Quando Israele minaccia i palestinesi di una nuova Nakba, minaccia sé stesso di estinzione

Bradley Burston, 25 luglio 2017 ,Haaretz

C’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato o neanche riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno.

Che cosa ci dice riguardo ad Israele il fatto che un importante ministro del governo, che è anche una pappamolla, ritiene necessario, in un momento di tensioni al limite della guerra con i palestinesi, andare alla televisione israeliana e su Facebook a diffondere un messaggio di puro incitamento all’uso delle armi?

Il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, un alleato chiave di Netanyahu che spesso proclama e difende le politiche del primo ministro, è stato per lungo tempo considerato un elemento relativamente moderato nel governo più ferocemente oltranzista nella storia della Nazione.

Eppure, questa settimana, quando Israele si è trovato di fronte ad esplosioni di violenza al suo interno e con i suoi vicini, Hanegbi ha usato uno dei termini più incendiari per avvertire i palestinesi delle possibili conseguenze dei brutali omicidi di tre israeliani, un settantenne e due dei suoi figli adulti, avvenuti sabato sera:

Ecco come inizia una ‘Nakba’”, ha minacciato Hanegbi il giorno dopo sulla sua pagina Facebook.

Esattamente così”, ha scritto, citando il termine arabo per “catastrofe”, che è diventato sinonimo dell’esperienza palestinese della guerra del 1948, in cui centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono o furono cacciati dalle forze israeliane dalle loro case nella Terra Santa.

Ricordatevi il ‘48”, ha poi scritto. La guerra, che ha portato alla nascita dello Stato di Israele, ha creato anche circa settecento mila rifugiati palestinesi. La Nakba è un evento profondamente traumatico per i palestinesi. Il dolore e la rabbia che si accompagnano alla Nakba sono stati indirettamente riconosciuti dal governo Netanyahu nei suoi sforzi di impedire che la narrazione palestinese fosse oggetto di insegnamento nelle scuole arabe in Israele.

Ricordatevi il ‘67”, ha continuato. Centinaia di migliaia di palestinesi, alcuni dei quali profughi della guerra del 1948, furono sfollati dalla guerra dei Sei Giorni, in cui le forze israeliane occuparono Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza.

Hanegbi, che in una precedente intervista nello stesso giorno ha detto che la violenza non stava conducendo ad una terza intifada, ma ad una terza Nakba, ha ribadito il concetto nel post su Facebook: “Quando vorrete fermarla, sarà già stata persa. Sarà già avvenuta la terza ‘Nakba’.”

L’attento uso delle virgolette da parte di Hanegbi per modificare – più precisamente, per attenuare – il termine Nakba non è certamente sfuggito ai lettori palestinesi. Né lo è stato il senso della sua conclusione:

Per due volte avete pagato il prezzo della follia dei vostri dirigenti. Non provocateci nuovamente, perché il risultato non sarà diverso. Siete stati avvertiti!”

Il post di Hanegbi è arrivato in un momento in cui la rabbia covata sotto la cenere dei social media, scaturita da quel vulcano sacro nel cuore di Gerusalemme, stava infiammando gli animi di mezzo mondo.

Arriva anche nel periodo in cui i dirigenti israeliani, da Benjamin Netanyahu in giù, stanno dedicando un’enorme quantità del loro prezioso tempo per parlare di istigazione [all’odio].

Parlano di come l’istigazione può diventare armata, trasformarsi in atti di assassinio, di terrore, di escalation, di intransigenza, di vendetta e di guerra. E non mancano loro gli esempi, dal momento che i social media arabi diffondono innumerevoli esempi di minacce terroristiche e ignobili caricature antisemite.

Ma c’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato e neppure riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno. Attacchi verbali vergognosamente fanatici contro i palestinesi. Dichiarazioni di dirigenti israeliani e di rabbini compiacenti che descrivono tutti gli arabi come bestie feroci, esseri subumani, una razza di terroristi sanguinari.

Incoraggiate e appoggiate da mezzi di informazione condiscendenti e scandalistici, le deboli e fragili coalizioni delle politiche israeliane non hanno fatto che accelerare l’istigazione israeliana, mentre i politici fanno a gara su tutti i social media per mostrare quanto può essere distruttiva la loro volontà di rendere le cose sempre più insopportabili.

E così è accaduto che, invece di operare per disinnescare l’atmosfera esplosiva dell’ultima settimana, i politici di estrema destra si sono avvicendati nelle trasmissioni televisive per promuovere misure di ulteriore privazione del diritto dei palestinesi di pregare alla moschea di Al-Aqsa, premendo al tempo stesso per dare via libera agli ebrei per pregare sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], che è parte dello stesso complesso. In toni che potevano essere seri ma anche non esserlo, il deputato di estrema destra Bezalel Smotrick ha suggerito in un tweet che dovrebbe essere immediatamente costruita una sinagoga sul Monte.

Quando gli attivisti musulmani hanno accusato Israele di pianificare di impadronirsi del sito a proprio uso esclusivo, gli attivisti ebrei sono apparsi fin troppo felici di confermare le accuse.

Al tempo stesso, quando alcuni ministri del governo hanno chiesto l’introduzione della pena di morte, un deputato del partito di Netanyahu, il Likud, li ha superati.

Voglio dire la verità senza sembrare, dio non voglia, troppo estremista”, ha detto il deputato Oren Hazan in un video postato nel weekend.

Ma se fosse dipeso da me, ieri notte sarei andato dalla famiglia dell’assassino, avrei preso lui e i suoi familiari e li avrei ammazzati tutti. Sì, proprio così. Senza alcun rimorso. Li avrei ammazzati.”  

Cosa ci dice questo su Israele? Che se vuoi che la tua voce sia ascoltata, puoi dire – impunemente – “Vedrò la demolizione delle vostre case e la pena di morte per voi, ed aggiungerò l’esecuzione di massa di civili.”

Che cosa ci dice questo sui leaders israeliani? Che per mantenere l’illusione di essere più duri di chiunque altro, possono fare minacce che arrivano fino all’ espulsione di massa e alla pulizia etnica – una nuova Nakba. Proprio il genere di minacce che in un mondo come il nostro possono alla fine offrire il pretesto per minacciare lo stesso Israele di estinzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Ecco perché gli Stati arabi sono palesemente silenziosi sulla crisi del Monte del Tempio

Zvi Bar’el – 23 luglio 2017, Haaretz

Le tensioni sul luogo sacro potrebbero spingere gli Stati arabi in rotta di collisione con i movimenti islamici, ma la calma dipende dalla rimozione dei metal detector israeliani dal Monte.

Quando il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato in discorsi vanagloriosi in merito agli incontri con leader arabi – compresa la recente indiscrezione su un incontro segreto di cinque anni fa con il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti – sembrava ignorasse le forze islamiche che stavano attente a queste iniziative diplomatiche. Le recenti tensioni sul Monte del Tempio [denominazione israeliana della Spianata delle Moschee, ndt.] di Gerusalemme ha messo in chiaro che ogni mossa diplomatica o per la sicurezza è anche immediatamente misurata su una prospettiva che trascende l’importanza religiosa dei luoghi santi.

La moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio, come la Kaaba alla Mecca e la Tomba dei Patriarchi [denominazione israeliana della moschea di Ibrahim, ndt.] a Hebron, è un luogo islamico inseparabile dai problemi nodali del conflitto israelo-palestinese. Sono luoghi che, se danneggiati, provocano nell’opinione pubblica sdegno che può spingere i regimi negli Stati arabi ed in altri Stati musulmani in rotta di collisione con i movimenti islamici dei rispettivi Paesi.

Ciò li spinge anche in conflitto con un’opinione pubblica musulmana sensibile, che può delegittimare rapporti più stretti tra Israele e Paesi arabi e con un’opinione pubblica araba laica, che vede gli avvenimenti come un tentativo deliberato da parte di Israele di appropriarsi dei siti palestinesi.

Il riconoscimento del potere del popolo e la minaccia che l’opinione pubblica araba rappresenta sono uno dei più importanti prodotti emersi dalle Primavere arabe, soprattutto quando ciò riguarda Israele ed i luoghi santi. Queste questioni costituiscono un ampio, anche se forse l’unico, comun denominatore che questi settori dell’opinione pubblica condividono.

Finora in questi Paesi la rabbia araba e musulmana non si è tradotta in dimostrazioni pubbliche nella forma di manifestazioni di massa o in articoli aspramente critici. Gli avvenimenti sul Monte del Tempio della scorsa settimana o simili hanno già meritato titoli in prima pagina nella maggior parte del mondo arabo, ma finora – forse per la prima volta – non si sono viste le consuete proteste anti-israeliane nelle strade del Cairo, di Amman e del Marocco.

