Se fosse palestinese, persino Babbo Natale avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio

Eman Abusidu

24 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Mentre in tutto il mondo i cristiani celebrano il periodo natalizio come momento di gioia e rinascita spirituale, l’occupazione israeliana rende le cose difficili per i cristiani palestinesi. Anche se la Palestina, non dimentichiamolo, è il luogo natale di Gesù (la pace sia con Lui), i cristiani locali sono perseguitati dalle forze di sicurezza israeliane. Israele, tramite politiche discriminatorie, arresti arbitrari, prendendo di mira le chiese e con i checkpoint militari, applica intenzionalmente una politica che mira a espellere i cristiani dalla Cisgiordania occupata e dalla Striscia di Gaza, così come da Gerusalemme. I requisiti per ottenere i permessi per andare a visitare luoghi o persone e viaggiare fanno semplicemente parte della più ampia politica israeliana volta a negare ai palestinesi la libertà di movimento e di accesso ai loro luoghi religiosi.

Secondo un rapporto del 2019 dell’Ufficio centrale di statistica palestinese, in Cisgiordania vivono oltre 40.000 cristiani palestinesi, che due anni prima erano 47.000. Nella Striscia di Gaza, la popolazione cristiana si è ridotta dai circa 3.000 di 10 anni fa ai circa 1.000 di oggi, sui 2 milioni di abitanti del piccolo territorio. Prima degli accordi di Oslo c’erano circa 5.000 cristiani a Gaza. Sia i musulmani che i cristiani sanno che il calo è dovuto all’occupazione israeliana.

L’arcivescovo Atallah Hanna, capo della diocesi di Sebastia della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme, ha condannato gli abusi dell’occupazione israeliana. “Ci sono gravi violazioni dei diritti umani del popolo palestinese, persino in occasione dei loro eventi religiosi,” ha detto l’arcivescovo Hanna. “L’occupazione israeliana ha costruito barriere razziste e militari per impedire a musulmani e cristiani di visitare i loro luoghi sacri e di preghiera.”

Il muro dell’apartheid e altri ostacoli degli israeliani rendono impossibile ai palestinesi di viaggiare facilmente, per esempio, dalla chiesa della Natività a Betlemme al Santo Sepolcro senza un permesso speciale delle autorità di occupazione. In molte occasioni si impedisce ai palestinesi di andare alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme e in altri luoghi sacri, inclusa la moschea di Al-Aqsa.

“Noi respingiamo il sistema di permessi che le autorità di occupazione israeliane danno e tolgono a chi vogliono loro,” ha detto il leader ortodosso. “Gerusalemme è la nostra città e la nostra capitale per tutti, cristiani e musulmani.”

L’occupazione rappresenta una minaccia sia per i musulmani che per i cristiani palestinesi. Le stesse crudeli punizioni collettive sono imposte su tutti durante le rispettive feste religiose. Come la loro controparte cristiana in Cisgiordania, i musulmani non possono entrare a Gerusalemme senza un permesso speciale delle autorità israeliane.

E non sono solo le persone religiose a essere prese di mira. Israele vuole cacciare dalla propria terra tutti i palestinesi di ogni religione o atei. Secondo la Legge dello Stato-Nazione ebraico del 2018 è chiaro che, nella Palestina occupata, solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione.

“Quando si tratta di ingiustizia e tirannia le autorità di occupazione non fanno distinzione fra un musulmano e un cristiano,” spiega Hanna. “Siamo tutti presi di mira, i nostri luoghi santi, istituzioni, vite, feste. Ma nonostante tutte queste difficoltà, noi celebreremo il Natale.”

Nonostante sia sotto assedio e separata dal resto della Palestina occupata, la Striscia di Gaza non è immune a tali arbitrarie misure israeliane. I cristiani di Gaza hanno bisogno di un permesso di viaggio per andare a Gerusalemme. Israele di solito respinge tutte le domande per motivi di “sicurezza”.

Comunque, ad alcune centinaia di cristiani palestinesi potrebbe essere permesso di andare da Gaza a Betlemme e Gerusalemme per unirsi ad altri cristiani e celebrare il Natale. L’anno scorso, Israele non l’ha permesso a nessuno. Quest’anno, a causa dell’epidemia di coronavirus, non è stata presentata nessuna domanda. Ci sono stati oltre133.000 casi di Covid-19 nei territori palestinesi occupati, incluse Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza.

Kamel Ayyad, il capo dell’ufficio di pubbliche relazioni della chiesa ortodossa di Gaza, mi ha detto che normalmente ogni anno la chiesa fa domanda per i permessi tramite l’Associazione Civile palestinese a Gaza City. “Gli israeliani respingono la maggior parte delle richieste, per ragioni di ‘sicurezza’,” ci conferma. Ayyad ha reiterato il diritto dei cristiani di Gaza a visitare i loro luoghi sacri. “Non è un’ironia che sia permesso ai cristiani di tutto il mondo e non ai palestinesi?”

L’arcivescovo Hanna fa notare che la pandemia finirà. “È solo questione di tempo, ma cosa ne sarà della catastrofe dell’occupazione israeliana che prende di mira i nostri giovani e ragazzi nella loro fede, nella loro libertà e nelle loro vite? Quando finirà tutto questo?”

Questa è una domanda importante che gli Stati arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele stanno totalmente ignorando. Israele invita turisti da tutto il mondo a visitare la Terrasanta, ma vieta alla popolazione indigena il diritto di viaggiare e vivere liberalmente. Sono sicuro che persino Babbo Natale, se fosse un palestinese, avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché l’UE aiuta Israele nel trattamento dei suoi rifiuti in Cisgiordania?

Adri Nieuwhof

10 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Tre aziende europee stanno partecipato al bando per la commessa riguardante un nuovo impianto di termovalorizzazione maggiormente rispettoso dell’ambiente [previsto] nella colonia israeliana di Maaleh Adumim.

L’ubicazione dell’impianto – nei territori occupati, e quindi illegale ai sensi del diritto internazionale – non ha tuttavia scoraggiato l’Unione Europea, che sostiene con 1,5 milioni di euro l’attuazione di un piano strategico israeliano per il 2030, riguardante la gestione dei rifiuti, che include l’impianto di Maaleh Adumim [colonia nella Cisgiordania a est di Gerusalemme, ndtr.].

L’impianto dovrebbe essere costruito presso il deposito per il riciclaggio “Buon Samaritano” a est (e ben all’interno del territorio occupato) di Maaleh Adumim e a poche centinaia di metri da piccole comunità di pastori palestinesi.

Né l’UE, né le aziende europee possono pretendere di non essere informate al riguardo. Il bando di gara per il progetto è stato pubblicato nell’ottobre dello scorso anno, lasciando molto tempo per una approfondita verifica.

Tuttavia nel novembre di quest’anno il quotidiano [economico, ndtr.] israeliano Calaclist ha rivelato che tre società europee sono disposte a sostenere Israele – la gara prevede che le società straniere debbano avere un partner locale – nella costruzione dell’impianto illegale.

Esse sono: l’azienda tedesca Standardkessel Baumgarte, che ha sede a Duisburg e che collaborerà con l’Israeli Generation Capital Fund.

La Hitachi Zosen Inova, con sede in Svizzera, propone una partnership con la TMM Integrated Recycling Industries, in passato di proprietà di Veolia [multinazionale francese leader mondiale nel trattamento delle acque, ndtr.].

TMM gestisce attualmente la discarica di Tovlan nella Cisgiordania occupata.

L’azienda italiana TM.E. S.P.A. Termomeccanica Ecologia di Milano collabora con la società israeliana Shikun & Binui, che ha realizzato progetti negli insediamenti di Maaleh Adumim e Har Homa.

In tutto si trovano in competizione per la gara otto gruppi, con altre società israeliane che lavorano in partnership con aziende cinesi e giapponesi.

Tutte le aziende che intendono partecipare alla realizzazione di questo sito illegale di termovalorizzazione a Maaleh Adumim violano il diritto internazionale e dovrebbero essere considerate legalmente perseguibili.

Supporto dell’Unione Europea

L’Unione Europea sostiene il Ministero israeliano della Protezione Ambientale nell’attuazione del suo piano strategico per il 2030 al fine di migliorare la gestione dei rifiuti israeliani nell’ambito del suo progetto di gemellaggio da 1,5 milioni di euro.

L’accordo di gemellaggio specifica che “tutte le azioni finanziate dall’UE sono soggette alla politica dell’UE nei confronti di Israele sulla base dei suoi confini definiti in linea con il diritto internazionale”.

Ma il piano strategico per il 2030 del ministero include la creazione del termovalorizzatore di Maaleh Adumim.

L’impianto costerà fino a più di 400 miliardi di euro e tratterà circa 1.500 tonnellate di rifiuti al giorno provenienti dall’area metropolitana di Gerusalemme, inclusa Maaleh Adumim.

Dovrà essere costruito un inceneritore per l’utilizzo dei rifiuti per la produzione di elettricità.

Il trasferimento del trattamento dei rifiuti israeliani nella Cisgiordania occupata è illegale secondo il diritto internazionale. Non giova in alcun modo alla popolazione originaria palestinese. L’UE dovrebbe revocare immediatamente il suo sostegno al progetto.

Il progetto di gemellaggio sostiene di voler “contribuire alla protezione della salute umana e dell’ambiente in Israele”.

A quanto pare, [il concetto di] salute umana, secondo l’UE, non si estende ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I vigneti israeliani vogliono partecipare alla crescita mondiale del vino delle colonie

Joseph Massad

sabato 5 dicembre 2020 – Middle East Eye

Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati

Dagli anni ’90 uno degli aspetti più significativi della nuova cultura mondiale del vino è che non si limita ai Paesi produttori di vino europei.

Accanto alla Francia e, in misura minore, all’Italia, che in precedenza dominavano il settore, i nuovi produttori di vino sul mercato provengono da ex-colonie europee: Australia, Nuova Zelanda, California, Sudafrica, Argentina, Cile. I loro vini sono largamente commercializzati a livello internazionale.

