L’Australia annulla il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele

Redazione Al Jazeera

18 ottobre 2022 – Al Jazeera

Il ministro degli Esteri Penny Wong afferma che il governo “si rammarica” ​​della decisione presa dalla precedente amministrazione e ribadisce l’impegno per la soluzione a due Stati.

L’Australia afferma che non riconoscerà più Gerusalemme Ovest come capitale di Israele, annullando una decisione presa dal governo dell’ex primo ministro Scott Morrison nel 2018.

“Oggi il governo ha riaffermato la posizione precedente e di lunga data dell’Australia secondo cui Gerusalemme è una questione di status finale che dovrebbe essere risolta nell’ambito di un negoziato di pace tra Israele e il popolo palestinese”, ha affermato il ministro degli Esteri Penny Wong in una nota.

Questo annulla il riconoscimento da parte del governo Morrison di Gerusalemme Ovest come capitale di Israele”.

Wong ha ribadito che l’ambasciata australiana rimarrà a Tel Aviv e che Canberra è impegnata in una soluzione a due Stati “in cui Israele e un futuro Stato palestinese coesistano, in pace e sicurezza, entro confini internazionalmente riconosciuti”.

Ha aggiunto: “Non sosterremo un approccio che indebolisca questa prospettiva”.

Lo status di Gerusalemme è uno dei maggiori punti critici nei tentativi di raggiungere un accordo di pace tra Israele e i palestinesi.

Israele considera l’intera città, compreso il settore orientale che ha annesso dopo la guerra in Medio Oriente del 1967, come sua capitale, mentre i rappresentanti palestinesi, con ampio sostegno internazionale, vogliono Gerusalemme est occupata come capitale di un futuro Stato che sperano di creare nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

L’Autorità Nazionale Palestinese plaude a questa decisione

L’Autorità Nazionale Palestinese plaude alla decisione dell’Australia, che probabilmente porterà alla ribalta la questione israelo-palestinese.

“Accogliamo con favore la decisione dell’Australia in merito a Gerusalemme e la sua richiesta di una soluzione a due Stati in conformità con la legittimità internazionale”, ha dichiarato su Twitter il ministro degli Affari Civili dell’Autorità palestinese, Hussein al-Sheikh.

Sheik plaude “all’affermazione dell’Australia secondo cui il futuro della sovranità su Gerusalemme dipende dalla soluzione permanente basata sulla legittimità internazionale”.

Shahram Akbarzadeh della Deakin University [con sede a Melbourne, ndt.] ha affermato che la decisione dell’Australia rafforzerà il consenso internazionale sullo status di Gerusalemme.

“L’Australia si stava discostando da quel consenso, ma ora sta tornando indietro.

porterà sicuramente sotto i riflettori la questione, il conflitto israelo-palestinese e il futuro di una soluzione a due Stati”, ha detto ad Al Jazeera da Melbourne, aggiungendo che la comunità internazionale ha una grande responsabilità nell’affrontare questo annoso problema.

C’è un consenso internazionale sul fatto che lo status di Gerusalemme dovrebbe essere gestito e deciso nell’ambito di un più ampio negoziato sul futuro dei due Stati, di Israele e Palestina. Non possono essere separati da quella questione”.

Il reportage di Bernard Smith di Al Jazeera da Gerusalemme Ovest afferma che, sebbene l’annuncio di Wong sia un “piccolo cambiamento”, è comunque significativo.

“La maggior parte dei Paesi riconosce che lo status finale di Gerusalemme deve essere definito nei colloqui sulla statualità palestinese, e i palestinesi vogliono Gerusalemme est come loro capitale”, ha aggiunto.

Israele convoca l’inviato australiano

Martedì il primo ministro israeliano Yair Lapid ha criticato aspramente la decisione dell’Australia.

Lapid ha descritto la decisione come una “risposta affrettata”, aggiungendo: “Possiamo solo sperare che il governo australiano gestisca altre questioni in modo più serio e professionale.

In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio il primo ministro ha anche affermato “Gerusalemme è la capitale eterna e unita di Israele e nulla lo cambierà mai”.

Il ministero degli Esteri israeliano ha reso noto di aver convocato l’ambasciatore australiano per presentare una formale protesta.

L’ex primo ministro australiano Morrison annunciò che il suo governo conservatore avrebbe riconosciuto Gerusalemme Ovest come capitale di Israele dopo che gli Stati Uniti [l’amministrazione Trump, ndt.] avevano rovesciato la loro decennale politica riconoscendo la città [di Gerusalemme come capitale di Israele, ndt] e spostando lì da Tel Aviv l’ambasciata degli Stati Uniti.

La decisione australiana fu ampiamente criticata dai gruppi filo-palestinesi così come dal Partito Laburista, che allora era all’opposizione e promise di ribaltare la decisione se avesse vinto le elezioni.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le forze israeliane mantengono la chiusura di Nablus per il settimo giorno consecutivo

Qassam Muaddi – Cisgiordania

17 ottobre 2022 – The New Arab

“È stata una settimana difficile, senza lavoro e con il rumore dei droni israeliani che sorvolano la città 24 ore su 24”, ha commentato Ghazal. “La cosa peggiore è che non è finita e non sappiamo quando finirà”.

Le forze israeliane continuano per il settimo giorno a imporre una chiusura militare alla città palestinese di Nablus nella Cisgiordania occupata.

Le forze israeliane hanno interdetto i movimenti dentro e fuori la città da martedì scorso in seguito all’uccisione di un soldato israeliano in una sparatoria vicino all’insediamento israeliano di Shavei Shomron, a nord di Nablus.

Il Lions’ Den [Fossa dei leoni], un gruppo di combattenti palestinesi di diverse fazioni, radicati a Nablus, ha rivendicato l’operazione.

A seguito dell’attacco le forze israeliane hanno bloccato diverse strade a nord-ovest di Nablus, isolando dieci villaggi dalla città, per poi imporre una ulteriore restrizione al movimento all’interno della città mettendo posti di blocco agli ingressi.

“Sebbene all’interno della stessa Nablus la vita sembri normale, ci sono molte meno persone nelle strade”, ha detto a The New Arab Ameen Abu Wardeh, giornalista palestinese che abita a Nablus.

“Le persone evitano di mettersi in condizione di lasciare Nablus perché potrebbero volerci ore solo per uscire dalla città, mentre le persone dei villaggi circostanti non possono accedere al centro”, ha aggiunto Abu Wardeh. “Il commercio è diminuito in modo significativo poiché il mercato nella città vecchia è quasi vuoto mentre nei giorni normali è pieno di persone e anche l’istruzione è stata colpita”.

L’Università Al-Najah di Nablus ha annunciato sulla sua pagina Facebook che da mercoledì scorso le lezioni si sarebbero tenute on-line.

“Le lezioni continueranno on-line per il resto della settimana e riprenderanno in presenza sabato prossimo”, si legge nell’annuncio dell’Università. “Si prenderanno accordi con gli studenti che non riusciranno ad accedere al campus, in collaborazione con i docenti”.

“Non ci sono quasi studenti all’Università, e dunque non abbiamo venduto quasi nulla nell’ultima settimana”, ha detto a The New Arab Nisreen Ghazal, proprietario di un’azienda di cibo da asporto fatto in casa situata di fronte all’Università di Al-Najah.

“Nei giorni normali, la nostra strada è piena di studenti, insegnanti e dipendenti che sono nostri clienti”, ha detto Ghazal. “Oggi non c’è nessuno ad eccezione di pochi residenti”.

“È stata una settimana difficile, senza lavoro e con il rumore dei droni israeliani che sorvolano la città 24 ore su 24”, ha osservato Ghazal. “La cosa peggiore è che non è finita e non sappiamo quando finirà”.

“Le persone che hanno assolutamente bisogno di lasciare Nablus possono farlo, ma devono percorrere lunghe strade alternative e aspettarsi un posto di blocco israeliano improvvisato lungo la strada”, ha detto a The New Arab Fidaa Abu Hamdiyah, residente a Ramallah, mentre lasciava Nablus.

“Ho lasciato la casa di un amico a Nablus alle 14:45 e sono arrivata a una delle strade alternative che attraversano un villaggio vicino circa 15 minuti dopo”, ha detto Abu Hamdiyah. “Ho aspettato il mio turno in una lunga fila di auto mentre i soldati israeliani perquisivano ogni veicolo in dettaglio e ne costringevano alcuni a tornare in città. Sono finalmente riuscita a uscire da Nablus intorno alle 15:40, quasi un’intera ora dopo aver deciso di partire”.

Nella tarda serata di domenica le forze israeliane hanno fatto irruzione a Nablus e arrestato un palestinese, tra crescenti preoccupazioni per un possibile raid più vasto sulla città.

Sempre domenica la Brigata Jenin, gruppo che raduna combattenti palestinesi nel campo profughi di Jenin, ha affermato in una dichiarazione che i suoi membri “non lasceranno soli i fratelli di Nablus, anche se dovessimo inviare combattenti a Nablus per combattere al loro fianco”.

Nello stesso tempo le forze israeliane continuano a imporre la chiusura del campo profughi di Shuafat a Gerusalemme e cercano un palestinese sospettato di essere coinvolto nella sparatoria che ha ucciso due soldati israeliani a un posto di blocco fuori dal campo la scorsa settimana.

