Eyad Hallaq: il lutto impossibile

Gideon Levy

17 luglio 2020 – Chronique de Palestine

La madre di Eyad Hallaq dorme nel letto di suo figlio morto. Suo padre rifiuta di mangiare. Hanno un messaggio per la polizia israeliana….

Un mese dopo l’assassinio di Eyad Hallaq, un giovane palestinese autistico, la sua famiglia è ancora paralizzata dal dolore e prega perché l’agente della polizia di frontiera che lo ha ucciso paghi per il suo crimine.

L’erba verde nel piccolo cortile fuori dalla casa è ingiallita e secca. Anche le piante in vaso sono appassite, dopo essere rimaste senza acqua per un mese. Prima, Eyad le innaffiava tutti i giorni in estate, ma ora non c’è più nessuno che se ne occupi. Rana, la madre in lutto, non smette di guardare sul suo telefonino un piccolo filmato di suo figlio, in piedi in giardino con in mano un tubo di irrigazione, un leggero sorriso sulle labbra.

Il suo sorriso è più accentuato in un altro filmato, in cui lo si vede preparare il fatteh – un piatto di hummus con carne e pinoli – per i suoi genitori. Aveva imparato a cucinarlo nel centro per persone disabili Elwyn El Quds, che frequentava nella città vecchia di Gerusalemme, poco prima di venire ucciso.

Guardate che figlio ho avuto”, dice Rana guardando la sua foto.

Suo marito Khairy è cambiato in modo impressionante da quando lo abbiamo incontrato nella tenda del lutto il giorno dopo l’assassinio del figlio. È molto dimagrito, emaciato e pallido. Fuma due pacchetti di sigarette al giorno; Rana quasi tre. Quasi non mangia, Rana non cucina. La loro vita si è brutalmente fermata.

Era il 30 maggio poco dopo le 6,30 del mattino, quando la loro vita è stata irrimediabilmente distrutta. Due agenti della polizia di frontiera (israeliana) – un ufficiale e una nuova recluta – hanno sparato sul loro figlio mentre lui si trascinava a terra sul pavimento di un locale per i rifiuti vicino alla via Dolorosa nella città vecchia, con l’assistente che se ne occupava che accanto a lui gridava invano: “É un disabile, è un disabile!”.

Per Rana e Khairy Hallaq il figlio autistico di 32 anni era la pupilla dei loro occhi. Hanno anche due figlie, Joanna e Diana, entrambe insegnanti. Ma Eyad, il figlio disabile, era tutto per loro.

C’è un solo figlio maschio, non ne abbiamo altri”, ci dice Rana in ebraico. “È la mia seconda anima. Eyad ed io siamo da tempo una sola anima, da molti anni.”

Dopo la sua morte lei dorme nel letto di Eyad ed esce raramente dalla sua stanzetta; a volte indossa anche i suoi vestiti. Quando le abbiamo fatto visita in questa settimana ci ha ricevuti dicendo: “Non posso fare niente – riesco solo a stendermi sul suo letto e guardare le sue foto, i suoi vestiti e la sua stanza e ricordare la sua vita.”

Poi, con le mani tremanti, ci mostra nuovamente delle fotografie di lui; questa volta lo si vede mentre tiene due piante tra le braccia. Le aveva piantate durante l’isolamento dovuto al coronavirus, quando è stato costretto a rimanere a casa, nel quartiere di Wadi Joz a Gerusalemme est.

Ora, dice Rana, “le piante sono morte”.

I genitori vivono dolorosamente una presenza che è rimasta intatta. Un’atmosfera di profondo dolore senza lacrime scende sul salone della famiglia, i cui muri adesso sono tappezzati di foto del figlio e del fratello deceduto. Sul divano c’è una foto di Eyad accanto ad una di George Floyd [afroamericano ucciso la stessa settimana dalla polizia di Minneapolis, ndtr.].

George Floyd è stato ucciso perché era nero ed Eyad perché palestinese”, dice il padre. “Ma guardate la differenza tra la reazione negli Stati Uniti e in Israele,” aggiunge sua moglie.

Effettivamente enormi ondate di proteste hanno attraversato l’America dopo l’assassinio di Floyd a Minneapolis, mentre in Israele vi è stata la solita indifferenza, benché segnata da qualche accento di rammarico per lo sparo mortale, perché la vittima era autistica. Qui non vi è stata alcuna protesta e non si è riscontrata nessuna opinione in qualche modo diffusa, secondo cui l’uccisione di Eyad è stata il risultato di una politica deliberata, e non una “disgrazia”.

Poiché Eyad era scrupoloso riguardo all’ordine e alla pulizia, la famiglia non osa spostare niente nella sua stanza. Sul letto rimane da un mese lo stesso copriletto, le bottiglie del dopobarba e altri prodotti di toilette sono sullo scaffale accanto, i suoi vestiti sono piegati con cura nell’armadio e anche il barattolo di caramelle Smiley che gli piacevano è pieno. Un caricabatterie per il cellulare posato a caso su un tavolo attira l’attenzione del padre che lo rimette subito a posto. “Se lui lo avesse visto qui si sarebbe molto arrabbiato,” dice Khairy.

E di nuovo, un silenzio opprimente.

Tutto quel che vogliamo adesso è stare tranquilli”, dicono i genitori. Passano la maggior parte delle loro giornate stesi a letto con lo sguardo fisso, non vedono quasi nessuno e accendono la televisione solo quando vengono a trovarli i nipoti. Diana arriva con i quattro figli ogni pomeriggio per cercare di tirarli su di morale, ma presto ripiombano nel loro dolore.

Il poco cibo che mangiano viene ordinato in un ristorante. Rana non riesce ad entrare in cucina, dove Eyad si esercitava a preparare i piatti che aveva imparato nei corsi di cucina a Elwyn. Tutte le sere cucinava il piatto che aveva imparato nella giornata.

Il personale del centro era impressionato dalle sue capacità e progettava di farlo assumere come aiuto cuoco in un hotel o un ristorante della città.

Khairy da parte sua non lavora da anni, da quando è stato ferito in un incidente sul lavoro in una fabbrica di marmo. Ora fa fatica a salire le scale che conducono alla tomba appena costruita di suo figlio al cimitero di Bab al-Zahara, dietro all’ufficio postale di via Saladin a Gerusalemme est.

Rana dice che se potesse si trasferirebbe al cimitero. È andata quattro o cinque volte sulla tomba di Eyad, dove è già stata eretta una lapide.

Tuttavia la coppia non riesce a decidersi a visitare il luogo, appena all’interno della Porta dei Leoni, dove lui è stato ucciso. Khairy, che era solito andare ogni settimana a pregare alla moschea Al-Aqsa, non ci va più, perché il percorso passa dal luogo dell’omicidio. Anche Rana ha molto timore a recarvisi.

Come si può guardare il posto dove hanno ammazzato vostro figlio? Ho paura che laggiù la polizia mi uccida,” dice. “Hanno persino ucciso Eyad, che era un ragazzo tranquillo…”

Qualche giorno fa gli amici del centro Elwyn sono venuti a deporre delle foglie di palma in sua memoria nel luogo del suo assassinio, ma la polizia li ha subito cacciati ed ha tolto le foglie di palma. Eyad non avrà evidentemente alcuna commemorazione, neanche improvvisata.

La polizia ha restituito ai genitori il telefono portatile del ragazzo, dopo averne cancellato tutto il contenuto. Khairy e Rana dicono che Eyad amava filmare il suo tragitto tra la scuola e la casa per mostrare loro le immagini quando tornava. Ha forse filmato anche il suo ultimo percorso verso la scuola?

Martedì Nir Hasson e Josh Breiner, del quotidiano Haaretz, hanno riferito che l’unità investigativa del Ministero della Giustizia non aveva filmati dell’incidente di una telecamera di sicurezza, anche se ci sono almeno sette telecamere nei paraggi – di cui due nel locale della spazzatura dove è avvenuto l’assassinio.

Intanto il principale sospettato è stato liberato ed è stato interrogato dalla polizia una sola volta.

Khairy: “Non ci sono telecamere, non ci sono immagini. Perché? Che cosa posso dire? Avete visto che la settimana scorsa sono state pubblicate tutte le immagini del posto di controllo di Abu Dis nell’arco di un’ora?”, chiede, riferendosi al [presunto] tentativo di investire un’agente di polizia di frontiera ad un blocco militare all’esterno di Gerusalemme.

Lunedì scorso erano trenta giorni dalla tragedia incorsa agli Hallaq. La loro casa in via Yakut al-Hamwai, che durante i quattro giorni del lutto era invasa dai visitatori, era vuota quando siamo arrivati insieme ad Amer ‘Aruri, un ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Amer ‘Aruri aveva consegnato la testimonianza dell’assistente di Elwyn, Warda Abu Hadid, che si trovava accanto a Eyad quando la polizia lo ha ucciso.

Rana e Khairy ci hanno detto di essere stati molto toccati dalle manifestazioni di solidarietà e di dolore di migliaia di persone in tutto il mondo, tra cui le condoglianze da parte di numerosi israeliani. Sono stati profondamente emozionati dalla reazione di altri genitori di bambini autistici.