Le colonie israeliane cercano di penetrare in questo mercato, peraltro senza successo a causa della scarsissima competitività dei loro vini sul piano qualitativo, salvo forse in luoghi limitati di alcune città americane ed europee e in alcune zone degli Emirati Arabi Uniti.

Recenti ricerche che valutano la produzione del vino in diverse regioni del mondo non citano neppure Israele come candidato degno di questo nome.

Le origini colonialiste di questi vini sono una semplice coincidenza o la produzione del vino è stata fondata sul furto di terre indigene?

Un importante episodio della storia della produzione vitivinicola europea è stato il disastro avvenuto verso la fine del XIX secolo a causa di una invasione di fillossera, un insetto che si nutre delle viti. La fillossera ha rischiato di distruggere l’industria vinicola francese, con una produzione scesa di circa il 75% tra il 1875 e il 1889.

Era l’epoca dell’apogeo del colonialismo francese, in particolare in Algeria, che a partire dagli anni ‘70 dell’‘800 vide dilagare una nuova ondata di coloni. La maggior parte dei nuovi coloni erano agricoltori del Sud della Francia che cercavano di sfuggire alla povertà dopo la distruzione dei vigneti della Linguadoca e della Provenza da parte della fillossera.

Con la concessione di crediti da parte dello Stato e prestiti bancari ai coloni bianchi, i vigneti cominciarono a ricoprire la regione dell’Atlante telliano [catena montuosa settentrionale del Maghreb, ndtr.] in Algeria, dove si costituì e prosperò un’industria vitivinicola redditizia fino all’indipendenza dell’Algeria.

Le olive e l’uva

I contadini algerini spogliati delle loro terre svolgevano la maggior parte dei lavori agricoli. La resistenza anticolonialista algerina si manifestò con attacchi periodici contro le colonie agricole.

Come illustra l’esempio algerino, le misure giuridiche colonialiste che consentivano di privatizzare le terre conquistate sono sempre state determinanti per l’espansione della colonizzazione.

Nella vicina Tunisia, un’altra colonia francese, i francesi usurparono più di un quarto di milione di ettari tra il 1892 e il 1914.

L’agricoltura colonialista si è specializzata nelle olive e nell’uva per la produzione di olio e di vino. Con la colonizzazione ufficiale sostenuta dallo Stato, i francesi hanno cacciato i contadini tunisini dalle terre su cui lavoravano da sempre ma per le quali non avevano un titolo di proprietà.

La stessa sorte è stata riservata ai pascoli, che persero a favore dei coloni. I tunisini espulsi e in preda alla miseria attaccarono le aziende agricole coloniali.

Nel 1858 gli Ottomani emisero un codice agrario che privatizzò le terre in Palestina: esse cominciarono ad essere acquistate dai mercanti della Palestina e di altre zone. Proprietari assenteisti acquistarono enormi estensioni di terreno e ne vendettero alcuni a degli agenti locali di organizzazioni filantropiche ebraiche con sede in Francia, che finanziavano a loro volta delle colonie agricole.

Allo stesso tempo i vigneti francesi del barone Edmond de Rothschild, un importante produttore di vino francese, furono devastate dalla fillossera. Il barone cominciò a concedere dei fondi ai coloni ebrei russi perché coltivassero delle vigne e nel 1883 finanziò le colonie di Petah Tikva e di Rishon LeZion, dove intendeva impiantare dei vigneti e una tenuta vitivinicola.

Nel 1882 i coloni russi crearono sulle terre perse dal villaggio di Uyun Qarah la prima azienda vinicola di Rothschild a Rishon LeZion, poi poco più tardi nella colonia di Zikhron Yaakov, costruita su terre del villaggio palestinese di Zamarin.

Rothschild “seguì il modello della colonizzazione agricola francese in Algeria e in Tunisia” inviando degli esperti agricoli e orticoli formati in Algeria e in Francia. Proprio come i contadini tunisini ed algerini, quelli palestinesi vennero espulsi dalle terre dove avevano vissuto e lavorato da secoli.

Il primo grande atto di resistenza contadina contro le colonie ebraiche avvenne nel 1886, quando dei contadini attaccarono la colonia ebraica di Petah Tikva finanziata da Rothschild.

Alla colonia erano state vendute delle terre dei contadini confiscate da usurai di Giaffa e dalle autorità a causa dell’indebitamento dei contadini.

Tuttavia una grande quantità di terre vendute alla colonia non era stata confiscata e in realtà apparteneva ai contadini.

Le azioni di resistenza si moltiplicarono quando i coloni ampliarono le loro attività agricole, in quanto i contadini si resero conto di tutte le terre che gli erano state rubate.

Alla fine del XIX secolo la resistenza era tale che non c’era nessuna colonia ebraica “che prima o poi non fosse entrata in conflitto” con i palestinesi.

Vini provenienti dalle colonie

Circa un secolo dopo, nel 1967, Israele invase e occupò le Alture del Golan siriano, espellendo 100.000 siriani. In spregio al diritto internazionale, i coloni ebrei arrivarono in massa e nel 1981 Israele annesse il territorio.

Oggi circa 22.000 coloni ebrei vivono nelle 33 colonie sulle Alture del Golan. Alcune di esse hanno piantato viti e cominciato a produrre vino. Nel 1984 l’azienda vinicola delle Alture del Golan ha prodotto la sua prima annata. Tra gli altri produttori di vino figurano le colonie ebraiche costruite su terre confiscate a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, come la colonia di Rehelim, nel nord della Cisgiordania. Ciò ha provocato dei problemi agli esportatori di vino israeliani e messo in difficoltà gli importatori europei.

Nel 2015 l’Unione Europea (UE), primo partner commerciale di Israele, ha deciso di identificare i vini provenienti dalle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan come provenienti dalle “colonie israeliane”. Questa decisione è stata ratificata nel 2019 da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Questa decisione è stata presa dopo un’azione legale intentata dall’azienda agricola di Psagot, un’impresa fondata nella colonia ebraica di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme est occupata, perché venissero rimosse le etichette di questo tipo.

I vigneti di Psagot sono situati sulle terre nella Cisgiordania occupata. La sua azione legale ha avuto un effetto controproducente: la decisione della Corte di Giustizia della UE ha fatto seguito a un’altra decisione presa nel 2019 da parte della Corte Federale del Canada, che ha rifiutato di autorizzare l’etichetta “Made in Israel” per il vino proveniente dalle colonie ebraiche.

Nel suo parere consultivo un alto responsabile della Corte di Giustizia dell’UE aveva già paragonato il vino israeliano prodotto nelle colonie alle merci proveniente dal Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Un apartheid di altro genere

Più di tre secoli fa dei coloni ugonotti [denominazione dei calvinisti in Francia, ndtr.] olandesi e francesi avviarono su terre indigene conquistate l’industria vitivinicola sudafricana. Gran parte della manodopera agricola delle vigne sudafricane era fornita dalla popolazione “di colore” pagata con vino attraverso il “dop system” [sistema per creare dipendenza da alcool, ndtr.], una forma ufficiosa di schiavismo che ha determinato un diffusissimo alcoolismo.

Negli anni ’90, dopo la fine dell’apartheid, che ha coinciso con l’era del neoliberismo, i vini sudafricani che appartenevano ancora a coloni bianchi hanno iniziato ad essere commercializzati all’estero.

Nonostante sia illegale, il “dop system” in Sudafrica continua ad esistere: secondo alcune stime, nel 2015 rappresentava tra il 2% e il 20% dei salari nella [provincia del] Capo Occidentale.

Insistendo sul fatto che, contrariamente all’apartheid sudafricano, il suo tipo di apartheid è più che accettabile agli occhi dei regimi arabi, in particolare del Golfo, con cui recentemente ha stretto rapporti, Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini di scarsa qualità prodotti su terre palestinesi e siriane rubate.

Benché gli Emirati Arabi Uniti riconoscano le Alture del Golan come territorio siriano occupato e Gerusalemme est e la Cisgiordania come territori palestinesi occupati, la commercializzazione da parte di Israele di vini “Made in Israel” negli Emirati contribuisce a rafforzare il riconoscimento dell’annessione di questi territori, ottenuto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni.

Resta tuttavia da sapere se il governo emiratino o i suoi tribunali insisteranno affinché l’etichettatura specifichi se i vini sono stati prodotti nelle colonie israeliane illegali o sarà consentito di etichettarli “Made in Israel”.

– Joseph Massad è professore di storia politica ed intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri ed articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, pubblicato in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo]. I suoi libri ed articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Porre fine all’apartheid: uno Stato unico non è la soluzione ideale, ma è giusta e possibile

Ramzy Baroud

1 dicembre 2020 – Chronique de Palestine

Ancora una volta gli alti diplomatici europei hanno espresso la loro “profonda inquietudine” riguardo all’espansione in corso delle illegali colonie israeliane, evocando nuovamente la massima secondo cui le azioni israeliane “minacciano la praticabilità della soluzione a due Stati”.

Questa posizione è stata comunicata il 19 novembre dall’alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri Joseph Borrell, nel corso di una video-conferenza con il Ministro degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese Riyad al-Maliki.

Tutte le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale e dovrebbero essere disconosciute a parole e nei fatti, che rappresentino o no un danno per la defunta soluzione a due Stati.

A parte il fatto che alla “profonda inquietudine” dell’Europa non hanno quasi mai fatto seguito misure concrete, enunciare una posizione morale e legale nel contesto di soluzioni immaginarie è notoriamente privo di senso.

Perciò la domanda che si pone è la seguente: “Perché l’Occidente continua ad utilizzare la soluzione a due Stati come parametro politico per la soluzione dell’occupazione israeliana della Palestina, pur evitando di prendere alcuna iniziativa significativa per garantirne la realizzazione?”

La risposta sta in parte nel fatto che fin dall’inizio la soluzione a due Stati non è mai stata concepita per essere attuata. Come il “processo di pace” ed altre affermazioni pretestuose, il suo scopo era promuovere l’idea, presso palestinesi ed arabi, che ci fosse un obbiettivo che valeva la pena di perseguire, pur essendo irraggiungibile.