Gli scontri tra forze israeliane e manifestanti palestinesi sono continuati per tutta la settimana nella Gerusalemme occupata e la polizia israeliana ha annunciato di aver arrestato 50 palestinesi.

La chiusura di Nablus avviene nel corso di una continua escalation in Cisgiordania in cui secondo il Ministero della Salute palestinese le forze israeliane hanno ucciso dall’inizio dell’anno più di 100 palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cosa sta succedendo adesso in Cisgiordania: un’analisi dettagliata

Mariam Barghouti e Yumna Patel

17 ottobre 2022 – Mondoweiss

La ripresa degli scontri armati palestinesi contro le autorità coloniali israeliane si preparava da anni e Israele ha lanciato una campagna militare che dura da mesi per annientarla.

La Cisgiordania e Gerusalemme sono “in fiamme.” 

È un termine che abbiamo visto usare sempre di più sui social, nei notiziari e dagli opinionisti parlando degli eventi in corso nel territorio palestinese occupato. Non è neanche un’espressione nuova utilizzata per descrivere ondate di repressione e resistenza in Palestina, la più recente è stata l’Intifada dell’Unità nel 2021 che ha investito la Palestina storica. 

Allora cosa sta accadendo esattamente nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme proprio ora, e perché? Cosa la rende diversa da quello che abbiamo visto nella storia recente e cosa significa per il futuro della resistenza palestinese all’occupazione e al colonialismo israeliani?

Nelle ultime settimane in Cisgiordania abbiamo assistito a un’evidente intensificarsi del giro di vite degli israeliani contro i palestinesi che ha preso di mira sia civili nelle proprie case e villaggi che combattenti e gruppi armati della resistenza. 

Simultaneamente i coloni armati hanno terrorizzato comunità palestinesi in Cisgiordania, spesso in presenza e con la protezione dell’esercito israeliano. 

La repressione in corso, e la resistenza ad essa, sono parte di una più ampia campagna durata mesi per sedare una crescente resistenza palestinese, particolarmente quella armata, che ha visto una rinascita in alcune aree della Cisgiordania.

L’ascesa della resistenza palestinese dinanzi a una repressione brutale

Dall’inizio di ottobre le forze israeliane hanno ucciso 15 palestinesi, tra cui quattro adolescenti e bambini, principalmente durante raid notturni e operazioni di arresto. 

Solo nell’ultima settimana sono stati uccisi quattro palestinesi: Mujahed Daoud, 31 anni, di Salfit morto domenica in seguito alle ferite riportate durante scontri con le forze israeliane la settimana prima. Mateen Dabaya, 20 anni, e Abdullah Abu al-Teen, 43 anni, medico e padre di tre figli, entrambi uccisi venerdì mattina presto in un raid contro il campo profughi di Jenin. Venerdì notte le forze israeliane hanno ucciso Qais Imad Shujaiya, 23 anni, coinvolto in una sparatoria vicino alla colonia illegale di Beit El durante la quale era stato ferito un colono israeliano. 

Mercoledì 12 ottobre è stato ucciso il diciassettenne Osama Mahmoud Adawi quando le forze israeliane gli hanno sparato all’addome all’esterno del campo profughi di Arroub, a sud di Betlemme, in Cisgiordania. 

Mentre esercito, polizia e intelligence israeliani, su richiesta del primo ministro Yair Lapid, intensificano la loro ultima campagna, è cresciuta la resistenza palestinese alle tattiche dell’occupazione insieme al terrore dinanzi alla violenza israeliana. 

Nelle ultime due settimane sono stati uccisi in attacchi con armi da fuoco separati due soldati israeliani: uno a un checkpoint dell’esercito fuori dal campo profughi di Shuafat a Gerusalemme e un altro presso una postazione dell’esercito nella zona di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale. 

Da notare che entrambi i tiratori ne sono usciti vivi [in realtà uno dei due è stato ucciso il 19 ottobre, ndt.], un evento poco comune alla luce della politica dell’esercito israeliano nei territori occupati di sparare per uccidere, che le autorità israeliane si rifiutano attivamente di cambiare nonostante la pressione internazionale. Agli inizi di settembre Yair Lapid, primo ministro israeliano, aveva fatto notare che nessun soldato sarà perseguito “solo per ricevere gli applausi dall’estero”.

Nella caccia all’uomo per trovare gli attentatori le forze israeliane hanno messo in atto una quantità di misure di punizione collettiva, incluse vaste chiusure di strade che hanno colpito l’intero distretto di Nablus, e il blocco di interi quartieri come Shuafat e il vicino Anata. Il blocco di Shuafat e dei quartieri circostanti ha scatenato un’ampia campagna di disobbedienza civile in tutti i quartieri di Gerusalemme. 

Proteste a sostegno della campagna di disobbedienza civile a Gerusalemme sono aumentate nella Striscia di Gaza assediata, dove i palestinesi si sono uniti alla chiamata a continuare gli scontri contro gli apparati militari israeliani. 

Allo stesso tempo, nel mezzo della stagione delle festività ebraiche, i coloni israeliani, con la supervisione e protezione delle forze israeliane, hanno intensificato i loro attacchi contro i palestinesi e le loro proprietà in Cisgiordania. 

I raid quasi ogni notte, la repressione letale di proteste, la politica di punizioni collettive e l’aumento della violenza dei coloni non hanno certo spento la resistenza palestinese. Continuano i resoconti di proteste e scontri quotidiani contro le forze israeliane a Gerusalemme e in Cisgiordania, mentre tra l’opinione pubblica cresce il favore per il gruppo della resistenza palestinese Areen Al-Usud (Tana del Leone) con base a Nablus, che sta rivendicando la responsabilità del crescente numero di operazioni armate contro le posizioni militari israeliane in Cisgiordania. 

In memoria di due palestinesi uccisi dall’esercito israeliano a Nablus . Foto: SHADI JARAR’AH/APA IMAGES

Cosa significa per i palestinesi l’operazione ‘Break the Wave’ (Spezza l’ondata)?

La campagna su larga scala coordinata dall’esercito e dall’intelligence israeliani si concentra contro i palestinesi di Nablus e Jenin in Cisgiordania e nella città di Gerusalemme. I palestinesi non sono sorpresi da questa recente intensificazione degli assalti da parte di Israele, che si fonda sulle azioni di anni precedenti.

La [Città vecchia] è come è sempre stata” dice Basil Kittaneh, ricercatore e abitante della Città Vecchia di Nablus, dove fioriscono gruppi armati di resistenza, guidati principalmente da giovani senza affiliazioni con alcun partito politico. 

Ogni giorno gli abitanti si preparano a sperare in qualcosa. Ogni notte i droni ronzano e non fanno dormire la gente che è terrorizzata,” afferma.

Dopo il picco dell’Intifada dell’Unità della scorsa estate un cambiamento imprevisto è scaturito dall’unificazione dei palestinesi da una parte e dall’altra dei confini, i cui effetti continuano tuttora a vedersi.

Quando l’anno scorso i palestinesi si si sono ribellati collettivamente, sono stati anche puniti collettivamente, anche quelli con cittadinanza israeliana. Nel maggio 2021 la polizia israeliana ha lanciato l’operazione “Legge e ordine” che ha preso di mira i palestinesi con cittadinanza israeliana che avevano partecipato alle attività dell’Intifada dell’Unità, particolarmente quelli che avevano sparato sulle folle israeliane inferocite che avevano invaso i quartieri palestinesi attaccandone gli abitanti. Da un giorno all’altro migliaia di palestinesi con cittadinanza israeliana sono stati arrestati come punizione collettiva e in nome di quella che gli apparati di sicurezza israeliani definiscono “deterrenza.” 

Guidata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi, insieme al premier israeliano, la campagna Break the Wave durata mesi è il punto cruciale di quello a cui stiamo assistendo oggi nella Palestina occupata. Kochavi ha impiegato soldati israeliani non solo in Cisgiordania, ma ha anche esteso la giurisdizione militare della polizia israeliana in città oltre la Linea Verde [cioè in Israele. n.d.t.]. I palestinesi con cittadinanza israeliana furono sottoposti a un regime militare de facto fino agli anni ‘70.

Le implicazioni dell’attuale escalation di Israele fanno parte del più ampio progetto coloniale israeliano guidato da un’ideologia sionista di destra. Secondo il capo militare israeliano le forze israeliane hanno arrestato più di 1.500 palestinesi in raid quotidiani contro città e paesi.

A settembre Kochavi ha detto: “A questo scopo raggiungeremo ogni città, quartiere, vicolo, casa o cantina.” Tuttavia i numeri sono molto più alti di quelli riportati da Kochavi, il che ha portato a un attacco sistematico al senso di stabilità e sicurezza dei palestinesi, poiché implica che le forze israeliane non siano confinate a un singolo spazio geografico, ma che invece prendono di mira tutti, non solo coloro che resistono, ma anche quelli che mostrano segni potenziali di resistenza.

La gente [della Città Vecchia] è in stato di allerta tutta la notte,” ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “Complessivamente sono favorevoli alla resistenza, ma la punizione collettiva è imposta su tutta Nablus.” 

Resistenza senza coordinamento

Proprio come l’esercito israeliano non è limitato dalla geografia, non lo è neppure la conflittualità palestinese. Ad agosto abbiamo assistito a una nuova dinamica fra Gaza e la Cisgiordania in cui, a differenza del decennio passato, Gaza è diventata una forza mediatrice per il ridimensionamento della resistenza in Cisgiordania.

