Ben Gourion Internazionale, questo aeroporto diventato un tribunale inquisitorio

Laurent Perpigna Iban

6 giugno 2020 – Middle East Eye

All’aeroporto di Tel Aviv ottenere il visto israeliano a volte diventa un incubo per i viaggiatori. Soprattutto per quelli che sono sospettati dalle autorità israeliane di essere militanti filopalestinesi

Tel Aviv, Israele – La lunga rampa che conduce dai terminal dell’aeroporto Ben Gurion agli uffici dell’immigrazione israeliani a volte ha il sapore della paura. Più in basso, dietro i vetri della ventina di posti di controllo, gli agenti attendono pazientemente i viaggiatori. Nelle code in attesa la gioia dei pellegrini contrasta con l’ansia di altri candidati al visto.

Arriva il momento fatidico. I passaporti vengono analizzati meticolosamente, le domande a dir poco brusche: “Dove andate? Conoscete qualcuno qui? Come si chiama?”. E altrettante domande a cui i viaggiatori devono rispondere senza batter ciglio, soprattutto coloro che intendono recarsi per conto proprio in Cisgiordania, per i quali la bugia risulta essere il miglior parafulmine ai guai.

Queste domande da interrogatorio non riguardano solo questioni di sicurezza. Gli obbiettivi, oltre a prevenire attacchi sul suolo israeliano, sono anche politici, poiché si tratta di limitare la presenza straniera nei territori occupati. A questo scopo le autorità israeliane dispongono di uno strumento imbattibile: la concessione del visto all’arrivo.

Dato che i due principali punti d’ingresso che consentono agli stranieri di recarsi in Cisgiordania sono sotto controllo israeliano – l’aeroporto di Tel Aviv e il ponte di Allenby – Malik Hussein, tra la Cisgiordania e la Giordania – la concessione di questo ‘apriti sesamo’ si è trasformata nel tempo in uno strumento amministrativo agli ordini della politica israeliana.

Gli accordi che esentano dalla richiesta di visto prima della partenza conclusi con parecchi Paesi erano peraltro tesi a facilitare il viaggio degli stranieri. Ma ecco che queste cortesi direttive hanno assunto l’aspetto si una roulette russa per molti viaggiatori: l’autorizzazione ad entrare nel territorio – attraverso un visto per turismo di tre mesi – si ottiene direttamente sul posto e di fatto sottopone i viaggiatori all’arbitrio.

Il quotidiano economico Globes, citando statistiche dell’Amministrazione dei posti di frontiera, della popolazione e dell’immigrazione –che fa capo al Ministero dell’Interno israeliano – riportava che nel 2018 erano state respinte al loro arrivo circa 19.000 persone, contro le 16.534 del 2016 e….le 1.870 del 2011.

Risultato: molti viaggiatori che vogliono andare in Cisgiordania in modo indipendente preferiscono tacere le proprie intenzioni, di fronte al rischio di pesanti interrogatori o anche di respingimento.

Interrogatori interminabili

Kamel e Louis* lo sapevano. Questi due giovani francesi si erano documentati in proposito prima di partire per Tel Aviv, nel novembre 2019. Se Louis ha passato senza problemi i controlli, non è stato così per il suo amico.

“Ho mostrato il mio passaporto francese. Ho risposto che sarei andato a visitare Tel Aviv e Gerusalemme. La giovane donna allora mi ha chiesto quali fossero le mie origini. Algerine. Per me è stato l’inizio dei guai,” racconta Kamel a Middle East Eye.

Il giovane viene quindi fatto entrare nella sala d’attesa riservata ai “aspiranti [all’ingresso in Israele] sospetti”. Kamel subisce un primo interrogatorio di una mezz’ora. Passano due ore prima che sia portato davanti ad un secondo interlocutore.

“Questo mi ha detto di essere il capo della sicurezza. Mi ha fatto le stesse domande alle quali ho dato le stesse risposte. Mi sono trovato davanti una terza persona. E’ diventato sempre più pesante.”

Kamel riferisce che dal terzo interrogatorio in poi era presente un traduttore francese.

“L’agente della sicurezza israeliana ha alzato più volte la voce. Mi ha chiesto se ero musulmano, se pregavo… E poi domande personali che non li riguardavano e che comunque loro si permettevano di farmi. Davano l’impressione di voler controllare tutto e di avere un potere assoluto. Mi hanno chiesto perché i miei genitori erano andati a vivere in Francia. Hanno anche controllato il mio portatile”, racconta.

Il giovane ha subito in tutto cinque interrogatori, per un fermo in totale di sei ore.

“Hanno cercato di colpirmi psicologicamente. Ero nella posizione del colpevole”, racconta a MEE. Quando si rassegna ad un respingimento formale, ha finito “quasi miracolosamente”per ottenere il visto.

Un trattamento che sono costretti a subire tutti coloro che non corrispondono al profilo del turista depoliticizzato. Ma di fatto le persone di origine araba e di fede musulmana sono molto più esposte a queste complicazioni. Al punto che alcune di loro, dal profilo insospettabile, a volte sono pesantemente minacciate.

Nel 2019 il quotidiano israeliano Haaretz ha dato conto della disavventura dell’ambasciatore di Israele a Panama, Reda Mansour, che ha riferito che lui stesso e suoi famigliari sono stati “umiliati e trattati come sospetti dalle guardie di sicurezza”.

Un trattamento che aveva provocato una pesante polemica in Israele, che ha costretto il presidente Reuven Rivlin ad esprimersi pubblicamente. “Ciò che conta è ciò che voi sentite, e se voi vi sentite così feriti, allora non dobbiamo fare delle riflessioni”, aveva allora dichiarato il capo dello Stato.

In seguito la situazione non sembra essere affatto migliorata: alcune ore prima della messa in quarantena di tutti i viaggiatori in arrivo all’aeroporto di Tel Aviv a causa dell’epidemia di coronavirus, gli agenti dell’immigrazione si preoccupavano meno di sapere se essi provenissero da una zona infetta dal coronavirus che di cosa avessero intenzione di fare una volta entrati.

La legge in questione

Alla fine degli interrogatori alcuni non hanno la fortuna di Kamel e si trovano nella situazione di « denied entry » (ingresso respinto). Per loro è un ritorno al mittente.

Qualunque scusa è buona per giustificare questa decisione. Le simpatie filo palestinesi, anche presunte, mettono il candidato al visto nella posizione del colpevole, mentre le foto archiviate sui telefonini, gli account Twitter e Facebook valgono come prove.

Una situazione tanto più paradossale in quanto la visita nei territori palestinesi non è vietata agli stranieri, anche in base al diritto israeliano.

Tuttavia nel 2017 la Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] ha approvato una legge che vieta il rilascio di visti e di diritti di residenza ai cittadini stranieri che aderiscono al boicottaggio economico, culturale o accademico di Israele, ma anche di tutte le istituzioni israeliane o di ogni “zona sotto il controllo di Israele”, cioè le colonie. Se gli stranieri sono il principale obiettivo, anche i militanti israeliani contro l’occupazione ne fanno regolarmente le spese.

Tuttavia non sono solo i controlli all’arrivo a provocare paura e tensione. Quelli effettuati al momento di lasciare il Paese in aereo – il primo avviene tre chilometri prima di arrivare all’aeroporto – sono tanto numerosi quanto snervanti.

Il più inquietante è quello effettuato dentro l’area da una schiera di agenti di sicurezza, ancor prima che il viaggiatore possa accedere agli sportelli per il check in. Con il pretesto della sicurezza aeroportuale, le domande sui viaggi precedenti – soprattutto nei Paesi arabi – si susseguono a folle velocità, volutamente destabilizzante.

Questa raccolta di informazioni resta segreta, anche se alcuni segreti dei servizi di immigrazione israeliani a volte finiscono per essere smascherati. È il caso degli adesivi con codice a barre incollati sul retro del passaporto dopo l’interrogatorio: secondo diverse fonti il primo numero, compreso tra 1 e 6, classifica i viaggiatori secondo un ordine crescente di “pericolosità”.

Una teoria confermata da nostri incontri con una decina di persone che hanno viaggiato in Israele: quelle che hanno la prima cifra compresa tra 5 e 6 subiscono interrogatori pesanti e sistematiche perquisizioni dei bagagli.

Chris Den Hond è un giornalista. Abituato dal 1994 a recarsi nei territori occupati, è avvezzo a questo genere di interrogatori.

“Anche se non mi hanno messo il timbro sul passaporto e non mi hanno mai sequestrato cassette video, tutte le volte, sia all’entrata che all’uscita, è lo stesso stress”, confida a MEE.

“Mi sono sempre limitato a visitare i siti turistici di Gerusalemme e di Betlemme. Ma le intimidazioni perché io fornissi i nomi, i numeri di telefono e gli indirizzi di contatti palestinesi sono sempre numerose.”

Nel 2017, quando Chris Den Hond è uscito dal territorio attraverso il valico con la Giordania, ha citato anche la visita a Ramallah. “La città di troppo”, spiega, amaramente.

Si susseguono lunghe ricerche condotte dalle forze di sicurezza israeliane, che non tardano a trovare dei video che il giornalista ha realizzato sul movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), vera bestia nera delle elite del paese.

“Alla fine un dirigente mi ha consigliato ironicamente di consultare l’ambasciata israeliana prima di pensare di tornare in Israele, per evitare di essere respinto all’arrivo. Ho chiesto: ‘ Per quanto tempo?’ Mi hanno risposto: ‘Almeno per dieci anni’.”

[SI tratta di] frequenti misure di divieto di ingresso nel territorio, come spiega a MEE Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese.

“All’arrivo attraverso questo aeroporto Israele cerca di vietare l’ingresso nel territorio a tutte le persone che hanno idee politiche considerate filo palestinesi. Questo rientra nel loro concetto di negazione stessa dell’esistenza del popolo palestinese”, commenta.

Il caso spinoso dei familiari di palestinesi

Salah Hamouri è nel mirino delle autorità israeliane. Dopo essere stato incarcerato una prima volta tra il 2005 e il 2011, l’avvocato viene arrestato nell’agosto 2017 a Gerusalemme: passerà più di un anno in detenzione amministrativa, senza che le accuse contro di lui vengano rese pubbliche.

