone rurali, dove c’è il rischio che passi molto tempo prima che arrivi la polizia durante una crisi, tali forze volontarie di difesa hanno meno senso nelle aree urbane più densamente abitate, se la sicurezza, e non qualcos’altro, è veramente l’obiettivo principale. Queste unità armate di civili sono ancora meno giustificabili in zone con una significativa comunità palestinese e un influsso di coloni israeliani, come a Gerusalemme Est, dove le tensioni sono sempre alte e gli scontri frequenti.

In pratica queste squadre creano un ulteriore percorso per armare gli ebrei israeliani. Come ha segnalato Daniel Seidemann, un avvocato israeliano e fondatore e direttore dell’ong Terrestrial Jerusalem, potrebbero finire per assomigliare alle “milizie private di Ben-Gvir.” Per esempio, recentemente a Gerusalemme Est sono state fondate due squadre a Ir David e Nof Zion, piccoli avamposti ebraici composti da coloni di estrema destra nel cuore dei quartieri palestinesi di Silwan e Jabel Mukaber.

In Israele, a differenza della maggior parte delle politiche di mantenimento dell’ordine pubblico, che sono determinate dalla polizia indipendentemente dal ministero della Sicurezza Nazionale, le normative e la gestione delle armi ricadono interamente sotto l’autorità del ministero—che Ben-Gvir sta usando per i propri scopi politici. Facilitando la distribuzione di più fucili agli israeliani, inclusi molti coloni, Ben-Gvir—lui stesso un colono—sta sperando di promuovere la propria immagine pubblica militarista e scatenare un’isteria anti-palestinese ancora maggiore. Ha trasformato la distribuzione pubblica di fucili in un circo mediatico, talvolta offrendo armi persino lui di persona davanti alle telecamere e pubblicizzando foto e video sui social.

Recentemente queste foto pubblicitarie hanno messo in allarme i funzionari USA, che hanno espresso preoccupazione sul fatto che le armi da loro fornite ad Israele siano usate per armare civili e per far pubblicità a Ben-Gvir invece di essere consegnate all’esercito o alla polizia come previsto. Dopo che gli USA hanno minacciato di sospendere la consegna di 20.000 fucili che il ministero della Sicurezza Nazionale aveva acquistato da fornitori americani, il governo israeliano si è ufficialmente impegnato con Washington a fare in modo che tali fucili vengano distribuiti solo dalla polizia o dall’esercito. Tuttavia le armi potrebbero ancora essere date alle squadre di risposta rapida, perché esse dipendono dalla polizia israeliana.

Una politica di armare così tanti israeliani non potrà far altro che alimentare le tensioni già alte fra ebrei e palestinesi entro la Linea Verde e Gerusalemme Est. A differenza di quanto avvenuto nel maggio 2021, nelle ultime settimane non ci sono stati gravi disordini nelle città miste arabo-ebraiche o scontri a Gerusalemme Est. Ma questa relativa calma è fragile, specialmente in un momento in cui molti israeliani descrivono ogni palestinese come “il nemico”. Questa rabbia contro i palestinesi è evidente nei gruppi di destra che hanno attaccato studenti e attivisti di sinistra palestinesi in Israele. In una situazione così esplosiva armare così tanti israeliani che non hanno ancora di un sufficiente addestramento per usare un’arma potrebbe alimentare una nuova ondata di disordini su scala nazionale.

Rendere meno rigida la normativa sulle armi è dannoso specialmente in Cisgiordania, dove la violenza dei coloni è aumentata dal 7 ottobre e dove durante gli attacchi sono stati uccisi almeno 115 palestinesi, feriti oltre 2.000 e rimossi con la forza dalle proprie case circa 1.000 palestinesi. La violenza dei coloni era già in aumento l’anno scorso. Armare praticamente ogni colono come vuole Ben-Gvir porterà solo altra violenza. Dopo l’attacco di Hamas il capo del consiglio regionale di Binyamin, il municipio con circa 50 colonie e avamposti nella Cisgiordania centrale, ha affermato che “ogni arabo che si avvicina a una colonia e mette a rischio gli abitanti” è un obiettivo legittimo.