Come previsto, il sito web della Fratellanza Musulmana ha accusato il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi di aver capitolato davanti ad Israele. Un sito web ha parlato del presidente egiziano e dei “sionisti” come forze alleate. In un’ intervista con un sito egiziano, un membro del Comitato Popolare per la Difesa del Sinai, Ahmed Samah al-Idarusi, ha lamentato che, rispetto al passato, “ora riscontriamo un silenzio diplomatico e culturale egiziano tale che neppure le elite sono capaci di rilasciare un solo comunicato congiunto di condanna.”

Lo stesso Sisi ha chiesto ad Israele di agire immediatamente per calmare le tensioni riguardo al Monte del Tempio. Ma la sua retorica è stata molto più tenue che nel settembre 2015, quando ha accusato Israele di dissacrare sfacciatamente la santità del luogo.

Secondo informazioni dall’Egitto, il ministro delle Dotazioni Religiose del Paese, Mukhtar Gumaa, ha chiesto ai predicatori delle moschee di evitare di fare commenti sulla moschea di Al-Aqsa nei loro sermoni del venerdì e di parlare invece solo di come trattare bene i turisti stranieri in Egitto.

L’Arabia saudita, il cui re, Salman, ha fatto pressione sugli Stati uniti perché spingano Israele a riaprire il complesso del Monte del Tempio ai fedeli musulmani, si è astenuta dal fare dichiarazioni in materia – e il silenzio non è stato solo da parte di importanti dirigenti sauditi. E’ stato anche impossibile trovare notizie dettagliate nella stampa saudita di venerdì sulla sequenza di avvenimenti sul Monte del Tempio.

Solo un evento mediatico è diventato virale, ed è stato quando uno spettatore di un programma trasmesso dalla televisione in lingua araba con sede a Londra Al-Hiwar ha chiamato la stazione ed ha dichiarato: “Sono contrario ad una vittoria di Al-Aqsa, perché una vittoria di Al-Aqsa sarebbe una vittoria di Hamas e del Qatar!”

Può darsi che questo spettatore rappresenti una nuova opinione, considerando che l’attuale conflitto tra l’Arabia saudita e il Qatar e Hamas è ciò che determinerà la natura della risposta araba. Da questo punto di vista, finché il Qatar verrà considerato un sostenitore della Fratellanza musulmana e di Hamas, e finché gli eventi sul Monte del Tempio saranno attribuiti ad Hamas, i disaccordi tra arabi giocheranno un ruolo importante nella politica araba.

Ma anche se questa opinione non può essere ignorata, ciò non significa che sarà possibile per questi Stati mettere un freno alle rivolte dell’opinione pubblica musulmana, che obbligherà i regimi arabi ad unirsi nella battaglia per il loro luogo sacro se vi continueranno violenti scontri.

Israele, che si sta scambiando segnali con l’Arabia saudita e sta portando avanti precipitose consultazioni con il re giordano Abdullah e il presidente egiziano Sisi, sta ora cercando una soluzione a doppio taglio: affrontare la sicurezza sul Monte del Tempio e gestire la sua perdita di prestigio. Può prevedere di ottenere una simile soluzione se decide di togliere i metal detector che sono stati piazzati dopo l’attacco del 14 luglio sul Monte del Tempio, che ha ucciso due poliziotti israeliani.

Secondo fonti giordane, le soluzioni che sono state discusse finora non hanno prodotto un accordo. Una proposta è stata che i metal detector siano utilizzati da poliziotti giordani in borghese; un’altra che gli attuali metal detector che si dovrebbero attraversare siano sostituititi da dispositivi manuali, oppure che l’operazione di controllo con i metal detector sia gestita da una forza di polizia congiunta israeliana-palestinese-giordana.

Il problema è che ognuna di queste proposte danneggia la reputazione di Israele, che sta pretendendo la sovranità totale quando si tratta degli ingressi al Monte, o la richiesta dei palestinesi, che per il momento stanno rifiutando ogni coinvolgimento israeliano sul Monte del Tempio e sugli ingressi ad esso.

La dichiarazione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, secondo cui l’ANP sta interrompendo i contatti con Israele, potrebbe non aiutare, ma ciò non impedisce uno scambio di segnali con i funzionari della sicurezza palestinese nel contesto della cooperazione per la sicurezza o uno scambio di idee tra Israele, i palestinesi e i giordani.

Sabato un dirigente giordano ha detto ad Haaretz che il re Abdullah comprende la necessità di controlli per la sicurezza, ma ha aggiunto: “Quando la questione viene percepita come una lotta per il prestigio tra Israele ed i palestinesi, e, cosa non meno [importante], come una lotta politica interna nel governo israeliano, il re non può chiedere ai palestinesi di cedere in nome della stabilità del governo israeliano.”

Questi commenti contengono un indizio dell’attesa dei giordani di un gesto da parte di Israele che dia argomenti al monarca giordano per convincere Abbas ad accettare nuovi accordi per la sicurezza sul Monte del Tempio. E’ possibile che Netanyahu riceva messaggi simili dal presidente egiziano.

Ora la questione decisiva è in quale misura il primo ministro israeliano possa accettare di spogliare i metal detector del simbolismo che hanno assunto ed acconsentire a proposte che siano accettabili anche per i dirigenti arabi. In questo processo, potrebbe anche rafforzare le fondamenta delle relazioni con loro.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gerusalemme unifica i musulmani attraverso la lotta

Amira Hass – 23 luglio 2017, Haaretz

Benché alla maggioranza dei palestinesi non sia consentito visitare Al-Aqsa, questo luogo sacro sta facendo quello che l’assedio di Gaza e l’espansione delle colonie non riescono a fare: unirli.

Un giovane laico della zona di Ramallah ha espresso il suo stupore per come Gerusalemme ha unificato l’intero popolo palestinese ed ha paragonato l’assalitore di venerdì notte ad Halamish [colonia israeliana in cui un palestinese ha ucciso a coltellate tre coloni, ndt.], Omar al Abed, al Saladino. Un paragone stupido, siamo tutti d’accordo. Eppure il bisogno di tirare in ballo il Saladino racchiude tutta la difficoltà tra i palestinesi in merito a quelli che percepiscono come i nuovi crociati.

Questo giovane non può andare a Gerusalemme est e nella Città Vecchia, che si trova a meno di 30 km (circa 18 miglia) da casa sua, perché anche in periodi normali Israele non concede permessi di ingresso “come quello” a persone della sua età. E forse è tra coloro che considerano umiliante dover chiedere un permesso di ingresso per andare in una città palestinese. L’ultima volta che ha visitato [Gerusalemme] aveva 13 anni – cioè circa 13 anni fa.

Quindi questo giovane palestinese venerdì non ha sentito alcuni dei predicatori parlare a Gerusalemme della loro discendenza da Saladino. Poiché i palestinesi sono stati bloccati dal loro [dei religiosi musulmani, ndt.] divieto di entrare ad Al-Aqsa attraverso i metal detector israeliani, sedicenti predicatori hanno parlato a gruppi di fedeli che si sono radunati nelle strade di Gerusalemme est e della Città Vecchia, circondati dal personale della polizia di frontiera che puntava contro di loro i lunghi fucili.

Uno di questi predicatori ha detto che se non fosse stato per le posizioni e le azioni di vari regimi stranieri nel passato e nel presente, gli ebrei non avrebbero sconfitto i palestinesi. Poi ha fatto una pausa ed ha aggiunto: “Se non fosse per l’Autorità Nazionale Palestinese, collaborazionista, gli ebrei non avrebbero il sopravvento.” Ed ha anche chiesto: “E’ possibile che oggi, in tutti gli eserciti musulmani del mondo, nessuno possa generare un Saladino?” E allora ha promesso che verrà il giorno in cui eserciti da Giacarta, da Istanbul e dal Cairo arriveranno per liberare la Palestina, Gerusalemme e Al-Aqsa.

Un altro predicatore ha fatto affermazioni simili a un turista turco prima del sermone. Il contenuto e lo stile ricordavano il partito islamista salafita Hizb El Tahrir: non c’è da sostenere una lotta armata contro gli occupanti israeliani, ma una fede incrollabile nel giorno in cui il mondo musulmano si mobiliterà e sconfiggerà i “crociati ebrei”.

Quando il predicatore se n’è andato, solo in pochi si sono uniti all’appello che metteva in guardia gli ebrei che “l’esercito di Maometto ritornerà” – ma nessuno ha protestato contro la definizione dell’ANP come “collaborazionista”. In ogni caso, le sue attività sono vietate a Gerusalemme. Israele ha estromesso l’OLP (a cui l’ANP è in teoria subordinata) da ogni ruolo di unificazione, culturale, sociale o economico, che ha avuto fino al 2000. Un vuoto di potere come questo può essere riempito solo da enti religiosi e da portavoce che possano dar senso ad una vita piena di sofferenze. La coerente posizione dell’OLP e dell’ANP, secondo cui questo non è un conflitto religioso e che ad Israele non dovrebbe essere consentito di trasformarlo in tale, a Gerusalemme non risulta molto convincente.