Ogni persona degna e libera del mondo starà dalla nostra parte,” ha detto a settembre a Mondoweiss S., combattente per la resistenza, mentre si sentiva in lontananza il rumore delle sparatorie da parte delle forze dell’ANP impegnate a soffocare simultaneamente i crescenti gruppi di resistenza a Nablus. 

Foto: SHADI JARAR’AH/APA IMAGES

Sebbene alcuni paesi e città palestinesi siano diventati obiettivi primari nell’ultima campagna israeliana, l’attacco dell’esercito e dell’intelligence israeliani è generalizzato. Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi da gennaio sono stati arrestati più di 5.292 palestinesi. Su 100 arresti, 14 sono bambini e minori, 766 di loro sono stati imprigionati da gennaio.

Si va dalla resistenza armata a quella popolare disarmata, che si è allargata con il coinvolgimento dei palestinesi della diaspora e in esilio. In questo modo la frammentazione dell’identità dei palestinesi da parte di Israele continua a essere sfidata e interrotta.

Poiché dal 2005 questo è stato uno degli anni più letali per i palestinesi in termini di violenza dei coloni, essi si trovano ora davanti a una repressione molto variegata.

Contemporaneamente all’intensificazione di arresti, l’esercito israeliano sta intenzionalmente inasprendo gli omicidi mirati extragiudiziali di palestinesi, principalmente di combattenti della resistenza. Questo è risultato nell’uccisione di oltre 160 palestinesi solo in Cisgiordania (altri 49 sono stati uccisi a Gaza durante il violento attacco di agosto). 

Il ruolo dell’Autorità Palestinese nel reprimere la resistenza

Mentre Israele continua la sua campagna contro i gruppi della resistenza palestinese, il governo israeliano e le forze armate hanno trovato un partner affidabile nella loro repressione: l’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 19 settembre le forze di sicurezza dell’ANP, che continua nella controversa politica di coordinamento per la sicurezza con gli israeliani, hanno attaccato la città di Nablus e arrestato due palestinesi combattenti della resistenza, Musaab Shtayyeh, 30 anni, e Ameed Tbeileh, 21 anni, il primo diventato il successore ufficioso di Ibrahim al-Nabulsi, il “Leone di Nablus”, dopo il suo assassinio all’inizio di questa estate. 

Durante i raid che hanno scatenato pesanti scontri a Nablus e proteste contro l’ANP in Cisgiordania le forze di sicurezza dell’ANP hanno ucciso Firas Yaish, 55 anni. Per gran parte dell’opinione pubblica palestinese l’attacco dell’ANP contro i combattenti a Nablus è stato un’aggressione contro la resistenza palestinese, solo un altro esempio del fatto che l’ANP fa il lavoro sporco per Israele. 

Gli attacchi mirati contro la resistenza a Nablus sono arrivati quasi una settimana dopo che Lapid e Kochavi avevano parlato dell’intensificazione delle comunicazioni tra l’esercito israeliano e le forze di sicurezza dell’ANP contro la resistenza palestinese. La morsa israeliana sulla Cisgiordania dipende in larga misura dal sostegno dell’ANP per sorvegliare, prendere di mira, arrestare gli attivisti e allontanare il coinvolgimento politico palestinese dal discorso relativo alla liberazione.

Negli ultimi mesi del 2021 e nei primi mesi di quest’anno l’Autorità Nazionale Palestinese ha intrapreso una campagna su larga scala contro l’opposizione politica, inclusi gli studenti universitari e i giovani che criticano o contestano la legittimità dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Appena l’anno scorso, il 24 giugno 2021, le forze di sicurezza dell’ANP hanno attaccato la casa di Nizar Banat, candidato del Consiglio Legislativo Palestinese, ammazzandolo di botte davanti alla moglie, Jihan e ai loro quattro figli. Nessuno si è assunto la responsabilità di questo crimine di omicidio extragiudiziale che la moglie ha descritto a Mondoweiss come “più vicino alla tortura.”

Mentre Kochavi prometteva l’escalation, il premier Yair Lapid parlava alle Nazioni Unite suggerendo la ripresa della soluzione a due Stati, rivolgendo il proprio discorso al popolo palestinese dicendo: “Noi possiamo costruire il vostro futuro insieme, sia a Gaza che in Cisgiordania,” ma solo se i palestinesi sono disarmati e “dimostrano che Hamas e il Jihad islamico non prenderanno il controllo dello Stato palestinese che (l’ANP) vuole creare.”

A luglio di quest’anno, prima che il presidente USA Joe Biden visitasse la regione, alti diplomatici del Dipartimento di Stato hanno frequentemente visitato la regione. Tuttavia la maggior parte degli incontri con i rappresentanti palestinesi era incentrata su Majed Faraj e Hussein Al-Sheikh. Entrambi sono comandanti della sicurezza preventiva palestinese e degli affari dell’amministrazione civile e, sebbene estremamente impopolari fra il pubblico palestinese, sono stati identificati come i potenziali successori dell’anziano presidente, Mahmoud Abbas.

A vent’anni S. ha conosciuto solo la brutalità della seconda rivolta o il fallimento dell’ANP nell’offrire ai palestinesi servizi e protezione. “Qui viviamo sotto due occupazioni,” ha detto risentito. 

Indicazioni su quello che sta per succedere

L’attuale discussione fra israeliani segnala la possibilità non solo di un’escalation della violenza contro i palestinesi in modi simili all’Operazione Scudo Difensivo agli inizi degli anni 2000, ma anche il paternalismo della percezione israeliana verso i palestinesi. 

Lapid ha specificato che Israele aiuterà i palestinesi a costruire il loro futuro. La dichiarazione è improntata al paternalistico mancato riconoscimento coloniale del diritto palestinese all’autodeterminazione e alla sovranità, mentre enfatizza la necessità di disarmare i palestinesi.

In effetti la Cisgiordania è stata disarmata sotto l’ANP fin dalla fine della Seconda Intifada, eppure ora sembra che fosse solo una situazione temporanea. Mentre gruppi come Areen al-Usud continuano a guadagnare popolarità e influenza fra la gente, l’ANP preferirebbe rafforzare il coordinamento per la sicurezza con Israele per essere certa che le armi usate contro l’occupazione israeliana non vengano un domani rivolte contro l’ANP. 

Resta da vedere se l’opinione pubblica palestinese nel suo complesso sceglierà di unirsi a questi gruppi emergenti di resistenza armata per trasformare il presente movimento in una vera e propria rivolta. Ma gli effetti che questi gruppi stanno avendo si faranno sicuramente sentire, sui social e nelle strade.

Senza cambiamenti in vista riguardo all’espansione dei coloni e al furto di vite, terre e risorse palestinesi, la presente situazione della Palestina ha per forza di cose fatto sorgere nuovi modi di pensare ed agire. 

Fintanto che i palestinesi resteranno sotto lo stivale del colonialismo israeliano continueranno a resistere e a ritagliarsi nuovi spazi che permettano loro di gridare insieme “basta.”

Mariam Barghouti

Mariam Barghouti è la principale corrispondente di Mondoweiss per la Palestina.

Yumna Patel

Yumna Patel è la caporedattrice di Mondoweiss per la Palestina.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un medico tra i due palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Jenin

Zena Al Tahhan

14 ottobre 2022 – Al Jazeera

Almeno 160 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata dall’inizio dell’anno.

Ramallah, Cisgiordania occupata – Durante un’incursione contro la città di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi, tra cui un medico. Il Ministero della Sanità palestinese lo ha identificato come Abdullah al-Ahmad, di circa 40 anni, e ha affermato che è stato colpito alla testa da forze israeliane venerdì mattina davanti all’ospedale pubblico di Jenin.

Un portavoce del ministero della Sanità ha detto ad Al Jazeera che il secondo uomo ucciso venerdì mattina è il ventenne Mateen Dabaya. In un comunicato le Brigate di Jenin, un gruppo della resistenza armata palestinese formatosi lo scorso anno, lo ha indicato come un suo comandante locale.

Mohammad Awawdeh, il portavoce del ministero, ha detto che Dabaya è stato colpito da un proiettile alla testa. Le uccisioni sono avvenute poco dopo che venerdì alle 8 decine di veicoli blindati israeliani avevano fatto irruzione a Jenin e sono scoppiati scontri a fuoco e disordini con le forze israeliane.

Video condivisi da giornalisti del posto sembrano mostrare forze israeliane che sparano contro gli equipaggi delle ambulanze.

Secondo il ministero della Sanità venerdì mattina a Jenin almeno altri 5 palestinesi sono stati feriti da proiettili veri.

In precedenza, sempre venerdì, l’agenzia di notizie ufficiale [palestinese] Wafa ha informato che un adolescente palestinese è morto in seguito alle ferite riportate durante l’arresto da parte di forze israeliane lo scorso mese.

La Wafa e la Commissione per i Detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese lo hanno identificato come il diciassettenne Mohammad Maher Ghawadreh.

Ghawadreh, del campo profughi di Jenin, è morto mentre era in cura all’ospedale Tel Hashomer, in Israele. Era stato arrestato dopo che il 5 settembre avrebbe messo in atto un attacco a mano armata contro un autobus affollato di soldati israeliani nella Valle del Giordano, ferendone sette.

Incremento degli attacchi dei coloni

La settimana scorsa sono aumentate le tensioni sul terreno tra palestinesi da una parte e forze israeliane e coloni dall’altra.