Prima ancora, nel 2016, hanno arrestato sua moglie, Elsa Lefort, allora incinta di sette mesi. “È rimasta tre giorni in un centro di detenzione prima di essere rimandata in Francia con un divieto di ingresso nel territorio tuttora in vigore. Non può più venire a Gerusalemme.”

Quando è uscito di prigione nel 2018, il Ministero degli Esteri francese ha consigliato a Salah Hamouri di fare domanda di visto presso l’ambasciata israeliana prima di partire, se (sua moglie) vuole tornare nel Paese.

 “L’ambasciata mi ha risposto che le era vietato l’ingresso nel territorio fino al 2025. Quanto a mio figlio, hanno detto che la sua domanda sarebbe stata esaminata al momento dell’arrivo…”, spiega.

L’avvocato ricorda almeno “una trentina di donne francesi sposate a palestinesi” che incontrano tremende difficoltà per entrare nel territorio e condurre una vita normale. Di fronte a questi problemi che le riguardano direttamente, “le autorità francesi restano sorde…”, ci dice.

In realtà Salah Hamouri, come altri, deplora la passività della diplomazia francese.

“Ufficialmente, anche se io sono in possesso della carta di residenza di Gerusalemme, ho soltanto la nazionalità francese e in quanto famiglia francese noi abbiamo il diritto di vivere dove vogliamo. Le nostre richieste alle autorità francesi sono vane. Nel mio caso gli israeliani utilizzano questo per revocarmi la carta d’identità come residente a Gerusalemme e scoraggiarmi dall’andarci.”

Un arbitrio al passo coi tempi: i palestinesi di Gerusalemme, che nella gran maggioranza non possiedono la cittadinanza israeliana, hanno solamente lo statuto di residenti della città, facilmente revocabile. Per Salah Hamouri, come per migliaia di altri, un allontanamento geografico di eccessiva durata potrebbe privarlo di questa preziosa carta di residenza.

Nondimeno, l’ esasperato sistema di controllo dell’aeroporto di Tel Aviv suscita l’interesse e anche l’ammirazione di parecchi Paesi, soprattutto europei, che lo considerano – nonostante gli abusi rilevati – uno dei luoghi più sicuri al mondo.

Così, due mesi dopo l’attentato avvenuto all’aeroporto di Bruxelles nel marzo 2016, il Ministro dell’Interno belga ha effettuato una visita privata delle installazioni israeliane. Anche altre delegazioni europee vi si sono recate in trasferta.

In queste condizioni è difficile aspettarsi un qualunque ammorbidimento all’aeroporto internazionale Ben Gurion, che di anno in anno si trasforma sempre più in tribunale inquisitorio.

* I nomi di battesimo sono stati modificati.

** Al momento della pubblicazione di questo articolo le autorità aeroportuali israeliane non avevano ancora risposto alle domande di MEE.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’ANP prospetta uno Stato demilitarizzato come controproposta al piano Trump

Ali Younes

9 giugno 2020 – Al Jazeera

I palestinesi inviano una risposta ai mediatori sul piano americano, il quale favorisce Israele con l’annessione di parti della Cisgiordania occupata.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) afferma di aver inviato ai mediatori internazionali una controproposta al piano mediorientale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, proponendo l’istituzione di uno Stato palestinese demilitarizzato e sovrano nella Cisgiordania occupata, Gerusalemme est e Gaza.

Martedì, nel corso di una conferenza stampa con giornalisti stranieri, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha affermato che la proposta è stata presentata al Quartetto, un organo internazionale composto da Nazioni Unite, Unione Europea, Stati Uniti e Russia che ha il compito di mediare i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi.

Secondo Shtayyeh, la proposta palestinese mira alla creazione di uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e demilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Inoltre lascia aperta la porta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di aree di territorio uguali “per dimensioni, volume e valore – uno contro uno”.

Nessun altro dettaglio è al momento disponibile.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano di Trump che dà il via libera all’annessione da parte di Israele di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie illegali e la Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione di uno Stato palestinese demilitarizzato sul restante mosaico di parti sconnesse dei territori palestinesi senza Gerusalemme est, che i palestinesi vogliono come capitale del loro Stato.

I palestinesi hanno respinto il piano di Trump in quanto del tutto fazioso a favore di Israele e hanno minacciato di ritirarsi dagli accordi di Oslo.

La leadership palestinese aveva già tagliato i rapporti con l’amministrazione Trump nel 2017 a proposito della sua posizione pro-Israele, compreso il suo riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento lì dell’ambasciata americana nel maggio 2018.

La prevista annessione da parte israeliana priverebbe i palestinesi delle principali risorse agricole di terra e acqua, specialmente nella regione della Valle del Giordano. Inoltre affosserebbe definitivamente la soluzione dei due Stati al conflitto arabo-israeliano basata sull’idea di terra in cambio della pace.

Shtayyeh ha avvertito che se il governo israeliano andasse avanti con la prevista annessione, “il governo palestinese annuncerà la costituzione dello Stato [previsto] e l’istituzione di un Consiglio” che svolgerebbe le funzioni di Parlamento.

Questi sforzi, ha detto ad Al Jazeera, mirano a contrastare le politiche sia israeliane che statunitensi volte a minare il “diritto” palestinese ad uno Stato indipendente e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che furono espulsi con la forza dalle loro case e città quando fu fondato Israele nel 1948.

Wasel Abu Yousef, alto dirigente e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), ha descritto l’annuncio di martedì come “parte di diversi passi su cui sta lavorando la leadership palestinese, come raggiungere l’unità palestinese, boicottare i prodotti israeliani e portare avanti presso la Corte Penale Internazionale (CPI) le incriminazioni per crimini di guerra di Israele per la sua guerra contro Gaza del 2014”.

Abu Yousef ha affermato che la leadership palestinese non ha altra scelta se non quella di controbattere agli obiettivi statunitensi e israeliani di negare ai palestinesi i loro diritti e di respingere le attuali proposte di “pace” che vanno ben al di sotto delle richieste dei palestinesi.

“Nessun leader palestinese – ha detto – può essere d’accordo con le condizioni poste da americani e israeliani di dover rinunciare ai diritti o al ritorno dei rifugiati palestinesi, accettando l’annessione di Gerusalemme o permettendo a Israele di annettere parti della Cisgiordania dove ha costruito le sue illegali colonie ebree”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 12 maggio – 1 giugno 2020 (tre settimane)

Il 30 maggio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, poliziotti di frontiera israeliani hanno aperto il fuoco, uccidendo un 31enne palestinese autistico che era fuggito all’intimazione dell’alt.

Le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta. In Cisgiordania, dall’inizio dell’anno, in circostanze diverse, sono stati uccisi 15 palestinesi e un soldato israeliano.

Nel corso di quattro separati attacchi palestinesi contro forze israeliane, due palestinesi sono stati uccisi, mentre altri due palestinesi e un soldato israeliano sono rimasti feriti [seguono dettagli]. Le due persone uccise, il 14 ed il 29 maggio, avevano guidato le loro auto contro soldati israeliani in servizio presso checkpoint vicini ai villaggi di Beit ‘Awwa (Hebron) e An Nabi Saleh (Ramallah). Il soldato israeliano [sopraccitato] è rimasto ferito nell’episodio avvenuto il 14 maggio. Gli altri due palestinesi sono stati colpiti e feriti in due distinti episodi avvenuti a Gerusalemme Est dove avevano tentato di accoltellare soldati israeliani: nei pressi di una torretta militare nel quartiere di Jabal al Mukkabir ed al checkpoint di Qalandiya; non ci sono stati feriti da parte israeliana.

Durante due diverse operazioni di ricerca-arresto, un ragazzo palestinese e un soldato israeliano sono stati uccisi; altri 18 palestinesi sono rimasti feriti [seguono dettagli]. Il 12 maggio, nel villaggio di Ya’bad (Jenin), durante un’operazione di ricerca-arresto, un soldato israeliano è morto, colpito al volto da un sasso lanciato da palestinesi da un tetto. Altri 14 palestinesi sono rimasti feriti durante scontri scoppiati nello stesso villaggio durante operazioni israeliane attuate a seguito di quanto sopra. In ulteriori scontri scoppiati il 13 maggio, durante un’operazione di ricerca-arresto nel Campo profughi di Al Fawwar (Hebron), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un 15enne palestinese e ferendo altri quattro palestinesi.

In Cisgiordania, altri 45 palestinesi sono rimasti feriti in numerosi episodi e scontri con forze israeliane [seguono dettagli]. Ventitre sono stati feriti nel villaggio di As Sawiya (Nablus), nel corso di una manifestazione contro l’esproprio di terreni per l’espansione del vicino insediamento colonico [israeliano] di Rechalim. Cinque palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Turmus’ayya, in scontri scoppiati dopo che agricoltori al lavoro sui loro terreni vicini al villaggio erano stati costretti da un colono israeliano ad andarsene dalla zona. Nel corso di scontri con forze israeliane tre palestinesi sono stati feriti con arma da fuoco nella città di Abu Dis (Gerusalemme) ed altri tre sono stati aggrediti fisicamente ad Huwwara (Nablus).

Complessivamente, in Cisgiordania, nel corso del periodo di riferimento (tre settimane), le forze israeliane hanno effettuato 145 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato circa 199 palestinesi. Di queste operazioni, 44 sono avvenute nei quartieri di Gerusalemme Est, 28 a Hebron, 19 nel governatorato di Ramallah e 15 a Jenin, prevalentemente nel villaggio di Ya’bad.

Nella Striscia di Gaza, per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree [interne alla Striscia] prossime alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 59 occasioni. In due casi separati, due pescatori sono rimasti feriti ed una barca e l’attrezzatura da pesca hanno subìto danni. Da aprile, in mare, c’è stato un notevole aumento del numero di aperture del fuoco di avvertimento. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Gaza, di Beit Hanoun e del Campo Profughi di Al Bureij, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Nella Striscia di Gaza, a Beit Lahiya, un 14enne è morto per l’esplosione di un residuato bellico (ERW) trovato vicino a casa.

Il 12 maggio, il valico di Rafah con l’Egitto ha riaperto in una direzione per tre giorni consecutivi, per consentire il rientro a Gaza di 1.168 palestinesi. Dal 15 marzo, per impedire la diffusione di COVID-19, il valico era rimasto prevalentemente chiuso in entrambe le direzioni.