Sottolineano che non hanno niente a che fare con l’espulsione dalla tenda del lutto del militante del Monte del Tempio ed ex membro del Likud, deputato Yehuda Glick, ma hanno detto loro che stava per farsi dei selfie, il che era scioccante.

Centinaia di israeliani sono venuti a condividere il loro dolore, dicono. La sera in cui Glick, che era venuto a presentare le condoglianze, è stato espulso da un gruppo di giovani palestinesi, sono arrivate decine di poliziotti a perquisire la loro casa. Era la seconda perquisizione, quattro giorni dopo la prima, il giorno stesso dell’omicidio.

A parte questo, gli Hallaq non hanno ricevuto la minima informazione da parte della polizia riguardo all’uccisione del loro figlio.

Altre immagini: Eyad a scuola è chinato su una grande pentola di zuppa, mentre pela delle carote – uno dei rari momenti in cui si può scorgere un raggio di felicità passare sul suo viso. “Riposa in pace, angelo mio”, hanno scritto dei ragazzi disabili della città araba israeliana di Taibeh, che hanno portato ai genitori una sua foto ingrandita. L’illustratrice israeliana Einat Magal Smoly ha inviato loro un quadro di Eyad con il suo nome in arabo ed ebraico, insieme ad una lettera di condoglianze.

Rana e Khairy dicono di non essere interessati ad un risarcimento economico, ciò che vogliono è che i poliziotti responsabili vengano giudicati. Parecchi avvocati, tra cui l’avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani Michael Sfard, si sono offerti di aiutarli.

Questi avvocati sono otto, ma noi sappiamo che non accadrà niente anche se ce ne fossero cinque o sei in più,” dice Khairy. “Non credo che il poliziotto andrà in prigione. Se avesse pensato che sarebbe andato in prigione, non avrebbe fatto una cosa del genere. Credetemi.”

Gli chiediamo che cosa vorrebbe che succedesse. Ride amaramente. “Israele è un Paese che rispetta le leggi, no? Israele è una democrazia, no? Aspettiamo di vedere. Io aspetto di vedere la legge dello Stato di Israele. Che sia esattamente la stessa che se fosse accaduto il contrario: se Eyad fosse stato un ebreo ucciso da un arabo, ci sarebbe già stato un processo. Noi non chiediamo indennizzi. Tutto ciò che vogliamo è che questo non accada a nessun altro.”

Rana dice che vuole inviare un messaggio alla polizia e all’esercito israeliani: “Prendetevi tempo prima di usare le vostre armi…” Mostra nuovamente dei video, con Eyad che si lava i denti, che fa ginnastica, che si confonde nel contare da 1 a 15.

Un video realizzato dal ‘Monitoraggio euro-mediterraneo dei diritti umani’ mostra l’ultima ora della sua vita. Eccolo che cammina sulla via Dolorosa di Gesù, mascherina anti coronavirus sul viso, guanti sulle mani [il fatto che portasse i guanti secondo gli agenti che l’hanno ucciso lo rendevano sospetto, ndtr.]. Qui si vedono i poliziotti che lo inseguono e là sono sopra di lui nel locale della spazzatura, per ucciderlo.

Non ci sono parole…” gli diciamo.

Ce ne sono tantissime”, ci risponde Rana.

Gideon Levy, nato nel 1955 a Tel Aviv, è un giornalista israeliano e membro della direzione di Haaretz. Vive nei territori palestinesi occupati.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 30 giugno – 13 luglio 2020

In Cisgiordania, il 9 luglio, nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese di 33 anni e ferendone un altro.

Fonti ufficiali israeliane hanno riferito che i soldati hanno aperto il fuoco contro due palestinesi visti lanciare una bottiglia incendiaria contro una postazione militare; uno dei due è stato ferito, mentre l’altro è fuggito. Successivamente il ferito [forse già morto] è stato prelevato da un’ambulanza palestinese. Fonti palestinesi hanno affermato che l’uomo rimasto ucciso era un passante. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine. Questo episodio porta a 17 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2020. Un altro palestinese è stato colpito e ferito da forze israeliane durante scontri scoppiati dopo il funerale dell’uomo ucciso. Un cancello all’ingresso principale di Kifl Haris, che era stato chiuso il giorno prima dell’accaduto, è rimasto chiuso fino al 12 luglio, ostacolando gli spostamenti degli oltre 4.300 residenti [palestinesi].

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 72 palestinesi [segue dettaglio]. Quaranta di questi feriti si sono avuti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel quartiere di Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Complessivamente, in tutta la Cisgiordania, ci sono state 150 operazioni di questo tipo, il 30% delle quali compiute a Gerusalemme Est e dintorni. Altri 30 feriti sono stati segnalati durante varie proteste contro attività riferibili a coloni: ad ‘Asira ash Shamaliya (Nablus), contro la creazione di un nuovo avamposto colonico in prossimità del villaggio; a Biddya (Salfit) per protestare contro i continui attacchi ad agricoltori (vedi sotto); a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le restrizioni di accesso di lunga data e contro l’espansione degli insediamenti colonici nell’area. Nella città di Hebron, un palestinese è rimasto ferito durante una protesta contro il Piano di annessione previsto da Israele, e un altro è stato ferito nel governatorato di Tulkarm, ad un checkpoint della Barriera. Tre dei ferimenti sono stati provocati da proiettili di arma da fuoco; i rimanenti sono da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Durante il periodo di riferimento, quasi ogni giorno e per diverse ore, uno dei principali checkpoint che controllano l’accesso all’Area riservata della città di Hebron è rimasto chiuso, ostacolando l’accesso dei residenti palestinesi ai servizi di base dislocati in altre parti della Città. Le chiusure sono state attuate durante e dopo le quasi quotidiane proteste anti-annessione e successivi scontri avvenuti vicino al checkpoint (al di fuori dell’Area riservata). Queste restrizioni hanno esacerbato il contesto coercitivo imposto agli oltre 1.000 palestinesi che vivono in questa area della città di Hebron, dove sono stati costituiti insediamenti israeliani dedicati.

Il 5 luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato tre missili contro la regione meridionale di Israele; a seguito del lancio, forze [aeree] israeliane hanno attaccato la postazione di un gruppo armato e diverse aree aperte di Gaza. Non ci sono state vittime da ambo le parti; tre case ed una fattoria palestinesi sono state danneggiate dai raid aerei israeliani.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso sia ad aree [interne alla Striscia, ma] prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni. Non sono stati registrati feriti, ma, in un caso, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato due barche; successivamente i pescatori sono stati liberati. Inoltre, in due casi, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che stavano tentando di entrare in Israele: uno attraverso la recinzione e l’altro dal mare. In tre casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione.

Per mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate trentuno strutture di proprietà palestinese, sfollando 13 persone e intaccando il sostentamento di oltre 100 altre [segue dettaglio]. Nella valle del Giordano, nella Comunità beduina palestinese di Fasayil, le autorità israeliane hanno demolito 12 abitazioni e strutture di sostentamento ad utilizzo stagionale. Quattro delle strutture colpite erano situate in quattro Comunità beduine, interne o attigue ad un’area destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (Piano E1). Due strutture della Comunità di At Taybeh (Hebron), anch’esse in Area C, sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che prevede la rimozione accelerata di strutture prive di licenza, in quanto ritenute “nuove”. Nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui due nel quartiere di Al ‘Isawiya; qui, il 19 febbraio 2020, il Comune di Gerusalemme aveva annunciato un arresto semestrale delle demolizioni.

In due località situate nell’Area C del governatorato di Hebron, le forze israeliane hanno spianato con bulldozer terreni agricoli, con la motivazione che l’area è designata [da Israele] come “terra di Stato” [segue dettaglio]. Ad Al Baq’a, vicino alla città di Hebron, 0,4 ettari di colture stagionali e un muro di sostegno sono stati distrutti con bulldozer, mentre vicino alla città di Sair sono stati sradicati 70 ulivi.

Cinque palestinesi sono stati feriti e decine di alberi e veicoli sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Tutti i ferimenti si sono verificati in due episodi accaduti nel villaggio di Biddya (Salfit), quando coloni hanno attaccato agricoltori al lavoro sulla propria terra: tre sono stati colpiti con armi da fuoco, uno è stato aggredito fisicamente e un altro è stato morso da un cane sguinzagliato da coloni. Nel villaggio di Burin (Nablus) sono stati incendiati decine di ulivi, mentre alcuni altri sono stati sradicati nella Comunità di As Seefer (Hebron), situata in un’area chiusa, dietro la Barriera. Coloni israeliani hanno anche fatto irruzione nel villaggio Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) dove hanno vandalizzato 12 veicoli.

Secondo una ONG israeliana, quattro israeliani, incluso un minore, che viaggiavano su varie strade della Cisgiordania, sono stati colpiti e feriti con pietre; un totale di 19 veicoli israeliani avrebbero subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per i giornalisti palestinesi, gli attacchi violenti delle forze israeliane fanno parte del lavoro

Juman Abu Arafeh 

4 luglio 2020 Middle East Eye

Gli abusi nei confronti dei giornalisti, che comprendono aggressioni e arresti, sono aumentati negli ultimi mesi specialmente nella Gerusalemme occupata.