Sabato una soldatessa israeliana è stata uccisa da un palestinese in un attacco a mano armata da un’auto in corsa presso il principale posto di controllo nel campo profughi di Shuafat, nella Gerusalemme est occupata.

Le forze israeliane hanno proceduto a imporre per quattro giorni un blocco al campo e nelle aree limitrofe, dove vivono 130.000 palestinesi, mentre cercavano un sospetto identificato tuttora in fuga.

Abitanti del campo e nelle zone limitrofe hanno chiesto ai palestinesi di mobilitarsi e di iniziare uno sciopero generale mercoledì per fare pressione e porre fine all’assedio che è stato lentamente tolto giovedì mattina.

Mercoledì e giovedì in decine di quartieri, cittadine e villaggi a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania occupata sono scoppiati scontri con le forze israeliane e i coloni. Mercoledì un giovane palestinese, il diciottenne Osama Adawi, è stato colpito a morte dall’esercito israeliano durante incidenti nel campo profughi di Arroub, a nord della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Al grido di “morte agli arabi”, giovedì notte decine di coloni israeliani hanno attaccato gli abitanti e le loro proprietà nel critico quartiere palestinese di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme est occupata.

La Mezzaluna Rossa palestinese [corrispettivo musulmano della Croce Rossa, ndt.] ha informato che le sue équipe mediche hanno curato da aggressioni fisiche e lancio di pietre da parte dei coloni 20 feriti, tra cui cinque che sono stati trasferiti in ospedale per essere curati.

Secondo abitanti e media locali, a un palestinese è stato rotto un braccio e un altro, di 48 anni, soffre di un’emorragia interna dovuta a fratture del cranio e attualmente si trova in ospedale.

Mahmoud Ramadan, abitante di Sheikh Jarrah, afferma che il picco di violenza di giovedì è stato grave.

“Ci manca solo che inizino a fare irruzione nelle nostre case con la protezione della polizia. Hanno usato pietre, tubi e spray urticante,” dice Ramadan ad Al Jazeera.

“Ci hanno picchiati e hanno sfasciato le nostre macchine davanti agli occhi della polizia e alle telecamere di sorveglianza,” continua, aggiungendo che le forze israeliane hanno arrestato almeno 10 giovani del quartiere.

“Le pietre che hanno scagliato avrebbero potuto uccidere qualcuno. Sono arrivati con un atteggiamento mostruoso, come se fossero pronti a uccidere. Non abbiamo nessuna fiducia che la polizia israeliana ci protegga né nei tribunali israeliani,” aggiunge.

Giornalisti locali affermano che giovedì notte il parlamentare di destra della Knesset e uno dei politici [israeliani] più popolari, Itamar Ben-Gvir, ha fatto irruzione a Sheikh Jarrah insieme ai coloni. Secondo i giornalisti, Ben-Gvir ha estratto una pistola e detto ai coloni che “se (i palestinesi) lanciano pietre sparategli.”

Clima di terrore”

Martedì e mercoledì bande di coloni israeliani armati hanno aggredito abitanti, case e negozi anche nella cittadina palestinese di Huwarra, a sud di Nablus, nella Cisgiordania occupata.

Wajeeh Odeh, consigliere comunale del posto, afferma che sotto la protezione di forze israeliane coloni armati di fucili, pietre e tubi hanno sfasciato negozi, auto e aggredito fisicamente alcuni abitanti. L’attacco è stato documentato da video condivisi da giornalisti.

“Gli attacchi sono continuati per due giorni di fila, con l’appoggio dell’esercito israeliano,” dice Odeh ad Al Jazeera. “Alcuni abitanti sono stati picchiati fisicamente, mentre alcuni giovani sono stati feriti da pietre e spray urticante.”

Odeh ha affermato che sia i coloni che l’esercito israeliano hanno sparato proiettili veri sia contro gli abitanti che in aria, ma che non ci sono stati feriti da colpi di armi da fuoco.

“I coloni hanno sparato proiettili veri davanti ai soldati,” continua. “Ciò ha creato un clima di terrore tra la gente.”

Tra i 600.000 e i 750.000 coloni israeliani vivono in almeno 250 colonie illegali sparse in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate, in maggioranza costruite dal governo israeliano o legalizzate retroattivamente.

Israele ha effettuato incursioni quasi quotidiane in Cisgiordania, concentrate soprattutto nelle città di Jenin e Nablus, dove la resistenza armata palestinese sta diventando più organizzata.

Lo scorso mese sono aumentati sia gli attacchi con armi da fuoco che le uccisioni di soldati da parte di palestinesi.

Martedì un soldato israeliano è stato ucciso nei pressi della colonia illegale di Shavei Shomron, a nordovest di Nablus, durante un attacco armato da parte di un palestinese da un veicolo in corsa. In seguito all’attentato le forze israeliane hanno chiuso ogni strada che porta a Nablus, che si trova tra Jenin e Ramallah, e hanno rigidamente ridotto gli spostamenti per due giorni.

Il gruppo armato “La Fossa del Leone” di Nablus ha rivendicato la responsabilità dell’attacco.

Secondo il ministero della Sanità palestinese dall’inizio dell’anno sono stati uccisi da forze israeliane nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza illegalmente occupate almeno 160 palestinesi, di cui 51 durante l’attacco israeliano durato tre giorni contro Gaza in agosto.

Associazioni per i diritti umani locali e internazionali hanno condannato quello che hanno definito un uso eccessivo della forza da parte di Israele e la “politica di sparare per uccidere” contro i palestinesi, compresi sospetti assalitori in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, occupate da Israele nel 1967.

Secondo Human Rights Watch [nota ong per i diritti umani con sede a New York, ndt.], importanti politici israeliani hanno incoraggiato “soldati e poliziotti israeliani a uccidere palestinesi sospettati di aver aggredito israeliani anche quando non rappresentano più una minaccia.”

Nei suoi rapporti l’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha evidenziato che le forze israeliane “spesso, in violazione degli standard internazionali, utilizzano armi da fuoco contro palestinesi in base al semplice sospetto o come misura precauzionale.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sarebbe un disastro se Liz Truss spostasse l’ambasciata del Regno Unito a Gerusalemme

Avi Shlaim

28 settembre 2022 – Middle East Eye

Minacciando un’improvvisa svolta della pluriennale politica britannica, lei ha promesso di prendere in considerazione lo spostamento dell’ambasciata in Israele a Gerusalemme.

Durante la sua campagna per diventare leader del partito conservatore britannico, Liz Truss ha detto ai Conservatori Amici di Israele (CFI) che, se eletta, avrebbe preso in considerazione il trasferimento dell’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme. Successivamente, durante una sessione all’ONU, il primo ministro Truss ha ripetuto al suo “caro amico” Yair Lapid, il premier israeliano ad interim, la promessa di revisione. 

Lo status di Gerusalemme è il tema più spinoso del conflitto israelo-palestinese, uno dei conflitti internazionali più aspri, prolungati e irrisolvibili dell’epoca contemporanea. Gerusalemme Est, con il resto della Cisgiordania e la Striscia di Gaza, fu conquistata da Israele nella guerra [dei Sei Giorni] del giugno 1967 e da allora è sempre stata vista dalla comunità internazionale come territorio occupato. 

Israele reclama l’intera città quale sua eterna e indivisa capitale, mentre i palestinesi rivendicano la parte orientale come capitale del loro futuro Stato.

I politici israeliani naturalmente sono stati felicissimi che Truss, con una delle sue prime decisioni di politica estera da primo ministro, abbia ventilato l’idea di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, in tal modo riconoscendo in tal modo la sovranità israeliana sulla città.

I leader palestinesi hanno avvertito che spostare l’ambasciata minerebbe la soluzione dei due Stati e compromesso le loro relazioni con la Gran Bretagna. Husam Zomlot, l’ambasciatore palestinese nel Regno Unito, ha detto che è stato “estremamente increscioso” che Truss abbia usato la sua prima apparizione all’ONU come primo ministro per “impegnarsi a violare potenzialmente il diritto internazionale”. 

Violare le risoluzioni dell’ONU

È difficile pensare a un problema di politica estera che abbia meno bisogno di una revisione che l’ubicazione dell’ambasciata britannica in Israele. Spostare la sede a Gerusalemme violerebbe una serie di risoluzioni dell’ONU ed equivarrebbe a un’improvvisa svolta delle politiche britanniche dal 1967. Esse, parte di un ampio consenso internazionale, hanno statuito che tutte le ambasciate dovevano restare a Tel Aviv fino a quando si fosse raggiunto un accordo generale di pace tra Israele e i palestinesi, con Gerusalemme quale capitale condivisa tra i due Stati. 

Quando era ministra degli Affari Esteri, Truss non ha fatto tentativi di spostare l’ambasciata. Si può solo supporre che abbia promosso la revisione per motivi di opportunismo politico: per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori in Gran Bretagna e, più precisamente, il CFI, i cui membri includono la maggior parte del governo e circa l’80% dei parlamentari conservatori senza vincolo di mandato. 

Recentemente una delle testate israeliane ha descritto Truss come potenzialmente “il primo ministro britannico più filoisraeliano di sempre”. Questo senza dubbio voleva essere un complimento, ma ignora le responsabilità storiche dell’Inghilterra di aver generato il problema sin dall’inizio.