Una prima valutazione fa ritenere che la sospensione, da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, di ogni coordinamento con le autorità israeliane abbia reso più difficile l’uscita dei palestinesi da Gaza. I titolari di permessi di uscita hanno avuto difficoltà a lasciare Gaza attraverso il valico di Erez, mentre l’Autorità Palestinese non ha ricevuto nuove richieste in tal senso. Questa misura era stata adottata in risposta all’annuncio del governo israeliano circa l’intenzione di annettere parti della Cisgiordania.

In Area C e Gerusalemme Est, a motivo della mancanza di permessi di costruzione, cinquantanove (59) strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate dalle autorità israeliane, sfollando 37 persone e creando ripercussioni su altre 260 [seguono dettagli]. Quarantacinque [delle 59] strutture demolite in Area C hanno interessato 16 Comunità; sette di queste demolizioni sono state attuate in base all’Ordine Militare 1797, che prevede la rimozione accelerata di strutture senza licenza, in quanto ritenute “nuove”. Metà delle 14 strutture demolite a Gerusalemme Est si trovavano nel villaggio di Al Walaja, situato sul “lato Gerusalemme” della Barriera. Dal 4 marzo, queste sono state le prime demolizioni effettuate dalle autorità israeliane nell’area municipale di Gerusalemme. Le demolizioni delle restanti sette strutture in Gerusalemme Est, sono state effettuate dagli stessi proprietari. Durante il mese di Ramadan, conclusosi il 23 maggio, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 42 strutture; erano state 13 nel Ramadan del 2019, una nel 2018, nessuna nel 2017.

Il 25 maggio, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha accolto una petizione volta ad impedire la demolizione “punitiva” di un appartamento nel villaggio di Beit Kahil a Hebron. La casa, dove vivono una donna e tre minori, appartiene alla famiglia di un palestinese accusato di aver ucciso un israeliano, nell’agosto 2019, vicino all’insediamento colonico di Gush Etzion. La sentenza della Corte è la prima nel suo genere dal 2016.

Tredici palestinesi sono rimasti feriti e circa 480 ulivi sono stati vandalizzati da aggressori ritenuti coloni israeliani [seguono dettagli]. Cinque dei feriti erano minori e sono stati aggrediti fisicamente da coloni nella parte della città di Hebron controllata da Israele (Zona H2). Sei sono rimasti feriti durante le irruzione di coloni nei villaggi di Huwwara e Yatma (Nablus). Due sono stati aggrediti da coloni nei pressi di una sorgente vicina al villaggio di Deir Nidham (Ramallah). Coloni hanno fatto irruzione nei villaggi di Al Jab’a (Betlemme) e Beitin (Ramallah) e nel quartiere di Tel Rumeida nella città di Hebron, danneggiando case, muri e automobili. In due casi, i residenti hanno riferito che coloni hanno abbattuto oltre 50 ulivi appartenenti ai villaggi di Yatma e di Nahhalin, mentre altri 280 sono stati vandalizzati vicino al villaggio di Shufa (Tulkarm). Vicino al villaggio di Haris (Salfit), coloni hanno sradicato 150 alberi di ulivo. Nel sud di Hebron, in tre distinti episodi, assalitori ritenuti coloni hanno dato fuoco o hanno fatto pascolare le loro pecore su terreni di proprietà palestinese, causando danni ad alcuni ettari di terreno coltivati con colture stagionali.

Sono stati segnalati diversi episodi di lancio di pietre, bottiglie incendiarie e bottiglie contenenti vernici, da parte di palestinesi contro veicoli israeliani che viaggiavano su strade della Cisgiordania. Di conseguenza, secondo una ONG israeliana, un bambino di cinque anni è stato leggermente ferito e 18 veicoli hanno subìto danni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Impunità e annessioni: “Israele vuole far man bassa”

Mersiha Gadzo,

3 giugno 2020 Al Jazeera

Secondo gli analisti, Israele gode di impunità per la mancanza di volontà della politica internazionale ad oobbligarlo ad assumersi le sue responsabilità

Il governo israeliano ha dichiarato che l’annessione degli insediamenti illegali ebraici nella Cisgiordania occupata, così come quelli nella fertile Valle del Giordano, potrebbe iniziare già a partire dal 1 luglio.

Mentre i dettagli del piano di annessione rimangono vaghi, il primo ministro Benjamin Netanyahu recentemente confermato aveva dichiarato l’intenzione di annettere la Valle del Giordano durante la campagna elettorale dello scorso anno.

Da allora, gli Stati Uniti han proposto il loro piano per la pace in Medio Oriente che prevede la sovranità israeliana sugli insediamenti nei Territori Occupati, illegali secondo il diritto internazionale, e Netanyahu ha da allora ribadito le sue promesse.

Molte nazioni, tra cui gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno sconsigliato tale mossa, facendo notare come un’annessione unilaterale violerebbe il diritto internazionale e sarebbe un colpo devastante per la prospettiva di una soluzione a due Stati al conflitto Israelo-Palestinese.

A maggio il responsabile della politica estera dell’Unione Europea ha detto che l’Unione userà “tutte le proprie facoltà diplomatiche” per cercare di dissuadere il governo Israeliano a procedere col suo piano.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha rifiutato il progetto statunitense e ha recentemente dichiarato che considera nulli e privi di valore qualunque accordo precedentemente sottoscritto con Stati Uniti e Israele.

L’annessione unilaterale di un territorio è tassativamente vietata dal diritto internazionale, senza alcuna eccezione. Ma se l’Unione Europea è compatta nella sua opposizione all’annessione, rimane divisa su quali passi intraprendere, facendo sì che la sua risposta rimanga limitata alla retorica e alle condanne verbali.

Lezioni dalla storia

Uno scenario simile si verificò già nel 1980, quando Israele annetté Gerusalemme Est e poi nel 1981 le alture del Golan siriane.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU asserì che avrebbe implementato sanzioni economiche e politiche contro Israele, ma alle parole non seguirono i fatti.

Quattro decenni più tardi, la comunità internazionale continua a dibattere su come rispondere al piano israeliano di annettere circa un terzo dei Territori Occupati.

Non saremmo qui nel 2020 a discutere di questo se nel 1980 e nel 1981 si fossero tracciati dei confini certi” dichiara ad Al Jazeera Michael Lynk, inviato speciale dell’ONU per la situazione dei diritti umani nei Territori Occupati palestinesi.

Israele ha imparato una lezione irrefutabile per quanto concerne l’impunità – che la comunità internazionale farà passare risoluzioni contro l’annessione, adotterà risoluzioni sull’illegalità di costruire imprese coloniali, ma nonostante ciò la comunità internazionale non imporrà praticamente nessuna conseguenza ad Israele che quindi potrà, nei fatti, far man bassa” ha detto Lynk.

Israele è in violazione di più di 40 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e di circa 100 risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Nel 2018 Lynk ha esortato la comunità internazionale ad agire per impedire l’imminente annessione della Cisgiordania occupata.

Nel rapporto annuale del 2019, Lynk ha ribadito che l’Assemblea Generale e la comunità internazionale hanno l’obbligo legale di assicurare che il diritto internazionale venga rispettato dai propri membri.

Ciononostante, Israele ha goduto di un regime di impunità per decenni, nonostante gravi violazioni del diritto internazionale, a causa di un’assenza di volontà politica ad addossargli “una qualunque forma significativa di responsabilità”, scrive Lynk.

Il Caso della Crimea

La comunità internazionale in passato ha dimostrato di essere capace di rispondere alle annessioni illegali, come quando ha rapidamente imposto sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia quando ha occupato e annesso la Crimea dall’Ucraina nel 2014.

La Russia è stata espulsa dal G8, la sua domanda di partecipazione all’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ndtr.] bloccata, sono stati posti blocchi all’importazione e esportazione dei beni da e per la Crimea, e le persone coinvolte nell’annessione sono state oggetto di sanzioni diplomatiche e blocco dei beni.

Tali misure sono ancora in corso, e sono state estese fino a giugno 2020, pur essendo la Russia un importante partner commerciale e un attore chiave della politica internazionale.

Lynk fa notare come Israele abbia un impatto molto meno significativo sulle economie globale ed europea.

[L’UE] potrebbe effettivamente imporre misure diplomatiche di responsabilizzazione ad Israele per assicurarsi che receda dalla decisione di annessione o per far si che si renda conto che ci sarà un prezzo da pagare se proseguisse sul percorso dell’annessione”, ha dichiarato Lynk

Ciononostante, l’UE appare alquanto divisa al suo interno sui passi da intraprendere.”

Non ci sono differenze politiche o legali significative tra l’annessione della Crimea nel 2014 e quella progettata per il 2020 di considerevole parte della Cisgiordania.”, dice Lynk

Al contrario, le relazioni tra l’UE e Israele si sono solo rafforzate.

Il commercio tra i due ha raggiunto cifre record negli ultimi anni. Nel 2017, l’export israeliano di beni verso l’UE ha raggiunto il 34% dell’export totale di Israele.

Quasi il 40% degli import israeliani arriva dall’UE, suo principale partner commerciale.

Gli Stati Uniti hanno addirittura ampliato i loro aiuti a livelli record. Nel 2016, verso la fine del mandato presidenziale di Barack Obama, gli Stati Uniti hanno accordato a Israele 38 miliardi di dollari di aiuti militari per la decade successiva, somma che Netanyahu ha definito “storica”.

Diana Buttu, un’analista di Haifa, ha detto ad Al Jazeera che il piano di Israele per l’annessione viene visto come “la ciliegina sulla torta” visto che non ci sono state conseguenze per i comportamenti illegali degli ultimi 53 anni di occupazione, che includono l’espansione degli insediamenti israeliani illegali, l’implementazione di un doppio sistema legale, l’impedimento ai palestinesi dell’accesso alle risorse naturali e i bombardamenti sulla Striscia di Gaza.

Abbiamo visto negli anni come Israele acquisti sempre più supporto internazionale da paesi in tutte le parti del mondo.”, dice Buttu.

La risposta [internazionale] è stata nulla, e questo è esattamente quello su cui scommettono i coloni. È esattamente ciò che hanno previsto.”