Dato che la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania non può andare a Gerusalemme, la città – e soprattutto la moschea di Al-Aqsa – è per loro un luogo astratto, un “concetto” o una foto sul muro; non una realtà che conoscono concretamente. Ma questo luogo astratto, Al-Aqsa, sta facendo quello che non riesce a fare l’assedio di Gaza con i suoi 2 milioni di prigionieri, l’espansione delle colonie e la confisca dei serbatoi di acqua e dei pannelli solari alle comunità dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, la parte della Cisgiordania temporaneamente sotto totale controllo israeliano, ndt.]: li sta unificando. Il discorso anti-colonialista, che è essenzialmente nazionalista, politico e laico, è canalizzato dai post di Facebook, dagli articoli eruditi che non raggiungono il grande pubblico e da vuoti slogan pronunciati da leader, il cui periodo di leadership e di governo è ormai da tempo scaduto.

In altre parole, il discorso e la vecchia dirigenza nazionalisti oggi non sono più considerati importanti. Al contrario, Al-Aqsa riesce a creare un’opposizione popolare di massa al dominio straniero da parte di Israele – e ciò scatena l’immaginazione e l’ispirazione delle masse di altri che non possono andare a Gerusalemme. Non solo persone non credenti si sono recate ai luoghi di preghiera a Gerusalemme il venerdì per stare con il proprio popolo. Anche numerosi palestinesi cristiani si sono uniti ai fedeli musulmani ed hanno pregato, a modo loro, verso Al-Aqsa e la Mecca.

Ovviamente, si tratta in primo luogo della forza del credo religioso. Più profonda è la fede, maggiore è lo sfregio alle sue componenti sacre. Il fatto che Al-Aqsa sia un luogo per tutti i musulmani è un elemento che le attribuisce maggiore importanza. Ma non si tratta solo di quello: Gerusalemme ha la maggior concentrazione di palestinesi che si trovano a diretto contatto con il potere straniero di Israele, con tutto quello che ciò rappresenta in termini di negazione dei loro diritti e di umiliazione per loro. Non hanno bisogno di “luoghi simbolici” dell’occupazione, come i posti di controllo militari, per ricordarsi dell’occupazione o esprimere la loro rabbia. E la spianata di Al-Aqsa, da parte sua, è il luogo in cui la maggior parte dei gerosolimitani si possono riunire in un unico posto per sentirsi parte di una collettività. E dal momento in cui questo diritto di riunirsi gli viene tolto, protestano come un sol uomo – il che ricorda anche agli altri palestinesi che sono tutti uno solo, e stanno soffrendo per lo stesso dominio straniero.

Ma questa stessa opinione pubblica unificata non può più esprimere la propria unità in azioni collettive. E’ chiusa e tagliata fuori all’interno di enclave sovrane, e divisa in classi sociali con differenze sociali, economiche ed emotive sempre più grandi. La via verso il luoghi simbolici dell’occupazione, che circondano ogni enclave, è bloccata dalle forze di sicurezza palestinesi come dall’adattamento alla vita all’interno dell’enclave.

Questa è la base politica e reale della continua presenza di assalitori solitari, che non fanno riferimento all’origine delle loro azioni: prima di tutto, l’intollerabile prosecuzione dell’occupazione; poi la suggestione di Al-Aqsa come un luogo che unifica, religiosamente e socialmente; la dirigenza deludente, indebolita e debole; la volontà di morire che è una miscela di fede nel paradiso e di disperazione nei confronti della vita.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Palestinese colpito ed arrestato dopo aver ucciso 3 israeliani in un attacco all’arma bianca in una colonia

Ma’an News

21 luglio 2017

Betlemme (Ma’an) – Un palestinese è stato colpito e, a quanto riferito, versa in condizioni non gravi dopo aver fatto irruzione in una casa di una colonia israeliana illegale nel centro della Cisgiordania occupata ed aver compiuto venerdì sera, secondo l’esercito israeliano, un attacco all’arma bianca che ha causato la morte di tre israeliani e un ferito.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che un aggressore è entrato in una casa della colonia illegale di Halamish, nota anche come Neve Tzuf ed ha accoltellato quattro israeliani.

Due sono morti poco dopo in seguito alle ferite ed altri due sono stati portati in ospedale in gravi condizioni. Di un terzo è stata confermata la morte.

Il portavoce ha detto che l’assalitore è stato colpito. E’ stato identificato dai media israeliani come Omar al-Abed, tra i 19 e 20 anni, del vicino villaggio di Kobar, nella parte settentrionale del distretto di Ramallah.

Secondo il sito israeliano di notizie Ynet, un settantenne, suo figlio e sua figlia, sui trent’anni, sono stati uccisi e la loro madre di 68 anni è rimasta gravemente ferita.

Secondo quanto riportato, quando l’aggressore ha fatto irruzione nella casa i quattro stavano cenando per lo Shabbat con circa 10 membri della loro famiglia. Alcuni sono riusciti a nascondersi in un’altra stanza, a chiamare la polizia e urlare per chiedere aiuto. Secondo Ynet un vicino, soldato dell’esercito israeliano, avrebbe sentito del trambusto, sarebbe arrivato sul posto ed avrebbe sparato ferendo in modo non grave l’assalitore.

Secondo i media israeliani, prima di mettere in atto l’attacco, al-Abed ha scritto su Facebook: “Ho molti sogni e credo che si realizzeranno, amo la vita e rendere felici gli altri, ma cos’è la mia vita quando loro (Israele) uccidono donne e bambini e profanano la nostra Al-Aqsa?”

L’attacco mortale ha avuto luogo dopo che tre palestinesi sono stati uccisi – due dei quali dalla polizia israeliana ed uno, a quanto riportato, da un colono israeliano – quando, venerdì mattina, a Gerusalemme massicce manifestazioni di disobbedienza civile sono degenerate in violenti scontri.

Altre centinaia di palestinesi disarmati sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di proteste nei territori occupati contro le nuove misure per la sicurezza nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme occupata, imposte in seguito alla sparatoria mortale della scorsa settimana nel luogo sacro, con un bilancio di tre aggressori palestinesi e due poliziotti israeliani uccisi.

I palestinesi hanno visto le misure ad Al-Aqsa come l’ennesimo esempio del fatto che le autorità israeliane utilizzano le violenze e le tensioni tra israeliani e palestinesi come mezzo per accentuare il controllo su importanti luoghi nei territori palestinesi occupati e per normalizzare crescenti misure che prendono di mira i palestinesi da parte delle forze israeliane.

Secondo informazioni, in risposta all’attacco alla colonia il portavoce di Hamas Husam Badran avrebbe detto: “Continueremo a lottare contro l’occupazione in ogni punto di frizione per appoggiare Al-Aqsa.”

In seguito all’incidente, un notevole numero di forze israeliane ha fatto un’incursione a Kobar ed ha imposto la chiusura del villaggio, consentendo l’uscita o l’entrata al villaggio solo a “casi umanitari” – una tipica risposta dell’esercito israeliano ad attacchi mortali contro israeliani, che viene regolarmente denunciata dai gruppi per i diritti umani come una punizione collettiva messa in atto contro palestinesi innocenti.

Il quotidiano israeliano “Haaretz” ha informato che durante la notte forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di al-Abed ed hanno arrestato suo fratello, iniziando i preparativi per la demolizione della casa.

L’esercito israeliano avrebbe anche arrestato un palestinese disarmato “sospetto” nei pressi di Halamish, secondo quanto riferito da Ynet, che afferma che l’esercito israeliano stava verificando se fosse in qualche modo coinvolto nell’incidente.

Si prevede che ulteriori truppe verranno schierate nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Tre palestinesi sono stati uccisi negli scontri per Al-Aqsa a Gerusalemme e in Cisgiordania

Ma’an News , 21 luglio 2017

Betlemme (Ma’an) – Secondo informazioni raccolte da Ma’an, venerdì tre palestinesi sarebbero stati colpiti ed uccisi durante scontri nella Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate, nel corso di incidenti su vasta scala nei territori palestinesi occupati in seguito a nuove misure di sicurezza presso il complesso della moschea di Al-Aqsa.

Le morti sono avvenute venerdì durante grandi manifestazioni a Gerusalemme est per denunciare le nuove misure israeliane per la sicurezza nei pressi della moschea di Al-Aqsa in seguito all’attacco mortale della scorsa settimana.

Le forze israeliane hanno represso violentemente le proteste a Gerusalemme est, così come altre marce in solidarietà nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza sotto assedio, mentre la Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a Ma’an che venerdì almeno 193 palestinesi sono rimasti feriti a Gerusalemme est e in Cisgiordania.

Secondo le informazioni in possesso di Ma’an, nel 2017 49 palestinesi, 14 dei quali nel solo mese di luglio, sono stati uccisi dagli israeliani.