Il conflitto israelo-palestinese fu creato in Gran Bretagna. Tutto cominciò nel 1917 con la Dichiarazione Balfour per sostenere un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina, sebbene all’epoca gli ebrei fossero solo il 10% della popolazione del Paese. L’impegno che non sarebbe stato a spese delle “comunità non ebraiche” fu completamente ignorato dai successivi governi britannici. La dichiarazione quindi permise una sistematica occupazione coloniale sionista della Palestina, un processo che continua ancora oggi.

Nel giugno 1967, Israele completò l’occupazione dell’intera Palestina storica. Due settimane dopo la fine degli scontri, Israele annetté unilateralmente Gerusalemme Est, accorpandola a Gerusalemme Ovest. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU denunciò immediatamente quelle misure come illegali e non valide.

Nel 1980, quando la Knesset annetté formalmente Gerusalemme Est, il Consiglio di Sicurezza censurò Israele “nel modo più assoluto”. Il Regno Unito votò tutte quelle risoluzioni.

Sdegno e condanna

Il presidente USA Donald Trump è stato il primo leader al mondo a rompere l’accordo di lunga data della comunità internazionale di non insediare le ambasciate a Gerusalemme fino al raggiungimento di una soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese. Nel 2018 la sua decisione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme suscitò lo sdegno nel mondo arabo e provocò diffusa condanna internazionale. Portò anche a scoppi di violenza in cui decine di palestinesi furono uccisi dalle forze israeliane. Theresa May, premier britannica dell’epoca, criticò la decisione.

Il tanto magnificato “accordo del secolo” di Trump fu un rozzo tentativo di ridefinire la soluzione dei due Stati come un Grande Israele che includesse un terzo della Cisgiordania e tutta Gerusalemme, e un mini-Stato palestinese frammentato e circondato da colonie e basi militari israeliane. Fu immediatamente respinta con disprezzo dall’Autorità Palestinese (ANP).

Nonostante tutti gli sforzi di Trump solo tre Stati hanno seguito il suo esempio di spostare le loro ambasciate a Gerusalemme: Kosovo, Guatemala e Honduras. Tutti gli altri 82 Paesi con missioni diplomatiche in Israele hanno optato per tenere le loro ambasciate a Tel Aviv. Alcuni, inclusa la Gran Bretagna, hanno anche un consolato generale a Gerusalemme Est che funge da canale di comunicazione con l’ANP a Ramallah. 

Nella sua singolare postura filoisraeliana e apparente indifferenza riguardo ai diritti palestinesi, Truss appartiene alla maggioranza del suo partito. Tutti e tre i primi ministri per i quali è stata ministra sono stati convinti sostenitori di Israele. David Cameron si è descritto come un “amico appassionato” di Israele, sostenendo che nulla avrebbe potuto rompere tale amicizia. 

Quando era premier,Teresa May fu probabilmente la leader più filoisraeliana in Europa. In un discorso al CFI nel 2016 descrisse Israele come un “Paese straordinario… una democrazia fiorente, un faro di tolleranza, un motore di imprenditorialità e un esempio per il resto del mondo”. Respinse accanitamente una petizione pubblica, di cui io fui uno dei firmatari, per porgere scuse ufficiali per la Dichiarazione di Balfour. 

Rapporti tesi

Boris Johnson fece fare un ulteriore passo in avanti alla politica conservatrice di ‘Israele First’, collocando Israele al di sopra del diritto internazionale. Resistette ai tentativi di far sì che dovesse render conto delle sue azioni illegali e dei suoi crimini di guerra. Nel 2021 annunciò che si opponeva alle indagini del Tribunale Penale Internazionale sui presunti crimini di guerra nei territori occupati, osservando in una lettera al CFI che, anche se il suo governo rispettava l’indipendenza del Tribunale, si opponeva a questa particolare inchiesta.

Questa indagine dà l’impressione di essere un attacco fazioso e pregiudiziale contro un amico e alleato del Regno Unito,” scrisse. La logica perversa di questa dichiarazione sta nel fatto che essere un amico e alleato del Regno Unito colloca Israele al di sopra del diritto e del controllo internazionali.

Come Johnson, Truss è un’appassionata sostenitrice di una Gran Bretagna dopo-Brexit globale. Però violare il diritto internazionale non farà nulla per promuovere questa immagine, né aiuterà a ottenere quell’accordo commerciale con gli USA sbandierato come uno dei più grandi vantaggi di una politica estera indipendente.

Quando era ministra degli Esteri, Truss dichiarando a gran voce l’intenzione di annullare unilateralmente l’accordo con l’Unione Europea sull’Irlanda del Nord, aveva già danneggiato la sua relazione con il presidente USA Joe Biden, che pensava avrebbe posto in pericolo l’accordo del Venerdì Santo [firmato nel 1998, pose fine alla guerra civile nell’Irlanda del Nord, N.d.T.].

Seguire l’esempio di Trump e spostare l’ambasciata britannica a Gerusalemme non sarebbe ben accolto alla Casa Bianca. Sebbene non abbia annullato la decisione di spostare l’ambasciata americana, Biden ha preso una serie di misure per limitare i danni fatti dal suo predecessore ed è ritornato a collaborare con gli alleati attraverso l’ONU.

Trasferire l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme sarebbe moralmente indifendibile, legalmente discutibile e politicamente dannoso. Sarebbe uno dei più violenti attacchi britannici a un futuro Stato palestinese dalla Dichiarazione di Balfour. Incoraggerebbe inoltre Israele a continuare ad agire impunemente, rafforzando l’arroganza del suo potere.

Israele e i suoi sostenitori in questo Paese [la Gran Bretagna, N.d.T.] sicuramente accoglierebbero positivamente questa decisione, nonostante i danni alla reputazione britannica nel mondo.

Piuttosto che riconsiderare la sede della sua ambasciata, il governo britannico dovrebbe rivalutare la sua relazione con Israele alla luce della realtà di oggi. Negli ultimi due anni i rapporti di tre importanti organizzazioni per i diritti umani hanno concluso che Israele è diventato uno Stato di apartheid. Tali relazioni documentano attentamente la continua pulizia etnica attuata da Israele, la confisca delle terre, le demolizioni delle abitazioni, la persecuzione dei difensori dei diritti umani, l’incarcerazione di minori e la tolleranza nei confronti della violenza dei coloni. 

La triste verità è che dal 1967 Israele è diventato dipendente dall’occupazione. Un vero amico non è indulgente con chi ha una dipendenza, ma cerca di aiutarlo a disintossicarsi. 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali presso l’Università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, edizioni Il Ponte, 2003] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [Israele e Palestina: riesami, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le forze israeliane uccidono un palestinese dentro la sua casa a Gerusalemme

Shatha Hammad, Ramallah, Palestina Occupata

Lunedì 15 agosto 2022 – Middle East Eye

Il padre del ventunenne Muhammad al-Shaham ha affermato che i soldati hanno lasciato che suo figlio perdesse sangue per 40 minuti dentro la casa prima di portarlo via.

Secondo la sua famiglia lunedì mattina le forze israeliane hanno colpito a morte in testa un giovane palestinese, Muhammad al-Shaham, dopo aver fatto irruzione nella sua casa nel sobborgo di Kufr Aqab a Gerusalemme Est occupata.

Ibrahim al-Shaham, il padre di Muhammad, ha affermato che suo figlio ventunenne è stato colpito da breve distanza da un proiettile diretto alla testa e poi lasciato a perdere sangue dentro la sua casa per circa 40 minuti prima di essere preso dalle forze israeliane per essere curato.

Ibrahim ha negato il comunicato delle forze israeliane secondo cui suo figlio avrebbe tentato di colpire uno degli agenti. Ha detto ai mezzi di informazione locale che gli agenti hanno fatto saltare la porta della casa alle 3,30 del mattino e immediatamente hanno aperto il fuoco contro la famiglia.

Nel comunicato le forze israeliane hanno confermato la morte di Shaham in un ospedale israeliano alcune ore dopo l’incidente in seguito alle ferite.

Hanno aggiunto che truppe in borghese che stavano cercando armi a Kufr Aqab sono state affrontate dalla famiglia al-Shaham quando hanno assaltato la loro casa. Hanno dichiarato che Shaham allora ha tentato di colpire uno degli agenti e che in seguito a ciò gli hanno sparato.

Un video dalle telecamere di sorveglianza nell’area mostrano i soldati che trasportavano il corpo di Shaham su un veicolo militare dopo il suo ferimento.

Ibrahim afferma che la sparatoria di fronte alla sua famiglia è stata simile ad altre uccisioni effettuate dalle forze israeliane la settimana scorsa a Nablus.

Dice che prima di lasciare la casa i soldati hanno raccolto i bossoli dei proiettili che hanno sparato a suoi figlio.

Il padre di Shaham afferma inoltre che essi hanno perquisito e distrutto le suppellettili della casa, situata a Kufr Aqab, proprio al confine tra Gerusalemme Est e Ramallah.

Comportamento mafioso’

Il ministero degli Esteri palestinese ha condannato l’uccisione di Shaham, descrivendolo come un “crimine efferato” e l’ultimo di una serie di “esecuzioni e assassinii sul campo commessi dalle forze israeliane su indicazione del governo.”

Il ministero ha affermato che “questo è il comportamento delle mafie e delle organizzazioni criminali che hanno come obiettivo omicidi a sangue freddo senza processo”.

