Rapporto OCHA del periodo 1- 14 gennaio 2019 (due settimane)

Durante le manifestazioni del venerdì, tenute vicino alla recinzione perimetrale di Gaza, una donna di 44 anni e un tredicenne sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 528 palestinesi sono rimasti feriti.

La donna è stata colpita da un proiettile, mentre il ragazzo è stato colpito alla testa da una bomboletta lacrimogena. Entrambi partecipavano ad una manifestazione tenutasi l’11 gennaio, ad est della città di Gaza; il ragazzo è morto tre giorni dopo, a causa delle lesioni alla testa. Questi episodi portano a 36, da marzo 2018, il numero di minori uccisi a Gaza durante le proteste; nello stesso periodo sono state uccise 3 donne. Inoltre, il 13 gennaio, un uomo palestinese è morto per le ferite riportate durante le proteste di fine ottobre. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, tra le persone ferite durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], 292 sono state ricoverate in ospedale; 67 di loro erano state colpite con armi da fuoco; i rimanenti sono stati soccorsi sul posto. Anche un soldato israeliano è rimasto ferito, colpito da pietre lanciate da manifestanti palestinesi.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 27 occasioni, non riconducibili agli eventi della “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di tre agricoltori. In due distinti episodi, le forze navali israeliane hanno arrestato, per un breve periodo, quattro pescatori ed hanno confiscato due imbarcazioni. In altre quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

Il 6 gennaio, da Gaza è stato lanciato, ed è atterrato nel sud di Israele, un aerostato caricato con un ordigno esplosivo. Durante la sua neutralizzazione da parte delle forze israeliane, l’ordigno è esploso, senza provocare feriti o danni. Successivamente, le forze israeliane hanno effettuato diversi attacchi aerei contro strutture militari di Gaza; non sono stati segnalati feriti.

In Cisgiordania, durante numerose proteste e scontri sono stati feriti dalle forze israeliane 138 palestinesi, tra cui almeno 29 minori. Tre quarti di queste ferimenti (98) si sono verificati nelle città di Al Bireh e Ramallah, durante scontri innescati da operazioni di ricerca-arresto. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 175 operazioni di questo tipo, in aumento del 2% rispetto alla media quindicinale del 2018. Altri 31 feriti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Ras Karkar e Al Mughayyir (entrambi in Ramallah), durante proteste contro le restrizioni di accesso [ai palestinesi] e contro l’espansione degli insediamenti [colonici] su terreni palestinesi. Di tutti i feriti, 10 sono stati causati da armi da fuoco, 59 da proiettili di gomma e 57 da inalazione di gas lacrimogeno richiedente trattamento medico o colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In due distinti episodi, due palestinesi, un uomo e una donna, sono stati colpiti e feriti da forze israeliane, a quanto riferito, mentre tentavano di pugnalare soldati; nessun israeliano è stato ferito. Gli episodi si sono verificati il 7 e l’11 gennaio, presso il checkpoint di Za’tara (Nablus) e nella zona H2 della città di Hebron, all’ingresso dell’insediamento colonico di Giv’at Ha’avot. I due sospetti aggressori sono stati arrestati.

Per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate 13 strutture di proprietà palestinese, sfollando dieci palestinesi e colpendo, in varia misura, altre 100 persone. Nella Comunità di As Simiya (Hebron), in Area C, le autorità israeliane hanno sequestrato, per la seconda volta, tre tende adibite a scuola per 45 studenti; le tende erano state montate per rimpiazzare una scuola demolita nel dicembre 2018, quando non era ancora operativa. Nella Comunità pastorale di Imreiha (Jenin) sono state anche sequestrate una roulotte residenziale e una latrina, fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni. Sempre in Area C, nel villaggio di Beit Iksa (Gerusalemme) sono state demolite sei strutture. A Gerusalemme Est, sul lato rivolto verso il villaggio di Qalandiya, una casa palestinese è stata demolita, mentre a Jabal al Mukabbir abitanti [palestinesi] sono stati costretti a demolire un ampliamento della loro casa.

A Gerusalemme Est, in conseguenza di una sentenza emessa da un tribunale israeliano a favore di un’organizzazione di coloni che rivendicava la proprietà del terreno, una famiglia di rifugiati palestinesi è esposta ad un aggravato rischio di sfratto forzato dalla propria casa. L’abitazione si trova nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove, negli anni ’50, la famiglia si trasferì con il sostegno delle Nazioni Unite. A Gerusalemme Est circa 3.500 coloni israeliani, dopo aver preso il controllo delle proprietà con il supporto delle autorità israeliane, vivono attualmente in quartieri palestinesi. In tali aree, su oltre 800 palestinesi incombono cause di sfratto intentate da organizzazioni di coloni.

Gli scontri tra forze israeliane e coloni, avvenuti durante l’evacuazione di un avamposto [insediamento colonico non autorizzato dalle autorità israeliane] nella zona di Ramallah, hanno provocato il ferimento di 24 poliziotti e tre coloni. L’episodio è avvenuto, il 3 gennaio, nell’avamposto di Amona, che era stato parzialmente ricostruito dopo la sua evacuazione e demolizione avvenuta all’inizio del 2017. La demolizione era conseguita ad una sentenza di un tribunale israeliano che aveva stabilito che il terreno è di proprietà privata palestinese. Nonostante ciò, i palestinesi proprietari dei terreni non sono mai stati autorizzati ad accedere nuovamente alla propria terra.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e più di 1.000 alberi e 11 veicoli sono stati vandalizzati o danneggiati nel corso di attacchi di coloni israeliani. Nel villaggio di Urif (Nablus), durante scontri scoppiati in seguito a un’incursione di coloni israeliani, un 11enne palestinese è stato ferito da un proiettile sparato da soldati israeliani. Altri due separati episodi, avvenuti nel governatorato di Hebron: a Khirbet Um al Imad, coloni israeliani hanno sguinzagliato un cane che ha ferito un palestinese; a Massafer Yatta, un altro uomo è stato fisicamente aggredito e ferito. In dieci episodi separati, secondo fonti della Comunità, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 1.030 ulivi e altri tipi di alberi nei villaggi di Battir (Betlemme), Ash Shuyukh, At Tuwani, Tarqumiya e nell’area H2 di Hebron (tutti a Hebron); Turmus’ayya (Ramallah); Wadi Qana e Deir Istiya (Salfit); e Burqa (Nablus). Cinque episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani contro palestinesi hanno causato danni a 11 veicoli, ma nessun ferimento.

Secondo quanto riportato da media israeliani, durante diversi casi di lancio di pietre ed un episodio di spari da parte palestinese, sono rimasti feriti 4 coloni israeliani (tra cui una donna) e sono stati danneggiati almeno otto veicoli. I lanci di pietre si sono verificati lungo strade prossime a Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Gerico. Nei pressi dell’insediamento di Beit El (Ramallah), l’autista israeliano di un autobus è stato ferito da schegge di vetro prodotte, a quanto riferito, dagli spari di palestinesi contro il veicolo mentre percorreva la strada 466.

Nella città di Ramallah sono state parzialmente riaperte due strade principali tenute chiuse [dalle forze israeliane] per quasi un mese [segue dettaglio:]. L’11 gennaio, per alcune categorie di palestinesi, il “checkpoint DCO”, principale ingresso della città da est, è stato parzialmente aperto in una direzione (in uscita da Ramallah). Il 14 gennaio è stato riaperto un cancello che bloccava la strada principale da ovest verso Ramallah (la porta di Deir Ibzi). Queste e altre strade verso Ramallah erano state chiuse il 6 e il 13 dicembre 2018; in quest’ultima data, a seguito di un attentato palestinese compiuto nell’area e in cui erano stati uccisi due soldati israeliani.

Il 2 gennaio, nella zona centrale della costa di Gaza, le autorità israeliane hanno esteso a 12 miglia nautiche la zona di pesca autorizzata. Lungo le aree settentrionale e meridionale l’accesso rimane limitato a sei miglia. Questa è la prima volta dal 2002 che i pescatori sono autorizzati a raggiungere tale distanza. Si prevede che l’estensione aumenti il volume e la qualità del pescato.

A Gaza sono scoppiati scontri tra la polizia di Hamas e gli attivisti di Fatah. Gli scontri si sono verificati il 1° gennaio, durante un evento che commemorava l’anniversario del movimento Fatah. Gruppi per i Diritti umani hanno riferito che decine di persone affiliate a Fatah sono state convocate dalle forze di sicurezza di Hamas.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto per 4 giorni in entrambe le direzioni e per altri 5 giorni in una sola direzione (verso Gaza). Quest’ultima apertura parziale ha fatto seguito alla decisione dell’Autorità Palestinese (il 7 gennaio) di ritirare il proprio personale dal valico, in conseguenza di un aumento delle tensioni con Hamas. Un totale di 1.781 persone sono entrate a Gaza e 990 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018 il valico è stato aperto, quasi continuamente, cinque giorni a settimana.