Un palestinese sarebbe stato ucciso da un colono israeliano a Ras al-Amoud

Fonti mediche hanno detto a Ma’an che un adolescente palestinese è stato ucciso durante scontri nel quartiere di Ras al-Amoud a Gerusalemme est, mentre testimoni affermano che il giovane è stato ammazzato da un colono israeliano.

Il giovane è stato identificato come il diciottenne Muhammad Mahmoud Sharaf, del quartiere di Silwan.

Testimoni affermano che Sharaf è stato colpito al collo da un colono israeliano ed è poi morto in seguito alle ferite.

Subito dopo la sua morte i familiari in lutto hanno fatto il funerale di Sharaf, per paura che le autorità israeliane confiscassero il suo corpo, mentre i partecipanti scandivano slogan sul giovane e su Al-Aqsa.

Nel contempo un altro palestinese, identificato da fonti mediche come Muhammad Abu Ghanam, è morto in seguito a ferite nell’ospedale al-Makassed dopo essere stato colpito dalle forze di polizia israeliane durante scontri nel quartiere di al-Tur a Gerusalemme.

Testimoni hanno affermato che venerdì sera forze israeliane hanno fatto irruzione nell’ospedale cercando di arrestare palestinesi feriti durante gli scontri.

Un giornalista di Ma’an presente sul posto ha detto che si è tenuto rapidamente anche il funerale di Abu Ghanam, in quanto palestinesi sono stati filmati mentre trasportavano il suo corpo oltre un muro che circonda l’ospedale al-Makassed, per evitare che le forze israeliane se ne impossessassero.

Testimoni affermano che le forze israeliane hanno sparato bombe assordanti nel cimitero di al-Tur durante il funerale. Persone del posto hanno detto a Ma’an che Abu Ghanam aveva vent’anni, era un abitante di al-Tur ed era al secondo anno di studi presso l’università di Birzeit.

Palestinese colpito ed ucciso durante la manifestazione ad Abu Dis.

Nel pomeriggio di venerdì il ministro palestinese della Sanità ha detto che un palestinese è deceduto in seguito a ferite in un ospedale di Ramallah dopo essere stato colpito al petto dalle forze israeliane durante una manifestazione nel villaggio di Abu Dis, nel distretto di Gerusalemme, in Cisgiordania.

Il palestinese ucciso è stato identificato da fonti locali come il diciassettenne Muhammad Mahmoud Khalaf, mentre secondo altre fonti si tratterebbe di Muhammad Lafi.

Venerdì sera il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) ha emesso un comunicato in cui celebra Muhammad Khalaf come un “eroico martire” che è morto “per appoggiare Al-Aqsa e in rifiuto delle politiche vigliacche e razziste dell’occupazione (israeliana).”

Il FDLP aggiunge che Khalaf e la sua famiglia sono militanti del movimento di sinistra, e che il giovane aveva di recente superato i suoi esami di maturità e dirigeva il comitato studentesco nell’istituto arabo di Abu Dis.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Senza precedenti e incendiario: perché il boicottaggio di Al-Aqsa è importante

Richard Silverstein – 21 luglio 2017, Middle East Eye

Le nuove misure di sicurezza sull’Haram al-Sharif violano gli accordi tra Giordania ed Israele, non evitano la ripetizione dell’ultimo attacco di venerdì e alimentano ulteriormente l’odio.

Lo scorso venerdì tre palestinesi con cittadinanza israeliana della città settentrionale di Umm al Fahm hanno attaccato poliziotti fuori dall’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, ndt.], il terzo luogo più sacro per l’Islam (noto agli ebrei israeliani come il “Monte del Tempio”).

Negli ultimi anni Israele ha imposto una serie di misure che restringono l’accesso dei musulmani al luogo, mentre periodicamente ha anche incrementato aggressioni armate da parte di poliziotti contro la moschea di Al-Aqsa e i fedeli che vi si trovavano.

Queste violazioni della sacralità dei luoghi hanno fatto infuriare i musulmani in tutto il mondo, ma soprattutto i palestinesi, sia in Israele che in Cisgiordania. Molte delle continue violenze degli attacchi di ‘lupi solitari’ contro bersagli israeliani, che hanno lasciato circa 50 israeliani e 250 palestinesi uccisi, sono state motivate da sdegno religioso contro la condotta di Israele.

L’attacco di venerdì è stato il più audace in tempi recenti. Tre membri di un clan locale, tutti denominati Muhammad Jabareen, sono riusciti a far passare armi all’interno della città santa di Gerusalemme, poi le hanno recuperate ed hanno sparato contro la polizia. Hanno ucciso due poliziotti drusi israeliani e ne hanno leggermente ferito un altro.

Come è tipico di queste situazioni, lo Shin Bet ha imposto un ordine restrittivo delle informazioni su alcuni aspetti del caso. Ha rifiutato di dire il nome degli aggressori, benché avesse le loro carte d’identità e sapesse chi erano. Ho pubblicato i loro nomi e foto delle carte d’identità con l’aiuto di fonti riservate della sicurezza israeliana. In seguito la misura restrittiva è stata tolta.

Dopo aver attaccato la polizia, gli uomini armati sono fuggiti all’interno dell’Haram al Sharif, dove le forze di sicurezza israeliane li hanno inseguiti ed uccisi. Un video girato da palestinesi mostra uno degli aggressori a terra disarmato. Dopo essersi alzato ed aver tentato di scappare, viene abbattuto da una scarica di proiettili.

E’ normale che in simili circostanze le forze israeliane uccidano gli attaccanti indipendentemente dal fatto che siano armati o che abbiano causato danno ad altri. Il metodo di esecuzione è a volte definito il “colpo di grazia”. Una volta che un palestinese ha ucciso o ferito un israeliano in questi attacchi, la sua vita è considerata nella maggioranza dei casi persa.

Tante accuse, nessuna responsabilità

In altri Paesi, dopo una minaccia grave alla sicurezza, le autorità prenderebbero approfonditamente in esame le circostanze che hanno consentito che avvenisse l’incidente, una assunzione di responsabilità che l’opinione pubblica pretenderebbe a gran voce.

Mentre i responsabili israeliani della sicurezza potrebbero aver condotto questa analisi, pochi hanno messo in discussione come lo Shin Bet [servizio di intelligence interno, ndt.] e la polizia abbiano permesso a tre uomini armati di lanciare un attacco così sanguinoso. Invece questi due organi si sono impegnati in una guerra tra loro, additandosi per incolparsi l’un l’altro. Nel frattempo nessuno si è assunto la responsabilità concreta.

La principale discussione riguarda se i metal detector, che sono stati installati immediatamente dopo l’attacco, avrebbero dovuto essere stati usati prima, e se avrebbero evitato l’aggressione.

Tuttavia non c’è una tale sicurezza, salvo che la polizia israeliana voglia obbligare ogni palestinese che entra da ogni porta della Città Vecchia a sottomettersi a simili controlli. Ciò richiederebbe la militarizzazione totale di una delle più sacre città al mondo e il posizionamento di decine, se non centinaia, di metal detector. Ciò significherebbe lunghe file per chi desidera entrarvi, anche per i turisti che alimentano una parte importante dell’economia locale.

I poliziotti e gli aggressori

L’identità etnica sia dei poliziotti morti che dei loro assassini è di particolare importanza. I poliziotti erano drusi israeliani. La loro religione è una derivazione dell’islam, ma sono sempre stati considerati una minoranza e a volte perseguitati.

Dalla fondazione di Israele nel 1948, lo Stato ha coltivato relazioni di amicizia con i drusi ed essi in cambio hanno servito nell’esercito israeliano, a differenza del resto dei musulmani palestinesi, che rifiutano il servizio militare.

Anche se ciò sta cambiando negli ultimi anni, i drusi sono visti come ancora più aggressivi del soldato ebreo israeliano medio. I soldati drusi sono stati coinvolti in molte uccisioni controverse di civili disarmati a Gaza ed altrove.

I rapporti tra i drusi e gli ebrei israeliani sembrano seguire un tipico modello coloniale, in cui il potere dominante cerca di dividere la popolazione nativa maggioritaria favorendo una singola tribù minoritaria a danno del resto. In altre parole, divide et impera.

Gli sparatori erano, come ho detto, di una città del nord di Israele. Umm al Fahm è un focolaio a sostegno della sezione settentrionale del Movimento Islamico, guidato dal leader musulmano, l’ imam Raed Salah. E’ anche la sua città natale. E’ stato più volte arrestato per aver incitato alla resistenza contro la gestione israeliana dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme.

Negli ultimi anni la maggior parte degli attacchi palestinesi contro israeliani sono stati perpetrati da persone che vivevano a Gerusalemme, nei dintorni o in Cisgiordania. Relativamente pochi di questi attacchi hanno coinvolto palestinesi con cittadinanza israeliana, che sono in genere considerati una popolazione più leale e “affidabile” di quella fuori da Israele (in Cisgiordania e a Gaza).

Con questa rivolta, che ora coinvolge la minoranza palestinese israeliana, Israele entra in un periodo ancora più teso ed instabile di quello che ha affrontato in passato.