Messa alle corde e impaurita, Sondus Ewies, giornalista palestinese di 23 anni, parlava nervosamente con un gruppo di agenti israeliani radunatisi intorno a lei mentre stava girando un film il mese scorso nella moschea di Al-Aqsa.

“Non ho fatto nulla. Stavo solo filmando e facendo il mio lavoro”, ricorda di avergli detto.

Ewies ha poi tirato fuori il suo tesserino internazionale di giornalista, sperando di evitare la detenzione, ma è accolta con una scrollata di spalle da un agente che le ha risposto: “Questa è una carta fasulla che non riconosciamo.”

Gli agenti israeliani hanno arrestato Ewies e sequestrato il suo telefonino. È stata quindi sottoposta a interrogatorio e le è stato imposto il divieto di visitare il complesso della moschea, situato nella Gerusalemme est occupata, per tre mesi.

Non era il suo primo incontro con le autorità israeliane. Ewies è stata interrotta più volte mentre era in onda ed è stata anche picchiata mentre copriva varie proteste.

A Middle East Eye ha detto di temere più il temporaneo divieto che l’effettiva detenzione.

Ewies vive nel quartiere palestinese di Ras al-Amoud, appena a sud del complesso della moschea Al-Aqsa, avendo fatto di quest’ultima una parte centrale del suo lavoro giornalistico. Dice di aver contato le ore per entrare nel complesso della moschea dopo che era stato chiuso per due mesi a causa della pandemia di coronavirus.

Molti giornalisti palestinesi affrontano arresti e divieti temporanei di accesso al complesso per avervi filmato incursioni dei coloni o forze israeliane che aggredivano i fedeli.

Nel 2016, le autorità israeliane hanno redatto liste nere con i nomi dei palestinesi, giornalisti compresi, a cui è vietato entrare nel complesso.

Dall’inizio di giugno, le autorità israeliane hanno emanato circa 10 mandati di comparizione a giornalisti e fotografi per interrogarli su come informano riguardo ad eventi politici.

Divieti alle agenzie stampa palestinesi

Ewies è una delle tante giornaliste che hanno subìto molestie da parte delle forze israeliane mentre erano in servizio.

La nota giornalista locale Christine Rinawi, di 31 anni, lavorava da 10 anni per Palestine TV, una stazione che opera nell’ambito dell’emittente palestinese pubblica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quando è stata incarcerata nel dicembre 2019.

Il mese prima l’allora Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan aveva emanato un decreto per chiudere gli uffici della TV palestinese per sei mesi, sostenendo che la sua attività costituiva una violazione agli accordi di Oslo che vietano la presenza dell’ANP nella Gerusalemme est occupata da Israele. L’ordine è stato rinnovato nel maggio 2020.

Subito dopo la chiusura, il personale dell’emittente di Gerusalemme ha deciso di contestare la decisione e di proseguire il proprio lavoro.

A dicembre, durante la trasmissione del terzo episodio di un programma in diretta, le forze israeliane hanno arrestato la presentatrice Dana Abu Shamsia e il cameraman Amir Abed Rabbo. Rinawi e un altro cameraman, Ali Yassin, furono anch’essi poco dopo arrestati e portati in un centro di interrogatori.

Per Rinawi, la chiusura della Palestine TV fa parte delle restrizioni imposte da Israele sulla documentazione degli abusi israeliani da parte dei media palestinesi.

“Hanno cercato di aggredirci e ci hanno trattati come criminali”, dice a MEE.

L’ufficiale mi ha detto: ‘Vai a lavorare a Betlemme o Ramallah. Ti è proibito lavorare a Gerusalemme, sia in strada che sottoterra o vicino al bagno o in salotto’ “.

Durante l’iniziale chiusura di sei mesi della Palestine TV, i servizi segreti israeliani hanno convocato Rinawi cinque volte per interrogarlo.

La Palestine TV non è il solo centro di informazione palestinese ad essere bandito da Gerusalemme dalle autorità israeliane. Negli ultimi anni, Al Quds, Palestine Today, Qpress e l’Elia Youth Media Foundation [associazione giovanile non profit, ndtr.] sono stati tutti sottoposti a divieti.

Nel corso degli anni, Rinawi ha subito diverse aggressioni mentre svolgeva il suo lavoro. Nel 2019, è stata spinta e strattonata dai soldati israeliani durante una trasmissione in diretta, che è stata interrotta quattro volte.

Nel 2015, schegge di una granata stordente l’hanno colpita agli occhi mentre copriva la situazione nella moschea di Al-Aqsa.

Un anno prima, lei e il suo cameraman erano stati colpiti con proiettili di gomma mentre riferivano degli eventi verificatisi dopo il rapimento e l’uccisione dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir.

Più pericolosa delle armi

Ata Owaisat, di 50 anni, del quartiere di Jabal al-Mukaber a Gerusalemme, ha iniziato la sua carriera come fotoreporter 19 anni fa. Ha lavorato con l’agenzia di stampa Associated Press e l’organizzazione di notizie israeliana Yedioth Ahronot.

Ha detto di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati israeliani hanno rotto la sua attrezzatura fotografica.

“Uno di loro mi ha detto letteralmente ” la tua macchina fotografica è più pericolosa delle armi “, dice a MEE.

“Sono stato picchiato e umiliato mentre svolgevo il mio lavoro, sono stato ostacolato, fermato, perquisito, interrogato e bandito da Al-Aqsa”.

La carriera giornalistica di Owaisat è stata bruscamente interrotta nel 2013, quando ha subito un grave infortunio e il conseguente trauma psicologico, compreso un disturbo post-traumatico da stress. Ha detto che gli è difficile parlare di quel giorno.

L’8 marzo 2013, Owaisat prese la sua macchina fotografica e andò a seguire gli scontri ad Al-Aqsa, dove le forze israeliane stavano sparando granate stordenti e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro i palestinesi che protestavano nel complesso della moschea contro le violazioni israeliane.

Owaisat fu colpito alla bocca da un oggetto metallico che non è stato in grado di identificare, che gli causò una copiosa emorragia.

“Ho perso parte dei miei denti, del labbro superiore e il mio viso era sfigurato”, ha ricordato.

Dopo essere stato colpito, Owaisat ha momentaneamente perso conoscenza ma è stato presto risvegliato da calci e insulti prima di perdere di nuovo conoscenza.

L’equipaggio di un’ambulanza lo portò in ospedale.

“Ho visto la morte negli occhi”, ha detto.

In seguito Owaisat ha avuto difficoltà a mangiare, parlare e persino a sorridere. Ha subito diverse operazioni per ricostruire viso e denti.

Ha anche smesso di lavorare per un anno, dopo di che ha ricevuto un referto medico che specificava il trauma psicologico che gli impedisce di riprendere il suo lavoro.

Restrizioni generalizzate

Oltre ai giornalisti di Gerusalemme, anche i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza assediata sono sottoposti a una pletora di violenze.

Il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) ha segnalato 18 di tali abusi durante il mese di maggio, inclusi attacchi fisici, arresti e la chiusura di uffici in tutti i territori palestinesi.

Anche un recente rapporto della Commissione per le Libertà del Sindacato Giornalisti Palestinesi ha riscontrato che le autorità israeliane hanno commesso 760 violazioni nel 2019.

Nasser Abu Bakr, il presidente del Sindacato, ha commentato la cosa dicendo che Israele concentra le sue restrizioni e l’ostruzionismo sui giornalisti a Gerusalemme, che considera la propria capitale.

Ha aggiunto che tali incidenti sono aumentati negli ultimi mesi, portando il Sindacato ad avvertire la Federazione internazionale dei Giornalisti (IFJ) dell’elevato numero di infrazioni contro i giornalisti a Gerusalemme e invitandola a intervenire.

Abu Bakr ha dichiarato a MEE che una delegazione della Federazione aveva richiesto al governo israeliano di porre fine alle violenze e di riconoscere la tessera stampa internazionale, senza risultato.

“Forniamo supporto più che possiamo. Abbiamo una riunione al sindacato la prossima settimana e la situazione dei giornalisti a Gerusalemme sarà il primo punto dell’ordine del giorno”, ha detto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Silicon Wadi”: al momento l’ultimo progetto israeliano per prendere il controllo della Città Vecchia di Gerusalemme

Aseel Jundi – Wadi Al-Joz, Gerusalemme est occupata

venerdì 3 luglio 2020 – Middle East Eye

Numerose attività economiche palestinesi a Gerusalemme est hanno ricevuto avvisi di espulsione in quanto Israele prevede di installare il suo parco tecnologico della zona

Nonostante lo choc subito quando ha ricevuto da parte del Comune dell’occupazione israeliana a Gerusalemme l’ordine di lasciare la sua officina, davanti ai suoi clienti Mahmoud al-Kurd non ha mai perso il sorriso.

Il trentacinquenne lavora a tempo pieno nell’autofficina, costruita nel 1960 e situata nell’unica zona industriale di Gerusalemme est occupata. Kurd vi ha lavorato quando era ancora un bambino, insieme a suo padre, che aveva affittato il locale, lo ha diretto per decine di anni prima della sua morte e lo ha lasciato ai suoi figli perché provvedano alle necessità delle loro famiglie. Ha ricevuto l’avviso di espulsione il 1 giugno e ha tempo fino alla fine dell’anno per lasciare i locali in cui svolge la sua attività.