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La nuova “strada dell’apartheid” israeliana è molto più della semplice segregazione

Edo Konrad

16 gennaio 2019, +972

Israele sostiene che la nuova strada, che separa israeliani e palestinesi con un muro alto otto metri, decongestiona il traffico per i coloni aiutando al contempo i palestinesi a viaggiare in Cisgiordania. Chi la critica sostiene che aiuterà a creare enclave solo per israeliani, libere da ogni presenza palestinese.

La scorsa settimana Israele ha inaugurato una nuova strada segregata nella Cisgiordania occupata, con un enorme muro di otto metri che separa viaggiatori israeliani e palestinesi su entrambi i lati. Etichettata da chi la critica come la strada dell’apartheid, la motivazione ufficiale della “Route 4370” è decongestionare il traffico per i coloni israeliani che fanno i pendolari verso Gerusalemme e al contempo creare un nuovo modo di viaggiare tra il nord e il sud della Cisgiordania per i palestinesi.

Eppure, nonostante le ragioni dichiarate, i militanti contro l’occupazione e per i diritti umani sostengono che l’autostrada segregata è un ulteriore modo per creare in Palestina aree solo per israeliani – libere da ogni presenza palestinese. Ed è un segno che Israele, e gli israeliani, non vedono più la segregazione come qualcosa di cui vergognarsi.

Mentre in passato c’era un maggiore tentativo di nascondere la segregazione all’opinione pubblica israeliana, oggi essa è percepita come legittima,” afferma Efrat Cohen-Bar, un urbanista e architetto dell’ong “Bimkom” [associazione israeliana che sostiene una pianificazione urbana condivisa con la popolazione, anche quella palestinese, ndtr.]. “In un Paese in cui ogni giorno è proposta una nuova legge discriminatoria, una breve strada segregata non scandalizza nessuno.”

Il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan ha definito l’autostrada “un esempio di capacità di creare la coesistenza tra israeliani e palestinesi proteggendo al contempo dalle attuali minacce alla sicurezza.”

Per Cohen-Bar l’autostrada non può essere disgiunta dal sistema complessivo di strade segregate in Cisgiordania, che spesso obbligano i palestinesi a utilizzare sottopassaggi per non disturbare il traffico dei coloni [che passano] sopra di loro. “L’autostrada 4370 dovrebbe essere vista nel contesto più ampio come una continuazione della politica (da parte di Israele) di separazione e della creazione di enclave solo israeliane.”

Agli occhi di Daniel Seidemann, avvocato e attivista che dirige l’Ong israeliana “Terrestrial Jerusalem” [Gerusalemme Terrena, associazione israeliana che studia l’impatto delle politiche sulla città, ndtr.] e che ha passato gli ultimi 20 anni a monitorare i mutamenti nel panorama della città, la Route 4370 ha anche una dimensione geopolitica. L’autostrada, afferma, è parte della strategia israeliana a lungo termine di “creazione di contiguità territoriale tra Gerusalemme e le colonie che la circondano,” soprattutto con la molto discussa area E1, la zona di 12 km2 che si trova tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim in Cisgiordania.

Per decenni Israele ha desiderato edificare colonie nell’area, collegando l’insediamento a Gerusalemme e dividendo concretamente in due la Cisgiordania.

Oltretutto, afferma Seidemann, la strada è solo il primo passo nel progetto israeliano di escludere i palestinesi dall’utilizzo della Route 1, parte della quale viene utilizzata sia dagli israeliani che dai palestinesi in Cisgiordania. Tutto ciò, ritiene, ha lo scopo di pregiudicare le possibilità di costituzione di uno Stato palestinese e di procedere con la progressiva annessione di ampie zone della Cisgiordania.

Netanyahu è impegnato in un indirizzo strategico per stabilire unilateralmente un confine di fatto tra Israele e la cosiddetta Palestina,” dice Seidemann. “La strada è stata aperta ora perché le politiche del primo ministro stanno finalmente prendendo forma. L’obiettivo finale è l’annessione dell’Area C [più del 60% dei territori occupati, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma provvisorio controllo di Israele, ndtr.] della Cisgiordania con una minima presenza palestinese. Ciò è quello che stiamo vedendo succedere nella E1.”

La Route 4370 non è la prima autostrada segregata nei territori palestinesi occupati per uso esclusivo degli israeliani. Durante la Seconda Intifada Israele ha chiuso la Route 443, una seconda autostrada che unisce Gerusalemme alla zona di Tel Aviv, al traffico palestinese in seguito a una serie di casi di spari letali contro veicoli israeliani. Nel giugno 2007 gli abitanti di sei villaggi che si trovano nei pressi della Route 443 fecero richiesta all’Alta Corte di Giustizia israeliana di riaprire la strada ai palestinesi. Due anni e mezzo dopo, la corte stabilì che ai palestinesi doveva essere consentito di utilizzare la strada della Cisgiordania.

L’Alta Corte, almeno sulla carta, sentenziò che Israele doveva smettere di consentire solo agli israeliani di utilizzare la Route 443” continua Seidemann. “Questo caso è diverso. Non si tratta di una politica specifica, ma piuttosto di una scelta già ben ponderata da molto tempo. Riguarda la costruzione di infrastrutture separate e parallele per israeliani e palestinesi; questo tipo di cose non era mai stato fatto prima.”

La Route 4370 è stata concepita per creare un effetto domino,” dice Ahmad SubLaban, un ricercatore sul campo del gruppo per i diritti umani con sede a Gerusalemme “Ir Amim” [“Città di Persone”, Ong israeliana che si occupa delle politiche applicate a Gerusalemme, ndtr.]. “L’autostrada è parte di un puzzle che verrà terminato per collegare prima o poi Gerusalemme a Ma’ale Adumim, a Gush Etzion, alle colonie della zona di Ramallah e a quelle di Givat Ze’ev. Al momento il puzzle non è ancora stato completato.”

Per ora i cittadini israeliani che utilizzano la strada avranno un percorso più rapido dalle colonie della zona di Ramallah verso i quartieri ebraici di Gerusalemme, soprattutto durante l’ora di punta. A quelli che viaggeranno sul lato palestinese verrà impedito di entrare a Gerusalemme, anche se la nuova strada renderà effettivamente più breve il loro viaggio dalla zona di Ramallah alla parte meridionale della Cisgiordania.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’attivista israeliana che ha schiaffeggiato l’accusatore di Ahed Tamimi vuole un processo politico

Oren Ziv

14 gennaio 2019, +972

Yifat Doron afferma di aver schiaffeggiato il procuratore militare israeliano per difendere la sua amica. “Noi non veniamo puniti nello stesso modo dei palestinesi per aver commesso le stesse azioni.”

Pochi minuti prima che un tribunale militare israeliano condannasse la giovane Ahed Tamimi a otto mesi di carcere, un’attivista israeliana, Yifat Doron, si è avvicinata al procuratore militare, gli ha gridato: “Chi sei tu per giudicarla?” e ha dato uno schiaffo in testa al tenente colonnello.

Doron è stata rilasciata sulla parola solo due giorni dopo essere stata arrestata per aver schiaffeggiato il procuratore nel marzo dello scorso anno. A Tamimi non è stata concessa la libertà su cauzione per quattro mesi in attesa del processo, avendo anche lei schiaffeggiato un soldato israeliano qualche mese prima.

Ahed è palestinese. Yifat è israeliana. Ahed è stata giudicata dal sistema giudiziario militare israeliano. Yifat – nonostante avesse preso a schiaffi un ufficiale militare nella Cisgiordania occupata, proprio come Ahed – è stata processata in un tribunale civile all’interno di Israele.

Quando Israele occupò la Cisgiordania nel 1967 applicò sul territorio la legge militare. Tecnicamente, nel territorio occupato la legge militare ed il sistema giudiziario militare hanno giurisdizione ugualmente su palestinesi ed israeliani. Nella pratica, un palestinese ed un israeliano che commettano lo stesso identico reato nello stesso identico territorio sono soggetti a leggi differenti, a procedure giudiziarie differenti, vengono processati in tribunali differenti e godono di diritti e tutele differenti.

A differenza dello schiaffo di Ahed, che ha occupato i titoli dei giornali in tutto il mondo e a quanto pare ha messo in imbarazzo il sistema militare e l’orgoglio nazionale di Israele, non vi è stata una documentazione filmata del gesto di Doron.