Ha affermato che indagherà sulla morte a tutti i livelli, specialmente presso la Corte Penale Internazionale, il Consiglio per i Diritti Umani e ad altri livelli legali delle Nazioni Unite, nel contesto dei suoi continui sforzi per porre fine all’impunità dello Stato di Israele per le sue azioni.

Hussein Al-Sheikh, segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha affermato che l’uccisione di Shaham richiede un’immediata inchiesta a livello internazionale.

Quasi ogni giorno l’esercito israeliano conduce operazioni di incursione e arresto nelle città e nei villaggi palestinesi, che spesso portano al ferimento o all’uccisione di palestinesi.

Quest’anno più di 130 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano, inclusi 49 vittime nella Striscia di Gaza e più di 81 nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est occupate.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Politica USA su Israele-Palestina: cosa (non) è cambiato con Biden

In occasione del viaggio di Joe Biden in Israele e Palestina Al Jazeera ha paragonato le sue politiche alle strategie di Donald Trump.

Ali Harb

12 luglio 2022 – Al Jazeera

Il presidente Joe Biden, che si definisce sionista, è spesso citato dai suoi più importanti consiglieri per aver detto che se non ci fosse Israele gli Stati Uniti dovrebbero inventarne uno.

Così, quando è salito alla Casa Bianca, i difensori dei diritti umani palestinesi e gli elettori arabo-americani che l’avevano sostenuto, non nutrivano grandi aspettative di cambiamento sotto la sua guida circa la posizione USA verso Israele.

Comunque, fra le promesse durante la campagna di Biden e quelle degli inizi della sua presidenza di portare avanti una politica estera incentrata sui diritti umani, molti avevano sperato che il presidente avrebbe almeno ribaltato alcune delle decisioni del suo predecessore Donald Trump che avevano ulteriormente allineato gli USA con Israele.

Ma i difensori dei diritti umani sostengono che fino ad ora il presidente democratico non sia riuscito ad adempiere neppure alle sue modeste promesse ai palestinesi e che al momento la posizione USA sia più simile a quella che aveva con Trump che con Barack Obama.

Mentre Biden viaggia verso Israele per la prima volta da quando è presidente, Al Jazeera esamina quali delle politiche di Trump sono state cambiate da Biden e quali sono rimaste immutate.

Ambasciata USA a Gerusalemme

Di tutti i cambiamenti a favore di Israele delle politiche di Trump, trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme è stata forse la più gravida di conseguenze. La decisione del 2018 ha dato un appoggio concreto degli USA alle rivendicazioni di Israele sull’intera città santa come sua capitale.

Israele ha annesso illegalmente Gerusalemme Est nel 1980 dopo averla conquistata nel 1967.

Mentre i palestinesi esprimevano la propria indignazione contro la decisione e le Nazioni Unite la dichiaravano a grandissima maggioranza “nulla e senza effetto legale”, a Washington venne approvata da politici di entrambi i partiti.

In vista dello spostamento dell’ambasciata e in presenza di una debole reazione araba Trump dichiarò Gerusalemme “fuori discussione”.

Biden non ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di riportare l’ambasciata a Tel Aviv. Gli USA sotto la sua amministrazione hanno trattato Gerusalemme come se fosse la capitale di Israele, usando allo stesso tempo un linguaggio ambiguo per descrivere la propria visione di Gerusalemme Est.

Per esempio, il rapporto annuale sui diritti umani redatta dal Dipartimento di Stato USA include Gerusalemme Est nella sezione riguardante Israele. Ma aggiunge in una postilla: “Con il linguaggio usato in questo rapporto non si vuole prendere posizione su nessuno dei temi relativi all’assetto finale oggetto del negoziato fra le parti del conflitto, incluso quello dei confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme o dei confini tra Israele e qualsiasi futuro Stato palestinese.”

Il consolato per i palestinesi di Gerusalemme

Nel 2019 Trump ha chiuso il consolato per gli affari palestinesi a Gerusalemme e trasferito le sue funzioni all’ambasciata israeliana nella Città Santa.

La decisione recide i legami con i palestinesi ed esplicita la bocciatura USA delle loro rivendicazioni su Gerusalemme.

Da candidato Biden aveva promesso di riaprire il consolato, ma, a oltre un anno e mezzo dall’inizio della sua amministrazione, lo spostamento non si è materializzato.

Mentre i funzionari USA dicono di essere ancora interessati a ristabilire la sede diplomatica, Biden e i suoi più importanti collaboratori sono riluttanti a scontrarsi pubblicamente con Israele, che si oppone alla riapertura del consolato.

“Da presidente Biden farà immediatamente dei passi per ripristinare l’assistenza economica e umanitaria al popolo palestinese, in conformità con la legislazione USA, inclusa l’assistenza ai rifugiati, operando per affrontare l’attuale crisi umanitaria a Gaza e per riaprire il consolato USA a Gerusalemme Est, e lavorerà per riaprire la missione diplomatica palestinese a Washington,” disse Biden durante la sua campagna davanti a una tribuna di elettori arabo americani nel 2020.

La missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington, chiusa da Trump nel 2018, non è stata riaperta neppure da Biden a causa di pressioni interne bipartisan contro la decisione.

Colonie

Da candidato Biden aveva promesso di opporsi all’annessione ed espansione delle colonie. E in contrasto con Trump, che non si era mai pubblicamente opposto alle azioni israeliani, l’amministrazione Biden ha occasionalmente criticato a voce l’approvazione di nuove colonie nella Cisgiordania occupata.

Ma tali smorzate critiche spesso sono contenute in vaghe dichiarazioni che stabiliscono paralleli fra le azioni israeliane e quelle palestinesi affermando che gli USA disapprovano un’escalation da entrambe le parti.

Lo scorso ottobre Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stat USA, in una rara occasione era stato esplicito nella critica di Israele dopo il suo annuncio di un piano su grande scala di espansione delle colonie.

“Noi ci opponiamo fermamente all’espansione delle colonie che è totalmente in contrasto con i tentativi di diminuire le tensioni e garantire la calma,” aveva detto Price in quell’occasione.

Ma quel linguaggio diretto è rapidamente svanito.

La scorsa settimana è stato chiesto a Price se gli USA avessero fatto pressione su Israele per porre fine al progetto di una colonia che avrebbe separato le comunità palestinesi in Cisgiordania da quelle a Gerusalemme Est e ha detto: “Noi abbiamo dialogato regolarmente con entrambe le parti per incoraggiarle a non compiere passi che avrebbero esacerbato le tensioni a questo proposito, in caso in cui qualcosa del genere allontani ulteriormente la soluzione dei due Stati.”

La scorsa settimana Maya Berry, direttrice esecutiva dell’Arab American Institute (AAI), un think-tank con sede a Washington, ha detto ad Al Jazeera che l’amministrazione continua a trovare eccezioni per giustificare le violenze israeliane contro i palestinesi.

“È la continuazione di un approccio politicizzato,” ha detto delle politiche di Biden sul conflitto.

“Che si tratti dell’amministrazione Biden o di specifici membri del Congresso, essi stanno facendo di Israele un’eccezione. Non si permetterebbe a nessun altro Paese di fare quello che fa Israele senza che debba affrontare conseguenze politiche sulla scena internazionale. E il protettore principale a questo riguardo sono gli Stati Uniti.”

Aiuti a Israele

Nonostante le crescenti richieste di porre condizioni o restrizioni agli aiuti USA a Israele, Biden in realtà ha  incrementato l’assistenza di Washington al suo principale alleato nella regione rispetto ai tempi di Obama e Trump.

Israele riceve annualmente 3,8 miliardi di dollari in assistenza e quest’anno ha ottenuto un miliardo di dollari extra per “ripristinare Iron Dome [“Cupola di Ferro”], il sistema antimissilistico di difesa, dopo la guerra a Gaza nel maggio 2021.

In un editoriale del Washington Post uscito la scorsa settimana Biden si è dichiarato orgoglioso di aver approvato “il più massiccio pacchetto di aiuti per Israele” della storia.

Aiuti ai palestinesi

Mentre Trump aveva praticamente posto fine a tutti gli aiuti USA ai palestinesi, tagliando completamente i fondi all’United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA), Biden ha rinnovato parte di quegli aiuti.

Biden ha detto che, dall’insediamento nel 2021, la sua amministrazione ha ripristinato 500 milioni di dollari di aiuti ai palestinesi, inclusi dei fondi per l’UNRWA che nell’era Obama aveva ricevuto annualmente circa 350 milioni di dollari.

Normalizzazione

L’amministrazione Biden è totalmente impegnata nello sforzo di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi iniziato con Trump e noto come gli Accordi di Abramo.

Il Dipartimento di Stato dice che la normalizzazione arabo-israeliana non soddisfa la necessità di pace fra Israele e i palestinesi. Ma gli analisti dicono che Biden ha difeso quella stessa normalizzazione dell’era Trump che ha ignorato i palestinesi.

Infatti, prima del suo viaggio in Medio Oriente, Biden ha ripetutamente citato la normalizzazione come motivo della sua visita.

“Parte dello scopo del viaggio in Medio Oriente è approfondire l’integrazione di Israele nella regione, cosa che io penso saremo in grado di fare e che è un bene per la pace e per la sicurezza di Israele. Ecco anche spiegato il motivo per cui i leader di Israele hanno fortemente approvato la mia visita in Arabia  Saudita,” ha detto Biden lo scorso mese.