Resistenza alla repressione

La risposta ufficiale israeliana all’attacco è stata pronta e pesante. Tutta la Haram al-Sharif è stata chiusa per la prima volta da quando un cristiano evangelico australiano con problemi mentali tentò di iniziare una guerra santa facendo saltare in aria la moschea di Al-Aqsa nel 1969.

Andando persino oltre, le forze di sicurezza hanno chiuso tutta la Città Santa con molteplici posti di controllo destinati ad evitare che chiunque entrasse nella parte palestinese della all’interno delle mura. Mercanti con i negozi nel suk sono stati minacciati con pesanti sanzioni se li avessero tenuti aperti. Anche questa è stata un’iniziativa senza precedenti.

Mentre Israele l’ha presentato come un tentativo di impedire ai palestinesi di mettere in atto proteste di massa che avrebbero potuto portare a una nuova “Intifada”, ciò ha colpito i palestinesi come una forma di punizione collettiva per l’attacco contro la polizia israeliana. Simili azioni sono una violazione delle Convenzioni di Ginevra, a cui in simili circostanze Israele spesso attribuisce scarso valore.

Lunedì Israele ha riaperto l’Haram al-Sharif e in parte la Città Vecchia, benché la maggior parte delle porte nella zona siano rimaste chiuse. Ma ci sono stati cambiamenti radicali nelle procedure della sicurezza. Personale della sicurezza ha installato metal detector e videosorveglianza in modo unilaterale. Questa è stata una violazione del cosiddetto status quo, a cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha falsamente detto che Israele si stava attenendo.

In base a queste regole, qualunque cambiamento dei luoghi sacri deve essere accettato sia dalle autorità giordane (che sono i custodi dei luoghi musulmani) che israeliane. Ma Israele ha messo in pratica questi cambiamenti senza alcuna consultazione.

Se i britannici reprimessero i cattolici

Il risultato è stato un prolungato boicottaggio musulmano al luogo sacro. Nei tre giorni successivi i fedeli hanno pregato appena fuori dai nuovi metal detector installati, rifiutando di sottoporsi a questo atto avvilente. I musulmani vedono questo come una dissacrazione dello status sacro del luogo e un insulto alla loro fede.

Immaginate se i britannici, che hanno quella anglicana come religione di Stato, decidessero che i fedeli cattolici rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale e imponessero metal detector, videocamere e una massiccia presenza della polizia fuori dalla principale cattedrale cattolica. Ci sarebbe sicuramente una rivolta di massa, non solo tra i cattolici ma probabilmente anche tra gli anglicani.

La classe politica israeliana tratta il problema palestinese in modo schizofrenico. Rifiutano di vedere gli interessi dei palestinesi come parte dei più complessivi interessi israeliani. Essi si dividono in due classi diverse: gli interessi degli ebrei israeliani che sono di primaria importanza e tutto il resto che è isolato e secondario.

E’ così che Netanyahu, di fronte a una gravissima crisi di fiducia tra la minoranza palestinese-israeliana, può ignorare la questione e iniziare un viaggio di cinque giorni nelle capitali centro-europee (tra cui Budapest e Varsavia), i cui governi appoggiano massicciamente il suo programma islamofobo e contro i rifugiati.

I media israeliani vedono il viaggio come un disperato tentativo di uscire dal peso di un crescente scandalo che coinvolge la corruzione legata all’acquisto di sottomarini nucleari tedeschi per 10 miliardi di dollari.

Nessuno suggerisce che Netanyahu dovrebbe posticipare il suo viaggio per affrontare la crisi di Gerusalemme. Non c’è neppure un ripensamento nelle sue valutazioni politiche, nonostante il primo ministro in difficoltà abbia appena annunciato che avrebbe ridotto di un giorno la sua visita.

– Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato a denunciare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro appare su “Haaretz”, su “Forward”,” sul “Seattle Times” e sul “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006 “Tempo di denunciare apertamente” (Verso) e ha un altro saggio nella raccolta che sta per uscire: “Israele e Palestina: prospettive di statualità alternative” (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA periodo 4 – 17 luglio ( due settimane)

Il 14 luglio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, presso uno degli ingressi del Complesso Haram Ash Sharif / Monte del Tempio, tre palestinesi, cittadini di Israele, hanno sparato e ucciso due poliziotti israeliani; sono stati a loro volta uccisi nel successivo scontro a fuoco all’interno del Complesso.

Nell’episodio è rimasto ferito un altro poliziotto. I corpi degli attentatori sono stati trattenuti dalle autorità israeliane. Sono stati segnalati altri due speronamenti con auto contro soldati israeliani: il 9 luglio, all’entrata del villaggio di Tuqu’ (Betlemme) e il 17 luglio, nella zona H2 della città di Hebron. Il primo – che, a quanto riferito, ha comportato anche un tentativo di accoltellamento – si è concluso con il ferimento di un soldato israeliano e l’uccisione dell’aggressore, un palestinese di 23 anni; mentre il secondo si è concluso con il ferimento e l’arresto dell’attentatore.

Le misure adottate dalle autorità israeliane dopo l’attacco a Gerusalemme Est hanno provocato tensioni e scontri. Le forze israeliane hanno fatto irruzione nel Complesso Haram Ash Sharif / Monte del Tempio, secondo quanto riferito, alla ricerca di armi. Per la prima volta dal 1969, il Complesso è stato chiuso totalmente, anche per la preghiera del venerdì. Tutti gli ingressi alla Città Vecchia di Gerusalemme sono stati ugualmente bloccati, salvo che per i residenti. Il Complesso è stato riaperto il 16 luglio, a seguito dell’installazione, in alcune porte del Complesso, di metal-detector per il controllo della sicurezza. Le autorità palestinesi e il Muslim Waqf [fondazione pia che cura i luoghi religiosi musulmani] hanno protestato contro questa misura e hanno invitato la popolazione a non entrare nel Complesso fino a quando i metal-detector non verranno rimossi. Nella Città Vecchia ed in altre zone di Gerusalemme Est (in primo luogo Silwan) sono stati registrati numerosi alterchi e scontri tra palestinesi e forze israeliane che hanno portato al ferimento di 58 palestinesi e di tre poliziotti israeliani.

Quattro palestinesi, compreso un minore, sono stati uccisi con armi da fuoco dalle forze israeliane durante tre distinte operazioni di ricerca-arresto. Due dei morti, un 21enne ed un 17enne, sono stati uccisi il 12 luglio durante un’operazione di ricerca-arresto nel Campo Profughi di Jenin: secondo fonti israeliane, i due sono stati implicati in uno scontro a fuoco. Un 18enne è stato ucciso il 14 luglio nel Campo Profughi di Ad Duheisha (Betlemme), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane. L’altro morto, un uomo di 34 anni, è stato ucciso il 15 luglio nel villaggio di An Nabi Saleh (Ramallah), secondo quanto riferito, dopo essersi opposto all’arresto. Secondo le autorità israeliane, poche ore prima l’uomo era stato coinvolto in una sparatoria e, prima di essere colpito dai soldati, aveva estratto una pistola artigianale.

Il 7 luglio, un bimbo palestinese di un anno è morto per le lesioni riportate il 19 maggio 2017, a seguito di una grave inalazione di gas lacrimogeno. Durante l’episodio, verificatosi all’ingresso principale del villaggio di ‘Abud (Ramallah), le forze israeliane avevano sparato, verso i palestinesi che tiravano pietre, bombolette di gas lacrimogeno, una delle quali era caduta all’interno della casa del bambino.

Complessivamente, nei Territori palestinesi occupati, durante diversi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 102 palestinesi, di cui nove minori. Trenta dei ferimenti, tutti causati da armi da fuoco, sono avvenuti durante scontri scoppiati dopo operazioni di ricerca-arresto (incluse quelle sopra citate). Le lesioni restanti, in gran parte dovute a proiettili di gomma e ad inalazione di gas lacrimogeno, sono state registrate presso la recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza durante proteste e scontri ad esse correlati, durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso dei già citati scontri verificatisi a Gerusalemme Est. Uno di questi ultimi scontri, in Silwan, ha anche causato il ferimento, per inalazione di gas lacrimogeno, di tre coloni israeliani residenti nella zona.

Il 17 luglio, la polizia israeliana è entrata nell’ospedale Al Maqased a Gerusalemme Est e vi si è fermata per una notte alla ricerca di un paziente: un 19enne palestinese ferito con arma da fuoco lo stesso giorno, durante scontri verificatisi in città, nel quartiere Silwan. La polizia ha lasciato l’ospedale il giorno successivo, dopo che il padre del ferito si era impegnato a consegnarlo alla polizia israeliana all’atto della dimissione dall’ospedale.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno dieci occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, causando il ferimento di due pescatori palestinesi. In altri due casi, le forze israeliane hanno effettuato livellamenti del terreno e scavi all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale.