Il suo processo, per aver aggredito un pubblico ufficiale in circostanze aggravate, è iniziato giovedì scorso presso la pretura di Gerusalemme. Il pubblico ministero chiede che venga incarcerata.

La scorsa settimana, fuori dall’aula a Gerusalemme, Doron ha detto che non intendeva fare una dichiarazione politica quando ha preso a schiaffi l’ufficiale israeliano l’anno scorso. “Per come la vedo io, è stata una reazione al fatto di vedere la mia amica in difficoltà.” Comunque, ha aggiunto, ciò che è seguito è stato un esempio di apartheid.

Noi non veniamo puniti nello stesso modo in cui vengono puniti i palestinesi per le stesse azioni”, ha spiegato.

Doron si rappresenta da sola al processo.

Poiché l’arresto è avvenuto in un contesto politico, non mi interessa entrare in qualunque genere di argomentazioni giuridiche”, ha detto a proposito della sua decisione di rinunciare all’avvocato. “Rappresenterò me stessa sul piano politico – mi intendo di politica.”

Il sistema giudiziario è uno degli strumenti principali usati da Israele per opprimere i palestinesi, ha aggiunto Doron, e spera di impostare il processo su questo. In particolare, spera di far luce sul diverso modo in cui sono trattati palestinesi e israeliani nei due separati sistemi giudiziari.

Doron ha detto che non si opporrà alla richiesta della procura di incarcerarla. “Ci sono persone che accettano pacificamente il carcere, come molti dei miei amici palestinesi, che fanno quotidianamente esperienza della realtà del carcere, sia personalmente che attraverso i propri cari.” Il carcere fa semplicemente parte della loro vita, spiega.

Negli ultimi anni Doron ha visitato il villaggio palestinese di Nabi Saleh quasi ogni settimana. Ha partecipato alle periodiche manifestazioni del villaggio contro l’occupazione ed è stata presente ai funerali degli abitanti palestinesi uccisi dalle forze israeliane per aver protestato contro l’espansione degli insediamenti illegali. Negli ultimi dieci anni, decine di persone di Nabi Saleh, compresi minori, sono state arrestate ed imprigionate per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni settimanali del villaggio.

In definitiva, l’importante è sostanzialmente stare accanto ai miei amici”, conclude Doron.

La prossima udienza del suo processo si terrà a settembre – tra otto mesi. A differenza di Ahed, che è rimasta in prigione in attesa del processo, Doron rimarrà in libertà fino ad allora.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 18 -31 dicembre 2018 (due settimane)

A Gaza, durante le manifestazioni del venerdì, tenute vicino alla recinzione perimetrale, cinque palestinesi sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane ed altri 275 sono rimasti feriti.

Quattro dei morti, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati colpiti con armi da fuoco il 21 dicembre, data in cui sono stati registrati scontri più violenti rispetto a quelli avvenuti nei venerdì delle precedenti settimane. Secondo quanto riferito, un pallone che trasportava un ordigno esplosivo è atterrato nel sud di Israele, vicino ad un asilo, ma non è esploso. La quinta vittima, un uomo con disabilità mentale, è stata colpita alla testa il 28 dicembre, durante una manifestazione. Dal 30 marzo 2018, data di inizio della “Grande Marcia di Ritorno”, sono 180 i palestinesi uccisi a Gaza durante le proteste. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, tra le persone ferite durante il periodo di riferimento [275], 214 sono state ricoverate in ospedale: il 46% di esse presentava ferite da armi da fuoco; i rimanenti feriti [61] sono stati soccorsi sul posto.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 34 occasioni non riferibili agli eventi della “Grande Marcia di Ritorno”; una persona è stata ferita. Nei pressi della costa di Rafah, due barche da pesca sono state affondate dal tiro degli israeliani; i pescatori sono stati salvati da un’altra barca da pesca [palestinese]. In sei occasioni le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (nella zona settentrionale e centrale) ed hanno effettuato operazioni di scavo e di spianatura del terreno nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, presso un incrocio stradale, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un veicolo in avvicinamento, uccidendo uno dei passeggeri, un ragazzo palestinese di 17 anni. L’episodio è avvenuto il 20 dicembre vicino all’ingresso dell’insediamento [colonico] di Beit El (Ramallah). Il conducente del veicolo e altri due passeggeri sono rimasti illesi e sono stati rilasciati poco dopo. Secondo fonti israeliane, l’autista non si sarebbe attenuto all’ordine di fermarsi impartito dai soldati; l’autista contesta questa versione. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine. Il 26 dicembre, in un altro episodio accaduto al posto di blocco di Huwwara (Nablus), un palestinese è stato ferito con arma da fuoco; secondo quanto riferito, avrebbe tentato di guidare il suo veicolo contro soldati e coloni; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante diversi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane ventidue palestinesi, tra cui almeno due minori. Dodici di questi ferimenti sono stati registrati all’ingresso dei villaggi di Beita e Urif (entrambi a Nablus) e nella città di Qalqiliya, durante scontri occasionali; quattro in Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali contro le restrizioni all’accesso; e altri quattro durante le operazioni di ricerca-arresto nei Campi profughi di Ad Duhaisha (Betlemme) e Balata (Nablus). In totale, le forze israeliane hanno condotto 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 187 palestinesi, tra cui 17 minori.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i proprietari palestinesi a demolire quattro strutture, sfollando una famiglia. Uno degli episodi si è verificato nella Comunità beduina palestinese di Mikhmas (Gerusalemme), dove sono stati presi di mira una casa ed una latrina finanziata da donatori. Le altre due strutture demolite, una delle quali ad opera dei proprietari, erano case in costruzione a Gerusalemme Est. Nel 2018, Israele ha demolito o sequestrato 459 strutture palestinesi (il 10% in più rispetto al 2017), provocando lo sfollamento di 472 persone, il numero più basso da quando, nel 2009, OCHA ha iniziato a registrare sistematicamente le demolizioni.

Nella città di Ramallah, alla fine del periodo di riferimento, erano ancora chiuse due strade principali e lunghe attese sono state segnalate per l’attraversamento di diversi checkpoint della Cisgiordania. I principali accessi a Ramallah da est (checkpoint DCO) e da ovest (porta Deir Ibzi) erano stati chiusi il 13 dicembre, dopo che palestinesi avevano sparato e ucciso due soldati israeliani. In almeno 63 circostanze, le forze israeliane hanno istituito “checkpoint temporanei” (non presidiati in modo permanente) per periodi di tempo variabili; tale numero [63] è tre volte superiore alla media dei casi analoghi registrati dall’inizio del 2018; fatto che ha sconvolto l’accesso delle persone ai servizi ed ai mezzi di sostentamento.

In quattordici episodi di violenza da parte di coloni sono stati feriti dodici palestinesi: dieci nel corso di aggressioni fisiche e due dal lancio di pietre; inoltre sono stati vandalizzati almeno 380 alberi e 69 veicoli [di seguito i dettagli]. In uno degli episodi (accaduto il 24 dicembre, nella zona H2 della città di Hebron), un gruppo di coloni ha fatto irruzione nel Centro Giovanile contro la Colonizzazione, si è scontrato con i palestinesi, ferendone sette e danneggiando una recinzione che circonda il Centro. Secondo fonti della comunità locale, in altri cinque episodi coloni hanno vandalizzato circa 380 ulivi nei villaggi di As Sawiya, Burqa (entrambi a Nablus), Turmus’ayya (Ramallah), Tarqumiya e Khirbet a Tawamin (entrambi a Hebron). Inoltre, in Deir Sharaf, As Sawiya (entrambi a Nablus), Yasuf (Salfit) e a Gerusalemme Est, coloni israeliani hanno forato le gomme di 69 veicoli e imbrattato i muri di case palestinesi con scritte “Questo è il prezzo”. Nel 2018, l’OCHA ha registrato 265 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi, o hanno danneggiato proprietà palestinesi, segnando un incremento del 69% rispetto al 2017.