Tuttavia anche questo obbiettivo fin dall’inizio era subordinato ad una serie di presupposti irrealistici. Storicamente i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la resistenza armata contro l’occupazione militare di Israele), dare il loro consenso a diverse risoluzioni dell’ONU (anche se Israele continua a ignorarle), accettare il “diritto” di esistere di Israele in quanto Stato ebraico, e via di seguito. Era anche previsto che questo Stato palestinese ancora da creare fosse demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza, ma senza la maggior parte della Gerusalemme est occupata.

Pertanto, nonostante gli ammonimenti secondo cui la possibilità di una soluzione a due Stati si stava sgretolando, pochi si sono premurati di comprendere la situazione dal punto di vista palestinese. Secondo un recente sondaggio, stanchi delle illusioni della propria direzione fallimentare, due terzi dei palestinesi adesso concordano che una soluzione a due Stati è attualmente impossibile.

Anche l’affermazione secondo cui una soluzione a due Stati è necessaria, non fosse che come anticipazione di una soluzione permanente di uno Stato unico, è assurda. Questo argomento solleva ancor più ostacoli sulla via della ricerca della libertà e dei diritti dei palestinesi. Se la soluzione a due Stati fosse mai stata realizzabile, lo sarebbe stata quando tutte le parti la difendevano, almeno pubblicamente.

Ormai gli americani non vi sono più legati e gli israeliani l’hanno superata e sono ora impegnati su una strada del tutto nuova, architettando l’annessione illegale e l’occupazione definitiva della Palestina.

La verità incontestabile è che milioni di arabi palestinesi (musulmani e cristiani) e di ebrei israeliani vivono tra il fiume Giordano e il mare. Camminano già sulla stessa terra e bevono la stessa acqua, ma non come persone uguali. Mentre gli ebrei israeliani sono dei privilegiati, i palestinesi sono oppressi, rinchiusi dietro muri e trattati come esseri inferiori.

Per mantenere il più a lungo possibile i privilegi degli ebrei israeliani Israele usa la violenza, utilizza leggi discriminatorie e, con le parole del professor Ilan Pappe, pratica un ‘graduale genocidio’ nei confronti dei palestinesi.

La soluzione di uno Stato unico mira a rimettere in discussione i privilegi degli ebrei israeliani, sostituendo l’attuale regime di apartheid razzista con un sistema politico rappresentativo, democratico ed equo che garantisca i diritti di tutte le popolazioni di ogni confessione, come avviene in tutti i sistemi di governo democratico nel mondo.

Perché questo diventi realtà non c’è bisogno di scorciatoie né di ulteriori illusioni riguardo ai due Stati.

Da molti anni noi colleghiamo la nostra lotta per la libertà dei palestinesi al concetto di giustizia, come negli slogan “nessuna pace senza giustizia”, “giustizia per la Palestina”, e via di seguito. Perciò conviene porre la domanda: la soluzione di uno Stato unico è una soluzione giusta?

La giustizia perfetta non è possibile perché la storia non può essere cancellata. Nessuna soluzione giusta può essere trovata quando generazioni di palestinesi sono già morte come rifugiati privati della loro libertà e senza aver mai potuto far ritorno alle proprie case. D’altra parte permettere all’ingiustizia di perpetuarsi col pretesto che non si può ottenere la giustizia ideale è altrettanto ingiusto.

Per anni molti di noi hanno perorato la causa di uno Stato unico come l’esito più naturale di circostanze storiche tremendamente ingiuste. Tuttavia io – e conosco altri intellettuali palestinesi che hanno fatto come me – ho evitato di farne una questione sotto i riflettori, semplicemente perché sono convinto che ogni iniziativa che riguardi l’avvenire del popolo palestinese debba essere difesa dal popolo palestinese stesso.

Questo è necessario per impedire il tipo di spirito fazioso e, come ha detto Antonio Gramsci, di intellettualismo, che ha forgiato Oslo e tutti i suoi danni.

Ora che l’opinione pubblica in Palestina si sta modificando, principalmente contro la soluzione a due Stati, ma anche, pur gradualmente, a favore di uno Stato unico, si può anche assumere pubblicamente questa posizione. Dovremmo sostenere lo Stato unico e democratico perché anche i palestinesi in Palestina stanno sempre più manifestando tale esigenza legittima e naturale.

Sono convinto che sia solo questione di tempo perché nel contesto del paradigma dello Stato unico uguali diritti divengano la causa comune di tutti i palestinesi.

Preconizzare delle “soluzioni” ormai defunte, come continuano a fare l’Autorità Nazionale Palestinese, l’UE ed altri, è una perdita di tempo e di energie preziose. Aiutare i palestinesi ad ottenere i loro diritti, tra cui quello al ritorno dei rifugiati palestinesi, e rendere Israele responsabile moralmente, politicamente e giuridicamente di non aver rispettato il diritto internazionale dovrebbe ora assorbire tutta l’attenzione.

Vivere come eguali in un solo Stato che abbatta tutti i muri, metta fine a tutti gli assedi e faccia cadere tutte le barriere è uno di quei diritti fondamentali che non dovrebbero essere oggetto di negoziati.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e caporedattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e difesa nelle prigioni israeliane” (Pluto Press). Baroud ha un dottorato in studi sulla Palestina presso l’università di Exeter ed è ricercatore associato presso il Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’espulsione di palestinesi a Sheikh Jarrah è parte della politica israeliana

Linah Alsaafin

20 novembre 2020 – Al Jazeera

La minaccia di espulsione dalle proprie case incombe sulla testa di almeno una decina di famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, quartiere della Gerusalemme est occupata, paralizzando ogni progetto per il futuro.

Ad ottobre il tribunale israeliano di Gerusalemme ha sentenziato di espellere 12 delle 24 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah e di consegnare le loro case a coloni ebrei israeliani. Il tribunale ha anche stabilito che ogni famiglia deve pagare ai coloni 70.000 shekel (circa 17.000 euro) di spese processuali.

Alle famiglie sono stati concessi 30 giorni per presentare appello, ma la maggioranza ha espresso scarse speranze in una sentenza a proprio favore, affermando che il sistema giudiziario israeliano non è altro che uno strumento della politica di occupazione israeliana di espulsione forzata e cancellazione della presenza palestinese a Gerusalemme.

Dall’ordine di espulsione abbiamo vissuto con il timore giornaliero di non sapere quando l’esercito israeliano arriverà e ci caccerà dalle nostre case,” dice Ahmad Hammad, un abitante di Sheikh Jarrah.

Tutti i miei ricordi sono qui. Sono nato qui e mio padre, le mie zie e zii, i miei nonni hanno vissuto in questa casa.”

Una macchina coloniale ben oliata”

Sheikh Jarrah, che si trova alle falde del Monte Scopus, subito a nord della Città Vecchia, ospita 3.000 palestinesi, tutti rifugiati che erano stati espulsi dalle loro case in altre parti della Palestina storica durante la Nakba [la Catastrofe in arabo, la pulizia etnica ad opera delle forze sioniste, ndtr.] nel 1948.

Il quartiere è una giustapposizione di zone ricche e povere, sede della Colonia Americana [fondata nel 1881 da membri di una società utopica cristiana, ndtr.] e degli hotel Ambassador. Ma la parte in cui vivono i rifugiati e i loro discendenti è segnata da strade non asfaltate e da case che sono in rovina a causa del fatto che il Comune di Gerusalemme impedisce ogni tipo di lavoro di ristrutturazione.

I rifugiati, 28 famiglie cacciate dalle loro case da Israele, poterono risistemarsi a Sheikh Jarrah nel 1956, dopo che la Giordania, che aveva un mandato sulla parte orientale di Gerusalemme, vi costruì case popolari per loro. Un accordo tra le Nazioni Unite e la Giordania stabiliva che le famiglie avrebbero ricevuto le case in cambio della rinuncia alla loro condizione di rifugiati con l’agenzia ONU per i rifugiati e che dopo tre anni il governo giordano avrebbe trasferito il titolo di proprietà alle famiglie.

Tuttavia ciò non avvenne e nel 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est.

Secondo Fayrouz Sharqawi, direttore della mobilitazione globale di “Grassroots Jerusalem” [Gerusalemme di base, associazione della società civile gerosolimitana, ndtr.], è “assurdo” basarsi sul sistema giudiziario israeliano per proteggere i diritti dei palestinesi.

Questo sistema è parte integrante dello Stato colonialista sionista, definito ‘Stato ebraico’, e di conseguenza opprime, spoglia ed espelle sistematicamente i palestinesi,” dice ad Al Jazeera.

Sentenze che sospendono momentaneamente gli ordini di espulsione o di demolizione servono solo ad Israele, in quanto creano l’illusione che sia uno Stato democratico in cui i tribunali ritengono responsabili il governo o l’esercito e impediscono le violazioni dei diritti dei palestinesi,” aggiunge.

Sharqawi dice che persino nel migliore degli scenari più di 70 anni di occupazione dimostrano che le decisioni dei tribunali rimandano ma raramente annullano questi ordini, che prima o poi sono messi in pratica. “I palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, devono affrontare una macchina colonialista ben oliata: l’esercito e il sistema burocratico e giudiziario israeliani, che lavorano congiuntamente per la spoliazione ed espulsione dei palestinesi,” afferma.

Le espulsioni sono parte dell’“equilibrio demografico” israeliano

Per quanto riguarda Hammad, egli conosce fin troppo bene la situazione.

Non sono ottimista riguardo all’appello,” afferma. “Sento che ci vorrà più tempo, ma solo perché accada l’inevitabile. Abbiamo tutti i documenti e le prove necessari,” aggiunge. “Ma la sensazione prevalente è di timore e di vedere le nostre case tolte e assegnate ai coloni.”

Dagli anni ’70 il governo israeliano ha lavorato per mettere in pratica a Gerusalemme un “equilibrio demografico” con un rapporto di 70 a 30, limitando la popolazione palestinese in città al 30% o meno.

Questo progetto urbano è stato messo in atto attraverso una serie di politiche come la confisca di terreni, le espulsioni e la colonizzazione dei quartieri palestinesi.