Nella Striscia di Gaza, nel contesto della precarietà delle fonti di approvvigionamento energetico, le interruzioni di elettricità continuano per 18-20 ore al giorno, con grave impatto sull’erogazione dei servizi e sui mezzi di sussistenza. A causa del malfunzionamento delle linee di alimentazione, l’approvvigionamento di energia elettrica dall’Egitto è rimasto bloccato durante la maggior parte del periodo di riferimento, mentre la Centrale Elettrica di Gaza, avendo esaurito le riserve di combustibile, è stata ferma per un giorno. Più di 108 milioni di litri di acque reflue, quasi totalmente non trattate a causa delle carenze di elettricità e di combustibile, vengono scaricate in mare ogni giorno. Secondo l’ultimo test condotto dal Dipartimento di Qualità dell’Acqua di Gaza, il 73% delle spiagge di Gaza sono contaminate, presentando alti rischi per l’ambiente e per la salute pubblica. A causa della contaminazione del mare, le autorità israeliane hanno emesso un divieto di balneazione in alcune spiagge del sud di Israele.

In Gerusalemme Est e in Area C, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 23 strutture palestinesi, sfollando 15 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 96. Sedici delle strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; sale così a 94 il numero totale di strutture demolite dall’inizio del 2017, contro le 85 demolite nello stesso periodo del 2016. Le altre sette strutture demolite in Area C erano nelle comunità di Khirbet Tell Al Himma, nella Valle del Giordano, e di Wadi Abu Hindi e Al Muntar, nel governatorato di Gerusalemme.

Nello stesso contesto, le autorità israeliane hanno rilasciato almeno 13 ordini di blocco lavori e demolizione nei confronti di 13 strutture finanziate da donatori e fornite come assistenza umanitaria a comunità palestinesi dell’Area C. Esse comprendevano 12 strutture residenziali in Jinba, una comunità nella zona di Massafer Yatta di Hebron, ed una scuola primaria in ‘Arab ar Ramadin al Janubi, nell’area chiusa dietro la Barriera (Qalqiliya) [è un’area inglobata da Israele tramite la costruzione della Barriera all’interno del territorio della Cisgiordania]. Inoltre, sono stati emessi otto ordini contro una parte di rete elettrica nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya) e contro 7 strutture in Jabal al Baba (Gerusalemme).

A quanto riferito, due palestinesi sono stati feriti e 40 alberi di proprietà palestinese sono stati incendiati in tre distinti episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani. Nella zona H2 (a controllo israeliano) della città di Hebron e nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), coloni israeliani hanno fisicamente aggredito e ferito due palestinesi. Agricoltori del villaggio di Burin (Nablus) hanno riferito che 40 alberi di proprietà palestinese sono stati incendiati da coloni israeliani di Yitzhar o di attigui insediamenti avamposti [gli insediamenti avanposti sono formalmente illegali anche per la legge israeliana]. Dall’inizio del 2017, almeno 1.400 alberi, soprattutto nella zona di Nablus, sono stati vandalizzati da coloni; nell’intero 2016 furono 361.

Media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani nei pressi di Betlemme, Hebron e Ramallah; in almeno uno degli episodi ci sono stati danni a veicoli.

Il Valico di Rafah, controllato dall’Egitto, durante il periodo di riferimento è rimasto eccezionalmente aperto, ma solo per l’ingresso di combustibile, soprattutto per la Centrale Elettrica, mentre è rimasto chiuso al transito delle persone. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. L’ultima volta in cui il valico venne aperto al transito di persone fu il 9 maggio. Nel 2017, fino ad ora, il valico è stato aperto per 16 giorni.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo i resoconti dei media, il 18 luglio, al raccordo stradale di Beit ‘Enoun (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati israeliani, ferendone due: è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane.

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Lieberman: neanche un solo rifugiato palestinese tornerà nella sua terra in Israele

23 giugno 2017,Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – In un discorso tenuto alla conferenza di Herzliya in Israele, in cui si discutono [periodicamente] le politiche nazionali del Paese, il ministro della Difesa di estrema destra Avigdor Lieberman ha negato la possibilità, per i palestinesi profughi dalla Palestina storica su cui è stato costruito Israele, di ritornare alle loro terre all’interno dei confini del 1967, diritto sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Non accetteremo il ritorno anche di un solo rifugiato all’interno dei confini del ‘67”, avrebbe detto Lieberman. “Non ci sarà mai più un altro primo ministro che faccia proposte ai palestinesi come ha fatto Ehud Olmert”, ha aggiunto, riferendosi ad una proposta di pace del 2008 avanzata dall’ex primo ministro.

Il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi è una delle principali richieste tra i palestinesi e i loro dirigenti. Essa rappresenta anche un potente legame simbolico con le loro terre e case da cui furono espulsi, in quanto molti palestinesi possiedono ancora le chiavi originali delle loro case occupate dallo Stato di Israele 69 anni fa.

Secondo i media israeliani, Lieberman ha anche detto che una conclusione del decennale conflitto israelo-palestinese “non risolverà i problemi – li peggiorerà”, ed ha sottolineato che Israele dovrebbe anzitutto “raggiungere un accordo regionale con gli Stati sunniti moderati e solo in seguito un accordo con i palestinesi.”

Ha poi messo in discussione anche la legittimità della presenza dei cittadini palestinesi al parlamento israeliano, la Knesset, evidenziando che il blocco politico ‘Lista Unita’ – che rappresenta nella Knesset partiti guidati da cittadini palestinesi di Israele – ha rifiutato di aderire alle ideologie sioniste.

L’unico luogo che non vogliono lasciare è Israele. Perché? Perché stanno bene qui”, ha detto, riferendosi ai palestinesi cittadini di Israele, che costituiscono circa il 20% della popolazione, le cui famiglie vivevano nelle terre della Palestina storica prima della creazione dello Stato di Israele.

Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese (PCBS), il 66% dei palestinesi che viveva nella Palestina del mandato britannico nel 1948 fu espulso dalla Palestina storica e scacciato dalle proprie case e terre durante il processo di creazione dello Stato di Israele, evento a cui i palestinesi si riferiscono come Nakba, o catastrofe.

Riguardo a Gaza, Lieberman avrebbe detto “Non credo che abbiamo bisogno di parlarne. Non finirà presto”, dopo aver definito la tremenda situazione nel territorio palestinese sotto assedio una “crisi interna ai palestinesi”, facendo eco alle dichiarazioni dell’ambasciatore USA alle Nazioni Unite Nikki Haley, che ha attribuito tutta la colpa della tragica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza assediata ad Hamas, ed assolto Israele da ogni responsabilità per la perdurante crisi.

Lieberman ha anche accusato il presidente palestinese Mahmoud Abbas di cercare di spingere Hamas alla guerra contro Israele esacerbando la crisi a Gaza con il taglio dei pagamenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per l’elettricità fornita a Gaza da Israele.

Abbas sta per incrementare i tagli e presto interromperà i pagamenti dei salari a Gaza ed il rifornimento di carburante alla Striscia, nell’ambito di una strategia su due fronti: colpire Hamas e spingerlo alla guerra con Israele”, avrebbe detto.

Le dichiarazioni di Lieberman sono state rilasciate nel bel mezzo di un tentativo di ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi da parte del destrorso Presidente USA Donald Trump.

Recentemente, mercoledì sera, nella città di Ramallah nella Cisgiordania occupata si è tenuto un incontro tra Abbas ed il genero e principale consigliere di Trump, Jared Kushner, per discutere di una ripresa dei colloqui di pace con Israele.

In quell’occasione il membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, Wasel Abu Yousif , in una dichiarazione ha detto che rilanciare un processo politico richiede certi requisiti basati sul diritto internazionale: deve essere fissato un limite di tempo per porre fine alla cinquantennale occupazione israeliana dei territori palestinesi, per stabilire uno Stato palestinese lungo i confini del 1967 con capitale Gerusalemme est, e i rifugiati palestinesi devono avere garanzia del diritto al ritorno alle case ed ai villaggi da cui sono stati espulsi.

Tuttavia i dirigenti israeliani sono stati espliciti nel respingere le pretese dell’ANP su Gerusalemme est, che è stata ufficialmente annessa da Israele nel 1980, e hanno ripetutamente proclamato la loro opposizione al ritorno dei rifugiati palestinesi o persino alla sospensione dell’espansione delle colonie israeliane illegali nei territori palestinesi occupati.

Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione della destra israeliana, ha anche presentato un disegno di legge al parlamento israeliano che impedirebbe ogni futura divisione di Gerusalemme, emendando la Legge Fondamentale israeliana su Gerusalemme in modo che sia necessaria l’approvazione di 80 dei 120 membri della Knesset per apportare cambiamenti alla legge, invece della maggioranza semplice.

Lo scopo di questa legge è di unificare Gerusalemme per sempre”, avrebbe detto Bennett, aggiungendo che la sua proposta di legge renderebbe “impossibile” dividere Gerusalemme.