Buttu dice che la ragione per cui la comunità internazionale ha deciso di ignorare quelle azioni è per via “del fatto che Israele è un progetto coloniale”.

Il mondo arabo non ha mai avuto l’autodeterminazione. Non è mai stata un’area dove non ci fosse un qualche tipo di potere coloniale”, prosegue Buttu.

È possibile imporre cambiamenti. La Russia è molto più potente di Israele. Ma non c’è la volontà politica di farlo, è questa la vera differenza.”

Perdere l’opportunità per l’annessione

La comunità internazionale ha fatto poco riguardo alla proposta d’annessione di Israele poiché Israele ha gestito “una campagnia internazionale estremamente scaltra” e ha un servzio diplomatico “solido”, secondo Lynk.

Ha, ovviamente, il supporto di importanti gruppi pro-Israele negli Stati Uniti, che hanno una significativa influenza a Washington e altrove”, dice Lynk.

È noto che l’amministrazione Trump ha forti legami col partito Likud di Netanyahu.

A maggio 2018 gli Stati Uniti han spostato la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, ribaltando una linea politica vecchia di decenni. A marzo 2019 hanno riconosciuto l’annessione israeliana delle alture del Golan siriane.

A giugno 2019, gli Stati Uniti hanno azzerato i loro contributi all’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi e a febbraio hanno rifiutato di fornire finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese, a quanto è stato detto in un tentativo di forzare Ramallah a modificare la sua posizione sul piano di annessione.

Uno stato internazionale, come gli Stati Uniti, ha il dovere di isolare coloro che violano i diritti umani, non di finire per favorirli” dice Lynk.

Quello che vediamo sono il governo israeliano e il Partito Repubblicano [americano ndtr.] farsi scaltri e realizzare che l’attuale amministrazione potrebbe non essere rieletta a novembre, e che quindi potrebbe andare persa l’opportunità di realizzare probabilmente il più grande regalo americano a Israele di sempre, cioè il sostegno all’annessione di parti della Cisgiordania e la protezione per Israele da qualsiasi ricaduta diplomatica.”

I critici han paragonato l’idea di Stato palestinese di Stati Uniti e Israele al Bantustan sudafricano durante il regime dell’apartheid.

Lynk descrive il piano come “una serie sconnessa di circa 165 isolette di territorio separate le une dalle altre” e la soluzione dei due Stati come “un cadavere che sta semplicemente aspettando il proprio funerale”.

Se Israele dovesse andare avanti con l’annessione, creerà uno stato con due livelli distinti di diritti economici, politici, sociali,e di proprietà, ovvero un regime di apartheid, dice Lynk.

Quando il polverone si sarà posato…il mondo realizzerà che c’è un solo Stato in funzione tra il Mediterraneo il fiume Giordano, e che quello Stato è Israele.”

[traduzione dall’Inglese di Giacomo Ortona]




La polizia israeliana uccide un palestinese disarmato nella Gerusalemme est occupata

30 maggio 2020 – Al Jazeera

Iyad el-Hallak, 32 anni, frequentava e lavorava in una scuola per disabili nella Città Vecchia, nei pressi della quale è stato colpito a morte.

La polizia israeliana ha colpito e ucciso un palestinese disarmato nei pressi della Città Vecchia nella Gerusalemme est occupata.Secondo l’agenzia di notizie palestinese Wafa l’uomo assassinato, il trentaduenne Iyad el-Hallak, frequentava e lavorava in una scuola per disabili nella Città Vecchia, vicino al luogo in cui è stato colpito sabato mattina.

Un parente, che ha parlato all’agenzia di notizie Associated Press in forma anonima, ha affermato che el-Hallak aveva problemi mentali e si stava dirigendo verso la scuola.

Il portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld ha affermato che i poliziotti “hanno individuato un sospetto con un oggetto sospetto che sembrava una pistola. Gli hanno detto di fermarsi ed hanno iniziato ad inseguirlo a piedi, e durante l’inseguimento alcuni agenti hanno anche aperto il fuoco contro il sospettato.”

Rosenfeld ha aggiunto che nella zona non è stata trovata nessuna arma.

In seguito alla sparatoria la polizia israeliana ha chiuso la Città Vecchia e mezzi d’informazione locali hanno detto che ai medici è stato vietato di entrare nella zona.

Wafa afferma che “(alcuni palestinesi) hanno detto che è stato colpito da vari proiettili e che è stato lasciato a terra sanguinante per un po’ di tempo finché è morto.”

La polizia ha anche fatto irruzione nella casa di el-Hallak, nel quartiere di Wadi Joz, dove alcuni membri della sua famiglia sono stati interrogati.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha affermato che membri della famiglia di el-Hallak negano affermazioni secondo cui egli fosse armato e ha citato le loro affermazioni secondo cui “era incapace di fare del male a una mosca.”

Essi hanno detto che il corpo di el-Hallak è stato trasportato all’istituto di medicina legale Abu Kabir a Tel Aviv, in cui si trovano corpi di palestinesi uccisi in presunti attacchi contro israeliani, aggiungendo che le autorità non hanno fornito loro ulteriori dettagli.

L’istituto è noto come il luogo in cui sono stati asportati organi e parti del corpo di palestinesi.

La sparatoria è giunta il giorno dopo che soldati israeliani hanno ucciso un palestinese nei pressi della città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, che secondo loro cercava di investirli con il suo veicolo. In nessuno dei due episodi sono rimasti feriti israeliani.

Alcune associazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno sollevato preoccupazioni per il fatto che le forze di sicurezza israeliane abbiano fatto un uso eccessivo della forza nell’affrontare palestinesi che stavano effettuando o erano sospettati di mettere in atto aggressioni.

Piani di annessione

Gli incidenti sono avvenuti mentre Israele sta portando avanti i suoi progetti di annessione di vaste aree della Cisgiordania, in linea con il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, che favorisce notevolmente Israele ed è stato rifiutato dai palestinesi.

Il piano consente a Israele di annettere le colonie israeliane, illegali dal punto di vista del diritto internazionale, e zone strategiche in Cisgiordania.

Per la maggior parte della comunità internazionale una simile iniziativa da parte di Israele sarebbe una gravissima violazione delle leggi internazionali e distruggerebbe le speranze di una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese.

La scorsa settimana l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato di non essere più legata ai precedenti accordi con Israele e con gli USA e di aver interrotto tutti i rapporti [con Israele], compreso il pluriennale coordinamento per la sicurezza – una prassi molto discussa che è stata ripetutamente criticata dalle associazioni palestinesi per i diritti umani.

Israele occupò Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza – assediata dal 2007 – durante la Guerra arabo-israeliana dei Sei Giorni nel 1967.

I dirigenti palestinesi vogliono che i territori facciano parte del loro futuro Stato, con Gerusalemme est come capitale, mentre Israele considera tutta la città di Gerusalemme come propria capitale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La terra, radice della narrazione nazionale israeliana

Mehdi Belmecheri-Rozental

26 maggio 2020 – Orient XXI

Per lo Stato israeliano la storia palestinese non può esistere, perché perturberebbe la narrazione nazionale, basata sulla continuità storica dai tempi biblici alla fondazione di Israele. In nome di questo rapporto con la terra che sarebbe esclusivo, la politica israeliana fa di tutto per spogliare la memoria palestinese delle sue tradizioni e della sua cultura.

Ogni Nazione ha i suoi miti fondatori, scrive un’autorappresentazione nazionale al servizio dei propri interessi. Per la giovane Nazione israeliana una frase serve da matrice per la costruzione di questo immaginario: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Questa affermazione più volte smentita definisce ancor oggi la strategia israeliana per costruire la propria narrazione nazionale e dimostrare la legittimità di Israele su questa terra. Come diceva nel 1998 Ariel Sharon: “Tutti si devono muovere, correre a impossessarsi di quante più colline possibile per ingrandire le colonie, perché tutto quello che prenderemo rimarrà nostro”. La colonizzazione è, in effetti, una delle linee guida di tutti i governi che da decenni si sono succeduti alla testa del Paese.

Per Israele la posta in gioco non è solamente conquistare ettari di terreno in più, ma anche iscrivere la propria presenza su questa terra all’interno di una lunga storia. Nei territori palestinesi occupati come dall’altra parte del muro di separazione, ieri come oggi sono visibili le tracce di questa lotta per affermarsi come padrone della terra.

Non è facile sradicare la presenza di un popolo. Nel 1948, quando venne creato Israele, centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono in tutta fretta i loro villaggi per sfuggire alle milizie sioniste e all’esercito israeliano. Quest’ultimo fu il primo a utilizzare il termine “Nakba” (catastrofe) minacciando quei contadini in un volantino: “Se volete sfuggire alla Nakba, evitare il disastro, un inesorabile sterminio, arrendetevi.” Tuttavia questo termine è diventato un tabù nella società israeliana. La Nakba la ossessiona perché il suo ricordo scrosta la vernice israeliana. Se Israele riconoscesse di aver espulso con la violenza 800.000 palestinesi, confesserebbe la legittimità del diritto al ritorno dei loro discendenti. Come spiega il ricercatore Thomas Vescovi, l’idea “che al momento della creazione del Paese i suoi combattenti non siano stati vittime ma carnefici rovinerebbe la ‘purezza delle armi’, di cui si fregia l’esercito detto ‘di difesa’ di Israele.” È in questa prospettiva che Israele ha lavorato per cancellare la storia palestinese, per meglio riscrivere la propria.

Un villaggio nascosto sotto i cactus e i pini

A nord di Nazareth Emad mi accompagna sulle rovine del villaggio di Saffuriyya. Vi si reca regolarmente con i giovani palestinesi che vivono in Israele. Il suo obiettivo è di non lasciare che Israele soffochi il ricordo di questi luoghi. David Ben Gurion aveva detto: “Dobbiamo fare di tutto per assicurarci che i palestinesi non tornino più, i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno.”