Il 26 novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato l’espulsione di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa, nel quartiere di Silwan di Gerusalemme est occupata, a favore dell’organizzazione di coloni israeliani “Ateret Cohanim”[organizzazione che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ndtr.].

Gli 87 abitanti palestinesi di Batan al-Hawa hanno vissuto nelle loro case dal 1963. Dopo aver iniziato un procedimento giudiziario contro gli abitanti, “Ateret Cohanim” ha insediato 23 famiglie israeliane, pesantemente protetti, tra gli 850 abitanti palestinesi.

Altre organizzazioni di coloni, alcune finanziate da singoli cittadini statunitensi, includono [quella del quartiere religioso ebraico di] Nahalat Shimon e l’Israel Land Fund [Fondo per la Terra di Israele, storica organizzazione sionista che si occupa dell’acquisto e dello sfruttamento a favore degli ebrei delle terre in Palestina, ndtr.].

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel solo 2020 nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, sono state demolite 689 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

Indiscutibilmente politico”

Per Mohammed al-Kurd, poeta e scrittore di Sheikh Jarrah che attualmente studia a New York, le evizioni di palestinesi, che descrive come “espulsioni forzate”, non sono solo un evento isolato.

È il percorso di un movimento di spoliazione duratura,” dice ad Al Jazeera.

Dobbiamo sempre costantemente ricordare alla gente che non si tratta solo di qualche povera famiglia palestinese (che) per qualche bizzarra ragione giuridica perde la sua proprietà. Ciò riguarda centinaia di migliaia di palestinesi in tutta Gerusalemme e nelle città vicine, nella Palestina in generale, che devono affrontare le feroci zanne di un sistema giudiziario concepito intrinsecamente per cacciarli.”

Al-Kurd aveva solo 11 anni quando nel novembre 2009 alcuni coloni ebrei occuparono con la forza metà della sua casa e descrive il fatto di aver dovuto condividerla con “occupanti abusivi con accento di Brooklyn” come “insopportabile, intollerabile (e) terribile.”

Si sono piazzati nella nostra casa, tormentandoci, maltrattandoci, facendo il possibile non solo per obbligarci ad andarcene dalla nostra metà della casa ma spingendo anche i nostri vicini a lasciare le proprie case come parte di un tentativo di annullare totalmente la presenza palestinese a Gerusalemme,” dice.

Haddad, cresciuto con al-Kurd, afferma che è difficile pensare e pianificare il futuro.

Non so quello che succederà se ci cacciano,” dice. “Questa sentenza è arrivata in un momento in cui la vita è arrivata a un punto morto a causa della pandemia da coronavirus.

Andiamo avanti alla giornata,” continua. “Anche se decidessimo di piantare una tenda fuori dalla nostra casa e viverci, il governo israeliano non ce lo consentirebbe.”

Al-Kurd sostiene che la sua famiglia non può permettersi di affittare un posto a Gerusalemme e l’unica alternativa sarà andare nella Cisgiordania occupata, dove perderanno la residenza a Gerusalemme e non potranno ritornare in città.

Questo è il problema più generale qui,” spiega. “Sono le demolizioni di case, le espulsioni forzate, le evizioni, ma è anche un problema psicologico, perdere la possibilità di rientrare a Gerusalemme.

Israele ha fatto in modo che questo sembri una specie di problema giuridico, ma non lo è, è indiscutibilmente politico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il regalo dell’ANP a Biden è il ritorno a una strategia fallimentare

Omar Karmi

20 novembre 2020 – The Electronic Intifada

La notizia secondo cui l’Autorità Nazionale Palestinese ha deciso di riprendere il coordinamento con Israele dopo averlo sospeso per sei mesi non rappresenta una grande sorpresa.

Si tratta di un regalo di benvenuto a Joe Biden, il neoeletto presidente americano, che dimostra nel contempo la scarsità di idee della dirigenza dell’ANP.

In maggio la decisione di porre fine al coordinamento era stata presa di fronte alla minaccia di un’annessione formale da parte di Israele di circa il 30% della Cisgiordania occupata. Ma fin dall’inizio i politici palestinesi hanno fatto sapere che sarebbe stata una protesta per lo più simbolica.

Formalmente il coordinamento tra le forze di sicurezza palestinesi e l’esercito israeliano sarebbe dovuto finire. Ma le forze di sicurezza palestinesi hanno agito come se il coordinamento fosse ancora in atto. In altre parole nell’unico ambito che interessa ad Israele, la sicurezza, l’ANP ha subito fatto marcia indietro.

Il resto è stato solo atteggiarsi e farsi del male da soli.

È stata solo una posa perché, senza il coordinamento per la sicurezza, si è trattato di una mossa largamente priva di effetti concreti, rivolta più all’opinione pubblica interna – guardate, stiamo facendo qualcosa – che con la reale speranza di ottenere un qualunque effetto significativo.

È stata autolesionista perché tutto ciò che ne è derivato è stato che l’ANP ha finito per doversela cavare senza la riscossione delle tasse che Israele raccoglie a suo favore.

E, dato che ciò è avvenuto nel bel mezzo di una pandemia globale, ha anche comportato alcune conseguenze molto concrete, soprattutto a Gaza. Lì la fine del coordinamento ha voluto dire che una popolazione già imprigionata dal blocco israeliano ora non ha quasi nessuna possibilità di lasciare il territorio per cercare cure mediche.

Con un settore sanitario sull’orlo del collasso come diretta conseguenza delle sanzioni e dell’assedio israeliani, ciò ha provocato indicibili danni e sofferenze.

Il coordinamento tra l’ANP e Israele è il meccanismo attraverso il quale Israele impone il suo sistema di permessi ai palestinesi nei territori occupati, subìto in modo più pesante nella Striscia di Gaza isolata. Come potenza occupante, tuttavia, Israele conserva la responsabilità del benessere di tutte le persone sotto occupazione, indipendentemente dallo stato del coordinamento.

Una gloriosa vittoria

Ora si potrebbe sostenere, allo stesso modo degli EAU e del Bahrain, che il lavoro è stato fatto, la minaccia di un’annessione formale è superata e che non c’è bisogno di continuare a sospendere il coordinamento, soprattutto alla luce della sua natura autolesionista.

Tuttavia questo suggerirebbe che siano successe almeno due cose, entrambe palesemente false:

primo, che la mancanza del coordinamento tra Palestina e Israele abbia in un certo modo creato talmente tanti problemi ad Israele da fargli abbandonare l’annessione.

Secondo, che Israele abbia abbandonato l’annessione.

È vero che Israele ha accantonato il piano di annunciare formalmente l’annessione di altra terra occupata (ha già annesso formalmente le Alture del Golan e Gerusalemme est). Ma ha portato avanti la costruzione di colonie. Ogni insediamento edificato è un’annessione di fatto. Israele non sta spostando persone in un territorio che ha intenzione di evacuare a favore di uno Stato palestinese. Quindi porre fine al coordinamento con Israele non ha ottenuto assolutamente niente per i palestinesi. Tuttavia ciò non ha impedito a importanti politici dell’ANP di dichiarare che la ripresa del coordinamento è una “vittoria” per il popolo palestinese.

Senza dubbio in senso ironico.

Ci sono solo due ragioni per cui l’ANP ha ripreso il coordinamento e nessuna delle due ha qualcosa a che vedere con un successo diplomatico. La prima è la stretta finanziaria, che è reale. La seconda è stata l’elezione del presidente USA. L’ANP è desiderosa di presentare la (presumibilmente) entrante amministrazione Biden come un nuovo inizio.

Ma nella sua ansia di fare ciò l’ANP sta semplicemente per ristabilire la situazione precedente alla presidenza USA di Donald Trump e per ricominciare con la solita routine che per più di vent’anni non è servita a nessuno, se non a Israele.

Continuare a girare in tondo

Il primo segno delle intenzioni dell’ANP è la sua fretta di riprendere i rapporti diplomatici con gli EAU e il Bahrain, nonostante il loro “tradimento” con la normalizzazione delle relazioni con Israele.

Poi deve assicurarsi la riapertura della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington e una ripresa dei rapporti con gli USA. Questo può sembrare un momento promettente per ottenere qualche concessione dall’amministrazione entrante, desiderosa di prendere le distanze da quella uscente.

Tuttavia una concessione è fuori discussione: Biden ha detto molto tempo fa che non sposterà l’ambasciata USA da Gerusalemme.Ma i palestinesi potrebbero chiedere che gli USA chiariscano la loro posizione su Gerusalemme est come territorio occupato e sulle colonie come illegali in base al diritto internazionale. Queste non sono posizioni controverse a livello internazionale.

Nel corso degli anni gli USA hanno progressivamente alleggerito la loro posizione sulle colonie, arrivando al colmo quando l’amministrazione Trump le ha definite “non…in contraddizione” con le leggi internazionali. Ciò potrebbe fornire a Biden la possibilità di rompere con gli anni di Trump.

Ma Biden è profondamente coinvolto nella cultura filoisraeliana di Washington e, in ogni caso, indipendentemente da quale partito controlli il Congresso USA, dovrà sempre affrontare ostilità quando si tratta di qualunque cosa riguardi Israele.

Qualunque concessione sarà difficile. Ciò è particolarmente vero dal momento che la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese difficilmente si troverà a resistere quando la Casa Bianca gli farà l’occhiolino. Quindi non ci si aspetti alcun concreto tentativo di ottenere qualcosa dagli Stati Uniti o da Israele quando l’amministrazione Biden si farà sentire, cosa che inevitabilmente succederà. Al contrario, se e quando l’amministrazione Biden inviterà di nuovo l’OLP a Washington, la dirigenza palestinese non ci penserà due volte.

Di conseguenza, aspettiamoci di vedere cestinati in sordina i tentativi di unità con Hamas, e con essi i colloqui per le elezioni, in quanto l’ANP cerca di evitare qualunque cosa possa mettere in difficolta il presidente Biden.

Il leader dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe consigliare di vedere un nuovo tipo di processo di pace, guidato da un insieme di attori internazionali piuttosto che solo dagli USA.