Il 3 giugno il Municipio ha annunciato il progetto di parco tecnologico battezzato “Silicon Wadi” (wadi significa valle). Essa sostituirà la zona industriale che si trova nel quartiere palestinese di Wadi al-Joz a Gerusalemme est, nelle immediate vicinanze della Città Vecchia.

Questo progetto, valutato 2,1 miliardi di shekel (circa 542 milioni di euro), prevede 250 000 m² di “uffici per le imprese di tecnologia avanzata”, così come 100.000 m2 divisi tra “negozi” e “hotel”. Si inscrive nel progetto quadro “Centro città di Gerusalemme est”, approvato in aprile dalla commissione israeliana di urbanistica e gestione del territorio.

L’attività di Kurd dovrebbe chiudere per far posto ai progetti di Israele, anche se i dettagli concreti che riguardano il piano non sono ancora noti.

Mahmoud al-Kurd vende ricambi per automobili e si è specializzato nei sistemi elettrici e nei climatizzatori dei veicoli. Nel corso degli anni ha scelto di ignorare le voci che circolavano attorno a lui relative ai progetti del governo israeliano di cacciare lui e le altre attività in una delle strade più animate di Gerusalemme.

Io sono qui come un albero verdeggiante, le cui radici sono profondamente attaccate al suolo,” dichiara a Middle East Eye.

Mi rifiuto di essere sradicato dal Comune (israeliano) e di essere spostato. Penso che la soluzione più semplice sia che il Comnue scelga un altro luogo per mettere in pratica i suoi progetti, lontano dalle nostre fonti di sostentamento,” afferma il giovane, aggiungendo che rifiuta l’idea di ripartire da zero da qualunque altra parte – anche se fosse solo a qualche metro dal luogo a cui lui e i suoi clienti si sono abituati.

Resterò qui fino all’ultimo momento. Questo mestiere è la mia passione. È in questo vecchio spazio che ho avuto successo,” spiega.

Basta che l’anima del mio defunto padre erri attorno a me qui, è lui che ha affittato questo negozio decenni fa e ci ha trasmesso i mezzi per vivere. Mi rifiuto di essere il dipendente di un rivenditore ebreo se siamo trasferiti per lavorare nelle zone industriali israeliane.”

Kurd dice di essere perfettamente cosciente degli obiettivi dell’occupazione israeliana per Wadi al-Joz, un quartiere vicino alla moschea di al-Aqsa e alla Chiesa del Sacro Sepolcro. Sostiene che se il Comune asserisce che la zona industriale è troppo affollata e debba essere riorganizzata, esso lavora da anni a questi progetti per investire su questa zona strategica.

Scenari negativi

A circa 200 metri da lì, Ihab Mshaashaaa aggiunge il tocco finale al lavoro di verniciatura su una delle vetture dei suoi clienti nell’officina che affitta da 30 anni. Non ha ricevuto indicazioni relative allo sgombero del suo laboratorio, ma dice di aspettarselo quando ci sarà una seconda ondata di notifiche d’espulsione.

La mente di Mshaashaaa brulica di prospettive negative sulle responsabilità che gli competono e a cui fa abitualmente fronte grazie ai proventi dell’officina. Si preoccupa dell’eventualità di essere cacciato e di perdere l’unica fonte di reddito della famiglia.

Mshaashaa afferma che l’amministrazione municipale dell’occupazione israeliana non ha incontrato nessuno di quelli che lavorano nella zona industriale per proporre alternative, e che i proprietari delle attività commerciali hanno poche informazioni o nessuna sulla natura dei progetti futuri.

Mohannad Jbara, l’avvocato che difenderà quelli che sono danneggiati dal progetto, spiega a MEE che l’amministrazione municipale propone in genere dei piani strutturali generali per i progetti, con un nome e un numero, senza peraltro fornire piani dettagliati per ogni edificio. Secondo lui, consegnando degli avvisi d’espulsione a certe strutture e negozi della zona, il Comune tenta di sviare l’attenzione dal progetto più ampio del “Centro città di Gerusalemme est”.

Il progetto comprende un grande spazio, a partire dalla zona della porta di Damasco, uno dei punti di acceso alla Città Vecchia di Gerusalemme, passando per le strade di Sultan Suleiman e Salah al-Din, attraverso una parte del quartiere di Sheikh Jarrah e una parte della zona industriale di Wadi al-Joz. Il primo giugno una quarantina di proprietari di attività economiche palestinesi in questa zona ha ricevuto, come Kurd, ordini di espulsione.

Secondo l’avvocato Jbara con questo progetto l’amministrazione comunale evidenzia la sua idea per questa zona, la cui realizzazione sarà completata nel 2025, definendo il panorama organizzativo del centro di Gerusalemme est nei prossimi 30 anni. Ciò crea una situazione per la quale ogni progetto che non corrisponda a questa idea sarà bocciata.

Spiegando le tappe che un progetto deve seguire prima di essere messo in pratica, l’avvocato sostiene che la questione è prima discussa nella commissione municipale, poi è trasmessa a una commissione distrettuale competente per l’approvazione. A quest’ultimo stadio si suppone in genere che gli abitanti dei quartieri presi di mira siano consultati, prima dell’approvazione al terzo e ultimo stadio.

Attualmente i progetti relativi alla zona industriale di Wadi al-Joz sono stati affrontati dalla commissione distrettuale, ma non sono stati presentati all’opinione pubblica per conoscere le obiezioni. L’avvocato Jbara racconta che la commissione distrettuale non ha approvato il progetto perché il Comune di Gerusalemme non ha preso misure per avvertire i proprietari dei negozi e degli edifici. L’amministrazione municipale si è quindi affrettata ad inviare delle notifiche d’espulsione per proseguire nel progetto.

Wadi al-Joz è una zona sensibile e penso che la commissione distrettuale ritenga che questo progetto non sia praticabile perché ignora completamente le officine e cerca di concretizzare il sogno di un parco tecnologico ed edifici di sedici piani,” ritiene l’avvocato.

Quando la municipalità ha inviato gli avvisi di espulsione ha affermato che i commercianti della città utilizzano le strutture in modo improprio, anche se sono state costruite da parecchi anni, e che è giunto il momento di far rispettare la legge contro queste violazioni. Jbara definisce “impudenti” questa affermazione, sottolineando che da cinquant’anni le autorità percepiscono le tasse pagate dai proprietari di queste strutture e sanno che essi lavorano nella manutenzione di veicoli.

L’avvocato assicura ai proprietari di officine a Wadi al-Joz che esistono molteplici risorse giudiziarie a loro favore e che il Comune non li espellerà con la forza, perché non è proprietaria degli edifici in cui essi lavorano. Potrebbe tuttavia accusarli con il pretesto di “utilizzo irregolare”.

Il progetto del Comune a Wadi al-Joz non è che una tessera del puzzle del rafforzamento del controllo israeliano sui quartieri palestinesi che circondano la Città Vecchia, compresi Silwan e Sheikh Jarrah, grazie ad organizzazioni dei coloni che avviano lunghe e costose azioni giudiziarie per espellere i palestinesi dalle loro case e sostituirli con dei coloni.

Questi progetti saranno il chiodo sulla bara del controllo organizzato (di Israele) sul settore immobiliare a Gerusalemme,” dichiara l’avvocato Jbara, aggiungendo che ciò si inscrive nel quadro dell’adeguamento della zona con la “visione finale [israeliana] dello status quo politico di Gerusalemme.”

Secondo i mezzi di comunicazione israeliani il progetto “Silicon Wadi” sarà il più importante di Gerusalemme est, in quanto comprende una superficie di 200.000 m2 di imprese tecnologiche che forniranno delle possibilità di lavoro a 10.000 diplomati e laureati palestinesi. Oltre alle imprese tecnologiche, saranno costruiti negozi e hotel e tredici strade saranno trasformate in “arterie pedonali che nel mese di agosto accoglieranno regolarmente visite guidate e spettacoli di strada.”

Ebreizzazione

Moshe Lion, il sindaco di Gerusalemme, ha dichiarato al giornale Israel Hayom [quotidiano gratuito di destra, ndtr.] che si tratta di una tappa storica per compensare le carenze di Israele nei confronti dei palestinesi di Gerusalemme e che un simile progetto rafforzerebbe la fiducia nell’amministrazione comunale.

Queste dichiarazioni non sono nuove. Dal suo arrivo al potere, Moshe Lion ha messo in pratica una politica comunicativa che intende dipingere il Comune come un alleato dei palestinesi della città, che intenderebbe garantire loro una vita decente.

Ha promosso questi slogan grazie a varie attività di intrattenimento messe in pratica a Gerusalemme est durante il periodo di quarantena a causa del COVID-19 e durante il mese sacro del Ramadan. Tuttavia dal suo arrivo al potere i bulldozer israeliani hanno continuato a demolire edifici palestinesi a Gerusalemme o ad obbligare i palestinesi a demolire le loro stesse case con il pretesto della mancanza di licenze edilizie.