Ben-Gvir sta giocando con il fuoco. Una nuova fase di violenza intercomunitaria peggiore del maggio 2021—”Guardiano delle Mura 2.0,” come si è espresso Ben-Gvir —potrebbe diventare una profezia che si autoavvera. Persino quando finirà questa guerra a Gaza tutte queste armi in eccesso e le nuove squadre di difesa simili a milizie creeranno una nuova pericolosa situazione in tutto Israele.

Eyal Lurie-Pardes è professore-ospite presso l’Istituto per gli studi sul Medio Oriente (Washington) per il programma sulla Palestina e sugli affari palestinesi-israeliani.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’operazione Al-Aqsa ha cambiato il rapporto tra Palestina e Israele 

Ramzy Baroud

10 ottobre 2023 Middle East Monitor

A prescindere dalla precisa strategia del Movimento di Resistenza Islamico Palestinese, di Hamas, o di qualsiasi altra fazione palestinese in generale, l’audace campagna militare all’interno di Israele di sabato 7 ottobre è stata possibile solo perché i palestinesi sono semplicemente stufi. Israele, ricordiamolo, ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio totale da 17 anni.

La storia dell’assedio è per lo più presentata in due modi nettamente diversi. Per alcuni si tratta di un atto disumano di “punizione collettiva”; per altri è un male necessario affinché Israele possa proteggersi dal cosiddetto terrorismo palestinese. Nel racconto, tuttavia, manca del tutto il fatto che 17 anni sono sufficienti perché un’intera generazione cresca sotto assedio, si arruoli nella Resistenza e combatta per la libertà.

Secondo Save the Children, quasi metà dei 2,3 milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza sono minori. La cosa è spesso citata per definire la sofferenza di una popolazione che non è mai uscita dalla piccola e impoverita Striscia di 365 chilometri quadrati [corrispondente alla provincia di Prato, ndt.]. Di nuovo, anche se i numeri possono sembrare precisi, vengono spesso utilizzati per raccontare una piccola parte di una storia complessa.

Questa generazione di Gaza, cresciuta o nata dopo l’imposizione dell’assedio, ha vissuto almeno cinque importanti e devastanti guerre, in cui bambini come loro, insieme alle loro madri, ai padri e fratelli sono stati il bersaglio principale e quindi le vittime principali.

Nemmeno i tentativi di protestare pacificamente contro l’ingiustizia dell’assedio radunandosi in gran numero presso la recinzione che separa Gaza assediata da Israele sono stati autorizzati dallo Stato occupante. Le proteste di massa, conosciute come la Grande Marcia del Ritorno hanno ricevuto come risposta i proiettili dei cecchini israeliani. Immagini di giovani che trasportavano altri giovani che sanguinavano per ferite da arma da fuoco e gridavano “Dio è grande” erano diventate una scena normale lungo la recinzione. Man mano che le vittime aumentavano, nel tempo l’interesse dei media per la storia semplicemente svaniva.

Le centinaia di combattenti che all’alba di sabato scorso sono entrate in Israele attraverso quattro diversi punti di ingresso erano gli stessi giovani palestinesi che non conoscono altro che la guerra, l’assedio e il bisogno di proteggersi a vicenda. Hanno anche imparato a sopravvivere a tutti i costi, nonostante la scarsità o la totale mancanza di quasi tutto a Gaza, comprese l’acqua pulita e un’adeguata assistenza medica.

È qui che la storia di questa generazione si interseca con quella di Hamas, della Jihad islamica e di altri gruppi palestinesi.

Certo, Hamas ha scelto i tempi e la natura della sua campagna militare inserendola in una strategia molto precisa. Questo, tuttavia, non sarebbe stato possibile se Israele non avesse lasciato a questi giovani palestinesi altra scelta se non quella di contrattaccare.