Emad cerca di lottare contro questa cancellazione delle tracce della vita dei palestinesi. Girando per questi luoghi è difficile vedere i resti di questo villaggio. Ma Emad, grazie alle ricerche fatte e a numerosi documenti, racconta la sua storia. Davanti a un campo di cactus e a un bosco di pini ci spiega che sono stati piantati dagli israeliani per far sparire le tracce del villaggio, una pratica frequente in Israele. Un po’ più lontano, sulla cima di una collina, come per nascondere per sempre nella loro ombra i ruderi palestinesi, sono stati costruiti dei villaggi israeliani: Tzippori, ha-Solelim, Allon ha -Galil Hosha’aya.

E il villaggio di Saffuriyya non è affatto l’unico. Se Amadou Hampâté Bâ sosteneva che “in Africa quando muore un anziano è una biblioteca che brucia”, il motto si ripete in Palestina. Il villaggio di Lifta è uno dei pochissimi che non sia stato distrutto o nascosto, anche se il luogo è molto degradato. Yacoub è la memoria dei luoghi. Nel corso della visita alle rovine del villaggio mostra e parla con nostalgia dei forni tradizionali in cui sua madre faceva cuocere il pane. Questa terra che li ha nutriti è oggi minacciata di distruzione dalla vicina autostrada e dai programmi immobiliari in progetto che fioriscono nel quadro della colonizzazione di Gerusalemme.

In territorio israeliano ci sono centinaia di villaggi distrutti. L’Ong israeliana “Decolonizer”, fondata da due antropologi, ha creato una mappa che censisce tutte le località palestinesi demoliti dal XIX secolo fino ai giorni nostri, così come i villaggi palestinesi minacciati di distruzione. Questa mappa è un prezioso strumento di memoria contro i progetti dello Stato israeliano che si impegna a cancellare la storia palestinese per radicare meglio la propria storia in quelle terre.

In questo progetto Israele ridisegna anche i paesaggi, sradicando gli alberi che segnano una presenza storica palestinese e piantandone altri. Nel parco Ayalon-Canada, tra Tel Aviv e Gerusalemme, le rovine di tre villaggi palestinesi, Yalou, Imwas e Beit Nouba, distrutti nel 1967, sono invisibili, coperte dagli alberi. L’antropologa Chiristine Pirinoli ha quindi fatto una ricerca su come Israele ha cancellato la Palestina trasformandone il paesaggio: “Rimboschire, disboscare, piantare e sradicare sono azioni efficaci per agire sul paesaggio e trasformarlo in modo permanente – sono i mezzi per appropriarsi dello spazio e consolidare la propria supremazia; d’altra parte l’albero è il simbolo stesso del radicamento di un popolo sulla propria terra. In questo caso è al contempo il sostegno della memoria nazionale e una garanzia dell’appropriazione di una terra contesa.” Effettivamente “da una parte, rappresentando il successo di mettere radici nell’ ‘antica patria’, garantisce una continuità simbolica tra il passato descritto nella Torah e il presente; dall’altra consente di cancellare dalla terra ogni segno della storia palestinese che rischia di minacciare la sua trasformazione in territorio nazionale ebraico.”

Scavi di dimensione ideologica

Per sostituire la propria memoria a quella palestinese Israele investe anche negli scavi archeologici. A Gerusalemme, Hebron, Sebastia, ovunque Israele perfora e scava il terreno. Per affermarsi come proprietario legittimo di questa terra lo Stato israeliano intraprende o appoggia degli scavi archeologici per dimostrare una continuità storica tra il passato dei libri sacri e la sua creazione. Qualche anno fa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha sostenuto che “Israele non occupa una terra straniera: l’archeologia, la storia e il buon senso dimostrano che noi abbiamo dei legami particolari con questo territorio da più di tremila anni.” Dall’inizio dell’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, nel 1967, Israele ha realizzato degli scavi totalmente illegali nei territori palestinesi occupati.

A Gerusalemme gli scavi sono ampiamente visibili nella Città Vecchia, ma anche fuori dalle sue mura. Mahmoud, membro della comunità africana a Gerusalemme, una piccola comunità di musulmani originari del Senegal, del Ciad e del Niger che vive qui da parecchi secoli, è una delle memorie storiche della città. Guidandomi per le strade di Gerusalemme parla degli scavi archeologici di Israele nella Città Vecchia. Spiega che nel 1967, all’indomani della guerra dei Sei Giorni, Israele si è affrettato a radere al suolo il quartiere Harat al-Magharba (quartiere dei maghrebini). Esso si trovava ai piedi del Muro del Pianto. Vi risiedevano centinaia di abitanti e vennero distrutti edifici storici, costruiti in epoca ayyubide [dinastia curdo-musulmana fondata dal Saladino e durata dal 1174 al 1250, ndtr.].

Arrivando sulla spianata che si trova davanti al muro è impossibile immaginare che abbia preso il posto di un quartiere arabo raso al suolo. In compenso sono visibili grandi scavi. Sono stati intrapresi sotto la Spianata delle Moschee, con il rischio di indebolire le fondamenta su cui si trovano la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia. Questi lavori hanno come scopo ritrovare le tracce del tempio di Erode e di affermare la legittimità di Israele su questo spazio sacro. Nella società israeliana molte voci reclamano la ricostruzione del tempio e quindi la distruzione delle due moschee.

Nel 2016 l’Unesco ha adottato una risoluzione contro la politica israeliana in questi luoghi che appartengono al patrimonio dell’umanità. All’esterno delle mura della Città Vecchia, nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, anche una Ong sionista, Elad, scava per trovare l’originaria città di David. Gli scavi hanno danneggiato numerose case palestinesi in un quartiere che subisce la colonizzazione israeliana.

Dal 1967, nella più totale illegalità rispetto al diritto internazionale, sono stati realizzati da parte del governo o di Ong israeliane centinaia di scavi nei territori occupati. A Sebastia, per esempio, il villaggio è minacciato dagli scavi archeologici che intendono dimostrare che questo territorio è il sito della Samaria biblica. Di fronte alla forza militare israeliana gli abitanti del villaggio, come nel resto dei territori palestinesi occupati, hanno difficoltà a lottare contro questo fenomeno.

A Hebron si riscontra lo stesso processo attorno alla Tomba dei Patriarchi, dove i coloni portano avanti degli scavi per dimostrare in base ai racconti biblici la legittimità della loro presenza, cacciando al contempo i palestinesi dalle loro case con la violenza. La narrazione nazionale israeliana si costruisce con i bulldozer e distrugge ogni altra memoria che la potrebbe ostacolare.

La cucina come rapporto con la terra

Per inserirsi al meglio in questo spazio millenario, Israele non esita neppure ad appropriarsi della cucina palestinese. Nel campo di rifugiati di Ein El-Sultan, limitrofo a Gerico, Khader, un abitante del campo, invita a condividere una scodella di hummus e un piatto di dajaj mahlous a base di pollo, riso e sumac, una spezia acidula coltivata soprattutto nei dintorni di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Evoca una cultura gastronomica palestinese di “condivisione e convivialità”, tradizione venuta “dalle nostre campagne”. Khader si indigna quando evoca le vicine colonie “che ci rubano le terre, l’acqua e gli alberi.” Gerico si trova alle porte della valle del Giordano, di cui Israele prepara l’annessione. Questa valle è la zona più fertile della Palestina e l’86% dei terreni agricoli è stato rubato dai coloni israeliani, che si impossessano dei frutti di questa terra etichettandoli come “prodotti in Israele”. E questa appropriazione delle coltivazioni arriva fin nel piatto.

Nelle strade di Tel Aviv è frequente trovare ristoranti che cucinano questi piatti palestinesi con l’etichetta di “cucina israeliana”. Per Israele l’appropriazione culinaria dei piatti della Palestina e dei Paesi vicini si iscrive nella ricerca della stesura della propria narrazione nazionale, con l’eredità gastronomica a segnare il rapporto agricolo con questa terra. Rania, cuoca palestinese, spiega che “è una strategia israeliana molto aggressiva. È pura propaganda, il tentativo di ridefinirsi positivamente attraverso il cibo. […] È così che per un mese su una rete nazionale il pubblico francese si è beccato la promozione della “gastronomia israeliana” attraverso la trasmissione condotta dallo chef Cyrill Lignac: “Uno chef in Israele.”

Di fronte a questa situazione i palestinesi contrattaccano. Rania ha deciso di aprire un centro culturale, “ARDI”, per farne l’“incrocio di tutte le nostre eccellenze, che siano gastronomiche o artistiche. Un luogo per degustare un piatto tradizionale palestinese, rifornirsi di spezie palestinesi o orientali […] ARDI mi permette anche di mantenere un legame concreto con la Palestina e di sviluppare dei progetti con le donne di laggiù: la mia grafica è una giovane palestinese di Ramallah, le spezie saranno prodotte da cooperative di donne ed è in corso una collaborazione con le fabbriche di ceramica.” Così vengono diffuse forme di resistenza per difendere le radici dei palestinesi in questa terra.

Israele impone quindi con la forza la sua volontà di radicare la propria Nazione a spese di ogni altra memoria e cultura, dissoda questa terra patrimonio dell’umanità e del popolo palestinese per farne scomparire i semi e insediarvisi meglio. Ma costruire un Paese e unire una Nazione su un immaginario riduttivo sacrificando la memoria dell’Altro non è un simbolo di un nazionalismo disgustoso, origine di troppi conflitti?

Mehdi Belmecheri-Rozental

Laureato in scienze sociali all’École des hautes études [Scuola di Studi Superiori] (EHESS), la sua tesi ha riguardato “Il video come strumento di lotta in Palestina”.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Le forze di sicurezza palestinesi si ritirano dalla zona B di Gerusalemme

23 maggio 2020 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu [agenzia di stampa turca, ndtr.] informa che le forze di sicurezza palestinesi si sono ritirate dai villaggi e dai sobborghi di Gerusalemme classificati come zona B dagli Accordi di Oslo.

Secondo i testimoni le forze palestinesi hanno abbandonato le cittadine nordoccidentali di Iksa, Qatanna e Biddu, e quelle settentrionali di Abu Dis e Izarriya.

Benché l’Accordo di Oslo II, firmato nel 1995 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ed Israele, designi la zona B come sottoposta al controllo di sicurezza israeliano, Tel Aviv ha permesso alle forze di sicurezza palestinesi di dispiegarvisi a causa della pandemia da coronavirus.