Il presidente del consiglio di amministrazione della Camera Araba del Commercio e dell’Industria di Gerusalemme, Kamal Obeidat, dice a MEE che è ingiusto evacuare queste proprietà, alcune delle quali risalgono al 1957.

Sostiene che il numero di imprese nella zona industriale varia tra le 160 e le 180. La Camera, aggiunge, ha discusso con i proprietari fondiari privati della zona per capire a fondo la natura delle riunioni che il capo di gabinetto del sindaco ha avuto con loro.

Durante il primo incontro il delegato municipale ha fatto pubblicità al progetto ed ha parlato della sua importanza per i palestinesi. Durante il secondo ha fatto appello ad investitori arabi e durante il terzo ha suggerito l’idea che Google potrebbe aderire al progetto.

Kamal Obaidat spiega che la Camera Araba del Commercio e dell’Industria considera il progetto sospetto, ritenendo che saranno imprese israeliane che monopolizzeranno la proprietà e la gestione delle imprese del parco tecnologico, ebreizzando così tutta la zona.

Adel al-Jaaba, uno dei proprietari fondiari che l’amministrazione comunale ha incontrato, afferma di aver assistito a due sedute, durante le quali il Municipio ha presentato l’idea del progetto e l’ha esortato a chiedere un permesso per costruire degli immobili molto alti. I rappresentanti municipali hanno dichiarato che, nel caso in cui lui e gli altri proprietari non fossero in grado di ottenere i permessi e che le imprese di tecnologia avanzata fossero disposte ad affittare gli edifici non appena completati, il Comune si farebbe carico della costruzione.

Jaaba possiede un terreno di 950 m2 su cui ha un negozio di prodotti per l’edilizia. Nel caso in cui il progetto “Silicon Wadi” venga approvato, dovrà demolirlo e chiedere al suo posto un permesso edilizio per un edificio di vari piani. In caso contrario il Comune prenderà l’iniziativa di distruggerlo, insieme a una storica zona industriale di circa 35.000 m2.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Tribunale israeliano aggiudica ai coloni proprietà della chiesa a Gerusalemme

Tamara Nassar

3 luglio 2020 – Electronic Intifada

Il mese scorso un tribunale israeliano ha respinto una petizione presentata dalla chiesa greca ortodossa per annullare la vendita di proprietà immobiliari a Gerusalemme a un’organizzazione estremista di coloni israeliani.

La decisione dà nuovamente il via libera ad Ateret Cohanim, un gruppo di destra coinvolto in città nella colonizzazione di terra palestinese, per impossessarsi delle tre proprietà.

Lo scorso agosto, la Corte distrettuale di Gerusalemme aveva sentenziato a favore del gruppo di coloni che cerca di far sì che ci sia una maggioranza ebraica nella Città Vecchia, attraverso la colonizzazione e l’espulsione con la forza di nativi palestinesi.

Ateret Cohanim sostiene di aver stipulato contratti in leasing nel 2004 per terreni della chiesa con Ireneo I, all’epoca il patriarca greco ortodosso. I contratti sarebbero scaduti dopo 99 anni.

La chiesa ha detto che ricorrerà in appello contro la decisione del 24 giugno presso la Corte Suprema israeliana e ha accusato la Corte distrettuale di Gerusalemme di aver ignorato “varie nuove prove di comportamenti criminali, come estorsione, frode e inganno ” riguardanti i contratti del 2004.

Il pronunciamento della Corte è stato una sorpresa ed è arrivato questa mattina a meno di 24 ore dalla conclusione dell’udienza, senza che si fossero esaminate le prove e senza averne consentito l’audizione,” ha detto il patriarcato.

Noi crediamo che la Corte Suprema accoglierà il nostro caso dopo aver riesaminato le prove e ribalterà la decisione della Corte distrettuale.”

Ma questa fiducia è probabilmente mal riposta, dato che in precedenza la Corte aveva già deciso a favore dell’organizzazione dei coloni autorizzando il passaggio di proprietà.

La battaglia legale di Ateret Cohanim contro la chiesa per tentare di impossessarsi degli immobili nei pressi della Porta di Giaffa nella Città Vecchia si protrae da 16 anni.

Due delle tre proprietà, l’hotel New Imperial e l’hotel Petra, sono al momento occupate da organizzazioni palestinesi che Ateret Cohanim cerca di sfrattare.

Sono due degli edifici più antichi della città e si affacciano sulla Cupola della Roccia e la Basilica del Santo Sepolcro.

Ireneo I era stato rimosso dalla chiesa perché accusato di aver approvato le transazioni.

I tre siti sono stati concessi in leasing per molto meno del loro valore e dei funzionari della chiesa erano stati accusati di essere stati pagati dal gruppo dei coloni per mandar avanti l’operazione.

Nel 2005 una commissione formata dall’Autorità Nazionale Palestinese aveva esaminato il fatto e scagionato Ireneo I.

L’indagine concludeva affermando che, dato che gli accordi non erano stati approvati dal Sinodo di Gerusalemme, ciò li rendeva “legalmente nulli in quanto incompleti.”

Ireneo I sostenne che la sua estromissione era illegale e continuò a considerarsi il patriarca.

Theofilo III, che ora è il patriarca, ha bloccato le vendite che il suo predecessore avrebbe approvato perché c’erano di mezzo bustarelle e corruzione. Dopo la sua nomina la chiesa ha acquisito i siti.

Il patriarcato sostiene che Ateret Cohanim abbia corrotto Nikolas Papadimos, il direttore delle finanze, per mandare avanti l’accordo.

La chiesa greca ortodossa è fra i maggiori proprietari terrieri nel Paese.

Mentre cerca di impedire che i coloni israeliani si impossessino delle tre proprietà, lo stesso Theofilo III è accusato di cercare di vendere altri beni ecclesiastici, spesso ad acquirenti misteriosi, inclusi investitori israeliani.

Per questo motivo i palestinesi cristiani hanno richiesto la sua estromissione dalla carica di patriarca.

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)




I pericoli della guida sotto l’apartheid israeliano

Izzy Mustafa

26 giugno 2020 – +972 Magazine

“Non mandare su di giri il motore. Tieni le mani sul volante. Non guardare bruscamente negli occhi i soldati di fronte a te. Abbassa la musica. Tieni pronto il tuo documento d’identità per il controllo. Tieni il piede sul pedale del freno. Assicurati, quando il soldato ti fa un cenno con le braccia, di non premere per sbaglio il pedale dell’acceleratore.”

Questo fa parte della lista delle cose da fare che mi viene in mente ogni volta che attraverso un posto di blocco militare israeliano in Palestina. È la routine che mio padre mi ha insegnato a 17 anni, quando ho guidato per la prima volta con lui attraverso il famigerato checkpoint di Za’atara [teatro di numerose uccisioni e ferimenti di palestinesi, n.d.tr.], vicino al villaggio della mia famiglia di Jamma’in, nella Cisgiordania occupata.

Per più di 10 anni, da allora, ho familiarizzato con le strade che collegano tutte le principali città palestinesi in Cisgiordania, dalle dolci colline di Hebron a sud, al maestoso paesaggio agricolo della Valle del Giordano, agli infiniti uliveti di Jenin a nord. Ricordo di aver schivato le buche e la gente per le strade di Kufr Aqab nei miei viaggi avanti e indietro tra Ramallah e Gerusalemme. È durante i miei viaggi da un villaggio di famiglia a un altro che ho assistito alla vorace espansione degli insediamenti ebraici nel corso degli anni.

Tuttavia ogni chilometro di queste strade comporta per i palestinesi dei rischi eccezionali.

Dobbiamo condividere le nostre strade con soldati israeliani e coloni armati. Ogni volta che percorriamo la strada, non siamo solo preoccupati di incorrere in un incidente – le corsie sono strette e non ci sono barriere sparti-traffico – ma siamo anche profondamente consapevoli che la minima mossa sbagliata da parte nostra potrebbe farci uccidere dai nostri colonizzatori.

Il regime israeliano di apartheid impone ai palestinesi nei territori occupati di guidare auto con targhe bianche o verdi, in modo da consentire agli israeliani di monitorare e controllare il movimento dei palestinesi prima ancora di rilevarne l’identità.

I cittadini israeliani, al contrario, guidano auto con targa gialla, il che permette loro di vagare liberamente in Cisgiordania e all’interno di Israele, sulla terra che lo Stato ha rubato ai palestinesi nel 1948. Anche i cittadini palestinesi di Israele e quelli che risiedono a Gerusalemme guidano auto con la targa gialla, ma sono comunque schedati sul versante razziale e sottoposti a maltrattamenti ai posti di blocco.

In un’auto con targa bianca o verde devi prendere ulteriori precauzioni e rimanere vigile in questo ambiente sottoposto a controllo razziale. Non esiste una guida piacevole nella tua terra militarizzata e occupata. Non puoi lasciare che la tua mente vaghi nella leggerezza della vita quotidiana. Non puoi fare una svolta sbagliata o finirai all’ingresso pattugliato di un insediamento coloniale israeliano. Non puoi lasciare che la tua mente ceda al torpore o potresti accidentalmente premere l’acceleratore invece del pedale del freno mentre ti trovi ad un posto di blocco.