Nel corso degli ultimi anni ha espresso ripetutamente questa posizione.

Ma ci vorrà poco perché i funzionari di un’amministrazione USA “più amichevole” convincano la loro controparte palestinese ad accettare come primi passi un ritorno dei finanziamenti USA all’ANP o all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, insieme alla riapertura della missione dell’OLP a Washington, e a lasciar perdere altre richieste.

Dopodiché sarà solo questione di tempo prima che i palestinesi possano celebrare un’altra “vittoria” diplomatica: il ritorno alla situazione precedente a Trump.

Ovviamente ciò ha dato davvero buoni risultati ai palestinesi.

In mancanza di un cambiamento radicale di strategia da parte della dirigenza dell’OLP, stiamo per assistere di nuovo allo stesso disastroso processo di pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Secondo l’ONU le forze israeliane lasciano senza casa 41 minorenni dopo aver raso al suolo un villaggio palestinese

Oliver Holmes da Gerusalemme

5 novembre 2020 – The Guardian

Le demolizioni utilizzate come “mezzo fondamentale” per “obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case”

Secondo le Nazioni Unite, con il più vasto episodio di espulsione forzata da anni, le forze israeliane hanno raso al suolo un villaggio palestinese della Cisgiordania occupata, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori.

Macchine movimento terra, scortate da veicoli militari, sono state filmate mentre si avvicinavano a Khirbet Humsa e procedevano a spianare o distruggere tende, baracche, stalle, gabinetti e pannelli solari.

Sono alcune delle comunità più vulnerabili della Cisgiordania,” ha affermato Yvonne Helle, coordinatrice umanitaria dell’ONU per i territori palestinesi occupati.

Durante l’operazione di martedì i tre quarti della comunità hanno perso dove ripararsi, ha detto, facendone il più ampio episodio di espulsione forzata in più di quattro anni. In ogni caso, per il numero di strutture distrutte, 76, l’incursione è stata l’operazione di demolizione più vasta dell’ultimo decennio, ha aggiunto.

Mercoledì alcune famiglie del villaggio sono state viste rovistare nel vento tra i propri beni distrutti, mentre lo stesso giorno sono iniziate le prime piogge dell’anno. L’ONU ha pubblicato una foto di un letto e di un lettino in pieno deserto.

Il villaggio è una delle numerose comunità di beduini e pastori nella zona della Valle del Giordano che si trova all’interno di un’“area di tiro” per l’addestramento dell’esercito decretata da Israele e, nonostante sia all’interno dei territori palestinesi, lì la gente spesso deve affrontare demolizioni di edifici costruiti senza il permesso israeliano.

I palestinesi non riescono mai a ottenere tali permessi,” ha affermato Helle. “Le demolizioni sono un mezzo fondamentale per creare un contesto destinato ad obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case,” ha detto, accusando Israele di “gravi violazioni” delle leggi internazionali.

Ha affermato che finora nel 2020 in Cisgiordania e Gerusalemme est sono state demolite circa 700 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

L’Amministrazione Civile israeliana, l’ente incaricato di gestire l’occupazione, ha detto di aver messo in atto un “provvedimento giudiziario… contro sette tende e otto recinti costruiti illegalmente in un campo da tiro nella Valle del Giordano.”

Questi dati contraddicono il comunicato dell’ONU e un resoconto stilato sul posto dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, secondo cui le forze militari hanno distrutto 18 tende e baracche che ospitavano 11 famiglie, 29 tende e baracche usate come stalle per gli animali, tre baracche adibite a magazzini, nove tende utilizzate come cucine, 10 gabinetti mobili, 10 recinti per il bestiame, 23 cisterne per l’acqua, due pannelli solari e mangiatoie e abbeveratoi per il bestiame.

Le forze israeliane hanno distrutto anche più di 30 tonnellate di cibo per animali e confiscato un veicolo e due trattori di proprietà di tre abitanti, ha aggiunto l’associazione.

Come parte dei suoi tentativi di impossessarsi di sempre più terra palestinese, Israele demolisce regolarmente case e proprietà palestinesi,” ha affermato il portavoce di B’Tselem, Amit Gilutz.

Ma spazzare via un’intera comunità in un colpo solo è molto raro, e sembra che Israele stia approfittando del fatto che l’attenzione di tutti sia attualmente altrove per procedere con questa azione inumana,” ha detto, riferendosi alle elezioni USA.

Israele ha strappato la Cisgiordania alle forze giordane nel 1967 e continua a controllare e occupare la zona, anche se i palestinesi hanno un ridotto autogoverno su piccole enclave.

Il primo ministro del Paese e sostenitore della linea dura, Benjamin Netanyahu, ha affermato di aver intenzione di annettere grandi aree dei territori occupati, compresa la Valle del Giordano, benché il progetto sia stato temporaneamente “sospeso” come parte di un accordo con gli Emirati Arabi Uniti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Documenti esclusivi rivelano decenni di stretta cooperazione fra il Fondo Nazionale Ebraico (FNE) ed Elad

Uri Blau 

19 ottobre 2020 – +972

Una relazione interna rivela che, fin dagli anni ’80, il Fondo Nazionale Ebraico ha permesso ai coloni di Elad di intentare azioni legali in loro nome. La collaborazione ha portato allo sfratto di palestinesi mentre si è rafforzata la presenza degli ebrei a Gerusalemme Est

Da tempo la famiglia Sumarin è un simbolo della lotta fra palestinesi e coloni israeliani a Silwan, quartiere di Gerusalemme Est. Sin dagli inizi degli anni ’90, la casa dei Sumarin, accanto alla moschea Al-Aqsa e che condivide un muro divisorio con la città di David, sito archeologico e attrazione turistica ebraica, è stata oggetto di una battaglia legale condotta dal Fondo Nazionale Ebraico (FNE) per ottenerne lo sfratto.

Recentemente però è emersa una vicenda molto più profonda. Ad agosto è stato rivelato che Elad, un’organizzazione che promuove colonie ebraiche a Gerusalemme Est, da dietro le quinte aveva avviato una causa presso tribunali israeliani. Con il crescere della pressione dell’opinione pubblica internazionale sul FNE per lo sfratto previsto, il rapporto fra Elad e JNF sembra essersi guastato. La scorsa settimana si è persino affermato che qualcuno all’interno dell’organizzazione stava cercando di porre termine alla cooperazione con Elad sul caso Sumarin, una decisione che probabilmente verrà presa lunedì.

Eppure questo caso è solo la punta dell’iceberg. Nel 1998, una relazione interna del FNE rivelata per la prima volta qui su +972 Magazine, insieme ad altri documenti storici e interviste condotte nelle ultime settimane, descrive una cooperazione deliberata, stretta e fruttuosa fra le due organizzazioni fin dai lontani anni ’80. Tale collaborazione, che include lettere personali scritte a mano e contratti, mostra che il FNE aveva concesso volentieri a Elad il diritto di perseguire il caso per conto proprio, ottenendo l’occupazione di varie proprietà a Silwan. “Niente è stato fatto in segreto,” ci ha detto l’altra settimana l’autore del rapporto.

È tutto organizzato’

ll Fondo Nazionale Ebraico è stato fondato nel 1901 per comprare e sviluppare terre per le colonie ebraiche in Palestina sotto controllo ottomano e britannico, e poi con lo Stato di Israele. Negli anni l’organizzazione è stata pesantemente criticata dai palestinesi e dai sostenitori dei loro diritti per le sue attività in Israele e oltre la Linea Verde [cioè nei territori palestinesi occupati, ndtr.]. Il FNE ha una forte presenza filantropica negli Stati Uniti, dove una sua sezione non-profit ha raccolto 72 milioni di dollari solo nel 2018.

La Fondazione Ir David, comunemente nota come Elad, è un’organizzazione non-profit fondata nel 1986 da David Be’eri, ex ufficiale dell’esercito delle unità di élite Sayeret Matkal e Duvdevan, insignito nel 2017 del Premio Israele, la più alta onorificenza civile del Paese. L’organizzazione persegue il consolidamento delle colonie ebraiche nella “Gerusalemme antica” e lo sviluppo di grandi siti turistici ebraici, inclusa la Città di David, nella parte orientale della città dove vivono circa 350.000 palestinesi. Elad ha lavorato per inserire centinaia di coloni nei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, in particolare nell’area di Wadi Hilweh a Silwan, dove ha aiutato a insediarsi oltre 350 persone.

La capacità di Elad di promuovere le proprie attività a Silwan è sostenuta da ingenti risorse finanziarie. Stando ai suoi bilanci, Elad ha ricevuto donazioni per oltre 200 milioni di dollari fra il 2005 e il 2018, l’ultimo anno in cui i dati sono stati resi pubblici. Come rivelato il mese scorso in un documentario del canale in arabo della BBC, circa la metà della somma proviene da sole quattro compagnie con sede nelle isole Vergini britanniche, controllate da uno degli uomini più ricchi di Israele, Roman Abramovich, l’oligarca russo proprietario squadra di calcio del Chelsea. L’altra metà è arrivata da “Friends of Ir David” [Amici della Città di David], fondo newyorkese esentasse.

Dopo aver occupato Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha cominciato un processo di occupazione delle proprietà che erano appartenute a ebrei prima del 1948. Ha anche usato la Legge sulla Proprietà degli Assenti (varata nel 1950 per espropriare terre e case appartenenti a palestinesi che erano fuggiti o erano stati espulsi durante la guerra del 1948) per confiscare proprietà palestinesi a Gerusalemme Est. Il FNE ha partecipato a questi procedimenti tramite Hemnutah, la sua filiale che ha acquistato varie proprietà dal Custode delle Proprietà degli Assenti a Silwan.

In seguito a queste transazioni, Hemnutah ha iniziato a lavorare per sfrattare le famiglie palestinesi da queste case. Per farlo l’organizzazione ha cooperato con Elad, come provano i documenti da noi pubblicati in ebraico.