I video che circolavano sui social media mostravano combattenti palestinesi che urlavano in arabo, con quel caratteristico, spesso aspro accento di Gaza: “Questo è per mio fratello” e “Questo è per mio figlio”. Hanno gridato queste e molte altre affermazioni rabbiose mentre sparavano contro coloni e soldati israeliani in preda al panico. Molti di questi ultimi, a quanto pare, avevano abbandonato le loro postazioni e si erano dati alla fuga.

L’impatto psicologico di questa guerra supererà sicuramente quello dell’ottobre 1973, quando gli eserciti arabi ottennero rapide conquiste contro Israele, anche allora a seguito di un attacco a sorpresa. Questa volta l’impatto devastante sul pensiero collettivo israeliano si rivelerà essere un punto di svolta, dal momento che la “guerra” coinvolge un solo gruppo palestinese, non un intero esercito o tre messi insieme.

L’attacco a sorpresa dell’ottobre 2023, tuttavia, è direttamente collegato alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973. Scegliendo il cinquantesimo anniversario di quello che gli arabi considerano un grande trionfo contro Israele, la Resistenza palestinese ha voluto inviare un messaggio chiaro: la causa palestinese è ancora la causa di tutti gli arabi. Tutte le dichiarazioni rilasciate dagli alti comandanti militari e dai leader politici di Hamas erano cariche di questo simbolismo e di altri riferimenti ai paesi e ai popoli arabi.

Il discorso pan-arabo non è casuale ed è comparso nelle dichiarazioni di Mohammed Deif, comandante delle brigate Al-Qassam, di al-Arouri comandante fondatore di Al-Qassam Saleh, del capo dell’Ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e di Abu Obeida, il portavoce mascherato delle Brigate. Tutti hanno esortato all’unità e hanno insistito sul fatto che la Palestina non è che una componente di una più ampia lotta araba e islamica per la giustizia, la dignità e l’onore collettivo. Hamas ha chiamato la sua campagna “Al-Aqsa Flood” ricentrando l’unità palestinese, araba e musulmana attorno ad Al-Quds [nome arabo di Gerusalemme, ndt.], Gerusalemme e tutti i suoi luoghi santi.

Tutti sembravano scioccati, compreso proprio Israele, non dall’attacco di Hamas in sé ma dal coordinamento e dall’audacia di un’operazione relativamente massiccia e senza precedenti. Invece di attaccare di notte, la Resistenza ha attaccato all’alba. Invece di colpire Israele utilizzando i numerosi tunnel sotto Gaza, hanno semplicemente guidato, fatto parapendio, remato via mare e, in molti casi, attraversato a piedi il preteso confine.

L’elemento sorpresa è diventato ancora più sconcertante quando i combattenti palestinesi hanno messo in discussione i fondamenti stessi della guerriglia: invece di combattere una “guerra di manovra” hanno combattuto, anche se temporaneamente, una “guerra di posizione”, mantenendo per molte ore le aree di cui avevano ottenuto il controllo dell’interno di Israele.

In effetti, per i gruppi di Gaza, l’aspetto psicologico della guerra era essenziale quanto il combattimento fisico. Centinaia di video e immagini sono diventate virali sui social media, come se si sperasse di ridefinire il rapporto tra palestinesi, solitamente le vittime, e Israele, l’occupante militare.

L’insistenza sul non uccidere anziani e bambini è stata sottolineata dai comandanti sul campo. Questo non era destinato solo ai palestinesi. È stato anche un messaggio al pubblico internazionale, che la Resistenza Palestinese si atterrà alle regole universali della guerra.

Il numero di palestinesi che Israele uccide, e ucciderà in futuro, come rappresaglia per l’operazione Al-Aqsa sarà tragico, ma non salverà la reputazione a brandelli di un esercito indisciplinato, una società divisa e una leadership politica concentrata esclusivamente sulla propria sopravvivenza.