I ricordi dei miei viaggi in Palestina si sono riaccesi quando ho saputo che Ahmed Erakat, un palestinese di 27 anni, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dai soldati israeliani dopo che la sua auto ha sterzato finendo contro una guardiola in un posto di blocco a Gerusalemme est.

Non è ancora chiaro cosa sia successo esattamente, ma sappiamo che Ahmed stava andando a prendere i suoi familiari presso il salone di un parrucchiere a Betlemme nel giorno del matrimonio di sua sorella.

Posso solo immaginare l’ansia e la tensione che Ahmed deve aver provato. Aveva il compito di assicurarsi che tutti arrivassero agli appuntamenti in tempo, e per di più nel giorno delle nozze, quando lo stress tra i familiari non può non essere particolarmente intenso. Questi compiti diventano ancora più stressanti quando si deve avere a che fare con i posti di controllo che è necessario attraversare prima di assicurarsi che tutto vada per il meglio.

So quanto può essere intensa questa esperienza, perché è successa a me.

Il giorno del matrimonio di mio fratello, due anni fa, io, come Ahmed, ero incaricato delle commissioni. Usando un’auto a noleggio con targa verde che mi aveva prestato mio padre, quel giorno dovevo guidare tra Nablus e Ramallah più volte – un tragitto per cui si impiegano almeno 40 minuti per ciascuna direzione – per trasportare i familiari nei luoghi dei loro vari impegni. Durante tutto quel tempo il mio telefono non smetteva di squillare: o venivo sgridato per essere in ritardo o incaricato di un altro compito. L’ ansia e lo stress avevano raggiunto il massimo, divorando la mia mente.

Giunto al posto di controllo di Za’atara, invece di rallentare, ho accidentalmente premuto l’acceleratore e ho quasi invaso la fermata dell’autobus dove si trovavano alcuni coloni israeliani. Fortunatamente, sono stato in grado di azionare rapidamente i freni prima che fosse troppo tardi. So che quell’errore avrebbe potuto costarmi la vita attraverso la canna di una pistola. Sarei potuto finire come un altro “terrorista”, accusato della mia morte, dipinto come un palestinese che avesse intenzionalmente spinto la sua auto contro degli ebrei israeliani.

Agli occhi dei nostri colonizzatori e dei loro sostenitori, ai palestinesi non è mai permesso compiere un errore umano. Non possiamo permetterci il lusso di sbagliare. Per loro, cerchiamo solo la morte e la distruzione; non siamo esseri umani che hanno la stessa gamma di emozioni, stress, ansie, preoccupazioni e difetti che potrebbero causare tali incidenti. In questo sistema di apartheid, i colonizzatori devono sempre giustificare la loro occupazione militare e il furto di terra demonizzando i colonizzati.

Ogni volta che sto per mettermi in viaggio dopo aver visitato mia nonna, lei mi chiede e supplica di guidare con attenzione. So che le sue parole sono più una preghiera che una raccomandazione. Una preghiera che io non finisca coll’essere un’altra vittima come Ahmed Erakat e innumerevoli altri condannati a morte per la guida in quanto palestinesi.

Izzy Mustafa è un organizzatore [di campagne a favore dei diritti umani in Palestina n.d.tr.] palestinese che vive a Brooklyn, New York.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese mentre va al matrimonio di sua sorella

Akram Al-Waara

Abu Dis, Cisgiordania occupata

23 giugno 2020 – Middle East Eye

Ahmad Erekat stava andando a prendere sua madre, sua sorella e dei fiori quando gli hanno sparato a morte, dice la famiglia.

Era appena prima del suo matrimonio, e Eman Erekat stava ricevendo gli ultimi ritocchi ai capelli e al trucco nel salone di bellezza di Betlemme, quando il telefono di sua madre è squillato.

Sua madre ha risposto pensando di sentire suo figlio che diceva di essere là fuori pronto a portarle a casa. Invece ha sentito una voce dall’altra parte che le comunicava la tremenda notizia: suo figlio era stato ucciso.

Mentre stava andando a prendere sua madre e sua sorella, Ahmad, di 27 anni, era stato colpito e ucciso dalle forze israeliane al checkpoint militare ‘Container’, tra Betlemme e la casa della famiglia Erekat nella città di Abu Dis, fuori Gerusalemme est.

In una dichiarazione la polizia israeliana ha sostenuto che, quando è stato colpito, Ahmad aveva tentato di investire dei poliziotti israeliani che presidiavano il checkpoint. Sembra che una soldatessa sia rimasta lievemente ferita e sia stata trasferita in un ospedale di Gerusalemme.

Ma la sua famiglia ha detto di non poter assolutamente immaginare che Ahmad possa aver compiuto un simile attacco, ancor meno nel giorno delle nozze di sua sorella.

Quando abbiamo saputo la notizia non ci potevamo credere. Siamo ancora sotto shock”, ha detto a Middle East Eye Emad Erekat, cugina di Ahmad. “Ahmad non avrebbe mai potuto progettare di attaccare i soldati, come loro sostengono.”

La spiegazione più logica dello sbandamento fuori strada dell’auto di Ahmad, ha detto la famiglia, è che Ahmad aveva sicuramente fretta, e potrebbe aver avuto un lieve guasto o aver perso il controllo dell’auto, cosa che i soldati hanno scambiato per un attacco.

Aveva tempi stretti per prendere sua sorella, i fiori e tante altre cose da Betlemme”, ha detto Emad, aggiungendo che Ahmad guidava un’auto a noleggio con targa palestinese, che ha affittato apposta per fare acquisti nel giorno del matrimonio.

Siamo certi al cento per cento che non avrebbe mai fatto ciò. Perché avrebbe dovuto farlo nel giorno delle nozze di sua sorella?”, si chiede Emad.

Gli hanno sparato senza nemmeno pensarci’

Ad Abu Dis centinaia di familiari ed amici si sono radunati presso la casa degli Erekat per piangere la morte di Ahmad che, secondo la sua famiglia, era fidanzato e aveva programmato di sposarsi proprio il mese prossimo.

Nessuno qui riesce a crederci, la gente è sconvolta”, dice Emad. “Sua sorella Eman è svenuta quando ha saputo la notizia. Non riesce nemmeno a parlare, è in totale stato di shock”.

Doveva essere il giorno più felice della sua vita, ma ora è diventato il giorno del funerale di suo fratello”, afferma.

La cugina di Ahmad Noura Erekat, avvocatessa per i diritti umani e docente associata presso la Rutgers University del New Jersey, nel tardo pomeriggio di martedì ha condiviso i suoi pensieri con una serie di commossi post su Twitter.

Mentite. Uccidete. Mentite. Questo è il mio cuginetto”, ha detto.

Gli unici terroristi sono i vigliacchi che hanno sparato per uccidere un bellissimo giovane e lo hanno accusato di questo”.

E’ stato riferito che testimoni oculari della scena hanno detto all’agenzia [palestinese] M’an News che “ciò che è accaduto al [posto di controllo] ‘Container’ non è stato un tentativo di investire (i soldati), bensì l’auto ha sbattuto sul bordo dello spartitraffico dove si trovavano i soldati, facendo sì che le forze d’occupazione israeliane sparassero all’automobile.

Noi non abbiamo visto l’accaduto, ma pensiamo che Ahmad abbia perso il controllo dell’auto per un secondo, e quindi i soldati gli hanno subito sparato senza pensarci due volte”, ha detto Emad.

Organi di informazione locali palestinesi hanno riferito che Ahmad è stato lasciato steso in terra per molto tempo e non ha ricevuto cure mediche dai soldati. Quando le ambulanze israeliane sono arrivate, riportano le notizie, Ahmad era già morto.

Lo hanno lasciato morire’

Un video diffuso sui social media, presumibilmente ripreso da un testimone oculare dell’incidente, mostra Ahmad ferito che giace a terra, curvo in posizione fetale, con una scia di sangue che gli esce dal corpo.

Si vede una soldatessa che cammina avanti e indietro dinanzi a Ahmad con il fucile puntato, mentre dietro la sua auto si forma una fila di auto palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint.

Si sente l’uomo che sta filmando dire: “Sono le 15,50 al ‘Container’, un giovane uomo è stato appena fatto diventare un martire. Gli hanno sparato proprio qui davanti a noi. Che riposi in pace.”

L’uomo continua dicendo: “lo hanno lasciato steso in terra finché è morto”.

L’uccisione di Ahmad non è certo la prima di questo genere. Negli scorsi anni in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est centinaia di palestinesi sono stati uccisi nel corso di presunti attacchi col coltello e con le auto ai checkpoint.

In parecchi casi le famiglie delle vittime palestinesi e i testimoni hanno sostenuto che i presunti “aggressori” sono stati colpiti dopo che incidenti stradali di poco conto sono stati scambiati per attacchi a soldati e coloni israeliani.

Tante persone sono state uccise a questo checkpoint”, dice a MEE Khuthifa Jamus, un’amica di Erekat. “Se sei palestinese, qualunque movimento sbagliato ad un checkpoint può farti uccidere”.

Ci ammazzano a sangue freddo e poi dicono che stavano solo difendendosi”, ha aggiunto Jamus.

Uccisi a sangue freddo’

Da molto tempo i soldati israeliani sono accusati da attivisti e associazioni per i diritti di uso eccessivo della forza contro palestinesi che nel momento in cui sono stati uccisi non costituivano un’immediata minaccia alla vita dei soldati.