Secondo quanto riportato da media israeliani, a causa del lancio di pietre da parte di palestinesi, quattro coloni israeliani, tra cui una donna e un bambino, sono rimasti feriti e almeno 26 veicoli sono stati danneggiati. Gli episodi si sono verificati su strade vicine a Ramallah, Betlemme, Hebron e Gerusalemme.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, tra Gaza e l’Egitto è stato aperto per dieci giorni in entrambe le direzioni e un giorno per il solo ingresso in Gaza. Un totale di 1.934 persone sono entrate a Gaza e 2.443 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018 il valico è stato aperto quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La Betlemme dell’immaginario cristiano occidentale contrasta fortemente con la realtà dell’occupazione

Ghada Karmi

26 dicembre 2018, Middle East Eye

Presunto luogo di nascita di Gesù Cristo, Betlemme occupa un posto centrale nella fede cristiana. Eppure sono molti i fedeli che ignorano che questa città si trova in Palestina e che è soggetta alla spietata occupazione di Israele

O little town of Bethlehem/How still we see thee lie/Above thy deep and dreamless sleep/The silent stars go by” (“Oh, piccola città di Betlemme/Dormi tranquillamente/Al di sopra del tuo sonno profondo e senza sogni/ passano le stelle silenziose”), intona il celebre canto natalizio anglosassone. La vigilia di Natale, la messa di mezzanotte ha risuonato nella chiesa della Natività a Betlemme, secondo la leggenda luogo di nascita di Gesù Cristo, che proclamò che avrebbe portato “la pace agli uomini sulla Terra”.

La vera Betlemme

Niente è più lontano dalla verità dell’immagine di una Betlemme calma e tranquilla trasmessa da questo canto di Natale scaturito dalla pia immaginazione di un cristiano occidentale dell’epoca vittoriana. Generazioni di bambini cristiani l’hanno imparata e il suo potere mitico è tale per cui pochi tra loro sanno dove si trovi Betlemme e quale sia la vera situazione.

Recentemente un’amica inglese molto colta che conosco da anni è rimasta sorpresa di sapere che Betlemme si trova in Palestina. Nella sua mente la città era più una leggenda che un luogo reale e, se avesse dovuto associarla a una comunità, sarebbe stato a quella ebraica.

Ora, la città che ho visto durante una visita in Palestina all’inizio dell’anno era un simulacro del luogo evocato da questo canto di Natale e una messa in discussione senza appello del cristianesimo occidentale per avere vilmente fallito nel sostenere uno dei suoi santuari più sacri. Nella Betlemme di oggi, il sonno “senza sogni” sembra piuttosto un incubo, e la città non potrà essere “calma” che quando finirà l’occupazione israeliana.

Il vandalismo brutale di Israele

Betlemme ed i villaggi che la circondano, Beit Jala e Beit Sahour, figurano tradizionalmente tra i luoghi più cristiani della Palestina, anche se oggi Betlemme è abitata da una maggioranza di musulmani.

Prima dell’occupazione israeliana del 1967 la città era un importante centro sociale, culturale ed economico, così come uno dei luoghi più antichi della Palestina. Il suo nome, Beit Lahem (Casa di Lahem) risale all’epoca cananea [dalla popolazione che visse in Palestina prima degli ebrei, ndtr.], quando ospitava il santuario del dio cananeo Lahem.

L’architettura di Betlemme testimonia della sua ricca storia. Al periodo romano e poi bizantino, al quale risale la costruzione nel 327 della chiesa della Natività da parte dell’imperatrice Elena sopra la grotta dove sarebbe nato Gesù, fecero seguito le conquiste musulmane nel 637, l’occupazione dei crociati nel 1099 fino alla riconquista della Palestina da parte del Saladino nel 1187, poi all’inizio del XVI secolo la dominazione degli ottomani, che costruirono i bastioni della città, fino al Mandato britannico dal 1922 al 1948.

Nel 1967 Israele occupò Betlemme e il resto della Cisgiordania durante la guerra dei Sei Giorni e nel 1995, in seguito agli accordi di Oslo, la città venne trasferita all’Autorità Nazionale Palestinese, anche se rimase sotto il complessivo controllo di Israele. Nessuno dei periodi storici che hanno preceduto l’occupazione israeliana ha avuto un livello di vandalismo e di distruzioni simile a quello che avviene attualmente.

Mentre percorrevo in auto i 9 km che separano Gerusalemme da Betlemme ho sbagliato strada e mi sono ritrovata su un’autostrada moderna dove non si vedeva nessun automobilista palestinese. Ero finita per caso su una circonvallazione riservata agli ebrei, una delle due che circondano Betlemme per servire le colonie dei dintorni.

Ho subito capito lo scopo dell’operazione: affermare che nella regione vivono solo gli ebrei.

Un luogo triste

Ventidue colonie israeliane circondano Betlemme, tagliando le sue uscite e confiscando le sue terre agricole. Dominando le colline attorno, queste colonie ospitano più abitanti di tutta Betlemme e dei suoi dintorni. A nord si trova Har Homa, una colonia costruita nel 2000 su una collina una volta densamente ricoperta di boschi, Jabal Abu Ghneim.

Israele ha sradicato gli alberi di Jabal Abu Ghneim e li ha sostituiti con delle case monotone, tutte identiche, minacciando inoltre di trasformare il luogo in una copia di Betlemme per turisti. Nokidim, a est, è l’attuale luogo di residenza dell’ex-ministro della Difesa israeliano, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Dal 2015 Israele ha chiuso l’accesso alla fertile valle di Betlemme, Cremisan, ai suoi proprietari palestinesi, e lo scorso giugno ha annunciato uno sviluppo massiccio delle colonie situate lungo la strada che unisce Gerusalemme a Betlemme.

La tomba di Rachele, monumento storico di Betlemme sulla strada principale che porta a Gerusalemme e zona tradizionalmente animata da negozi e ristoranti, ora è riservata esclusivamente agli ebrei e il suo acceso è impedito ai palestinesi dal muro di separazione.

I fedeli musulmani che venerano la tomba (e che l’hanno costruita) non possono più andarci. È un luogo triste, deserto, senza vita. All’ombra del muro la maggior parte dei negozi ha chiuso le porte e, man mano che il cerchio di stringe attorno a Betlemme, presto non ne resterà più nessuno.

L’implacabile penetrazione di Israele nel cuore di Betlemme è senza appello. La città è deliberatamente isolata dietro l’impressionante barriera di separazione, circondata da posti di controllo, e la sua economia è strangolata. Una volta la sua principale risorsa era il turismo, che richiamava due milioni di visitatori all’anno e vantava un prospero mercato di souvenir, soprattutto di sculture di legno d’ulivo e di madreperla fatte a mano.

Era anche una ricca regione agricola, dotata di una prospera industria vinicola. Oggi la maggior parte delle sue terre è stata confiscata da Israele e le restrizioni draconiane imposte dalle autorità israeliane agli spostamenti verso e da Betlemme hanno notevolmente ridotto il numero di turisti e di pellegrini.

Attualmente, con una popolazione di 220.000 abitanti, di cui 20.000 rifugiati, Betlemme ha il tasso di disoccupazione più alto dei territori palestinesi occupati, subito dopo Gaza.

Salvare Betlemme

Durante il mio ultimo soggiorno a Betlemme sono andata all’hotel Walled Off, all’entrata di Betlemme. Lì ho vissuto un’esperienza impressionante dell’occupazione israeliana. L’hotel in effetti è un’installazione creata dall’artista britannico Banksy per mettere in luce la tragica sorte di Betlemme.

L’unica vista che si possa contemplare dalle finestre dell’hotel è quella dell’orrendo muro costruito da Israele, le cui immense lastre grigie non sono che a qualche metro. Sporgendosi in avanti si possono quasi toccare. Mi ricordo di come le sue sinistre torri di guardia e le sue telecamere di sorveglianza mi abbiano oppressa. Era una scena uscita direttamente da un film dell’orrore.

Per ora, e nonostante le delegazioni della Chiesa, le visite papali e le pubbliche espressioni di preoccupazione, niente di quanto hanno fatto i cristiani ha frenato o arrestato la distruzione da parte di Israele di una città particolarmente sacra per la cristianità. E allora, se non possono fare niente per salvare Betlemme, smettano almeno di intonare un canto che si prende gioco della triste realtà della città.

– Ghada Karmi è medico, docente universitaria e scrittrice palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




C’è un complotto per spopolare i campi di rifugiati palestinesi in Libano?

Ramzy Baroud

19 dicembre 2018, Foreing Policy Journal

Ai rifugiati palestinesi in Libano vengono negati i diritti umani fondamentali e molti avrebbero perso le speranze di tornare nella terra d’origine come via di scampo

Ogni tanto su Facebook spunta fuori un inquietante video composto dall’audio di una preghiera registrata e dalla foto di un tal ‘Hajj Jamal Ghalaini’. La voce è quella di un presunto sceicco religioso, che prega per il benessere dell’uomo nella foto perché salvi la gioventù palestinese nei campi di rifugiati in Libano, agevolando la loro partenza per l’Europa.