È troppo presto per giungere a conclusioni generali sugli esiti di questa guerra senza precedenti. Ciò che è chiarissimo, tuttavia, è che il rapporto di fondo tra l’occupazione israeliana e i palestinesi occupati di qui in poi è cambiato, probabilmente in modo permanente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Dei coloni ebrei hanno rubato la mia casa. Non è colpa mia se sono ebrei

Mohammed el Kurd 

 26 SEtTEMBre 2023, Mondoweiss

Ai palestinesi viene detto che le parole che usiamo minimizzano i decenni di violenza messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Un drone va bene, ma gli stereotipi… uno stereotipo è inaccettabile. Ora basta.

Mentre crescevamo nella Gerusalemme occupata, le persone che cercavano di espellerci dal nostro quartiere erano ebrei e le loro organizzazioni spesso avevano “ebraico” nel nome. Lo stesso vale per le persone che ci hanno rubato la casa, buttato i nostri mobili per strada e bruciato la culla della mia sorellina. Anche i giudici che battevano il martelletto a favore della nostra espulsione erano ebrei, così come lo erano i legislatori le cui leggi facilitavano e sistematizzavano la nostra espropriazione.

Il burocrate che rilasciava – e talvolta revocava – le nostre carte d’identità blu era un ebreo, e io lo detestavo soprattutto perché un tratto della sua penna si frapponeva tra mio padre e la città dei suoi avi. Per quanto riguarda i soldati che ci perquisivano per controllare quei documenti, alcuni di loro erano drusi, altri musulmani, la maggior parte ebrei, e tutti loro, secondo mia nonna, erano “bastardi senza Dio”. Quelli che gestivano i fucili e le manette, quelli che redigevano meticolosi e sanguinari piani urbanistici erano … avete indovinato.

Non era un segreto. Vivevamo sotto il dominio dell’autoproclamato “Stato ebraico”. I politici israeliani hanno abusato di questa storia mentre i loro colleghi internazionali annuivano. L’esercito si è dichiarato esercito ebraico e ha marciato sotto quella che ha chiamato bandiera ebraica. I consiglieri comunali di Gerusalemme si vantavano di “prendere casa dopo casa” perché “la Bibbia dice che questo paese appartiene al popolo ebraico”, e i membri della Knesset intonavano canti simili. Quei legislatori non erano marginali o di estrema destra: la legge israeliana sullo Stato nazionale sancisce esplicitamente “l’insediamento ebraico” come un “valore nazionale… da incoraggiare e promuovere”.

Tuttavia, sebbene questo non fosse un segreto, ci veniva detto di trattarlo come tale, a volte dai nostri genitori, a volte da attivisti solidali ben intenzionati. Ci è stato detto di ignorare la Stella di David sulla bandiera israeliana e di distinguere gli ebrei dai sionisti con precisione chirurgica. Non importava che i loro stivali fossero sul nostro collo e che i loro proiettili e manganelli ci colpissero. Il nostro essere apolidi e senzatetto erano irrilevanti. Ciò che contava era il modo in cui parlavamo dei nostri guardiani, non le condizioni in cui ci tenevano – bloccati, circondati da colonie e avamposti militari – o il fatto stesso che ci tenessero.

Il linguaggio era un campo minato peggiore del confine tra la Siria e le alture del Golan occupate, e noi, all’epoca bambini, dovevamo aggirarlo, sperando di non calpestare accidentalmente uno stereotipo esplosivo che ci avrebbe screditato. Usare le “parole sbagliate” aveva la magica capacità di far scomparire le cose:gli stivali, i proiettili,i manganelli e i lividi diventano tutti invisibili se dici un qualcosa per scherzo o con rabbia. Ancora più pericoloso credere nelle “cose sbagliate”: ti rende meritevole di quella brutalità. La cittadinanza e il diritto alla libertà di movimento non erano gli unici privilegi che ci venivano derubati, anche la mera ignoranza era un lusso.

Come palestinesi comprendiamo fin da giovani che la violenza semantica che pratichiamo con le nostre parole fa impallidire decenni di violenza sistemica e materiale messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Va bene un drone, ma uno stereotipo… lo stereotipo è inaccettabile. Impariamo a interiorizzare la museruola.