Il 16 agosto 1998, Yehiel Leket, allora copresidente del FNE, riceve un documento di 12 pagine e alcuni allegati intitolato: “Un’analisi della Città di David (Silwan), Gerusalemme.” L’autore del rapporto, Avraham Haleli, direttore del dipartimento dei beni immobili del FNE, ha lasciato l’organizzazione circa 20 anni fa per fare l’avvocato in Israele. Haleli, che ha competenze ed esperienze uniche sulle proprietà in tali aree, dice che ancora oggi il FNE si avvale dei suoi servizi e lo consulta regolarmente.

Il rapporto di Haleli del 1998 descrive in dettaglio la stretta relazione fra il FNE ed Elad iniziata a metà degli anni ’80. “Era chiaro a tutte le parti coinvolte che l’organizzazione [Elad] avrebbe richiesto di usare le proprietà del FNE nella zona e di vivere là come residenti protetti,” scrive Haleli.

In proposito c’è un documento al dipartimento dei beni immobili del FNE,” ci ha detto durante una conversazione con lui la scorsa settimana. “Tutto è organizzato. Niente è stato fatto in segreto. Era stato tutto fatto in modo normale basandosi su decisioni.”

Secondo Hagit Ofran, che lavora al progetto “Settlement Watch” (Osservatorio sulle colonie) dell’ONG israeliana Peace Now (Pace ora), negli ultimi decenni la cooperazione fra le due organizzazioni ha permesso a Elad di insediare a Silwan ebrei israeliani in almeno 10 proprietà e anche in alcuni immobili nel quartiere di Abu Tur a Gerusalemme Est. Ofran, che ha analizzato il rapporto di Haleli, spiega che la maggior parte della terra di cui Elad ha preso possesso è stata usata per turismo e il resto come residenza da circa otto famiglie di coloni.

Uno degli allegati al rapporto, una lettera scritta a mano spedita da Be’eri, fondatore di Elad e suo direttore esecutivo nel 1985, rivela la profondità della relazione ai suoi inizi. “Buongiorno signor Haleli,” scrive Be’eri un anno prima della fondazione ufficiale di Elad. “Siamo venuti a sapere di proprietà ebraiche del FNE su appezzamenti nel villaggio di Shilo [Silwan].” Parecchi appezzamenti “sono stati presi da arabi”, spiega. Da una prospettiva sionista, etica e religiosa, scrive Be’eri, “noi consideriamo di grande importanza l’occupazione di quelle case, specialmente in questa zona.” Be’eri si offriva poi “come volontario” per ottenere queste proprietà.

L’anno dopo, nel 1986, Be’eri manda un’altra lettera a Shimon Ben Shemesh, amministratore di FNE, parlando del suo impegno per collaborare all’identificazione di proprietà da acquisire a Silwan. Quella lettera si riferiva a uno specifico lotto di terra i cui abitanti erano recentemente morti. “Noi crediamo che questo sia il momento di agire urgentemente, usando mezzi legali … per garantire che la terra venga data ai suoi proprietari legali (il FNE].” Be’eri concludeva la lettera dicendosi disposto a sostenere le spese legali, anche se non si sa se l’abbia poi fatto.

Il rapporto descrive il primo caso di cooperazione fra Elad e il FNE nel 1986: un’istanza presentata al tribunale da Hemnutah per sfrattare una famiglia palestinese in collaborazione con l’avvocato di Elad. Il rapporto nota che il padrone di casa era d’accordo con lo sfratto e che l’istanza era stata presentata solo perché così “i suoi vicini avrebbero pensato che era stato costretto ad andarsene.” Haleli aggiunge che Elad aveva anche compensato la famiglia palestinese. Inoltre descrive come in alcuni casi gli avvocati di Elad avessero fornito al FNE assistenza legale volontaria e gratuita.

Il rapporto si riferisce anche a un memorandum di intesa fra le due organizzazioni firmato prima delle cause legali. Nel memorandum, Hemnutah acconsentiva che Elad affittasse le proprietà dopo lo sfratto degli occupanti palestinesi. “Ovviamente non c’era conflitto di interessi fra le parti,” affermava Haleli nel rapporto. Aggiungeva che l’affitto pagato al FNE sarebbe stato dedotto dalla somma che Elad aveva già speso per le procedure di sfratto.

Haleli era chiaramente consapevole della delicatezza di questa cooperazione, e nel rapporto del 1998 scrive “abbiamo avvertito Elad di non provocare” gli abitanti della zona per “evitare le critiche di Hemnutah e del FNE.” Per questa ragione, continuava Haleli, il FNE “sosteneva l’idea che arabi provenienti dal Libano meridionale abitassero temporaneamente nelle proprietà oggetto dello sfratto … ma per varie ragioni abbiamo dovuto rinunciare a questo piano.”

Haleli aggiunge poi di essere al corrente delle opinioni divergenti sulle attività del JNF nella zona. Chi ci sostiene, scriveva, pensa che non facciamo abbastanza, mentre gli altri presentano il FNE come un gruppo che “strappa agli arabi le loro proprietà.” Secondo Haleli nessuno aveva ragione. “Il FNE opera come un’organizzazione ebraica sionista nazionale che mira a garantire la terra al popolo di Israele per l’eternità. È stato fatto secondo le leggi di Israele senza pregiudicare i diritti degli abitanti, arabi o ebrei … Sono convinto che il modo in cui abbiamo agito nella Città David meriti un plauso,” concludeva.

Il rapporto del 1998 non è l’ultimo a essere scritto dal FNE sulle sue relazioni con Elad. Da conversazioni avvenute la scorsa settimana con due membri del FNE, sappiamo che una sua versione aggiornata è stata redatta nel 2010. Il FNE non ha risposto alle domande poste da +972 a questo proposito né alla richiesta di ricevere una copia aggiornata del rapporto.

Nessun portavoce del FNE o di Elad ha risposto alle nostre richieste di un commento.

Differenze sul caso Sumarin

La casa Sumarin era stata dichiarata proprietà di assenti nel 1987 e venduta a Hemnutah dall’Autorità israeliana per lo Sviluppo nel 1990. In seguito Hemnutah presentò un’azione legale per sfrattare la famiglia Sumarin, che per trent’anni aveva lottato per restare nella propria casa. Alla fine di giugno di quest’anno il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha deliberato che i Sumarin non erano riusciti a dimostrare i propri diritti sulla proprietà e che dovevano lasciarla libera per metà agosto. La famiglia ha presentato appello e potrà rimanere nella casa fino alla decisione dell’Alta Corte il prossimo aprile.

La decisione del tribunale distrettuale di Gerusalemme ha suscitato massicce proteste e pressioni da parte dei sostenitori e donatori progressisti del FNE per annullare lo sfratto. Non tutti i dirigenti del fondo sono entusiasti di vedere la famiglia Sumarin cacciata di casa.

In agosto, come parte dell’ultima azione legale dei Sumarins, Hemnutah ha presentato alla Corte Suprema una lettera scritta nel 1991 da David Be’eri, fondatore di Elad, alla consociata del FNE. Nella lettera, svelata per la prima volta nel documentario della BBC su Elad (e al quale l’autore di questo articolo ha contribuito), Be’eri elencava vari lotti di terra a Silwan, inclusa la casa dei Sumarin, e scriveva che “ci occuperemo dello sfratto degli attuali proprietari dai loro immobili. Pagheremo tutte le spese legali per lo sfratto e gli indennizzi ai proprietari, con un accordo giudiziario o per ordine del tribunale.” Un bollo di Hemnutah conferma l’approvazione da parte dell’organizzazione dei contenuti della lettera.

Matityahu Sperber, presidente del consiglio di amministrazione di Hemnutah nominato dal progressista Movimento Riformista, in una conversazione telefonica con +972 ha detto che era stata sua la decisione di rivelare alla Corte Suprema l’accordo del 1991 per tentare di bloccare gli sfratti. La presentazione della lettera ha segnato un cambiamento nell’approccio del FNE al caso, che era iniziato poche settimane prima. Il 20 luglio, Sperber scrisse una lettera al presidente del FNE Danny Atar, in cui chiedeva che egli si impegnasse per bloccare i procedimenti contro la famiglia Sumarin perché era preoccupato che lo sfratto potesse danneggiare l’immagine del FNE.

Nella lettera, Sperber scrive che un parere legale preparato dall’avvocato del FNE non forniva risposte soddisfacenti a proposito di una “serie di aspetti sui rapporti fra Hemnutah ed Elad riguardo alla proprietà [Sumarin].” Questo include “l’impegno di Elad con Hemnutah riguardante la proprietà, […] l’autorità delle parti che si sono prese l’impegno a nome di Hemnutah,” e la “possibile invalidità di un giudizio indipendente di Hemnutah a proposito della proprietà in questione, a causa della partecipazione di Elad nel procedimento legale e nel suo finanziamento, insieme ad altre questioni.” Tutto ciò, scrive Sperber, crea un “conflitto di interessi strutturale.”

Il 12 ottobre il CDA di Hemnutah avrebbe dovuto votare una bozza presentata da Sperber per bloccare tutte le attività della causa contro i Sumarin e sostituire gli avvocati di Elad che se ne occupavano per conto di Hemnutah. 

+972 si è rivolto per un commento allo studio legale Ze’ev Scharf & Co. che rappresenta Hemnutah nel caso Sumarin. Lo studio deve ancora fornire una risposta.  

Comunque il giorno prima della data in cui si sarebbe dovuta tenere la riunione questa venne spostata dopo l’appello alla Corte Distrettuale di Gerusalemme presentato da Nachi Eyal, uno dei membri del CDA di Hemnutah, contro le bozze della risoluzione. Nella sua dichiarazione al tribunale, Eyal, il fondatore e direttore del Foro Legale per Israele e candidato del partito Nuova Destra [estrema destra dei coloni, ndtr.] nelle precedenti elezioni della Knesset, sostenne che la delibera era illegale ed era stata presentata di fretta e furia; Eyal obiettò che la riunione era stata fissata con poco preavviso e che Sperber l’aveva iniziata perché probabilmente avrebbe rischiato di perdere la presidenza nelle elezioni del CDA dell’Organizzazione Mondiale Sionista fissato per il martedì.