Mentre l’ANP e la comunità internazionale non riconoscono la legittimità dell’occupazione di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania a partire dal 1967, molti palestinesi ritengono che tutta la Palestina storica sia stata occupata fin dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Un crescente numero di militanti ha criticato la soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese come insostenibile e non atta a consentire una pace durevole, stante l’esistente contesto politico, proponendo al suo posto uno Stato binazionale con eguali diritti per israeliani e palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




FPLP e Hamas rivendicano la responsabilità dell’attacco letale a Gerusalemme

17 giugno 2017Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – L’organizzazione di sinistra Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e il movimento Hamas hanno entrambi rivendicato la responsabilità per l’attacco omicida di venerdì nella Gerusalemme est occupata, mentre, secondo una dichiarazione rilasciata sabato dal gruppo, il FPLP ha definito gli attaccanti palestinesi uccisi “eroi” del popolo palestinese.

Tutti e tre i palestinesi, che erano armati di coltelli e di un’arma automatica, sono stati uccisi sul posto dalla polizia israeliana nei pressi della Porta di Damasco nella Città Vecchia di Gerusalemme. Un’ufficiale della polizia israeliana di 23 anni è stata uccisa nell’attacco, mentre un certo numero di persone presenti sul luogo sono rimaste ferite. Il ministero della Salute palestinese ha identificato gli attaccanti uccisi come Adel Hasan Ahmad Ankoush e Baraa Ibrahim Salih Taha, di18 anni, e Osama Ahmad Dahdouh, di 19.

Mentre i media israeliani hanno riportato che il cosiddetto Stato Islamico si è attribuito l’attacco, Hamas ha smentito la rivendicazione ed ha affermato che riconoscere l’attribuzione dell’attacco al gruppo è stato un tentativo di confondere la situazione. L’affermazione di Hamas ha confermato che uno degli attaccanti era un membro del proprio movimento, mentre gli altri due appartenevano al FPLP.

In passato lo Stato Islamico ha tentato di attribuirsi la responsabilità di attacchi palestinesi, in particolare facendovi menzione sul periodico on line di propaganda del gruppo “Dabiq”. Tuttavia i dirigenti palestinesi hanno rifiutato ogni correlazione tra quello che considerano una parte della legittima resistenza palestinese contro la colonizzazione israeliana e il “terrorismo” ispirato dallo Stato Islamico.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri nella dichiarazione ha affermato che l’attacco di venerdì è parte della resistenza popolare palestinese contro l’ormai cinquantennale occupazione israeliana e una “reazione naturale ai crimini dell’occupazione”.

Nel contempo il FPLP ha lodato gli attaccanti come “eroi” in un comunicato rilasciato dal gruppo e ha affermato che Baraa Salih Taha e Osama Ahmad Dahdouh erano membri dell’organizzazione.

Secondo il FPLP i tre avevano in precedenza partecipato al lancio di bottiglie molotov e pietre per opporsi “agli attacchi delle forze di occupazione e dei coloni,” lungo le strade di collegamento israeliane che portano alla colonia illegale israeliana di Halamish, che è adiacente alla loro città natale, Deir Abu Mashal, nel distretto di Ramallah, nella zona centrale della Cisgiordania occupata.

Il FPLP ha affermato che in seguito a ciò nel 2015 Baraa ha passato parecchi mesi in prigione in Israele, mentre Osama era stato in carcere per un anno nel 2014.

Il gruppo ha definito l’attacco un’ “operazione eroica” e ha affermato che è arrivato in un “momento critico per difendere la resistenza palestinese”.

Gli attaccanti erano “eroi del popolo palestinese che hanno agito per difendere i diritti del popolo palestinese con un coraggio senza pari, eludendo il controllo sionista su Gerusalemme per dirigere il fuoco della loro rabbia contro le forze in armi ed i soldati dell’occupazione,” ha sostenuto il gruppo, e ha aggiunto che “la resistenza è continua, radicata nella patria e a Gerusalemme, l’eterna capitale della Palestina.”

Il FPLP aggiunge che l’attacco manda anche un “messaggio forte, diretto” ai “leader sconfitti dell’Autorità Nazionale Palestinese, alle loro politiche e alla loro strategia”, aggiungendo che l’attacco ha evidenziato che la resistenza sta continuando ed è l’unica via per sconfiggere l’occupante.”

Nel contempo sabato i rappresentanti delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea hanno entrambi condannato l’attacco.

L’inviato della Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente Nickolay Mladenov in una dichiarazione ha affermato che ” simili atti di terrorismo devono essere nettamente condannati da tutti. Sono inorridito dal fatto che ancora una volta qualcuno trovi opportuno giustificare simili attacchi in quanto ‘eroici’. Sono inaccettabili e tendono a trascinare tutti verso un nuovo ciclo di violenze.”

L’ambasciatore dell’UE in Israele Lars Faaborg-Andersen ha affermato su Twitter: “Condanno gli attacchi terroristici di ieri a Gerusalemme, in cui è stato ucciso Hadas Malka. Le mie condoglianze alla sua famiglia e ai suoi colleghi.”

Secondo quanto riferito, l’ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite Danny Danon ha anche condannato l’Autorità Nazionale Palestinese per aver incoraggiato gli attacchi attraverso il discusso programma di compensazione ai “martiri”, che fornisce sussidi finanziari alle famiglie dei palestinesi imprigionati, feriti o uccisi dalle forze israeliane.

“La dirigenza palestinese continua a dare il suo appoggio alla pace, anche se paga mensilmente i terroristi ed educa i propri bambini all’odio. La comunità internazionale deve chiedere che i palestinesi mettano fine ai loro intollerabili atti di violenza,” ha affermato.

In base alla documentazione di Ma’an, 33 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni dall’inizio del 2017, mentre durante lo stesso periodo 8 israeliani sono stati uccisi dai palestinesi.

Mentre i dirigenti israeliani spesso indicano l’ “incitamento” palestinese come causa di questi attacchi, e spesso tentano di metterli in relazione con la cosiddetta “guerra al terrorismo”, i palestinesi hanno al contrario citato come le cause principali di tali attacchi le frustrazioni quotidiane e la continua violenza militare israeliana imposta dall’occupazione israeliana del territorio palestinese.

In seguito all’attacco di venerdì le forze israeliane hanno completamente bloccato il villaggio cisgiordano di Deir Abu Mashal ed hanno fatto irruzione nelle case delle famiglie dei palestinesi uccisi, avvertendole che le loro abitazioni saranno presto demolite – una politica israeliana utilizzata contro famiglie i cui membri hanno commesso attacchi e che i gruppi per i diritti umani hanno giudicato una forma di “punizione collettiva”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha revocato tutti i permessi concessi ai palestinesi per entrare a Gerusalemme e in Israele per il mese santo musulmano del Ramadan.

Numerosi altri palestinesi sono rimasti feriti e detenuti dalle forze israeliane in seguito all’attacco, in quanto, secondo alcuni testimoni, forze israeliane avrebbero “aggredito” palestinesi e sparato proiettili veri “a casaccio” nella zona.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Quanti coloni vivono davvero in Cisgiordania? Lo rivela un’inchiesta di Haaretz

Yotam Berger – 15 giugno 2017Haaretz

La popolazione israeliana in Cisgiordania è cresciuta di 330.000 persone ■ Le colonie dal 1967 ad oggi – un’analisi approfondita

La popolazione ebraica in Cisgiordania è aumentata di oltre 330.000 persone e negli ultimi trent’anni sono stati edificati otto insediamenti in Cisgiordania. Haaretz ha scoperto che attualmente in Cisgiordania vivono più di 380.000 coloni, oltre il 40% dei quali fuori dai blocchi di insediamenti.

Negli ultimi anni parecchi politici si sono uniti ai dirigenti dei coloni parlando dell’obiettivo di insediare un milione di israeliani in Cisgiordania come un’opzione realistica. Ritengono che, se questo accadesse, non sarebbe più possibile dividere la zona e disegnare una mappa per due Stati, uno israeliano e l’altro palestinese. Sostengono che un’evacuazione di quelle dimensioni diventerebbe impossibile anche se fosse al potere la sinistra.

Di fatto già oggi sarebbe difficile tracciare una simile mappa, perché negli ultimi 50 anni le colonie si sono sparse ovunque nei territori occupati, per cui circa 170.000 coloni vivono al di fuori dei blocchi di insediamenti.

I dati dell’Ufficio Centrale di Statistica mostrano che il 44% dei circa 380.000 coloni della Cisgiordania – esclusa Gerusalemme est – vive al di fuori dei blocchi.

Una semplice occhiata a una mappa del 1968 mostra cinque colonie scarsamente popolate oltre la Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima del ’67, ndt.]. La loro fondazione fu sponsorizzata dal Partito Laburista, che decise di colonizzare la Cisgiordania, secondo qualcuno per ragioni di sicurezza. Comunque Pinchas Wallerstein, l’ex-capo del consiglio regionale di Mateh Binyamin e uno dei leader del movimento dei coloni “Gush Emunim”, è convinto che negli anni precedenti al sovvertimento politico del 1977 i coloni hanno accumulato un notevole debito nei confronti del partito Laburista.