Quindi ho dato ascolto a quei messaggi – cos’altro dovrebbe fare un bambino di 10 anni? – e ho imparato a conoscere Hitler e l’Olocausto, ho imparato a riconoscere gli stereotipi del naso, i pozzi avvelenati, i banchieri, i vampiri, i serpenti e le lucertole (ho appena scoperto la piovra), e ho imparato che, quando parlo con i diplomatici in visita a quello zoo che è un nostro quartiere, i coloni che occupano casa nostra devono essere argomento secondario nella mia esposizione, dopo un’accalorata denuncia dell’antisemitismo globale. E quando mia nonna ottantenne si rivolgeva a quei visitatori stranieri, la interrompevo per correggerla ogni volta che descriveva i coloni ebrei in casa nostra come, be’, ebrei.   

Più di un decennio dopo non è cambiato molto. Lo stivale resta lì, lo stesso vale per i proiettili e i manganelli (e sarei negligente se non parlassi del genio creativo delle armi da fuoco robotiche azionate dall’Intelligenza Artificiale recentemente aggiunte all’arsenale dello Stato ebraico).

Il governo chiama il suo progetto in Galilea “l’ebreizzazione della Galilea” e le sue quasi-istituzioni fanno lo stesso. Per quanto riguarda i membri del consiglio che hanno promesso di prendere “casa dopo casa”, oltre al loro successo nel rubare case a Sheikh Jarrah, nella Città Vecchia, a Silwan e altrove, marciano regolarmente nelle nostre città con megafoni e bandiere cantando “vogliamo una Nakba ora.” I giudici continuano a battere martelletti per garantire la continuazione di questa Nakba, governano ancora a favore della supremazia ebraica. E, nonostante il disaccordo con la Corte Suprema su vari aspetti, i parlamentari legiferano in conformità con questo atteggiamento suprematista. Alcuni affermano apertamente che la vita ebraica è semplicemente “più importante della [nostra] libertà” (e talvolta sono anche così gentili da scusarsi con i presentatori televisivi arabi mentre gli comunicano questa dura verità).

Più di un decennio dopo lo status quo rimane immutato. E noi, e mi si spezza il cuore, continuiamo a ballare tra le mine. Continuiamo a puntare sulla moralità e sull’umanità così come loro puntano sulle loro armi.

Qualche settimana fa 16 agenti di polizia israeliani hanno spento le loro telecamere e hanno marchiato, intendo dire inciso fisicamente, la Stella di David sulla guancia del 22enne Orwa Sheikh Ali, un giovane arrestato nel campo profughi di Shufat.

Sempre poche settimane fa, MEMRI, un gruppo di controllo dei media co-fondato da un ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, ha pubblicato filmati del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas che affermava che gli europei “hanno combattuto [gli ebrei] a causa della loro posizione sociale” e dell’ ”usura” e “non a causa della loro religione”.

In risposta, un gruppo di rinomati intellettuali palestinesi, molti dei quali ammiro e rispetto, ha pubblicato una lettera aperta “condannando senza mezzi termini” – indovinate un po’? – i “commenti moralmente e politicamente riprovevoli” di Abbas.

Forse si può definire la loro dichiarazione congiunta una mossa “strategica” per confutare la convinzione che i palestinesi nascano intolleranti. Altri potrebbero dire che rappresenti ciò che significa avere un “codice morale coerente”. Sono certo che alcuni firmatari credono che la nostra cosiddetta autorità morale ci imponga di deplorare il revisionismo storico “rispetto all’Olocausto” e di dare l’esempio nel rifiutare ogni forma di razzismo, non importa quanto retorica.

Sia quel che sia, quando l’ho letta ho provato un senso di deja vu. Eccoci qui, presi ancora una volta in una crisi sconclusionata, a rispondere precipitosamente di crimini che non abbiamo commesso. La strategia di difenderci dall’accusa infondata di antisemitismo ci ha storicamente avvicinato ad essa. E soprattutto un simile impulso eleva inconsapevolmente la storia della sofferenza ebraica, che è certamente studiata e addirittura glorificata, molto al di sopra della nostra sofferenza odierna, una sofferenza negata e dibattuta.