Il video sarebbe solo l’ennesimo strano post sui social media, se non fosse per il fatto che Ghalaini è una persona reale, il cui nome ricorre nella continua tragedia dei rifugiati palestinesi in Libano. Molti hanno attribuito il successo della propria “fuga” dal Libano citando questa persona che, gentilmente, dicono, ha reso il loro viaggio verso l’Europa molto più economico di qualunque altro trafficante di esseri umani.

Sappiamo poco di Ghalaini, salvo che sembra operare impunemente, senza gravi conseguenze legali da parte delle autorità libanesi o dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si suppone abbia la responsabilità dei rifugiati palestinesi in Libano.

Sta succedendo qualcosa di strano.

Subito dopo che l’amministrazione USA di Donald Trump ha iniziato a promuovere il proprio “accordo del secolo”, i rifugiati palestinesi – un problema fondamentale della lotta nazionale palestinese che è stato messo da parte anni fa – sono tornati al centro dell’attenzione.

Benché il progetto di Trump debba essere ancora pienamente reso noto, le prime indicazioni suggeriscono che esso porti a escludere totalmente Gerusalemme da qualunque futuro accordo tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e la stessa affermazione di Trump che “Gerusalemme è fuori dalle trattative”, sono sufficienti a confermare questa supposizione.

Un’altra componente dell’”accordo” di Trump è risolvere la questione dei rifugiati senza il loro rimpatrio e senza rispettare le leggi internazionali, soprattutto la risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che chiede il diritto al ritorno per i profughi palestinesi che nel 1948 furono cacciati dalle proprie case nella Palestina storica, e per i loro discendenti.

Molte notizie di stampa hanno menzionato un elaborato piano americano per declassare lo status dei rifugiati, per mettere in discussione i dati ONU che indicano il loro attuale numero e per bloccare i finanziamenti indispensabili all’UNRWA, l’organizzazione dell’ONU responsabile dei servizi ai rifugiati.

Il Libano è stato una piattaforma importantissima per la continua campagna che riguarda i rifugiati palestinesi, soprattutto perché la popolazione di profughi in quel Paese è significativa in termini di numeri e la loro difficile situazione ha urgente bisogno di aiuto.

Sembra esserci un programma operativo, che coinvolge molte parti in causa, per privare la popolazione palestinese del Libano dello status di rifugiati ed eludere così il loro “diritto al ritorno”. A qualcuno questa potrebbe sembrare una pia illusione, dato che il “diritto al ritorno” è “inalienabile”, quindi non negoziabile.

Eppure, ovviamente, senza rifugiati che chiedano collettivamente questo diritto, il problema da richiesta urgente e tangibile potrebbe trasformarsi in aspirazione sentimentale, impossibile da raggiungere. È per questo che lo spopolamento dei campi di rifugiati libanesi, che sta avvenendo a una velocità allarmante, dovrebbe preoccupare i palestinesi più di ogni altro problema del momento.

Ho parlato con Samaa Abu Sharar, attivista palestinese in Libano e direttrice della Majed Abu Sharar Media Foundation [Fondazione per i Media Majed Abu Sharar, centro di formazione per giornalisti rivolto ai rifugiati palestinesi in Libano, ndtr.]. Mi ha raccontato che negli ultimi anni la natura delle conversazioni tra i rifugiati è cambiata. In passato “praticamente tutti, dai giovani agli anziani, parlavano del loro desiderio di tornare un giorno in Palestina; ora la maggioranza, soprattutto tra i giovani, esprime solo un desiderio: andarsene in qualunque altro Paese li voglia accogliere.”

È risaputo che i rifugiati palestinesi in Libano sono emarginati e angariati, soprattutto se confrontati con altre popolazioni di rifugiati in Medio Oriente. Vengono loro negati i più fondamentali diritti umani di cui godono gruppi libanesi o stranieri, o persino diritti garantiti ai rifugiati in base alle convenzioni internazionali. Ciò include il diritto al lavoro, in quanto viene loro negato l’accesso a 72 diverse professioni.

Lasciati senza speranza, con una vita di abbandono e di totale miseria in 12 campi di rifugiati e in altri “campi di raccolta” in tutto il Libano, i rifugiati palestinesi hanno resistito per molti anni, guidati dalla speranza di tornare un giorno alla loro terra natale, la Palestina.

Ma i rifugiati e il loro “diritto al ritorno” non sono più una priorità per la dirigenza palestinese. Di fatto è stato così per quasi due decenni.

La situazione è peggiorata. Con la guerra in Siria, altre decine di migliaia di rifugiati hanno inondato i campi, che mancano dei servizi più essenziali. Questa miseria si è ulteriormente accentuata quando l’UNRWA, su pesanti pressioni USA, è stata obbligata a cancellare o ridurre molti dei suoi servizi essenziali.

Un censimento dalla tempistica sospetta, il primo di questo genere, dall’Amministrazione Centrale di Statistica libanese, condotto lo scorso dicembre insieme all’Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ha stabilito che il numero di rifugiati palestinesi in Libano è di soli 175.000.

La tempistica della sua realizzazione è interessante perché la ricerca è stata condotta nel momento in cui l’amministrazione USA si dava da fare per ridurre il numero di rifugiati palestinesi, in previsione di un accordo tra l’ANP e Israele.

Secondo le statistiche dell’UNRWA ci sono più di 450.000 rifugiati palestinesi registrati dall’ONU.

Non c’è dubbio che ci sia un’ondata di rifugiati palestinesi che vogliono andarsene dal Libano. Alcuni ci sono riusciti solo per trovarsi alle prese con un altro miserabile status di rifugiato in Europa. Com’era prevedibile, alcuni sono tornati.

Chiaramente c’è chi non vede l’ora di liberare il Libano dalla sua popolazione palestinese, da cui il disinteresse nei confronti di Ghalaini e di analoghe reti di trafficanti di uomini.

C’è più di una rete organizzata che contribuisce all’emigrazione di palestinesi a prezzi che recentemente sono scesi per essere accessibili a un più vasto numero di persone,” mi ha detto Abu Sharar. La conclusione che molti di questi giovani uomini e donne ora traggono è che “non c’è nessun futuro per loro in Libano.”

Non è questo il felice, trionfante finale che generazioni di rifugiati palestinesi in Libano hanno sperato e per cui hanno lottato durante gli anni.

Ignorare la miseria dei rifugiati palestinesi del Libano comporta un costo pesante. Procrastinare la loro problematica situazione fino ai “negoziati per lo status finale”, una chimera che non si è mai realizzata, sta ora portando a una duplice crisi: il peggioramento delle sofferenze di centinaia di migliaia di persone e la sistematica distruzione di uno dei principali pilastri del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi.

SULL’AUTORE

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 dicembre 2018 (due settimane)

Dal 9 dicembre, in Cisgiordania si è verificato un crescendo di violenza che ha causato l’uccisione di sette palestinesi e tre israeliani ed il ferimento di 481 palestinesi e 16 israeliani. Ci sono state numerose operazioni di ricerca-arresto, scontri violenti, demolizioni punitive e severe restrizioni di accesso

[entrata/uscita dalla città]. Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, la situazione è rimasta relativamente calma. In una dichiarazione rilasciata il 16 dicembre, Jamie McGoldrick, Coordinatore Umanitario per i territori palestinesi occupati, ha chiesto “a tutti gli Attori – compresi i gruppi armati, le forze di sicurezza e i civili armati – di astenersi da attacchi contro i civili e da altre azioni che potrebbero aumentare ulteriormente la violenza”, di garantire che “le operazioni di ordine pubblico siano condotte con moderazione e che venga fornita protezione alle ambulanze, ai bambini, alle scuole e ai civili in generale”.

Nel governatorato di Ramallah, due attacchi attuati da palestinesi hanno provocato la morte di un neonato israeliano e di due soldati israeliani, ed il ferimento di altri otto coloni israeliani e di un soldato [qui di seguito il dettaglio]. Il 9 dicembre, un palestinese ha sparato ferendo sette coloni israeliani, tra cui una donna incinta e quattro minori che viaggiavano in auto vicino all’entrata dell’insediamento colonico di Ofra. Il bambino, nato successivamente prematuro con un parto cesareo di emergenza, è morto tre giorni dopo. Il 13 dicembre, vicino all’insediamento avamposto [colonia non autorizzata dal governo israeliano] di Giv’at Assaf, un altro palestinese ha aperto il fuoco in una stazione degli autobus sulla Strada 60, uccidendo due soldati e ferendo un altro soldato ed una colona israeliana. Entrambi gli autori degli attacchi sono riusciti a fuggire.