Il tribunale ha accolto la petizione di Eyal. Durante una conversazione con +972 Atar, il presidente del FNE, ha detto che il consiglio si sarebbe riunito lunedì 19 ottobre [2020] per votare sul blocco dello sfratto e la sostituzione degli avvocati.

Nel frattempo, la scorsa settimana, Elad’s Be’eri ha mandato una lettera esprimendo la sua ira a Sperber e Atar, criticando veementemente Hemnutah e il suo presidente. Noi abbiamo investito “una fortuna” nel caso Sumarin, scrive Be’eri e i diritti di occuparsi del caso erano stati affidati a Elad, non possono essere revocati. Be’eri aggiunge che ogni decisione sul caso presa da Hemnutah e dal FNE dovrà coinvolgere Elad. Ha anche dichiarato che Sperber è rapporto con gruppi di estrema sinistra, sostenitori del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.].

È uno scandalo. Non sarebbe dovuto succedere’

La fede politica di Sperber e Atar, che rappresentano l’ala progressista del FNE (Atar è un ex parlamentare laburista della Knesset che si è guadagnato il sostegno di Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco), verrà messa alla prova martedì 20 ottobre, quando il Congresso Mondiale Sionista si riunirà da remoto per scegliere i suoi nuovi rappresentanti.

Il CMS seleziona i leader di varie associazioni sioniste, inclusa l’Organizzazione Mondiale Sionista, l’Agenzia Ebraica per Israele e il FNE. Se Sperber e Atar resteranno al potere verrà deciso dal tipo di coalizione formata dalle varie parti del CMS su cui di solito ci si mette d’accordo in precedenza. Secondo il Jerusalem Post, Atar deve affrontare una grossa sfida alla sua posizione da parte della lista del Likud Mondiale, che si era diviso ma poi si è riconciliato alla vigilia delle elezioni grazie ad accordi di coalizione.

Negoziati per le alte cariche continueranno fino a poco prima dell’inizio del congresso. Ma la scorsa settimana, secondo il Jerusalem Post, sembrava che la presidenza del FNE sarebbe stata divista fra Avraham Duvdevani, della Lista religiosa Zionist World Mizrachi [movimento dei sionisti religiosi, ndtr.] e Haim Katz, parlamentare Likud, lascando Atar fuori dalla direzione dell’organizzazione. Secondo il giornale finanziario The Maker, probabilmente il nuovo direttore di Hemnutah sarà di Yisrael Beiteinu, il partito di [estrema] destra di Avigdor Liberman.

In una conversazione telefonica con Sperber, gli ho chiesto perché la sua decisione di bloccare lo sfratto dei Sumarin verrà presentata al consiglio solo alla vigilia delle elezioni. Sperber ha detto di aver saputo dell’accordo fra Elad e JNF solo agli inizi di quest’anno, e ha cercato di occuparsi del caso da allora. Ha aggiunto che ha il sostegno di Atar, ma ha ammesso che non è chiaro se Atar o Sperber manterranno i loro incarichi dopo le elezioni.

Sperber ha parlato della campgna dei Sumarin e ha espresso la speranza che influirà sulla decisione della Corte Suprema israeliana di esaminare l’appello della famiglia. Durante la nostra conversazione è apparso chiaro che Sperber conta sulla corte per risolvere il dilemma di Hemnutah che si è assunto il caso della famiglia.

Ma Sperber ha anche chiarito che il FNE non rinuncerà ai diritti sulla proprietà dei Sumarin. “Non abbiamo diritto a (rinunciarci),” ha detto, spiegando che la Corte Distrettuale di Gerusalemme ritiene che la casa sia di proprietà di Hemnutah. “Noi non possiamo farlo per il bene di un ebreo riformato, un ebreo ortodosso o un palestinese di Gerusalemme Est,” ha detto Sperber. L’unica possibilità per Hemnutah, ha continuato, è votare di congelare l’esecuzione del verdetto della corte. E se in un futuro il CDA decidesse di revocare il blocco? “È un rischio,” ha ammesso.

Hagit Ofran di Peace Now [Pace Adesso] dice che “il FNE deve immediatamente tagliare tutti i suoi rapporti con l’organizzazione di coloni Elad e permettere alla famiglia Sumarin di vivere in pace a casa propria.”

Atar, nel frattempo ha detto che lui ha scoperto dell’accordo fra il FNE e Elad solo due settimane fa. “Stiamo facendo di bloccarlo in qualche modo e di annullare l’accordo. C’è molta resistanza,” ha aggiunto. “Se non riusciamo a farlo ora, lo faremo subito dopo il congresso (dell’OSM)”. È molto complicato, ha detto, dato che Elad ha pagato 30 anni di battaglie legali contro i Sumarin.

Per me non ha senso che l’abbiate saputo solo due settimane fa.

È stato veramente così. L’abbiamo saputo per caso … durante una discussione di Sperber con gli avvocati … discutevano e noi ci siamo resi conto che non aveva senso che usassero il nostro nome ma non facessero quello che gli dicevamo.”

Eppure non era la prima udienza della corte sulla famiglia Sumarin avvenuta durante il suo ruolo come direttore del FNE.

Giusto, ma non eravamo entrati nei dettagli. Non sono cose di cui mi occupo giornalmente e non erano in programma fino a quando Matityahu [Sperber] non ha sollevato la questione.” 

Le relazioni fra le organizzazioni non sono cosa nuova. Haleli ne ha scritto nei suoi rapporti.

Vero. [Ma] Io l’ho saputo solo ora, nelle ultime due settimane.” 

Cosa pensa di quello che ha saputo nelle ultime settimane sui rapporti fra Elad e FNE?

Uno scandalo. Non sarebbe dovuto succedere … Stiamo studiando questi (rapporti) ora e il nostro ufficio legale li sta analizzando. Abbiamo imparato la lezione. Non è l’unica cosa su cui stiamo lavorando per migliorarla.”

Perché ha aspettato fino all’ultimo momento per occuparsene? È possibile che lei lo stia facendo ora in vista delle imminenti elezioni? 

Proprio l’opposto. È come un osso che mi si è incastrato in gola. Non ci guadagno nulla a occuparmene ora. Evitare questa ulteriore tensione in questo periodo sarebbe stato molto meglio per me.” 

Supponiamo che lei riesca a liberarsi degli avvocati di Elad. Cosa farà dopo?

Il nostro ufficio legale si occuperà dello status di ‘residenza protetta’(di Elad). Non è un caso semplice.”

La corte ha già deciso che la casa dei Sumarin appartiene al FNE. Se dipendesse da lei, ritirerebbe la petizione presentata alla corte per sfrattare la famiglia Sumarin?

La proprietà resterbbe (nostra), ma non sono sicuro che valga la pena sfrattarli. Dovremmo trovare un’altra soluzione… in base a quanto consentito dalla legge.”

Pubblicherete un rapporto sui rapporti con Elad? 

Naturalmente, come sempre. Quando finiremo la causa pubblicheremo tutto.”

Uri Blau è un giornalista investigativo nato in Israele con oltre 20 anni di esperienza nell’ indagare corruzione politica, sicurezza nazionale e problemi di trasparenza. Al momento vive a Washington.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’inviato dell’ONU non ha niente da dire mentre Israele respinge i suoi colleghi

Maureen Clare Murphy

16 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Giovedì Middle East Eye ha riferito che Israele, con una nuova aggressione contro ogni forma di controllo, ha sospeso la concessione dei visti ai dipendenti dell’ OHCHR, Agenzia per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Israele a febbraio ha annunciato l’interruzione dei rapporti con l’ONU dopo che questa ha creato una lista di aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est.

La pubblicazione della lista è stata rinviata per anni, creando il sospetto che l’ONU stesse cedendo alla pressione politica affinché cancellasse l’informazione.

Ora che la notizia è stata resa pubblica, Israele sembra voler dar seguito alla sua promessa di punire l’agenzia ONU.

Secondo Middle East Eye “a partire da giugno nessuna delle richieste di nuovi visti ha ricevuto risposta, e i passaporti inviati per il rinnovo [del visto] sono tornati indietro vuoti”.

Nove dei 12 dipendenti stranieri dell’organizzazione hanno ora lasciato Israele e i territori palestinesi per timore di trovarsi là privi di documenti”, ha aggiunto Middle East Eye. “Tra loro vi è il direttore [della missione ONU] nel Paese, James Heenan.”

Divieto di ingresso

Da lungo tempo Israele, che controlla i movimenti verso e dalla Cisgiordania e Gaza, ha espulso e negato l’ingresso a cittadini stranieri legati ad associazioni per i diritti umani o di solidarietà con i palestinesi.

Da molto tempo ha negato l’ingresso a Michael Lynk, incaricato dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU di monitorare la situazione dei diritti umani in Cisgiordania e a Gaza.

Tuttavia altri responsabili dell’ONU, come Nickolay Mladenov, inviato di pace per il Medio Oriente del Segretario Generale dell’ONU, continuano a godere dei favori di Israele e dei suoi sostenitori – anche quando attaccano le agenzie per i diritti umani dell’ONU e le loro indagini.

Il contrastante trattamento di questi due rappresentanti dell’ONU è in linea con i loro sforzi – o con l’assenza di essi – di rendere Israele responsabile per le sue violazioni dei diritti dei palestinesi. Rispecchia anche le loro divergenti vedute riguardo ai diritti dei palestinesi come qualcosa da proteggere o come moneta di scambio da negoziare in colloqui con Israele.

Lynk ha approvato la pubblicazione della lista delle attività economiche con le colonie, dicendo che “la continua violazione da parte di una potenza occupante non rimarrà senza risposta.”

Ha aggiunto che, in assenza delle colonie, sostenute dall’attività economica di imprese israeliane e straniere, “l’occupazione israeliana che dura da cinquant’anni perderebbe la sua ragion d’essere coloniale.”

Mladenov invia regolari rapporti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’applicazione (o violazione) della Risoluzione 2334, che chiede a Israele di cessare la costruzione di colonie in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.