Anche se i firmatari della lettera, alcuni dei quali criticavano l’Autorità Palestinese da prima che io nascessi, hanno denunciato “il governo sempre più autoritario e draconiano dell’Autorità Palestinese” e hanno preso atto delle “forze occidentali e filo-israeliane” che sostengono il mandato presidenziale scaduto di Abbas, nessuna di queste circostanze è servita da catalizzatore per quella che sembra essere la prima dichiarazione congiunta di condanna per Mahmoud Abbas. La lettera non menzionava nel titolo la sua collaborazione con il regime sionista, né la brutalizzazione di manifestanti e prigionieri politici, per non parlare dell’omicidio di Nizar Banat [militante e attivista per le libertà assassinato dalle Forze di Sicurezza Palestinesi, ndt.]

Il catalizzatore qui sono state le parole. Solo parole. Ed è sempre così. Ancora una volta, un drone va bene, ma uno stereotipo è vietato.

Ironicamente, sia la lettera congiunta che il discorso di Abbas cercavano di prendere le distanze dall’antisemitismo. Verso la fine del filmato, Abbas ha voluto “chiarire” che ha detto ciò che ha detto riguardo “gli ebrei d’Europa che non hanno nulla a che fare con il semitismo” perché dovremmo “sapere chi dobbiamo accusare di essere nostro nemico”. “

Che impeto impegnativo. Non solo viviamo nella paura di essere evacuati per mano di un colonialismo che si professa ebraico, non solo il nostro popolo è bombardato da un esercito che marcia sotto quella che sostiene essere la bandiera ebraica, e non solo i politici israeliani enunciano ossessivamente l’ebraicità delle loro azioni, ci viene detto di ignorare la Stella di David che sventola sulla loro bandiera – la Stella di David che incidono sulla nostra pelle.

Questo impeto è vecchio di decenni, se non di un secolo. Nella trascrizione manoscritta di un discorso tenuto al Cairo nell’ottobre 1948, lo studioso palestinese Khalil Sakakini cancellò un frammento di frase che diceva “… la lotta tra arabi ed ebrei” per sostituirla con “la lotta tra noi e gli invasori .” Gli accademici palestinesi, l’Istituto per gli studi sulla Palestina e il Centro di Ricerca sulla Palestina dell’OLP (che fu saccheggiato e bombardato ripetutamente negli anni ’80) hanno dedicato articoli, libri e volumi allo studio dell’antisemitismo, delle sue radici europee e delle sue manifestazioni, europee e non – e la sua fusione con l’antisionismo.

Il popolo palestinese ha continuamente chiarito che il nostro nemico è l’ideologia colonialista e razzista del sionismo, non gli ebrei. La nostra capacità di cogliere tale distinzione è ammirevole e impressionante, considerando la mano pesante con cui il sionismo tenta di farsi sinonimo di ebraismo.

Tuttavia, questa distinzione non è nostra responsabilità e, personalmente, non è fra le mie priorità. Il risentimento provato da un palestinese non ha il sostegno di una Knesset che lo codifichi in legge. Gli stereotipi non sono droni, né si possono convertire le teorie della cospirazione in armi nucleari. Siamo oltre i primi del ‘900. Le cose sono diverse, il potere è cambiato. Le parole non ammazzano.

Nei giorni trascorsi tra il gesto di 16 soldati che marchiano la Stella di David sul volto di un uomo e la pubblicazione della lettera congiunta, un soldato israeliano ha ucciso un adolescente disabile vicino a un posto di blocco militare a Qalqilya; un altro ha sparato alla testa a un bambino a Silwan; un giovane già colpito durante un raid israeliano nel campo profughi di Balata è morto per le ferite riportate; un cecchino ha sparato alla testa di un giovane palestinese a Beita; un diciassettenne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a sud di Jenin; un altro giovane è morto a causa delle ferite riportate in seguito all’invasione del campo profughi; famiglie di palestinesi i cui cadaveri sono trattenuti dalle autorità di occupazione avevano marciato con bare vuote a Nablus; un soldato ha ucciso un uomo vicino a Hebron; la polizia ha giustiziato un ragazzo di 14 anni a Sheikh Jarrah tra gli applausi di centinaia di coloni; la polizia ha poi lanciato gas lacrimogeni sulla sua famiglia a Beit Hanina; un palestinese è stato ucciso dopo aver speronato soldati israeliani a Beit Sira uccidendone uno; nel nord di Gerico un palestinese è stato ucciso e un soldato è rimasto ferito in uno scontro a fuoco; un soldato ha sparato alla testa a un uomo a Tubas, uccidendolo – e questa è solo la punta dell’iceberg.