Le alture di Golan

Quando Trump aveva riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture di Golan siriane occupate, molti esperti di diritto internazionale segnalarono che la decisione avrebbe minato il divieto di acquisire territori con la forza.

Sebbene Biden stia caldeggiando il concetto di integrità territoriale in Ucraina, la sua amministrazione ha confermato l’appartenenza ad Israele delle alture di Golan.

Anche se il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha in precedenza usato un linguaggio ambiguo per descrivere il territorio siriano, dall’insediamento di Biden nessun cambiamento delle politiche USA sul tema è mai stato annunciato.

“Le politiche statunitensi riguardo al Golan non sono cambiate e affermazioni contrarie sono false,” ha detto l’anno scorso su Twitter l’Ufficio per gli affari del Medio Oriente del Dipartimento di Stato.

Legami con i palestinesi

Se Trump ha quasi totalmente ignorato i palestinesi nelle sue politiche per la regione, l’amministrazione Biden ha cercato di riallacciare le relazioni americane con i leader palestinesi.

Ci sono state parecchie telefonate fra alti funzionari USA e palestinesi, incluse quelle tra Biden e il presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Lo scorso mese l’amministrazione USA ha annunciato che la sezione per gli affari palestinesi dell’ambasciata americana a Gerusalemme inizierà a rapportarsi direttamente su “questioni rilevanti” con il Bureau per gli Affari del Vicino Oriente all’interno del Dipartimento di Stato.

In seguito al cambiamento diplomatico si è ribattezzata Office of Palestinian Affairs (OPA) quella che era la Palestinian Affairs Unit (PAU).

Ma gli esperti l’hanno liquidata come una mossa prevalentemente di facciata, sottolineando come non sia un’adeguata sostituzione all’impegno per un vero consolato per i palestinesi a Gerusalemme.

“Nelle presenti circostanze mi sento molto sicuro nell’affermare che questo è semplicemente un tentativo propagandistico per cercare di placare la frustrazione dei palestinesi, soprattutto alla luce dell’imminente visita del presidente nella regione,” ha detto ad Al Jazeera Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center, Washington DC.

Ciononostante l’amministrazione si è attribuita quella che descrive come un ristabilimento delle relazioni con l’Autorità Palestinese.

“Abbiamo collaborato con Israele, Egitto, Qatar e Giordania per mantenere la pace impedendo ai terroristi di riarmarsi. Abbiamo anche ricostruito i legami USA con i palestinesi,” ha scritto Biden sul Washington Post.

Organizzazioni internazionali

Biden è rientrato in contatto con molte organizzazioni ONU e internazionali, tra cui il Consiglio per i Diritti Umani che Trump aveva abbandonato a causa delle loro critiche a Israele.

Ma i funzionari USA hanno sempre sottolineato che stanno tornando in questi forum per proteggere Israele dall’interno e non per difendere gli sforzi di appoggiare i diritti umani dei palestinesi.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato ha rimproverato una commissione di inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani che aveva pubblicato un rapporto in cui accusava Israele di cercare di acquisire un controllo permanente sui palestinesi  “senza intenzioni di porre fine all’occupazione”.

Il 7 giugno Price ha dichiarato che la commissione di inchiesta “rappresenta un approccio unilaterale e fazioso che non fa nulla per contribuire all’avanzamento delle prospettive di pace”.

Allo stesso modo l’amministrazione Biden ha revocato le sanzioni che Trump aveva imposto sui funzionari della Corte Penale internazionale (ICC), mantenendo nel contempo la sua opposizione alle indagini della ICC sulle violazioni israeliane.

Nelle ultime settimane il Dipartimento di Stato ha detto ripetutamente che la ICC non è la “sede appropriata” per indagare sull’assassinio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera ammazzata a maggio dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La mossa israeliana di accatastare terreni adiacenti ad al-Aqsa provoca timori che intenda impossessarsene

Redazione di MEE

27 giugno 2022 – Middle East Eye

Associazioni per i diritti umani affermano che ci sono voci secondo cui il governo israeliano potrebbe cercare di registrare l’area a sud della moschea di Al-Aqsa come terra dello Stato.

Lunedì alcune associazioni per i diritti umani hanno messo in guardia che la decisione del governo israeliano di iniziare la procedura per la registrazione della proprietà dei terreni adiacenti alla moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata rischia di consentire un’appropriazione che avrebbe “gravi conseguenze di ampia portata”.

La scorsa settimana il ministero della Giustizia ha iniziato il “procedimento di definizione dell’attribuzione fondiaria” nella zona di Abu Thor così come del sito dei palazzi omayyadi [dinastia araba insediata a Damasco tra il 661 e il 750 d.C., ndt.] adiacenti al muro meridionale della moschea di Al-Aqsa.

L’operazoine sta facendo ricorso a un fondo governativo destinato a “ridurre le diseguaglianze socio-economiche” e a “creare un futuro migliore” per i palestinesi della città.

Tuttavia, secondo un comunicato congiunto delle associazioni israeliane per i diritti umani Ir Amim e Bimkom visionato da Middle East Eye, questo fondo è stato largamente utilizzato per registrare al catasto terreni per le colonie illegali e in ultima istanza porterà a un’ulteriore spoliazione dei palestinesi.

Le ONG con sede a Gerusalemme affermano che ci sono voci secondo cui il governo israeliano starebbe cercando di registrare la zona a sud della Moschea di Al-Aqsa come terra dello Stato.

“(Il procedimento) potrebbe portare a conseguenze disastrose per centinaia di case palestinesi ad Abu Thor, mentre l’altro potrebbe provocare una grave accentuazione delle tensioni a causa della sua ubicazione estremamente sensibile nelle immediate vicinanze di Al-Aqsa,” afferma il comunicato congiunto.

Secondo i media palestinesi lunedì Sheikh Najeh Bakirat, vicedirettore del waqf [ente benefico religioso, ndt.] islamico di Gerusalemme, ha detto che modificare la proprietà dei palazzi omayyadi non è lecito e viola la Convenzione di Ginevra.

Il controllo israeliano su Gerusalemme est, compresa la Città Vecchia, viola una serie di principi delle leggi internazionali che stabiliscono che una potenza occupante non ha la sovranità sui territori occupati e non può apportarvi alcun cambiamento permanente.

A Gerusalemme est quasi il 90% dei terreni non è registrato, in quanto nel 1967, in seguito all’occupazione della città, le autorità israeliane interruppero gli accatastamenti.

Nel 2018 il governo ha iniziato per la prima volta a promuovere “la definizione della procedura della proprietà fondiaria”.

Tuttavia nel 2020, dopo un anno di monitoraggio del procedimento, secondo Ir Amim esso è stato utilizzato come strumento per “impossessarsi di altra terra a Gerusalemme est, portando a un’espansione delle colonie israeliane e ulteriore spoliazione dei palestinesi.”

Espulsione di massa

L’area a sud della moschea di Al-Aqsa è particolarmente sensibile a causa dei continui interventi nella zona del governo israeliano e dei coloni che potrebbero sostituire gli abitanti palestinesi con parchi turistici a tema biblico.

Secondo il Silwan Lands Defence Committee [Commissione per la Difesa della Terra di Silwan] nel quartiere di Silwan, a sud di Al-Aqsa, sono stati emessi contro palestinesi più di 7.820 ordini di demolizione, sia amministrativi che giudiziari, mettendo a rischio di espulsione migliaia di persone.

La zona è anche luogo di lavori archeologici di scavo del governo, che secondo i palestinesi minacciano le fondamenta della moschea di Al-Aqsa. Dalla fine degli anni ’70 il governo israeliano ha portato avanti scavi sotto la Città Vecchia e il quartiere palestinese di Silwan, a sud della moschea di Al-Aqsa, alla ricerca della Città di David, antica di tremila anni. È la presunta capitale di Re David, il biblico padre fondatore della nazione ebraica.

Ad oggi Israele ha investito almeno 40 milioni di shekel (circa 11 milioni di €) nell’iniziativa portata avanti dall’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) e finanziata dall’organizzazione dei coloni Ir David Foundation [Fondazione di Re David], comunemente nota come Elad.

L’associazione dei coloni è anche titolare del parco nazionale della Città di David, di cui ha preso il controllo dopo un accordo raggiunto nel 2002 con l’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi.

Il parco nazionale per la città antica è stato trasformato in una grande attrazione turistica, con centinaia di migliaia di visitatori all’anno.

I palazzi omayyadi (noti agli israeliani come il Parco Archeologico Ophel) sono situati tra la Città di David e le mura meridionali della moschea di Al-Aqsa.

“Ci sono seri timori che lo Stato stia promuovendo la definizione dei titoli di proprietà nel sito dei palazzi omayyadi/Ophel per consentire la presa di possesso israeliana di questo terreno attraverso la registrazione formale come terra dello Stato, favorendo nel contempo gruppi di coloni appoggiati dallo Stato nell’aggressivo tentativo di conquistare il controllo di questi luoghi molto sensibili,” affermano Ir Amim e Bimkom.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il comitato israeliano per la scarcerazione rigetta l’appello per la liberazione del prigioniero palestinese Ahmed Manasra.