Recentemente a Gerusalemme est la polizia israeliana ha sparato e ucciso Eyad al-Halak, un uomo palestinese autistico, mentre stava scappando dai poliziotti. Al-Halak era disarmato e la sua uccisione ha sollevato una diffusa indignazione in tutta la Palestina e all’estero, molti hanno paragonato la sua morte all’uccisione da parte della polizia di George Floyd negli Stati Uniti.

Quest’uomo è stato ucciso a sangue freddo. Stasera c’era il matrimonio di sua sorella”, ha detto martedì il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in una dichiarazione.

Quel che sostiene l’esercito di occupazione (l’esercito israeliano), cioè che tentava di investire qualcuno, è falso”, ha detto Erekat, un parente di Ahmad.

L’uccisione di Ahmad avviene in un contesto di accresciuta presenza dei soldati israeliani nei territori occupati in quanto Israele si prepara all’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr].

Mentre i generali dell’esercito israeliano prevedono una fiammata di violenza a causa delle politiche israeliane, molti soldati hanno elevato il livello di allerta per presunti attacchi da parte di palestinesi.

Anche se Ahmad avesse compiuto un attacco, cosa che non era, il problema è che i soldati e questi checkpoint prima di tutto non dovrebbero essere qui”, ha detto una commossa Jamus. “Questa è la colpa dell’occupazione, stare qui e ucciderci senza ragione, continuamente.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’aggressione con presa al collo nei confronti di un diplomatico rivela il particolare tipo di apartheid di Israele

Jonathan Cook

23 giugno 2020 – Mondoweiss

La scorsa settimana un diplomatico israeliano ha presentato una denuncia alla polizia dopo essere stato gettato a terra a Gerusalemme da quattro addetti alla sicurezza, i quali gli hanno tenuto il ginocchio premuto sul collo per cinque minuti mentre lui gridava: “Non riesco a respirare”.

È un evidente richiamo al trattamento nei confronti di George Floyd, un afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis il mese scorso. La sua morte ha innescato proteste di massa contro la brutalità della polizia e rafforzato il movimento Black Lives Matter. L’incidente di Gerusalemme, al contrario, ha risvegliato un interesse minore, anche in Israele.

Un’ aggressione da parte di agenti di sicurezza israeliani a un diplomatico suona come un’aberrazione, un raro caso di errore di identificazione, molto diverso da un modello consolidato di violenza della polizia contro le comunità di neri poveri negli Stati Uniti. Ma è un’impressione sbagliata.

L’uomo aggredito a Gerusalemme non era un normale diplomatico israeliano. Era beduino, parte dell’estesa minoranza palestinese di Israele. Un quinto della popolazione: questa minoranza gode di un livello molto inferiore di cittadinanza israeliana.

L’eccezionale successo di Ishmael Khaldi nel diventare diplomatico, così come la sua esperienza fin troppo familiare, in quanto palestinese, di abusi da parte dei servizi di sicurezza, esemplificano i paradossi di come si configuri la versione ibrida dell’apartheid israeliana.

Khaldi e altri 1,8 milioni di cittadini palestinesi discendono dai pochi palestinesi sopravvissuti a un’ondata di espulsioni nel 1948, quando sulle rovine della loro terra natale venne proclamato uno Stato ebraico.

Israele continua a considerare questi palestinesi, i suoi cittadini non ebrei, come un elemento sovversivo che deve essere controllato e sottomesso attraverso misure che ricordano il vecchio Sudafrica. Ma allo stesso tempo Israele ha un disperato bisogno di presentarsi come una democrazia di tipo occidentale.

Così, stranamente, la minoranza palestinese si è trovata ad essere trattata sia come cittadini di seconda classe sia come involontari manichini da mettere in vetrina su cui Israele può basare le sue pretese di equità e uguaglianza. Ciò ha determinato l’esistenza di due facce contraddittorie.

Da un lato Israele tiene separati i cittadini ebrei da quelli palestinesi, costringendo questi ultimi in poche di comunità strettamente ghettizzate che occupano una piccola frazione del territorio del Paese. Per impedire il mescolamento e l’incrocio delle etnie separa rigorosamente le scuole per bambini ebrei e palestinesi. Questa politica ha avuto un tale successo che i matrimoni misti sono quasi inesistenti. Attraverso un raro sondaggio l’ufficio centrale di statistica ha scoperto che nel 2011 hanno avuto luogo 19 matrimoni di questo tipo.

Anche la sfera economica è in gran parte segregata.

La maggior parte dei cittadini palestinesi è esclusa dal settore della sicurezza israeliano e da qualsiasi cosa sia collegata all’occupazione. I servizi pubblici, dal settore portuale a quello idrico, delle telecomunicazioni e dell’elettricità, sono in gran parte privi della presenza di cittadini palestinesi.

Le opportunità di lavoro si concentrano invece nei settori dei servizi a basso reddito e del lavoro occasionale. Due terzi dei bambini palestinesi in Israele vivono al di sotto della soglia di povertà, rispetto a un quinto dei bambini ebrei.

Questa faccia negativa è accuratamente nascosta all’esterno.

Dall’altro lato, Israele decanta a gran voce il diritto di voto dei cittadini palestinesi – una facile concessione dato che Israele ha costruito una schiacciante maggioranza ebraica nel 1948 costringendo la maggior parte dei palestinesi all’esilio. Si vanta di eccezionali “testimonianze sull’ emancipazione degli arabi”, sorvolando sulle più intime verità in essa contenute.

Durante la pandemia da Covid-19 Israele ha diffuso con entusiasmo il dato che un quinto dei suoi medici sono cittadini palestinesi, dato corrispondente alla loro percentuale nella popolazione. Ma in verità, il settore sanitario è l’unica grande sfera della vita in Israele dove la segregazione non è la norma. Gli studenti palestinesi più brillanti si rivolgono alla medicina perché almeno lì gli ostacoli all’affermazione possono essere superati.

Si confronti questo dato con l’istruzione superiore, dove i cittadini palestinesi occupano molto meno dell’uno per cento delle posizioni accademiche più elevate. Il primo giudice musulmano, Khaled Kaboub, è stato nominato alla Corte suprema solo due anni fa, 70 anni dopo la fondazione di Israele. Gamal Hakroosh è diventato il primo vice commissario di polizia musulmano di Israele nel 2016; il suo ruolo è stato ovviamente limitato alla gestione della polizia nelle comunità palestinesi.

Khaldi, il diplomatico aggredito a Gerusalemme, si inserisce in questo modello. Cresciuto nel villaggio di Khawaled in Galilea, alla sua famiglia venivano negati acqua, elettricità e permessi di costruzione. La sua casa era una tenda, dove ha studiato coll’illuminazione a gas. Molte decine di migliaia di cittadini palestinesi vivono in condizioni simili.

Indubbiamente, il talentuoso Khaldi ha superato molti ostacoli per ottenere un ambito posto all’università. Ha poi prestato servizio nella polizia di frontiera paramilitare, nota per aver commesso abusi sui palestinesi nei territori occupati.

È stato presto segnalato come un affidabile sostenitore di Israele in seguito ad una insolita combinazione di caratteristiche: la sua intelligenza e determinazione; un rifiuto molto determinato a farsi sconfiggere dal razzismo e dalla discriminazione; un codice etico flessibile che tollera l’oppressione dei compatrioti palestinesi; una cieca deferenza verso uno Stato ebraico la cui stessa definizione lo esclude.

Il ministero degli Esteri israeliano lo ha inserito in un percorso veloce, mandandolo presto a San Francisco e Londra. Lì il suo lavoro era quello di combattere la campagna internazionale per il boicottaggio di Israele, modellato sul sistema che aveva preso di mira l’apartheid in Sudafrica, citando la sua storia come prova che in Israele chiunque poteva avere successo.

Ma in realtà, Khaldi è un’eccezione che viene cinicamente sfruttata per confutare la regola. Forse quest’aspetto gli è venuto in mente mentre veniva soffocato nella stazione centrale degli autobus di Gerusalemme dopo aver obiettato al comportamento di una guardia.

In fondo tutti in Israele sanno che i cittadini palestinesi, persino l’atipico professore o parlamentare, vengono identificati su base razziale e sono trattati come nemici. Le storie dei loro maltrattamenti fisici o verbali sono insignificanti. L’aggressione nei confronti di Khaldi si distingue solo perché egli ha mostrato di essere un servitore così compiacente nei confronti di un sistema progettato per emarginare la sua comunità di appartenenza.

Questo mese, tuttavia, lo stesso Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scelto di strappare la maschera diplomatica e raffinata rappresentata da Khaldi. Ha nominato un nuovo ambasciatore nel Regno Unito.

Tzipi Hotovely, suprematista ebrea e islamofoba, sostiene l’annessione israeliana dell’intera Cisgiordania e l’acquisizione della moschea Al Aqsa [il terzo sito più santo dell’Islam, ndtr.] a Gerusalemme. Fa parte di una nuova ondata di inviati del tutto privi di diplomazia in capitali straniere.