I funzionari palestinesi non hanno ancora chiarito se la misura sia collegata alle recenti affermazioni del presidente Mahmoud Abbas sul ritiro della Palestina dai precedenti accordi con Stati Uniti e Israele, in quanto è previsto che Tel Aviv si annetta vaste aree della Cisgiordania occupata.

Martedì Abbas ha detto che il Paese stava interrompendo tutti gli accordi e le intese firmati con Israele e con gli Stati Uniti, compresi quelli sulla sicurezza.

Ha affermato che la Palestina ritiene l’amministrazione USA responsabile dell’occupazione del popolo palestinese e la considera un complice fondamentale delle azioni e decisioni di Israele contro i diritti dei palestinesi.

Da parte sua, mercoledì il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha ordinato di mettere in atto le decisioni di Abbas di troncare i rapporti con Israele e gli USA.

Di conseguenza, nella riunione governativa straordinaria tenutasi nel pomeriggio, Shtayyeh ha ordinato a tutti i ministeri di prendere concrete e urgenti misure relativamente alle decisioni di Abbas.

L’iniziativa è stata presa come protesta per le minacce israeliane di annettere parte dei territori palestinesi occupati nel 1967.

In base all’Accordo di Oslo II i territori palestinesi della Cisgiordania occupata furono divisi in zone A, B e C.

La zona A comprende il 18% della Cisgiordania ed è controllata dall’Autorità Nazionale Palestinese, sia per quanto riguarda la sicurezza che l’amministrazione.

La zona B comprende il 21% della Cisgiordania ed è sottoposta all’amministrazione civile palestinese e alla gestione della sicurezza israeliana.

La zona C comprende il 61% della superficie della Cisgiordania ed è sotto il controllo amministrativo e di sicurezza di Israele, cosa che implica l’approvazione delle autorità israeliane per qualunque progetto o iniziativa palestinese al suo interno.

(Traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)




Terrorismo ebraico: gli askhenaziti forniscono il carburante, i mizrahi accendono il fiammifero

Orly Noy

19 maggio 2020 – +972

I leader israeliani hanno impregnato generazioni di mizrahi con l’odio verso gli arabi, così come verso la loro stessa identità araba. I risultati sono stati letali.

Martedì la condanna di Amiram Ben-Uliel per l’uccisione di tre membri della famiglia Dawabsheh durante un attacco incendiario nel villaggio cisgiordano di Duma nel 2015 ha immediatamente riportato i ricordi a quei giorni da incubo. Il solo pensiero del piccolo Ali, bruciato vivo nell’incendio, di suo padre Saad, morto una settimana dopo, di sua madre Riham, deceduta dopo un mese in ospedale, e di Ahmad, che all’epoca aveva quattro anni ed è sopravvissuto, toglie il respiro.

I miei pensieri sono andati al quindicenne Muahammad Abu Khdeir, abitante di Gerusalemme come me, che venne bruciato vivo da estremisti ebrei nel 2014. Poi ho pensato all’incendio della scuola bilingue di Gerusalemme “Mano nella mano”, dove hanno studiato le mie due figlie e che per anni è stata per la nostra famiglia una seconda casa.

Mi baluginavano nella mente i nomi dei responsabili degli attacchi incendiari contro palestinesi: Amiram Ben-Uliel, Yosef Haim Ben David, Yitzhak Gabbai, Shlomo Twito, Nahman Twito. Sono tutti, dolorosamente, di origine mizrahi. I mirzahi (ebrei originari di Paesi arabi e/o musulmani) non sono in alcun modo gli unici responsabili dei crimini efferati contro i palestinesi. È sufficiente seguire per un solo giorno le attività dei terroristi “della cima delle colline” [gruppo terroristico di giovani ebrei particolarmente violenti, ndtr.] per comprendere che è ben lungi dall’essere così.

Però al contempo noi come mizrahi non dobbiamo far finta di niente rispetto agli incendi omicidi che uccidono palestinesi e avvelenano la nostra gioventù con un odio perverso. Abbiamo l’impegno morale, così come un impegno nei confronti della nostra stessa comunità, di fare qualcosa di più che limitarci a comprendere perché questi giovani accendono il fiammifero. Dobbiamo chiederci chi fornisce il combustibile.

La risposta facile, quasi banale, a queste domande è venuta all’inizio dell’anno da Natan Eshel, uno stretto collaboratore del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è stato registrato mentre diceva che “l’odio è ciò che unisce” il campo della destra guidato dal partito Likud, e che fare propaganda negativa funziona bene con gli elettori “non askhenaziti [originari dell’Europa centro-orientale e l’élite etnica in Israele, ndtr.]”. E in effetti funziona. Si pensi a Benzi Gopstein, un dichiarato suprematista ebraico e leader del violento gruppo “Lehava”, contrario al meticciato razziale, che per anni ha avuto successo a Gerusalemme nel trasformare mizrahi della classe operaia in stupidi soldati contro i palestinesi della città.

Per decenni sociologi e attivisti mizrahi hanno descritto come il sionismo abbia creato un meccanismo ben oliato che ha intriso generazioni di mizrahi di odio furioso sia per gli arabi tra cui vivono che per la loro stessa identità araba latente, cancellando nel contempo la storia e la lingua dei loro antenati. Poiché l’ideologia sionista ha trasformato qualunque cosa che sembrasse anche lontanamente “araba” in una minaccia meritevole di disprezzo, così anche i mizrahi hanno sentito la necessità di dissociarsi dall’identità araba per essere considerati degni agli occhi dell’establishment israeliano.

La destra israeliana ha sfruttato cinicamente e in modo calcolato per i propri scopi questa tragedia. Comprende la profonda ostilità dei mizrahi nei confronti dei discendenti del Mapai, il precursore politico del partito Laburista, e dell’élite ashkenazita, che li ha trattati con sufficienza e li ha discriminati in ogni modo nei primi decenni dalla fondazione di Israele. Alcuni di questi discendenti continuano ancora oggi a mostrare lo stesso disprezzo per i mizrahi.

Tuttavia in Israele la destra non ha fatto molto di più per consentire ai mizrahi di migliorare la loro educazione o la loro cultura. Al contrario, ha offerto loro una sorta di patto in cui avrebbero continuato ad essere identificati con la turpitudine, l’ignoranza e la volgarità, e come tali sarebbero stati calorosamente accolti perché fossero utili agli interessi politici della destra.

Ci sono buone ragioni per continuare a sfidare i discendenti del Mapai. I mizrahi stanno ancora pagando il prezzo delle discriminazioni che sono al cuore della fondazione dello Stato. Ma non dobbiamo dimenticare che abbiamo ancora un conto in sospeso con la destra, che ha governato Israele per decenni eppure non ha fatto praticamente niente per ottenere giustizia per i mizrahi.

Il nostro primo compito tuttavia dev’essere salvare le anime dei nostri figli dalle grinfie dei Natan Eshel e dei Benzi Gopstein. Non solo salveremo le loro vite, ma anche le vite delle future vittime palestinesi. Nessuna spiegazione sociologica potrà liberarli dalla responsabilità per questo tipo di crimini, e nessuna resa dei conti storica laverà le macchie di sangue dalle loro mani.

Una versione di questo articolo è apparsa la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

Orly Noy è una redattrice di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa in farsi. Fa parte del consiglio di amministrazione di B’Tselem [ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ed è un’attivista del partito politico Balad [partito ebreo e palestinese che fa parte della Lista Unita, ndtr.]. Nei suoi scritti parla delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di ebrea mizrahi, di donna di sinistra, di donna, una migrante temporanea che vive dentro un’immigrata perpetua e del dialogo costante fra entrambe.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Israele è la riproposizione della Nakba

David Hearst

15 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua visione attuale Israele conosce un solo percorso: intensificare il suo dominio su un popolo a cui ha rubato e continua a rubare la terra

Gli anniversari commemorano eventi passati. E sarebbe lecito pensare che un evento accaduto 72 anni fa faccia parte davvero nel passato.

Questo è vero per la maggior parte degli anniversari, tranne che nel caso della Nakba, il “disastro, catastrofe o cataclisma” che segna la ripartizione del Protettorato della Palestina del 1948 e la creazione di Israele.

La Nakba non è un evento passato. Da allora, la spoliazione di terre, case e la creazione di rifugiati è proseguita quasi senza sosta. Non è qualcosa che è successo ai nostri nonni.

Succede o potrebbe succedere a noi in qualsiasi momento della nostra vita.

Un disastro ricorrente

Per i palestinesi la Nakba è un disastro ricorrente. Nel 1948 almeno 750.000 palestinesi furono sfollati dalle loro case. Un numero ulteriore, da 280.000 a 325.000, abbandonarono nel 1967 le loro abitazioni situate nei territori conquistati da Israele.

Da allora, Israele ha escogitato mezzi più sottili per spingere i palestinesi fuori dalle loro case. Uno di questi strumenti è la revoca della residenza. Tra l’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967 e la fine del 2016, Israele ha revocato, nella Gerusalemme est occupata, lo status di almeno 14.595 palestinesi.

Altri 140.000 abitanti di Gerusalemme est sono stati “tacitamente trasferiti” dalla città nel 2002, con la costruzione del muro di separazione, attraverso il blocco dell’accesso al resto della città. Quasi 300.000 palestinesi di Gerusalemme est possiedono una residenza permanente rilasciata dal ministero degli interni israeliano.

Due aree sono state tagliate fuori dalla città, sebbene si trovino all’interno dei suoi confini municipali: Kafr ‘Aqab a nord e Shu’fat Refugee Camp a nord-est.

I residenti dei quartieri in queste aree pagano le tasse municipali e di altro genere, ma né le istituzioni comunali di Gerusalemme né quelle governative si occupano di questo territorio o lo considerano sottoposto alla loro responsabilità.

Di conseguenza, queste parti di Gerusalemme est sono diventate terra di nessuno: la città non fornisce servizi comunali di base come la rimozione dei rifiuti, la manutenzione delle strade e l’istruzione, e mancano le aule e le strutture per gli asilo nido.

Gli impianti idrici e fognari non soddisfano i bisogni della popolazione, tuttavia le autorità non fanno nulla per ripararli. Per raggiungere il resto della città, i residenti devono quotidianamente passare sotto le forche caudine dei posti di blocco.