WAFA, PC, Social Media

Martedì 28 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha riferito che lunedì durante seduta della commissione per la scarcerazione anticipata della prigione israeliana di Ramle è stato rigettato l’appello per liberare il ventenne prigioniero palestinese Ahmed Manasra che sta soffrendo per una condizione di salute mentale in progressivo peggioramento.

L’avvocato Khaled Zabarqa, che rappresenta Manasra, ha affermato che il comitato per la scarcerazione anticipata si è rifiutato di discutere l’appello per il rilascio di Manasra, che è stato presentato dal suo collegio difensivo a causa del serio deterioramento delle sue condizioni fisiche e mentali, dichiarando che la pratica è stata considerata in base alla “legge sul terrorismo”.

Manasra, residente nella Gerusalemme Est occupata, aveva 13 anni quando nel 2015 insieme a suo cugino Hassan aggredì degli israeliani a Gerusalemme.

Mentre Manasra venne arrestato, quel giorno suo cugino fu ucciso. Manasra adesso sta scontando una condanna a nove anni e mezzo di prigione, di cui finora ne ha scontati circa sei.

Gli è stato diagnosticato un deterioramento delle condizioni mentali a causa del pestaggio da parte dei coloni israeliani dopo l’attacco e di mesi di interrogatori e torture brutali nelle prigioni israeliane.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Vita e morte di un quartiere di Gerusalemme.

Lemire V., Au pied du Mur. Vie et mort du quartier maghrébin de Jérusalem (1187-1967), Seuil, Paris, 2022, ‎ 416 pagine.

Recensione di Amedeo Rossi

22 giugno 2022

In questo libro lo storico francese Vincent Lemire ricostruisce la vicenda del quartiere marocchino (o più precisamente maghrebino) di Gerusalemme attraverso i suoi oltre 8 secoli di vita. Va detto subito che questo saggio non rompe solo il “muro del silenzio”, come lo definisce Lemire, riguardo alla vicenda del quartiere maghrebino di Gerusalemme. È anche un saggio estremamente dettagliato e un esempio di uso delle fonti più disparate: lavoro d’archivio in svariati Paesi e in molte lingue (tra cui l’ebraico e l’arabo), materiale fotografico e articoli di giornale, lettere private, fonti orali, controversie giudiziarie e petizioni, oltre a una vastissima bibliografia. Nel libro sono frequentemente presenti immagini a testimonianza di questa ricerca capillare, che ha dato vita a una ricostruzione che mette in rapporto l’oggetto di studio (il quartiere) con le vicende più generali dell’area mediorientale e non solo. A fine anno è annunciata la pubblicazione in inglese. Si spera che presto sia disponibile anche un’edizione italiana.

Nato su iniziativa di Salah al-Din (Saladino), il quartiere era inizialmente destinato ad ospitare i pellegrini che dal Maghreb si recavano alla Mecca. Per questo venne affidato a un waqf (fondazione benefica religiosa), che prese il nome dal mistico sufi Abu Madyan, la cui famiglia era originaria di Tlemcen, in Algeria. Con il tempo alcuni pellegrini si stabilirono nel quartiere e divennero parte della comunità gerosolimitana. La sua posizione centrale, a ridosso della Spianata delle Moschee (Haram al-Sharif, il Monte del Tempio per gli ebrei) lo rese un luogo pienamente integrato nella vita urbana, che condivise quindi la sorte di Gerusalemme, sottoposta nel corso dei secoli alla dominazione araba, ottomana e infine britannica. Cosmopolita come il resto della città, dal libro emerge l’immagine di un quartiere vivace e differenziato sia dal punto di vista sociale che economico.

Fu nel periodo del mandato britannico che iniziò a delinearsi il drammatico destino che lo attendeva. L’impero intendeva favorire l’immigrazione sionista in Palestina. A sua volta i dirigenti del nazionalismo ebraico utilizzarono il messianismo biblico come legittimazione delle proprie pretese di conquista e nel contempo come forza attrattiva per incentivare l’emigrazione nella “Terra promessa”. Il quartiere si trovava a ridosso del cosiddetto Muro del Pianto, i contrafforti occidentali della Spianata delle Moschee che dal XVI secolo erano diventati luogo di preghiera per gli ebrei. Paradossalmente, nota l’autore, “il quartiere maghrebino si trovò nelle immediate vicinanze del propulsore che galvanizzava le identità religiose di Gerusalemme fin dai suoi inizi”.

Nel 1927 una forte esplosione fece tremare il quartiere, con uno scambio di accuse tra le due comunità. Come si è scoperto di recente, in realtà si trattò di un attentato organizzato dalla milizia sionista Haganà per intimidire la popolazione del quartiere in seguito a numerosi incidenti con i fedeli che si recavano al Muro del Pianto. Fu sempre in seguito a uno scontro avvenuto nel quartiere maghrebino tra nazionalisti ebrei che rivendicavano il possesso di quello che secondo loro era il Monte del Tempio e i fedeli musulmani che scoppiò la rivolta araba del 1929. “Il quartiere maghrebino”, scrive Lemire, “era ormai al centro del conflitto, e rimarrà in questa pericolosa posizione fino alla sua distruzione nel giugno 1967.”

La guerra del 1947-49 e la conseguente nascita di Israele rappresentarono un duro colpo per i suoi abitanti. Pur rimanendo sul lato giordano della città, le attività benefiche del waqf Abu Madyan vennero notevolmente ridotte a causa dell’occupazione israeliana dei terreni di Ain Karem, da cui l’ente benefico ricavava buona parte delle risorse necessarie ad aiutare i propri assistiti.

È in questo contesto che compare un altro attore, il colonialismo francese, che negli anni ’50 si erse a difensore dei cittadini originari dei suoi possedimenti nel Maghreb per contrastare le crescenti spinte indipendentiste del nazionalismo arabo. L’intervento francese fu però contraddittorio, anche a causa dei rapporti di collaborazione con Israele, come nel caso della crisi di Suez del 1956 e della lotta contro l’FNL algerino, a cui parteciparono attivamente i servizi di intelligence israeliani. In quegli anni la Francia stava anche contribuendo al programma atomico di Israele. L’indipendenza dell’Algeria pose fine a questa attività diplomatica francese.

La guerra dei Sei giorni e l’occupazione israeliana decretarono la fine del quartiere. Tra il 10 e l’11 giugno (il conflitto era finito proprio il 10) i bulldozer israeliani rasero al suolo quasi tutto il quartiere. Agli abitanti vennero concesse 2 ore per lasciare le proprie case. Nella demolizione morirono, a seconda delle fonti, da una a tre persone. Con un formalismo tipico del modus operandi di Israele, prima dell’operazione venne riunita una commissione composta da tre architetti, uno storico e un archeologo. “L’obiettivo”, scrive Lemire,” è evidentemente di occultare le responsabilità politiche mettendo in primo piano le competenze scientifiche.” La commissione suggerì di preservare il 60% degli edifici. L’intervento di demolizione interesserà invece quasi tutto il quartiere. La responsabilità di non aver seguito il parere degli esperti venne attribuita dall’esercito e dal potere politico locale (Comune di Gerusalemme) e statale all’iniziativa di un gruppo di imprenditori edili. La motivazione ufficiale: si sarebbe trattato di un quartiere di baracche, quindi di un’operazione di risistemazione urbanistica per ragioni di igiene e sicurezza, in quanto gli edifici sarebbero stati pericolanti. La situazione era ben diversa, come dimostrano le testimonianze personali, la documentazione d’archivio anche israeliana e il materiale fotografico che accompagnano la narrazione del libro. Ma l’operazione propagandistica funzionò, persino riguardo alla corretta risistemazione degli abitanti del quartiere, 650 persone, che invece vennero abbandonati a se stessi. Un patrimonio storico plurisecolare di 135 edifici venne distrutto, e al suo posto rimase la spianata che si trova a ridosso del Muro del Pianto.

Ciò che rimase del quartiere, l’isolato noto come Dar Abu Said, venne demolito nel giugno 1969, sostenendo anche in questo caso che si trattava di edifici pericolanti. In questo caso ci fu uno scontro tra il ministero degli Affari religiosi e parte del governo da una parte e dall’altra l’amministrazione comunale, il Dipartimento delle Antichità e il ministero degli Esteri, che si opponevano per varie ragioni all’operazione. Uno solo degli edifici da demolire effettivamente presentava una crepa, definita “utile” dal Menachem Begin, allora ministro senza portafoglio, poi primo ministro di Israele nonché premio Nobel. Ma era stata provocata da lavori di scavo di caterpillar israeliani. Ciò fu sufficiente a giustificare la distruzione. Quella che lo storico chiama “ebrezza messianica” che si era impadronita di Israele dopo la vittoria del 1967 ebbe la meglio.

Nelle conclusioni Lemire afferma che “la funzione dello storico è capire e non giudicare, indagare e stabilire i fatti e non giudicarli sul piano morale né definirli su un piano giudiziario.” E citando il grande storico Marc Bloch insiste: “Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è finito.” Se ciò può valere per il ricercatore, il lettore non può esimersi dal constatare che la pratica della pulizia etnica ha accompagnato fin dalla sua nascita lo Stato di Israele. Quanto avvenuto al quartiere maghrebino era già toccato in sorte a centinaia di villaggi palestinesi nel 1947-49 (la Nakba), si ripeté durante e dopo la guerra del 1967 (la Naksa) e da allora continua a segnare le vicende dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e a Gaza, come allora nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Questo libro non può che destare nel lettore indignazione e condanna.