Sono stati segnalati altri tre attacchi condotti da palestinesi: quattro soldati israeliani sono rimasti feriti; due degli aggressori sono stati uccisi [qui di seguito il dettaglio]. L’11 dicembre, vicino al villaggio di Idhna (Hebron), un palestinese ha guidato la sua auto contro un gruppo di poliziotti israeliani di confine, ferendone uno; l’aggressore è stato ucciso mentre cercava di fuggire. Il 13 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme un palestinese ha accoltellato e ferito due poliziotti israeliani di confine e successivamente è stato colpito e ucciso. Il 14 dicembre un palestinese è entrato nell’insediamento di Beit El (Ramallah), dove ha ferito con coltello un soldato israeliano, colpendolo anche con una pietra da distanza ravvicinata; secondo quanto riferito, il giorno seguente si è consegnato alle autorità israeliane.

In varie operazioni di ricerca-arresto e relativi scontri, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi, tra cui due sospetti aggressori [qui di seguito il dettaglio]. Il 4 dicembre, nella città di Tulkarm, durante un’operazione militare, un 22enne palestinese disabile è stato colpito alla testa con arma da fuoco e ucciso; secondo fonti palestinesi, nell’area in cui l’uomo è stato ucciso, non c’erano scontri in corso. Le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta. Il 12 dicembre, nella città di Nablus, a seguito di uno scontro a fuoco, le forze israeliane hanno ucciso il presunto colpevole di un attacco compiuto il 7 ottobre, in cui erano stati uccisi due israeliani. Nello stesso giorno, nella città di Surda (Ramallah), un’unità israeliana sotto copertura ha ucciso il presunto autore dell’attacco compiuto nei pressi dell’insediamento colonico di Ofra [vedi sopra]; secondo testimoni palestinesi, nel momento in cui veniva fatto salire sul veicolo militare l’uomo era vivo, con le mani e le gambe ammanettate. Il 13 dicembre, nella zona industriale di Al Bireh (Ramallah), durante un’operazione di arresto, le forze israeliane hanno ucciso un 58enne palestinese che, alla guida dell’auto, nei pressi del suo luogo di lavoro, aveva ferito leggermente un soldato israeliano. Il giorno seguente, durante scontri nel Campo Profughi di Jalazun (Ramallah), un 18enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco.

Inoltre, in questi ed altri scontri per lo più correlati ad operazioni di ricerca-arresto e proteste, sono stati feriti dalle forze israeliane 246 palestinesi, tra cui 52 minori. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 215 operazioni in cui sono stati arrestati 287 palestinesi. La maggior parte delle vittime e degli arresti è stata registrata a partire dal 13 dicembre. Durante il periodo di riferimento, il 31% delle operazioni ed il 60% dei ferimenti sono avvenuti nel governatorato di Ramallah. Nella città di Nablus, durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, otto palestinesi sono stati feriti. Di tutti i ferimenti, quasi il 70% è stato causato da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 15% da proiettili di gomma e il 9% da armi da fuoco.

Nella città di Hebron, durante una manifestazione, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti e 15 sono stati arrestati dalle forze di sicurezza palestinesi. La manifestazione intendeva commemorare la fondazione del movimento di Hamas. Secondo i media, i manifestanti sono stati aggrediti con manganelli e granate assordanti.

Il 13 dicembre, per diverse ore, l’esercito israeliano ha bloccato le principali vie di accesso e di uscita della città di Ramallah. Alla chiusura del presente bollettino, alcune di queste strade erano ancora chiuse: due ad est (checkpoint DCO) ed una ad ovest (porta di Deir Ibzi). La maggior parte delle altre strade permangono sotto il controllo dell’esercito che effettua ricerche su veicoli e passeggeri, causando pesanti ingorghi stradali; in particolare ai checkpoint di Qalandiya ed Atara.

In conseguenza di due demolizioni punitive, 29 palestinesi sono stati sfollati e altri 80 sono rimasti feriti durante scontri correlati [qui di seguito il dettaglio]. Il 15 dicembre, nel Campo Profughi di Al Amari (Ramallah), l’esercito israeliano ha fatto esplodere e distrutto un edificio di quattro piani, danneggiando gravemente due edifici adiacenti, sfollando un totale di 23 persone, tra cui sei minori. L’edificio in questione era la casa di famiglia di un uomo che, nel maggio 2018, durante un’operazione di ricerca nel Campo, aveva ucciso un soldato israeliano con un mattone. Oltre 80 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri durante e dopo la demolizione. Il 17 dicembre, nella città di Tulkarm, il seminterrato e il piano terra di un edificio a tre piani sono stati demoliti, rendendo l’intero edificio pericoloso e sfollando sei persone, tra cui un minore. I piani demoliti ospitavano un palestinese che, il 7 ottobre, aveva ucciso due israeliani (vedi sopra).

Inoltre, in Area C e Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 26 strutture palestinesi, sfollando 18 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 170. Tali demolizioni e sequestri sono stati effettuati a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele. Delle strutture citate venti erano situate in cinque comunità nell’Area C e le rimanenti in Gerusalemme Est.

Impennata di violenza da parte di coloni israeliani nel corso di proteste ed incursioni seguite ai due attacchi effettuati da palestinesi [vedi sopra]. Durante il periodo sono stati registrati almeno 38 casi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani contro veicoli palestinesi, con conseguente ferimento di 12 persone e danni a decine di auto. La maggior parte degli episodi sono avvenuti durante le proteste tenute dai coloni dopo l’attacco del 13 dicembre, quasi la metà delle quali registrate nel governatorato di Ramallah. Alcuni degli episodi hanno anche comportato il blocco di importanti snodi stradali. In un caso, un gruppo di coloni diretti al luogo in cui si teneva una delle proteste, hanno fatto irruzione nel villaggio di Beitin (Ramallah) accompagnati da forze israeliane; qui un palestinese è stato ferito con arma da fuoco. In altri due episodi, nei pressi dei villaggi di Al Maniya e Taqu (entrambi a Betlemme) e nell’abitato di Modi’in Illit (Ramallah) tre uomini palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. Fonti palestinesi riferiscono che, in due episodi accaduti nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah) e Tuwani (Hebron), coloni israeliani hanno vandalizzato 266 ulivi.

Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione e sulla spiaggia, sono proseguite le manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”: un bambino palestinese di 4 anni è morto e altri 557 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane. Il bambino, colpito da un proiettile ad est di Khan Yunis, durante la manifestazione del precedente venerdì, è morto l’11 dicembre. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, di tutti i feriti occorsi durante questo periodo, 102 erano minori e 340 necessitavano di ricovero in ospedale, tra cui 105 persone con ferite da armi da fuoco.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 15 casi non collegati alle manifestazioni. Il 10 e 12 dicembre, nelle aree di Rafah e Deir El-Balah, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro pescatori, ferendone almeno due e arrestandone sei, tra cui un minore. In tre occasioni, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, ad est della città di Gaza e nelle aree settentrionali, forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, tra Gaza e l’Egitto è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di quattro giorni. Un totale di 1.517 persone sono entrate a Gaza e 2.737 sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Calo senza precedenti del numero di ebrei americani nei viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele

12 dicembre 2018, Middle East Monitor

Questo inverno si è registrato un evidente calo del numero di ebrei americani partecipanti ai viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele. Lo ha riferito Haaretz, definendo “senza precedenti” “una riduzione di questa ampiezza, non correlata alle condizioni di sicurezza”.

Dalla sua istituzione nel 1999, l’Organizzazione del Diritto al ritorno ha portato 500.000 giovani ebrei da tutto il mondo in viaggi gratuiti in Israele.

Secondo il giornale, che cita alcuni operatori che gestiscono il viaggio-tipo del Diritto al ritorno, la riduzione varia dal 20 al 50% – a seconda dell’operatore- rispetto alla stagione invernale (che va da dicembre a marzo).

Una spiegazione di questo calo suggerita dagli operatori turistici è che i numeri “potrebbero riflettere il fatto ben documentato che i giovani ebrei americani stanno diventando sempre più indifferenti nei confronti di Israele e sempre meno interessati a visitare il Paese, nonostante i viaggi siano gratuiti. Haaretz ha osservato come “recenti studi hanno mostrato che gli ebrei nati negli anni 2000, che sono in massima parte progressisti, si sentano meno legati a Israele dei loro genitori e dei loro nonni perché percepiscono le politiche del Paese come antitetiche ai loro valori”.

In particolare -ha aggiunto il giornale- essi citano il trattamento, da parte di Israele, dei Palestinesi e dei richiedenti asilo.

Proprio la settimana scorsa, una petizione “firmata da 1500 studenti ebrei – che chiede che Diritto al ritorno includa nel suo itinerario relatori palestinesi in grado di affrontare la realtà dell’occupazione- è stata consegnata ai direttori della Hillel [organizzazione internazionale che si rivolge agli studenti universitari ebrei, ndtr.] in più di 30 campus in tutti gli Stati Uniti.”