Un altro strumento di esproprio è l’applicazione della Legge sulla Proprietà degli Assenti, che, quando venne approvata, nel 1950, fu concepita come fondamento per poter trasferire le proprietà dei palestinesi allo Stato di Israele.

Il ricorso ad essa a Gerusalemme est venne generalmente evitato fino alla costruzione del muro. Sei anni dopo, fu usata per espropriare il “territorio abbandonato” dai residenti palestinesi di Beit Sahour per la costruzione di 1.000 unità abitative ad Har Homa, a Gerusalemme sud. Ma generalmente il suo scopo è quello di fornire uno stratagemma per un”espropriazione strisciante”.

Una Nakba in tempo reale

Il fulcro della campagna elettorale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il fine giuridico essenziale dell’attuale coalizione di governo israeliana costituirebbero un altro capitolo, nel 2020, dell’ espropriazione nei confronti dei palestinesi. Tali sono i piani per annettere un terzo – o peggio due terzi – della Cisgiordania.

Tre scenari sono attualmente in discussione: il piano radicale dell’annessione della Valle del Giordano e di tutto ciò che gli Accordi di Oslo definiscono Area C. Questa costituisce circa il 61 % del territorio della Cisgiordania che è amministrato direttamente da Israele e ospita 300.000 palestinesi.

Il secondo scenario è rappresentato dall’annessione della sola Valle del Giordano. Secondo i sondaggi israeliani e palestinesi condotti nel 2017 e nel 2018, c’erano 8.100 coloni e 53.000 palestinesi che vivevano in questa terra. Israele ha diviso questo territorio in due entità: la valle del Giordano e il Consiglio Regionale di Megillot-Mar Morto.

Il terzo scenario consiste nell’annessione delle colonie intorno a Gerusalemme, la cosiddetta area E1, che comprende Gush Etsion e Maale Adumin [insediamenti coloniali israeliani situati rispettivamente a Sud e a Est di Gerusalemme, ndtr.]. In entrambi i casi i palestinesi che vivono nei villaggi vicini a questi insediamenti sono minacciati di espulsione o trasferimento. Ci sono 2.600 palestinesi che vivono nel villaggio di Walaja e in parti di Beit Jala che sarebbero coinvolti nell’annessione di Gush Etsion, nonché 2.000-3.000 beduini che vivono in 11 comunità intorno a Maale Adumin, come Khan al-Ahmar.

Cosa succederebbe ai palestinesi che vivono nei territori annessi da Israele?

In teoria potrebbe venire loro offerta la residenza, come nel caso dell’annessione di Gerusalemme est. In pratica, la residenza sarebbe offerta solo a pochi eletti. Israele non vorrà risolvere un problema creandone un altro.

La maggior parte della popolazione palestinese delle aree annesse sarebbe trasferita nella grande città più vicina, come è accaduto per i beduini del Negev e gli abitanti di Gerusalemme est, che si ritrovano in aree isolate dal resto della città.

Il monito dei generali

Questi piani hanno generato reazioni di allarme nei responsabili della sicurezza di Israele, che sono abituati ad essere ascoltati, ma che ora esercitano una minore influenza rispetto al passato sui processi decisionali.

Ciò non è dovuto al fatto che gli ex generali abbiano alcuna obiezione morale riguardo l’espropriazione delle terre palestinesi o perché ritengano che i palestinesi abbiano un diritto legale ad esse. No, le loro obiezioni si basano sull’eventualità che l’annessione possa mettere in pericolo la sicurezza di Israele.

Un interessante riassunto del loro pensiero è fornito da un documento accessibile pubblicato anonimamente dall’Institute for Policy and Strategy (IPS) di Herzliya [Centro di studi internazionale e interdisciplinare privato situato nel distretto di Tel Aviv, ndtr.]. Essi affermano che l’annessione destabilizzerebbe il confine orientale di Israele, che è “caratterizzato da grande stabilità e da un grado molto basso di attività terroristiche” e che provocherebbe una “scossa profonda” alle relazioni di Israele con la Giordania.

“Per il regime hascemita, l’annessione è sinonimo dell’idea di una patria alternativa per i palestinesi, vale a dire la distruzione del regno hascemita a favore di uno stato palestinese.

“Per la Giordania – afferma il documento dell’ IPS – una tale mossa costituirebbe una violazione materiale dell’accordo di pace tra i due paesi. In queste circostanze, la Giordania potrebbe violare l’accordo di pace. Accanto a ciò, potrebbe esserci una minaccia strategica alla sua stabilità interna, a causa di possibili inquietudini tra i palestinesi, in combinazione con le gravi difficoltà economiche che la Giordania sta affrontando “

Ciò costituirebbe per la Giordania solo il primo dei problemi legati all’annessione. Anche un’opzione minimalista di annettere la E1 – l’area adiacente a Gerusalemme – separerebbe Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania, mettendo a rischio la custodia da parte della Giordania dei siti sacri islamici e cristiani di Gerusalemme.

L’annessione, sostiene l’IPS, porterebbe anche alla “graduale disintegrazione” dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ancora una volta, non c’è nessuno spirito di bontà qui. Ciò che preoccupa gli analisti israeliani è l’onere che graverebbe sull’esercito. “L’efficacia della cooperazione con Israele in materia di sicurezza si deteriorerà e si indebolirà, e chi la sostituirà? l’IDF [forze di difesa israeliane, ndtr]! Costringendo ingenti forze ad occuparsi del contrasto delle rivolte e delle violazioni dell’ordine e del mantenimento del sistema organizzativo sui palestinesi”.

I responsabili della sicurezza continuano affermando che l’annessione potrebbe innescare un’altra intifada e rafforzare l’idea di una soluzione di un solo Stato “che sta già acquisendo una presa crescente nella comunità palestinese”.

Il fattore saudita

Nell’ambito più esteso del mondo arabo, il documento rileva che Israele perderebbe molte delle alleanze che ritiene di aver realizzato in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e in Oman e, sul piano internazionale, determinerebbe uno sviluppo della campagna sul Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.

Il ruolo dell’Arabia Saudita nel domare le fiamme della reazione araba al piano di annessione di Netanyahu è stato recentemente menzionato specificamente negli ambienti della sicurezza israeliani. Il sostegno saudita a qualsiasi forma di annessione è stato ritenuto cruciale.

Come al solito, il regime del principe ereditario Mohammed bin Salman ha cercato di attenuare l’ostilità saudita nei confronti di Israele attraverso i media e in particolare le serie televisive. Una serie dal titolo Exit 7 prodotta dalla MBC TV dell’Arabia Saudita recentemente conteneva una scena con due attori che discutevano del processo di normalizzazione con Israele.

“L’Arabia Saudita – afferma uno dei personaggi – non ha ottenuto nulla quando sosteneva i palestinesi e ora deve stabilire relazioni con Israele … Il vero nemico è colui che ti maledice, rinnega i tuoi sacrifici e il tuo sostegno e ti maledice giorno e notte più degli israeliani”.

La scena ha provocato una reazione sui social media e infine una piena dichiarazione di sostegno alla causa palestinese da parte del ministro degli Esteri degli Emirati.

Il tentativo ha dimostrato i limiti del controllo sulle menti da parte dello Stato saudita, che sarà ulteriormente indebolito dal calo del prezzo del petrolio e dall’avvento dell’austerità nel mondo arabo.

Il futuro re saudita non sarà più in grado di risolvere i suoi problemi.

Il Comitato

Vale la pena ripetere ancora una volta che il motivo alla base dell’elenco degli effetti destabilizzanti dell’annessione non è una qualche inquietudine inerente alla perdita della proprietà o dei diritti. La preoccupazione centrale dei responsabili della sicurezza deriva dalla possibilità che le frontiere esistenti di Israele possano essere messe in pericolo a causa della voglia di strafare.

Per ragioni analoghe, un certo numero di giornalisti israeliani ha previsto che l’annessione non avverrà mai.

Potrebbero avere ragione. Il pragmatismo potrebbe avere la meglio. Oppure potrebbero sottovalutare la parte che svolgono nei calcoli di Netanyahu il fondamentalismo religioso nazionalista, David Friedman, ambasciatore degli Stati Uniti e il miliardario statunitense Sheldon Adelson, i tre architetti dell’attuale politica.

Mentre il ruolo degli Stati Uniti come “l’onesto mediatore” nel conflitto è stato a lungo messo in scena come una finzione, questa è la prima volta che io ricordi che un ambasciatore USA e un importante finanziatore americano fanno sì che i coloni siano più zelanti dello stesso primo ministro del Likud.

Friedman è presidente del comitato congiunto USA-Israele sull’annessione delle colonie, che dovrebbe determinare i confini di Israele dopo l’annessione. Questo comitato è insignificante sul piano internazionale, poiché non rappresenta nessun’altra parte in conflitto, senza poi parlare dei palestinesi, i cui leader hanno boicottato il processo.

Due fonti separate del comitato congiunto hanno dichiarato a Middle East Eye che esso si sta orientando verso l’espansione, una volta per tutte, di Israele in Cisgiordania, e non in modo graduale. Una fonte ha detto che riguarderà l’intera area C – in altre parole l’opzione radicale.

Ancora una volta potrebbero sbagliarsi. Entrambi sostengono che l’annessione perseguita seguirà i tratti dell’ “Accordo del Secolo” di Donald Trump, che riduce l’attuale 22 % della Palestina storica a un gruppo di bantustan sparsi per il Grande Israele.

Il culmine

La Nakba, che oggi compie 72 anni, continua a vivere e a respirare veleno. La Nakba non riguarda solo i rifugiati originari ma i loro discendenti – oggi circa cinque milioni di loro sono idonei a ricevere i servizi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNWRA).

La decisione di Trump di interrompere il finanziamento dell’UNWRA e l’insistenza di Israele sul fatto che solo i sopravvissuti originari del 1948 dovrebbero essere riconosciuti [rifugiati palestinesi, ndtr.], hanno scatenato una campagna internazionale con cui i palestinesi sottoscrivono una dichiarazione in cui rifiutano di rinunciare al loro diritto al ritorno.

La dichiarazione afferma: “Il mio diritto al ritorno in patria è un diritto inalienabile, individuale e collettivo, garantito dalle leggi internazionali. I rifugiati palestinesi non cederanno mai ai progetti su “una patria alternativa”. Qualsiasi iniziativa che colpisca le basi intrinseche del diritto al ritorno e lo annulli è illegittima e inefficace e non mi rappresenta in alcun modo”.