Quale di questi eventi ha causato un ampio dibattito? Nessuno. C’è stato molto dibattito in televisione riguardo all’affermazione di Itamar Ben-Gvir secondo cui la vita ebraica è “più importante della libertà [palestinese]”, molto meno riguardo al marchio della Stella di David e, naturalmente, Mahmoud Abbas ha ricevuto la reazione più rumorosa di tutte. (Questo vale in generale, non solo nel caso della lettera aperta).

Tutti e tre questi esempi riguardano l’estetica. Le dichiarazioni di Ben-Gvir erano concrete e vere: la vita ebraica vale più della nostra sotto il dominio israeliano, ma è stata la sua esplicita orazione a scatenare l’indignazione, piuttosto che le politiche istituzionalizzate che hanno reso le sue osservazioni razziste la realtà materiale sul campo. Anche la deformazione fisica del volto di un palestinese è risultata degna di nota solo per ciò che l’incisione simboleggiava, non per l’incisione stessa: se i soldati avessero inciso dei segni senza significato sulla sua guancia dubito del tutto che la cosa avrebbe attirato l’attenzione.

Per quanto riguarda la morte dei palestinesi, è quotidiana e trascurabile. Se siamo fortunati, i nostri martiri vengono comunicati in cifre sulle pagine dei resoconti di fine anno. Il “revisionismo”, d’altro canto, merita una cacofonia di condanne.

E questa è la mia posizione. C’è un ebreo che vive – con la forza – in metà della mia casa a Gerusalemme, e lo fa per “decreto divino”. Molti altri risiedono – con la forza – in case palestinesi mentre i loro proprietari restano nei campi profughi. Non è colpa mia se sono ebrei. Non ho alcun interesse nel ripetere a memoria o chiedere scusa per i luoghi comuni secolari creati dagli europei, o nel dare alla semantica più peso di quanto gli spetti, soprattutto quando milioni di noi affrontano un’oppressione reale e tangibile, vivendo dietro muri di cemento, o sotto assedio, o in esilio, e convivendo con pene troppo grandi per essere riassunte. Sono stanco dell’impulso a prendere preventivamente le distanze da qualcosa di cui non sono colpevole, e particolarmente stanco del presupposto che io sia intrinsecamente fazioso. Sono stanco della pretesa fintamente inorridita secondo cui se tale animosità esistesse, la sua esistenza sarebbe inspiegabile e senza radici. Soprattutto, sono stanco della falsa equivalenza tra violenza semantica e violenza sistemica.

So che questo saggio è già di per sé un campo minato. Che verrà estrapolato dal contesto e divulgato, ma io non sarò mai la vittima perfetta: non si può sfuggire all’accusa di antisemitismo. È una battaglia persa e, cosa ancora più importante, un’evidente diversivo. Ed è ora di riconsiderare questa tattica. Ci sono cose migliori da fare: abbiamo delle bare da trasportare. Abbiamo dei parenti nelle camere mortuarie israeliane che dobbiamo seppellire.

Questo saggio è stato ispirato dallo storico articolo di James Baldwin del 1967 “I negri sono antisemiti perché sono anti-bianchi”.

Mohammed el-Kurd (1998-) è uno scrittore e poeta palestinese che risiede a Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est. Prima della crisi Israele-Palestina del 2021 stava conseguendo un master negli Stati Uniti ma è tornato per protestare contro lo sfratto dei palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)