L’esclusione di voci di Palestinesi e di cittadini palestinesi di Israele dal Diritto al ritorno contrasta con i nostri valori fondamentali.” ha detto la petizione.

In un viaggio in Israele, noi dovremmo sperimentare la storia e la cultura del Paese, ma dovremmo anche sapere dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e ascoltare le voci di palestinesi che vivono sotto l’occupazione.”

(traduzione di Laura Forcella )




Esternalizzare l’occupazione

Rod Such

29 Novembre 2018, The Electronic Intifada

The Privatization of Israeli Security by Shir Hever, Pluto Press (2017)

[“La privatizzazione della sicurezza in Israele”] di Shir Hever, Pluto Press (2017)

“La privatizzazione della sicurezza in Israele” di Shir Hever è uno studio sullo sviluppo di imprese private militari e per la sicurezza iniziato in Israele negli anni ’90 e che continua tuttora. Questa tendenza presenta implicazioni per il futuro sia riguardo all’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Ricercatore di economia e autore di The Political Economy of Israel’s Occupation [“L’economia politica dell’occupazione israeliana] (2010), Hever si basa sul lavoro del politologo Neve Gordon, soprattutto sul libro di Gordon Israel’s Occupation (2008) [“L’occupazione israeliana”, Diabasis, Parma, 2016] e sulla più recente analisi del complesso militare industriale di Israele dell’antropologo Jeff Halper nel suo libro War Against the People (2015) [“La guerra contro il popolo”, Ed. Epoké, Novi Ligure, 2017]. Tuttavia, a differenza di questi studi, Hever si concentra in particolare sulla privatizzazione.

Tra il 1994 e il 2006 cinque grandi industrie belliche di proprietà del governo israeliano vennero vendute a imprenditori privati. Durante lo stesso periodo gli strateghi del governo svilupparono il concetto di “centro versus periferia”, in cui immaginavano che il governo conservasse il possesso delle funzioni fondamentali dell’esercito esternalizzando al contempo le responsabilità considerate marginali, come l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza.

Hever ammette che la sua conclusione più discutibile è che, in seguito agli accordi di Oslo del 1993, la dirigenza politica israeliana abbia esternalizzato all’Autorità Nazionale Palestinese l’occupazione, che è stata una funzione centrale dell’esercito israeliano. Riconosce la difficoltà di definire l’ANP come un’impresa privata. Oltretutto nota che l’esercito israeliano inizialmente si oppose all’esternalizzazione dell’occupazione all’ANP ed ha sistematicamente tentato di screditarla come alleato di Israele in materia di sicurezza.

Forze delegate

Hever sostiene che la creazione dell’Esercito del Libano del Sud nel 1979, poco dopo l’invasione israeliana del 1978 e la successiva occupazione del Libano meridionale, ha posto le basi per la successiva decisione di “esternalizzare l’occupazione” in Palestina. L’ELS era una forza delegata da Israele destinata a far apparire che la popolazione libanese appoggiasse l’occupazione israeliana. Israele addestrava, armava e pagava segretamente i soldati e gli ufficiali dell’ELS.

Benché Hever noti che l’ELS non era ufficialmente un’impresa, esso era come una compagnia privata militare e della sicurezza nella misura in cui i soldati al livello più basso dell’ELS “erano motivati dalle opportunità di lavoro piuttosto che dall’ideologia.”

L’ELS ha preparato la strada alla seconda fase dell’esternalizzazione della sicurezza da parte di Israele, rappresentata dalla creazione dell’ANP come parte degli accordi di Oslo e dall’assenso a dare all’ANP il ruolo limitato del mantenimento della sicurezza in alcune delle principali città della Cisgiordania.

Hever ammette che ci sono sostanziali differenze tra l’ELS e l’ANP, soprattutto che l’ELS mancava di legittimazione all’interno del Libano. Israele non ha finanziato l’ANP, né ha addestrato le forze della sicurezza palestinese; pertanto l’ANP ha goduto di un certo grado di legittimazione tra i palestinesi.

Tuttavia, essendo priva di potere sovrano, l’ANP è diventata inevitabilmente uno strumento dell’occupazione israeliana. Hever sostiene che questo era l’obiettivo originario dei dirigenti politici israeliani.

Però l’esercito israeliano non sopportava questa decisione politica ed ha resistito alla cessione della sua autorità su alcune città della Cisgiordania. Peccato che Hever non fornisca nessuna documentazione della sua affermazione, se non citando uno studio di Kobi Michael pubblicato in Militarism and Israeli Society [“Militarismo e società israeliana”] (2010).

Minacciato dall’esternalizzazione, scrive Hever, l’esercito israeliano “ha utilizzato la propria autorità professionale e le proprie capacità di produrre rapporti di intelligence per attaccare la legittimità dell’ANP agli occhi del governo israeliano ed esercitare pressioni sul governo israeliano per autorizzare l’uso di mezzi letali contro le forze dell’ANP.”

Di conseguenza l’ANP non è stata “completamente soggetta agli interessi israeliani e l’ANP ha perseguito politiche che configgevano direttamente con gli interessi israeliani,” scrive Hever, citando gli esempi dell’ANP che persegue il riconoscimento come Stato da parte delle Nazioni Unite e la sua decisione del 2009 di appoggiare il boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane.

Ciononostante Hever afferma che in Cisgiordania l’ANP svolge ancora per Israele funzioni relative alla sicurezza. E poiché l’ANP non ha né sovranità né deve dar conto al popolo palestinese, ha finito per giocare un ruolo di subappaltatore.

Occasionalmente questo ruolo è stato evidente, come quando prigionieri politici rilasciati da Israele sono finiti come prigionieri politici detenuti dall’ANP, portando al fatto che l’organizzazione sia vista da molti palestinesi come fornitrice di “servizi carcerari al governo di occupazione israeliano.”

Occupazione israelo-statunitense

Nel suo capitolo “Esternalizzare l’occupazione” Hever dimostra che l’esempio più ovvio della privatizzazione dell’occupazione è stato quando Israele ha contrattato compagnie private per gestire posti di blocco nella “zona di congiunzione”, le aree adiacenti alle colonie illegali israeliane o ai confini dell’armistizio del 1949 noti come Linea Verde.

Benché i posti di blocco a Gerusalemme continuino ad essere gestiti dalla polizia di frontiera israeliana e quelli provvisori – noti anche come “posti di blocco volanti” – continuino ad essere gestiti dall’esercito, la maggior parte dei checkpoint della zona di congiunzione è stata privatizzata.

La ragione di questa privatizzazione, afferma Hever, è proteggere il governo israeliano dalle critiche per ogni violazione dei diritti umani commessa ai posti di blocco privatizzati. Tuttavia questo argomento non è documentato da esempi.

Se questo è stato il motivo di Israele per evitare di essere considerato responsabile, lo scopo non è stato raggiunto. Molte delle più note uccisioni di palestinesi ai checkpoint continuano ad essere causate dai soldati e dalla polizia di frontiera e sono state rese pubbliche da osservatori di associazioni per i diritti umani.

Gli attivisti del BDS faranno tesoro delle informazioni nel capitolo “Dimensioni Globali della Privatizzazione della Sicurezza in Israele”, che include studi di caso dettagliati sui servizi di sicurezza privatizzati offerti a Israele da G4S e HP, entrambe imprese boicottate dal movimento.

Oltretutto Hever mostra come il crescente aiuto militare USA ad Israele abbia agito come incentivo per la privatizzazione.

La tendenza alla privatizzazione all’interno degli stessi USA, diventata lampante durante le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ha influenzato anche i dirigenti israeliani.

Come gli USA, dove membri dell’esercito e dello spionaggio lasciano il lavoro nel settore statale e poi si spostano verso incarichi ben remunerati nelle imprese della sicurezza, la creazione di tali compagnie secondo Hever ha contribuito ad arricchire alti ufficiali dell’esercito israeliano che “hanno iniziato a passare in gran numero dagli enti della sicurezza statale a compagnie della sicurezza privata.”

La ricerca di Hever sottolinea la necessità di ulteriori campagne BDS che prendano di mira chi rende più facile l’occupazione e i finanziamenti da parte degli USA che arricchiscono così tante persone in quella che di fatto è l’occupazione congiunta israelo-statunitense della Palestina. Per gli attivisti che monitorano lo sviluppo di società che traggono profitti dall’occupazione il libro di Hever è una risorsa preziosa.