Nonostante la rilevanza di ciò per il suo incarico, Mladenov è rimasto vistosamente in silenzio riguardo alla lista delle attività economiche con le colonie – sia prima che dopo la sua pubblicazione. Né ha aperto bocca contro il divieto d’ingresso israeliano nei confronti dei suoi colleghi dell’ONU, come Lynk.

Le richieste di intervento di Mladenov si limitano ad invitare a non specificati passi “verso una soluzione negoziata di due Stati.”

In evidente contrasto, Lynk ha accolto calorosamente la conclusione della procuratrice capo della Corte Penale Internazionale secondo cui vi è un ragionevole fondamento per indagare sui crimini di guerra (israeliani) in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Non così Mladenov.

Lynk ha evidenziato l’uso da parte di Israele di punizioni collettive per sottomettere i palestinesi che vivono sotto il suo governo militare. Ha invitato gli Stati terzi a prendere contromisure, incluse sanzioni “necessarie ad assicurare il rispetto da parte di Israele del suo obbligo di porre fine all’occupazione, conformemente al diritto internazionale.”

Invece Mladenov chiede che venga ripristinato “il dialogo tra tutti i decisori, senza precondizioni.”

Tuttavia il dialogo senza attribuzione di responsabilità non farà che consentire ad Israele di guadagnare altro tempo per colonizzare rapidamente la terra palestinese e reprimere violentemente la resistenza palestinese – come è stato negli ultimi 25 anni, segnati dal paradigma del processo di pace di Oslo.

Spazi ridotti

Nel frattempo le associazioni palestinesi impegnate nella responsabilizzazione [di Israele] stanno lavorando in un ambito sempre più ristretto, in quanto Israele cerca di limitare qualunque accesso alla giustizia.

I deputati del partito Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno proposto di ampliare la definizione statale di agenti stranieri.

Come sottolinea il Consiglio palestinese per i Diritti Umani, la legge israeliana “impone una condanna a 15 anni di carcere nei confronti di chiunque abbia coscientemente contattato un agente straniero senza fornire spiegazioni di ciò”.

Attualmente la legge definisce agente straniero chi agisce “per conto di uno Stato straniero o di un’organizzazione terroristica” in modo che “potrebbe mettere a rischio la sicurezza di Israele”.

Un emendamento proposto a questa legge sostituirebbe “Stato straniero” con “entità politica straniera”. I parlamentari promotori dell’emendamento citano l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Unione Europea – che non sono Stati – come la ragione della necessità di modificare il linguaggio.

Il Consiglio palestinese per i Diritti Umani ha affermato che l’emendamento prende di mira “organizzazioni che cooperano con, o ricevono appoggio da, UE e ANP. Esso cerca di limitare ulteriormente il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani presentando la nostra attività come contatti con enti stranieri.”

Israele ha già approvato una legge che impone severe sanzioni a coloro che difendono il boicottaggio di Israele o delle sue colonie nella Cisgiordania occupata e sulle alture del Golan.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno affermato che il boicottaggio è “il principale strumento di protesta civile…per porre fine all’occupazione.”

La legge israeliana impone anche alle associazioni per i diritti umani con sede nel Paese che ricevono più della metà dei loro finanziamenti da Stati esteri di dichiararlo nelle loro pubblicazioni.

Maureen Clare Murphy è vicedirettrice di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 22 settembre – 5 ottobre 2020

Il 5 ottobre, nei pressi del villaggio di Beit Lid, a Tulkarm, le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco e ucciso un palestinese di 28 anni.

Secondo fonti di media israeliani, l’uomo faceva parte di un gruppo di tre persone che stavano lanciando bottiglie incendiarie contro soldati vicino al checkpoint di Enav; le altre due persone sono riuscite a fuggire. Questa morte porta a 20 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dall’inizio dell’anno.

In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 27 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [seguono dettagli]. Nella città di Hizma (Gerusalemme), in circostanze non ancora chiare, soldati israeliani hanno sparato, ferendo alla testa un ragazzo di 15 anni. Vicino al villaggio di Qusra (Nablus), le forze israeliane, intervenute per fermare uno scontro tra coloni e agricoltori, hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni, ferendo otto palestinesi. Gli scontri erano scoppiati dopo che alcuni coloni avevano aggredito contadini palestinesi intenti a lavorare la propria terra. A Kafr Qaddum (Qalqiliya), sette palestinesi sono rimasti feriti durante la protesta settimanale. Altri due sono rimasti feriti nel villaggio di ‘Asira al Qibliya, dove agricoltori palestinesi ed attivisti stavano arando e piantando alberi su un terreno, nel tentativo di impedire ai coloni di impossessarsene. Inoltre, nei Campi profughi di Jenin e Ein as Sultan (Gerico), e nei villaggi di Surif e Beit Ummar (entrambi a Hebron), nel corso di scontri per motivi specifici con le forze israeliane, sono stati registrati quattro feriti. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti, in circostanze non chiare, nel villaggio di Kafr Malik (Ramallah) e nella città di Jenin. I restanti due palestinesi sono rimasti feriti nei governatorati di Tulkarm e Jenin, nel tentativo di entrare in Israele attraverso brecce nella Barriera. Complessivamente, 14 persone sono state ferite da proiettili gommati, nove da proiettili di arma da fuoco e i rimanenti sono stati aggrediti fisicamente o hanno avuto bisogno di trattamento medico a seguito dell’inalazione di gas lacrimogeno.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 226 operazioni di ricerca ed hanno arrestato almeno 180 palestinesi; ciò rappresenta un aumento dell’87% rispetto alla media quindicinale registrata finora nel 2020. Come in precedenti settimane, la maggior parte delle operazioni (42) è avvenuta nel governatorato di Gerusalemme, in particolare nel quartiere Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est, seguito dai governatorati di Hebron (35) e Qalqiliya (31). Ad al ‘Isawiya, nella notte del 1° ottobre, e fino a mezzogiorno del giorno successivo, si è svolta un’operazione su vasta scala, con almeno 18 [dei 180] palestinesi arrestati. Ad Al Isawiya, dalla metà del 2019, sono in corso intense operazioni di polizia che generano un aumento delle tensioni ed interruzioni delle attività quotidiane per almeno 18.000 residenti.

Il 25 settembre, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco contro un peschereccio palestinese, uccidendo due pescatori e ferendone un altro. L’imbarcazione sulla quale stavano navigando i tre pescatori, che erano fratelli, secondo quanto riferito, avrebbe sconfinato nelle acque egiziane a sud della città di Rafah. Dal novembre 2018, questo è il primo episodio in cui pescatori palestinesi vengono uccisi da forze egiziane. Il Sindacato di pesca a Gaza ha chiesto di sospendere la pesca per un giorno per protestare contro l’accaduto.

Il 5 ottobre, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele, senza provocare feriti o danni a proprietà. Successivamente, l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco aereo, prendendo di mira un sito militare a Gaza, provocando danni, ma non feriti.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 28 occasioni; non sono stati registrati feriti. In uno degli episodi, le forze navali israeliane hanno usato cannoni ad acqua, facendo affondare tre barche da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, tre palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane vicino alla recinzione perimetrale mentre, secondo quanto riferito, cercavano di infiltrarsi in Israele.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 42 strutture di proprietà palestinese, sfollando 53 palestinesi e creando ripercussioni di diversa entità su circa 150 persone [seguono dettagli]. La maggior parte delle strutture demolite (39), di cui 15 fornite come assistenza umanitaria, e tutti gli sfollamenti, sono stati registrati in Area C. Queste includevano sei strutture abitative, dislocate nelle Comunità di Ar Rakeez e Mantiqat Shi’b al Butum, sulle colline a sud di Hebron, situate in un’area chiusa destinata [da Israele] all’addestramento militare; sono state sfollate 27 persone [delle 53]. Nel villaggio di Kisan (Betlemme), nello stesso episodio, sono state demolite altre otto strutture, sfollando 13 palestinesi. Inoltre, a Khirbet Yarza (Tubas), Ni’lin (Ramallah) e Deir Samit (Hebron), sei strutture sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione entro 96 ore dall’emissione del medesimo. A Gerusalemme Est sono state demolite tre strutture di sostentamento; non sono state registrate autodemolizioni.

Il 1° ottobre, in risposta a una lettera della Coalizione Civica per i Diritti dei Palestinesi a Gerusalemme e della ONG israeliana Adalah [Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele], il Ministero della Giustizia di Israele ha accettato di ripristinare la linea di condotta applicata a marzo con l’intento di fermare la demolizione di edifici residenziali abitati a Gerusalemme Est durante la prima ondata della pandemia COVID-19. L’accordo non si applicherà alle strutture realizzate dopo il 1° ottobre. L’emissione di ordini di demolizione amministrativa sarà, in generale, ridotta, in modo che gli ordini siano emessi solo per le costruzioni recenti, in particolare per quelle che si ritiene siano state realizzate traendo vantaggio dallo stato di emergenza.

A Hebron, le autorità israeliane hanno autorizzato la rimozione di un importante blocco stradale, in vigore dal 2000. La chiusura impediva ai residenti del villaggio di Qalqas di accedere alla Strada 60, situata a tre chilometri dalla città di Hebron. Negli ultimi 20 anni, migliaia di residenti sono stati costretti a utilizzare circonvallazioni, allungando il percorso fino a 11 chilometri.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e dozzine di ulivi sono stati danneggiati in quattro episodi che hanno avuto coloni come protagonisti. I tre palestinesi erano impegnati nella misurazione del loro terreno vicino all’insediamento colonico di Yitzhar; sono stati inseguiti da una guardia e sono caduti, ferendosi. Inoltre, in tre località vicino ai villaggi di Al Jab’a e Al Khadr (Betlemme) e a Kafr ad Dik (Salfit), 80 ulivi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da coloni. Infine, nella zona H2 della città di Hebron, coloni hanno aggredito una donna e rotto il suo cellulare; ella li stava filmando mentre attraversavano il suo terreno.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, quattro israeliani sono rimasti feriti quando aggressori, ritenuti palestinesi, hanno lanciato pietre contro tre veicoli e ne hanno rubato un altro. Altre 15 auto israeliane che percorrevano le strade della Cisgiordania avrebbero subito danni dal lancio di pietre.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it