A Hotovely interessa molto meno l’immagine di Israele che quella di rendere tutta la “Terra di Israele”, compresi i territori palestinesi occupati, esclusivamente ebrea.

La sua nomina segna in qualche modo dei progressi. Diplomatici come lei possono finalmente aiutare le persone all’estero a capire perché Khaldi, il suo collega diplomatico, sia stato aggredito nel proprio Paese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il piano di annessione israeliano pregiudicherà la normalizzazione arabo-israeliana?

Yousef Alhelou

17 giugno 2020 – Middle East Monitor

La posizione adottata dagli Stati Arabi sul piano israeliano di annettere dal prossimo mese aree della Cisgiordania occupata, compresa la Valle del Giordano, può essere scomposta in linea di massima in tre orientamenti: i Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain, Qatar, Marocco ed Egitto offrono un esplicito sostegno all’ “accordo del secolo” degli Stati Uniti, che comprende l’annessione e lo scambio di territori; alcuni Paesi, come Palestina, Giordania, Algeria, Iraq e Tunisia respingono totalmente il piano; e altri hanno delle riserve e non hanno espresso un parere in un senso o nell’altro.

L’annessione implica il controllo della terra e il trasferimento degli attuali abitanti. In Palestina, si tratta di una continuazione della pulizia etnica israeliana dei territori iniziata nel 1948 che non sarebbe nemmeno all’ordine del giorno senza il sostegno degli Stati Uniti. L’attuale amministrazione di Washington guidata dal presidente Donald Trump ha già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e ha affermato che gli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese “non necessariamente” sarebbero illegali. Ha anche bloccato tutti gli aiuti statunitensi ai palestinesi.

Tuttavia, con una mossa insolita, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha scritto un commento su Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano in lingua ebraica d’ Israele. “Annessione o Normalizzazione” si rivolge principalmente all’ala destra israeliana e invia un velato avvertimento ai funzionari e all’opinione pubblica in generale. Ha anche twittato un video in inglese per enfatizzare il suo messaggio. Al-Otaiba ha messo in guardia contro la prospettiva dell’annessione e ha menzionato le sue probabili conseguenze. L’ambasciatore desidera proteggere la normalizzazione formale dei legami con Israele, legami diplomatici, economici, culturali e sulla sicurezza.

Mentre i critici affermano che il suo messaggio è più un consiglio amichevole che un avvertimento formale, altri credono che Al-Otaiba stia cercando di salvare la faccia dopo che gli Emirati Arabi Uniti si sono viste respinte due diverse spedizioni di aiuti medici per i palestinesi perché non si sarebbero coordinati in anticipo con l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti ospitano anche l’ex funzionario di Fatah Mohammed Dahlan, espulso dal movimento da Mahmoud Abbas. Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti rimangono un grande sostenitore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) che fornisce i beni di prima necessità a milioni di rifugiati palestinesi.

È chiaro che qualsiasi instabilità che facesse seguito all’annessione potrebbe ravvivare nella coscienza araba lo spirito della lotta armata in tutta la regione. Se esplodesse, in aperta solidarietà con i palestinesi oppressi, la rabbia popolare, potrebbe anche danneggiare i rapporti diplomatici in fase di sviluppo, mettendo a repentaglio la piena e pubblica normalizzazione dei legami tra gli Stati arabi e Israele.

L’Iran e i suoi alleati nello Yemen, nel Libano meridionale e a Gaza non possono essere ignorati, poiché Teheran è il nemico comune di Israele e di alcuni Stati musulmani sunniti. Qualsiasi destabilizzazione dello status quo in Cisgiordania o Gerusalemme potrebbe incoraggiare la mobilitazione di gruppi filo-iraniani e attacchi contro obiettivi nel Golfo. La Turchia, nel frattempo, potrebbe sostituire il sostegno arabo alla legittima causa palestinese e fornire sostegno finanziario a coloro che vivono sotto l’occupazione militare di Israele. Inoltre, le industrie petrolifere e del turismo potrebbero soffrirne se, ad esempio, gli Houthi filo iraniani cercassero di vendicarsi contro la coalizione araba guidata dai sauditi che combattono nello Yemen e sostengono i palestinesi e i loro diritti. Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese hanno anche avvertito delle gravi conseguenze se l’annessione dovesse procedere. Tutte le opzioni, a quanto pare, sono sul tavolo.

Quando a gennaio Trump ha annunciato i dettagli del suo “piano di pace”, gli ambasciatori degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain e dell’Oman si trovavano alla Casa Bianca in piedi accanto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu . Trump li ha ringraziati per il loro supporto. Nessun funzionario palestinese era presente. L'”accordo” è stato una pugnalata alle spalle; un piano pro-Israele; un matrimonio forzato della “sposa” israeliana con un “sposo” palestinese riluttante. Gli stati arabi intenzionati a normalizzare i legami con Israele hanno bisogno di pace e coesistenza tra palestinesi e israeliani, per porre fine alla loro imbarazzante diplomazia sotto copertura e consentire loro di avere un rapporto economico aperto con lo Stato occupante.

Sorprendentemente, gli unici due Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele – Egitto e Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – non hanno partecipato alla cerimonia della Casa Bianca. Entrambi hanno intense relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese e condividono più o meno la stessa visione su come porre fine al conflitto Israele-Palestina: piena normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme, e un ritorno ai confini del 1967. Questa è la base dell’iniziativa di pace araba approvata dalla Lega araba nel 2002 al suo vertice di Beirut.

Gli accordi di Oslo firmati nel 1993 dovevano portare alla costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Quasi tre decenni dopo centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in enormi blocchi di insediamenti costruiti da Israele nonostante gli Accordi. Ancora altri territori palestinesi sono stati rubati per costruire il muro dell’apartheid lungo 708 chilometri che si snoda lungo il confine della Cisgiordania [in prevalenza il muro si trova nel territorio cisgiordano, n.d.tr.]; ci sono più di 600 posti di blocco militari fissi e mobili; e le comunità palestinesi sono state isolate, creando bantustan separati. Inoltre, le case e gli altri edifici palestinesi vengono regolarmente demoliti dagli israeliani e i palestinesi nativi di Gerusalemme si vedono revocare i loro permessi di residenza mentre la giudaizzazione della Città Santa continua. Sotto i governi consecutivi di estrema destra di Netanyahu, la più estremista della storia di Israele, Israele ha fatto fuori la cosiddetta “soluzione a due Stati”.

La Giordania ha respinto il piano di annessione perché la valle del Giordano occupata si estende lungo il confine del Regno Hascemita [la dinastia hashemita, fondata nel 1916, dominò prima nel igiāz (regione comprendente La Mecca e Medina) in Arabia, poi in Iraq e Transgiordania, e infine nel Regno hashemita di Giordania, n.d.tr.] L’area costituisce circa il 30% della Cisgiordania, con una popolazione di circa 65.000 palestinesi e 11.000 coloni illegali. In realtà, Israele ha quasi il controllo totale di quello che è già di fatto un territorio annesso.

Tutto ciò suggerisce che l’avvertimento di Al-Otaiba potrebbe essere ascoltato, perché Netanyahu non vorrà perdere alleati nel mondo arabo, non ultimi nuovi amici come il Sudan, nel caso che la situazione si dovesse deteriorare nei territori palestinesi occupati. Il leader israeliano è il più consapevole di tutti del fatto che il presidente dell’ANP Abbas ha annunciato il mese scorso che sta ponendo fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza con le forze di occupazione.

È vero che la causa palestinese è diventata un grattacapo per alcuni regimi arabi, in particolare nel Golfo, ma per altri è ancora la “questione centrale” che unisce tutti gli arabi e i musulmani. Senza una giusta soluzione in Palestina, non ci sarà mai stabilità in Medio Oriente. Sebbene l’ANP sotto Abbas sia accusata di aver aperto per prima le porte alla normalizzazione, i palestinesi insistono sul fatto che i legami con Israele non devono procedere a spese del popolo palestinese che ha lottato per decenni per la libertà e l’autodeterminazione .

Israele ha investito molto nella normalizzazione dei legami con gli Stati del Golfo. Sono stati fatti molti incontri reciproci segreti e sono state utilizzate molte applicazioni di social media per colmare le lacune culturali e politiche esistenti, nell’incoraggiare gli arabi del Golfo a rivoltarsi contro i palestinesi demonizzandoli come ostacolo alla pace con Israele.

Al momento, tuttavia, tutto ciò che conta per Netanyahu è la luce verde di Trump. È stato in grado di mettere insieme un governo di “unità” che condivide il potere e rimanere al potere significa tutto per lui. L’annessione faceva parte della sua campagna elettorale ed è tempo di adempiere al suo impegno. Le posizioni palestinesi e arabe non gli interessano molto, ma è un politico esperto e scaltro, che prenderà in considerazione i pro e i contro con attenzione.

Il velato avvertimento del capo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Al-Otaiba, sarà sufficiente per fermare o ritardare il piano di annessione? O Israele andrà avanti a prescindere e quindi pregiudicherà la normalizzazione con gli Stati arabi che temono disordini popolari nei loro paesi? Solo il tempo lo dirà, ma ci sono rischi per tutti i soggetti coinvolti, in particolare per i palestinesi, indipendentemente dal modo in cui si guardi la cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)