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi lottano contro lo sfratto dalle case di Silwan, Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

7 dicembre 2018 Al Jazeera

L’occupazione di Batan al-Hawa a Gerusalemme Est da parte dei coloni è “il più esteso processo di espulsione” degli ultimi anni

Batan al-Hawa, Gerusalemme est occupata – Nel corso degli anni, i coloni israeliani hanno continuato ad offrire milioni di dollari a Zuheir Rajabi e ai suoi vicini per le loro modeste case accatastate sul pendio di Silwan a Batan al-Hawa, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata.

Le case si trovano in quello che è noto come il Bacino Storico della Città Vecchia, in prossimità della sacra Moschea di Al-Aqsa, ciò che le rende possedimenti preziosi.

Un colono ebreo una volta offrì a Rajabi un assegno in bianco per la sua casa, chiedendogli di scrivere qualsiasi cifra volesse, da 3 a 30 milioni di shekel (da 800.000 a 8 milioni di dollari).

Ma per Rajabi e gli 700 altri residenti del quartiere – ora minacciati di sfratto – nessuna somma di denaro basterebbe a farli lasciare le loro case.

“Pensavano che in 30 giorni le persone avrebbero abbandonato le loro case”, ha detto Rajabi, dal terrazzo sul tetto del Centro di Comunità del quartiere, che domina la valle.

“La gente qui è molto semplice; hanno una cosa sola, l’onore. Non ci importa di vivere in povertà o in un ambiente malsano, non possiamo sopportare di perdere il nostro onore”, ha detto Rajabi, che è anche il portavoce del comitato Batan al-Hawa.

Gran parte dei residenti di Batan al-Hawa vi abita da oltre 70 anni, molti dopo essere stati espulsi dalle loro ataviche case quando si stava costituendo Israele.

I residenti ora affrontano un’altra espulsione, da parte dell’associazione di coloni ebrei Ateret Cohanim, che sta cercando di lanciare quella che Ir Amim, una ONG israeliana, definisce come la più grande occupazione di quartieri palestinesi a Gerusalemme Est da quando Israele l’ha occupata nella guerra arabo-israeliana del 1967.

La giudaizzazione di Gerusalemme Est

Ateret Cohanim, che ha come obiettivo la giudaizzazione di Gerusalemme est, sostiene che le case di Batan al-Hawa furono costruite su un terreno di proprietà del ‘Jewish Benvenisti Trust’ [cartello religioso ebraico, ndtr.] nel XIX secolo, che lo adibiva all’insediamento in zona degli ebrei yemeniti.

Nel 2002, il Ministero della Giustizia israeliano ha emesso un atto di proprietà del terreno, circa 5,5 dunams (1,4 acri), a favore del Benvenisti Trust, senza informarne i residenti. A quel punto, Ateret Cohanim ha assunto il controllo del Trust.

L’atto è stato utilizzato come fondamento per gli avvisi di sfratto ai residenti, come quello ricevuto dalla famiglia Rajabi nel 2015, che disponeva che le sette famiglie che abitano in quella casa se ne andassero.

Nel giugno di quest’anno, oltre un centinaio di residenti palestinesi in lotta contro gli sfratti ha presentato una petizione, sostenendo che il Trust Benvenisti possedeva solo gli edifici e non il terreno su cui si trovavano.

Dal momento che da allora gli edifici originali erano stati distrutti e ricostruiti, il Trust non poteva rivendicare la terra, sostenevano i residenti.

Lo stesso mese, il governo israeliano ha ammesso che il Ministero della Giustizia non aveva indagato sul Trust prima di emettere l’atto di proprietà.

Tuttavia, il mese scorso l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto l’appello dei residenti di annullare la decisione del 2002, consentendo in effetti ad Ateret Cohanim di proseguire con l’occupazione di Batan al-Hawa.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha detto che la sentenza della Corte ha spianato la via alla pulizia etnica dei palestinesi di Silwan.

“La sentenza dimostra, ancora una volta, che l’Alta Corte israeliana dà il suo beneplacito a quasi tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte delle autorità israeliane”.

La “piovra” di Gerusalemme est

Ad oggi, Ateret Cohanim ha sfrattato 17 famiglie e possiede sei edifici nell’area.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il 45% di tutte le famiglie palestinesi minacciate di sfratto a Gerusalemme Est vive a Batan al-Hawa.

B’Tselem lo ha definito “il più esteso processo di espulsione” in città degli ultimi anni.

Rajabi ha detto che suo padre ha comprato il loro appezzamento di terra nel 1966 dopo che erano stati espulsi dai quartieri ebraici della Città Vecchia, senza alcun risarcimento.

“Sono nato qui, sono cresciuto qui, mi sono sposato qui, ho vissuto qui tutta la mia vita”, ha detto.

Amareggiato dalla sentenza della Corte, ha detto che la società israeliana si sta spostando verso la “estrema destra”.

Rajabi paragona Ateret Cohanim a una piovra i cui tentacoli stanno attanagliando la Città Vecchia e Silwan.

“Ateret Cohanim è un’organizzazione potente, non solo politicamente. Ha anche soldi”, ha detto Rajabi.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’organizzazione usa diverse tattiche per costringere i palestinesi a vendere le loro proprietà, tra cui minacce a carattere sessuale e ricatti di vario tipo – come minacciare di rendere pubblica una vendita concordata in segreto così che il venditore, temendo per la propria vita, sarebbe costretto ad abbassare significativamente il prezzo per evitare l’ira della propria comunità.

[L’ONG israeliana] Ir Amim dice che il governo israeliano è stato direttamente coinvolto nell’agevolare gli insediamenti privati illegali nella città vecchia e nei quartieri palestinesi circostanti.

“Il governo ha agito tramite il Custode Generale e il Registro dei Trust (entrambi sotto il Ministero della Giustizia) per agevolare il sequestro di Batan al-Hawa, aumentando il budget per la sicurezza del 119 % per il periodo 2009-2016 in modo da garantire la protezione degli estremisti ebrei che si insediano nel cuore dei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est”, ha affermato la ONG.

Consolidare il controllo ebraico

Secondo un rapporto di Ir Amim, l’obiettivo politico di gruppi come Ateret Cohanim è consolidare il controllo ebraico a Gerusalemme Est e contrastare la soluzione dei due stati.

Yacoub al-Rajabi, membro del comitato di Batan al-Hawa, ha affermato che i coloni stanno cercando di acquistare la sua casa dal 2003.

Un anno e mezzo fa, Ateret Cohanim gli ha offerto 2 milioni di dollari per vendere la sua casa e abbandonare la causa in tribunale, ma senza risultato.

“Se ci sfrattano dalle nostre case, costruiremo tende vicino alle case, non andremo da nessuna parte, ci rifiutiamo di andare altrove, rifiutiamo di essere trasferiti [per la terza volta]”, ha detto Yacoub.

Ha descritto il quartiere come una prigione dove i residenti si sentono intrappolati e sono regolarmente attaccati da coloni, polizia, esercito e istituzioni governative israeliane per spingerli ad andarsene.

Dice che, ad ogni festa ebraica, i residenti non possono lasciare le loro case e per ordine militare i bambini non possono andare a scuola.

“Non abbiamo altro che la nostra risolutezza. Cercheremo di difendere noi stessi e i nostri diritti … Abbiamo la proprietà di questa terra ed è nostra per legge”, ha detto.

L’ufficio di Rajabi si trova nel Centro della comunità costruito per i bambini – l’unico posto nel quartiere dove i bambini possano giocare in sicurezza. In un angolo del suo ufficio, uno schermo mostra i filmati dalle telecamere a circuito chiuso installate all’esterno.

Dall’altra parte della strada, una decina di telecamere controllano la sua casa. Le ha fatte installare per documentare gli attacchi dei coloni o delle autorità israeliane, dopo che suo padre è morto per l’inalazione di gas lacrimogeni sparati dalla polizia.

Rajabi afferma che le telecamere sono state estremamente utili a smentire le false affermazioni dei coloni e delle autorità israeliane.

Il destino delle loro case è ora presso la Pretura di Gerusalemme, che deve decidere se il Trust Benvenisti possiede solo gli edifici o anche la terra.

Ma Yacoub ha detto che c’è poca speranza che la giustizia possa essere difesa dai tribunali israeliani.

“Persino durante l’udienza la stessa giudice ha detto che ci sono alcuni problemi legali nel verdetto del tribunale”, ha detto Yacoub, aggiungendo che i residenti cercheranno con tutti i mezzi di rimanere nelle loro case, anche portando il caso alla Corte Penale Internazionale.

“Questa [sentenza del tribunale] non ci spezzerà, continueremo a lottare per i nostri diritti, continueremo a lottare per la nostra proprietà sulla terra e sulle nostre case”, ha affermato.

(traduzione di Luciana Galliano)