Significativamente è stata diffusa dalla Giordania, un altro segno che gli animi si stanno lì accendendo.

La valutazione da parte della sicurezza israeliana, secondo cui la soluzione dei due stati è morta nelle menti della maggioranza dei palestinesi, è sicuramente corretta. La maggior parte dei palestinesi vede l’annessione come il culmine del progetto sionista per stabilire uno stato a maggioranza ebraica e la conferma della loro convinzione che l’unico modo in cui questo conflitto finirà è nella sua dissoluzione.

Ma per lo stesso motivo, i piani di annessione in discussione dovrebbero costituire una prova per la comunità internazionale, se ne fosse necessaria una, che Israele, tanto lontano dall’essere un Paese che viva nella paura e sotto attacco permanente da parte di oppositori irrazionali e violenti, sia uno Stato che non può condividere il territorio con i palestinesi, e tanto meno tollerare l’autodeterminazione dei palestinesi in uno Stato indipendente.

Nella sua attuale visione, Israele conosce un solo percorso: approfondire il suo dominio su un popolo del quale ha rubato e continua a rubare la terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Ha lasciato The Guardian come capo redattore esteri. Nel corso di 29 anni di carriera ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato dell’IRA contro la Thatcher il 12 ottobre 1984 con l’uccisione di 5 membri del Partito Conservatore, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sul contraccolpo lealista sulla scia dell’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi conflitti, dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, in Slovenia e Croazia, sul crollo dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia, e sui conseguenti molteplici conflitti. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per la sezione europea del Guardian, poi è entrato a far parte dell’ufficio di Mosca nel 1992, prima di diventare direttore di redazione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nell’ufficio esteri, è diventato direttore per l’Europa e quindi direttore associato per gli esteri. E’ passato a The Guardian da The Scotsman, dove ha lavorato come corrispondente per il settore istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gerusalemme Est. Perforazioni e linee ferroviarie per cambiarne il volto

Francesca Merz

14 maggio 2020 Nena News

Israele estenderà la ferrovia veloce Tel Aviv- Gerusalemme fino al Dung Gate. Il progetto prevede la costruzione di due stazioni sotterranee e lo scavo di oltre tre miglia di tunnel nella roccia sottostante il centro di Gerusalemme e vicino alla Città Vecchia.

 E’ dunque iniziato, giusto fuori dalla Città Vecchia di Gerusalemme, il piano esplorativo e le prime perforazioni per estendere la ferrovia veloce Tel Aviv- Gerusalemme fino al Dung Gate, ingresso principale per l’accesso al Muro Occidentale della Città, esattamente quel Dund Gate di fronte alla Città di Davide, sito archeologico molto controverso gestito dall’associazione ultra-nazionalista israeliana Elad.

Avevamo già avuto modo di parlare dei passaggi fondamentali per la realizzazione di un piano infrastrutturale per incentivare il turismo e di come esso si collochi in una strategia di apartheid ben precisa.

Nell’ambito del grande piano per la turisticizzazione di Gerusalemme e, contestualmente, della necessità di controllare i flussi in arrivo, non solo nella fase di accesso al Paese, ma soprattutto negli itinerari e nei luoghi ai quali i turisti possono accedere, sono in lavorazione nuovi progetti, il primo è la costruzione di una funivia nella Città Vecchia, progetto già stroncato da molti esperti di conservazione e architetti, che avevano parlato di “Disneyfication” del bacino storico della città. Si era occupato della vicenda anche il New York Times, nella figura di Michael Kimmelman, giornalista e principale critico d’arte del quotidiano statunitense.

Kimmelman era andato in Israele a metà luglio sulla scia di una petizione internazionale proprio contro il piano per la costruzione della funivia: trentacinque importanti architetti e storici dell’architettura della comunità internazionale si erano uniti ai loro colleghi e alle società di conservazione dei beni culturali in Israele per esprimere la loro veemente opposizione al progetto.

Come indica in maniera assai precisa nel suo articolo la funivia di Gerusalemme non è la soluzione di trasporto funzionale che i suoi sostenitori sostengono che sarà, ma un chiaro prodotto della realtà politica nell’Israele del 21° secolo, le ragioni che stanno alla base della “necessità nazionale”, sono come sempre politiche ed ideologiche, mascherate da necessità di sviluppo e progresso. Kimmelman ha capito che le ragioni sono soprattutto di natura politica, con lo scopo di nascondere il carattere universale della città, in modo che “curi una narrazione specificamente ebraica di Gerusalemme, promuovendo le rivendicazioni israeliane sulle parti arabe della città”.

Oltre alla controversa funivia, ecco dunque che anche il progetto della ferrovia prende piede, ma occorre fare un passo indietro, per capire come esso si sia sviluppato e sia stato approvato: Il tentativo, per nulla nascosto dalle autorità, così come nel caso della funivia, è quello di far arrivare i turisti direttamente dall’aeroporto di Ben Gurion, al Dung Gate, porta presidiata dal Kedem Center, che gestisce appunto il sito de “La città di Davide”, che potrebbe controllare flussi, bigliettazione accessi, e ovviamente narrazione  dei luoghi, bypassando completamente altre narrazioni e altre culture.

L’idea di estendere la ferrovia alla Città Vecchia ha le sue radici nell’anno 2017, l’allora ministro dei Trasporti Katz, mise questo argomento nell’agenda di Israele dopo che il Presidente Trump riconobbe Gerusalemme come Capitale di Israele, spostando l’ambasciata americana in città.

Ma i funzionari dello Stato hanno sempre chiarito che il progetto ferroviario avrebbe richiesto anni, e che invece sarebbe stata necessaria nel breve periodo la già citata funivia, per alleviare la congestione del traffico e l’inquinamento nella Città Vecchia. A novembre 2019 è stato dato il via al progetto della funivia, con tutte le polemiche anche a livello internazionale che ne sono seguite (vedi articolo sulla Disneyland di Israele)

Il percorso della funivia dovrebbe iniziare presso il Centro Culturale First Station nel sud di Gerusalemme, passare sopra la storica Hinnom Valley fino al Monte Sion, quindi fluttuare lungo, le mura della Città Vecchia, prima di raggiungere Dung Gate, l’ effetto Disneyland ci pare assicurato.

I sostenitori di quel progetto – e ce ne sono pochi al di fuori del governo – affermano che sarà un’attrazione turistica e, nonostante il fatto che il Ministero dei trasporti non sia stato coinvolto, contribuirà ad alleviare l’attuale ingorgo del traffico, causato principalmente dagli autobus turistici. I suoi numerosi critici affermano che trasformerà i panorami storici più preziosi di Gerusalemme in un parco a tema.

Accanto alla pianificazione della funivia, lo scorso giugno il Comitato nazionale per le infrastrutture si è riunito per discutere dell’estensione della linea ferroviaria veloce Tel Aviv-Gerusalemme. I membri hanno approvato l’allungamento dalla stazione ferroviaria di Navon, all’ingresso della capitale, al centro città, al Teatro Khan e al quartiere di Malha, dove si trovano le principali strutture sportive e commerciali di Gerusalemme. Era stata respinta invece la costruzione di un ulteriore prolungamento della linea, che avrebbe portato dal  Khan Theater a Dung Gate, per paura che ciò potesse danneggiare le antichità, così come la primavera di Gihon, che si trova nel villaggio di Silwan, a sud della Città Vecchia.

Tuttavia, proprio in quello stesso mese, è diventato ministro dei trasporti  Knesset, Bezalel Smotrich, uno dei membri della destra più ideologica di Israele (va detto che Smotirch aveva espresso la volontà di diventare ministro della giustizia per “ripristinare il sistema giudiziario della Torah” e riportare Israele ai “giorni del re David”), e così, a febbraio, il Comitato nazionale per le infrastrutture si è nuovamente riunito per discutere ancora una volta dell’estensione della ferrovia alla Città Vecchia. Le note esplicative preparate prima della riunione hanno chiarito che la questione era tornata all’ordine del giorno a causa della “posizione determinata” del Ministero dei trasporti secondo cui l’estensione era “essenziale”. Potremmo pensar male pensando che l’ideologia politica di estrema destra e fortemente ideologizzata premeva perchè gli amici del Kedem Center potessero avere abbastanza turisti e finanziamenti per i prossimi anni. E così la commissione ha votato a favore dell’estensione che aveva respinto otto mesi prima.

Il progetto prevede la costruzione di due stazioni sotterranee e lo scavo di oltre tre miglia di tunnel nella roccia sottostante il centro di Gerusalemme e vicino alla Città Vecchia.

L’Autorità israeliana per le antichità non si è opposta alla decisione del comitato, affermando che ha riconosciuto la necessità di affrontare gli ingorghi della Città Vecchia e che era giusto prendere in considerazione varie opzioni. Ma ha condizionato la sua opinione futura ai risultati della perforazione sperimentale, che è iniziata proprio qualche giorno fa vicino a Dung Gate.

In una lettera dell’inizio di questa settimana un avvocato che rappresenta l’organizzazione Emek Shaveh di sinistra, ha confermato che gli scavi in città di questi giorni, sono relativi al progetto per la funivia, e sottolinea come veda la funivia, così come il piano ferroviario, come parte di un tentativo di sfocare i confini tra Gerusalemme Ovest e prevalentemente Gerusalemme est palestinese al fine di garantire che quest’ultimo non diventi mai la capitale di uno stato palestinese. In una dichiarazione, ha inoltre sostenuto che i lavori stavano danneggiando la città. “Se il prezzo della funivia è un danno visivo alle Mura della Città Vecchia e allo skyline della valle di Hinnom, una ferrovia danneggerà drammaticamente le antichità”, ha affermato l’organizzazione.

L’autorità israeliana per i parchi e la natura si oppone al progetto di ampliamento della ferrovia, avvertendo non solo di possibili danni alle antichità, ma rilevando anche che, secondo gli esperti idrogeologici, un tale progetto potrebbe danneggiare, se non addirittura prosciugare completamente, la sorgente di Gihon, cara alle tre religioni monoteiste e un elemento centrale nel patrimonio della città. Nena News