Tutte le fasi dello sviluppo di Ariel furono approvate dal partito Laburista,” afferma. “La strada che attraversa la Samaria [parte settentrionale della Cisgiordania secondo la definizione israeliana, ndt.], Givat Zeev, Ma’aleh Adumim, Beit Horon –tutto è opera dei laburisti.”

Il partito Laburista può aver iniziato la costruzione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ma lo spettacolare incremento del numero dei coloni iniziò dopo che il Likud, guidato da Menachem Begin, prese il potere. Subito dopo le elezioni del 1977, c’erano 38 insediamenti in Cisgiordania con un totale di 1.900 residenti. Un decennio dopo la popolazione dei coloni era di quasi 50.000- [che vivevano] in più di 100 insediamenti.

Anche le dimensioni e le caratteristiche cambiarono sotto i governi della destra.

“Prima che il Likud salisse al potere c’era solo una colonia urbana – Kiryat Arba [colonia di fondamentalisti nazional-religiosi nei pressi di Hebron, ndt],” afferma il professor Hillel Cohen, direttore del “Centro Cherrick per lo Studio del Sionismo” all’Università Ebraica. Negli anni successivi, sostiene, furono costruite cittadine in tutta la Cisgiordania.

“E’ stata una politica del governo aumentare il numero di ebrei nei territori [occupati]. Fecero piani quinquennali, decennali, parlarono di come raggiungere 100.000, poi 300.000 e poi mezzo milione (di coloni),” sostiene.

Cohen dice che Ariel Sharon giocò un ruolo fondamentale nell’espansione delle colonie in Cisgiordania. “Per lui la ragione che stava dietro l’espansione delle colonie era escludere la possibilità della costituzione di uno Stato palestinese,” sostiene.

Negli anni 1977-1984 il governo fece tutto quanto in suo potere per espandere le colonie, ha scritto la professoressa Miriam Billig dell’università di Ariel in un articolo intitolato “L’ideologia e la creazione delle colonie in Giudea e Samaria” (2008).

Sostiene che lo slancio si ridusse quando venne formato il governo di unità nazionale, a metà degli anni ’80. Quando Yitzhak Rabin formò il suo governo nel 1992 lo Stato smise di costruire nuove colonie. Ma, afferma, non pochi insediamenti erano già stati costruiti e molti israeliani vi affluirono.

Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 400.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde.

Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali. Secondo “Peace Now” [organizzazione pacifista israeliana, ndt.], ci sono circa 97 avamposti illegali in tutta la Cisgiordania. Hagit Ofran, capo del progetto “Settlement Watch” [Osservatorio degli insediamenti] del movimento [dei coloni], afferma che sono abitati da parecchie migliaia di coloni.

La componente di più rapido incremento demografico dei coloni: gli ultra-ortodossi

A differenza dell’impressione che i coloni e la “gioventù delle colline” [gruppi di giovani estremisti molto violenti che fondano avamposti illegali, ndt.] siano fatti della stessa pasta dei “nazional-religiosi” [gruppi fondamentalisti religiosi che sostengono la “redenzione” di tutte le terre che dio avrebbe donato agli ebrei, ndt.], la popolazione [ebraica] in Cisgiordania è diversificata. Nel 2015 solo 100.000 coloni vivevano in comunità prevalentemente nazional-religiose, mentre 164.000 vivevano in comunità laiche o miste.

Ma i coloni devono il loro rapido aumento alla popolazione ultra-ortodossa [che si dedica esclusivamente allo studio dei testi sacri e alla preghiera, ndt.], che non attraversa normalmente la Linea Verde per ragioni ideologiche.

“E’ una combinazione di necessità e della decisione dei dirigenti della comunità” afferma Cohen. “La scarsità di abitazioni, sia a Bnei Brak che a Gerusalemme [le due città in cui si concentrano gli ultra-ortodossi, ndt.], ha aperto la strada alla creazione di comunità chassidiche (in Cisgiordania).

“All’inizio pochi ultra-ortodossi si sono stabiliti a Immanuel [colonia israeliana in Cisgiordania, ndt.],” afferma Wallerstein. “Ma questa cittadina da sola non ha risolto i loro problemi abitativi. Il criterio della comunità ultra-ortodossa per decidere dove vivere è la vicinanza con la città da cui provengono.” Così nel corso degli anni sono state fondate grandi colonie di ultra-ortodossi, come Beitar Illit per i coloni provenienti da Gerusalemme e Modi’in Illit per quelli provenienti da Bnei Brak. In totale, nel 2015 circa 118.000 coloni stavano vivendo in colonie ultra-ortodosse.

Quell’anno circa il 65% dei coloni abitava in insediamenti urbani. La popolazione di quelle cittadine è aumentata principalmente negli anni ’90 e all’inizio dei 2000.

Oltre alle politiche del governo per espandere le cittadine in Cisgiordania, vi hanno contribuito anche nuovi immigrati, soprattutto dall’ex-Unione Sovietica.

Cohen afferma: “Nuovi immigrati dall’ex-Unione Sovietica si sono stabiliti ad Ariel ed a Ma’aleh Adumim, e alcuni russi anche a Kiryat Arba. Qualcuno è arrivato in Cisgiordania più tardi, dopo essersi inserito nella classe media.”

Molti coloni non si sono spostati in Cisgiordania per ragioni ideologiche, ma per migliorare le proprie condizioni di vita, dato che lì i prezzi delle case sono più bassi. La storica Idith Zertal, co-autrice con Akiva Eldar del libro “Lords of the Land” [“Signori della terra”, non tradotto in italiano, ndt.] crede che questa descrizione sia adeguata soprattutto per gli anni ’87-’97.

“E’ un periodo in cui molti si sono spostati verso le colonie per ragioni economiche, molto meno per ragioni ideologiche. Ciò spiega anche l’incremento di abitanti nelle cittadine – le persone che cercavano un appartamento sono andate nelle cittadine.”

Sostiene che le città della Cisgiordania sono state costruite su terreni vicini a centri urbani all’interno della Linea Verde [cioè di Israele]. “Per esempio Ma’aleh Adumim è un’estensione di Gerusalemme, ” afferma. “Una persona che ha un appartamento di 50-60 mq a Gerusalemme può comprarne uno quasi tre volte più grande per meno danaro di quello che pagherebbe per quello più piccolo. Penso che potrebbe essere la ragione principale per un incremento così intenso.”

D’altra parte Billig ritiene che questa spiegazione sia troppo semplice. “So che c’è una tendenza a sostenere che molti coloni vogliano migliorare le proprie condizioni abitative, ma si tratta di entrambe le cose. Alcuni che vivevano in appartamenti piccoli si sono spostati in altri più grandi, ma gran parte di loro ha fatto il contrario,” afferma.

Oggi la costruzione delle colonie è diversa, dice: “Oggi stanno costruendo appartamenti più piccoli, di cui c’è una grande domanda.”

“I coloni veterani ideologicamente estremisti sono oggi molto pochi, non penso che siano più del 5%,” sostiene Zertal.”Al contrario, è cresciuto un gruppo ideologicamente diverso, composto dai figli e dai nipoti del vecchio gruppo. Oggi è l’avanguardia e sono in molti.”

“I primi coloni non hanno mai parlato il linguaggio della “gioventù delle colline” – che spiega tutto. I veterani sapevano come giocare sul piano politico e manipolare il sistema politico. I “giovani delle colline” non hanno rapporti con quel sistema, né fanno alcun ragionamento politico. Vivono nella loro bolla messianica,” afferma.

Uno dei cambiamenti importanti in Cisgiordania negli ultimi 15 anni è stata la costruzione del muro di separazione. Billig afferma che, prima che venisse costruito, i coloni temevano che avrebbe impedito a nuovi coloni di arrivare. Ma nei fatti la barriera non sembra averne scoraggiati molti.

“La barriera ha un’influenza molto marginale,” dice. “In un certo momento ha ridotto i prezzi, ma poi sono di nuovo risaliti. A lungo termine, non vedo niente di veramente significativo.”

Ofran è d’accordo: “Il numero di coloni oltre la barriera è aumentato dopo che è stata costruita, ma questo non c’entra niente con il muro. La calma ha consentito alla gente di tornare a quei luoghi, così come la politica di Netanyahu di approvare nuove costruzioni nelle colonie.”

Nel 2015 circa 214.000 coloni vivevano nei blocchi di insediamenti, mentre 170.000 vivevano in 106 colonie al di fuori dei blocchi.

Modi’in, una cittadina totalmente all’interno della Linea Verde, è diventata una specie di “blocco centrale” per colonie come Nili e Hashmona’im in Cisgiordania.

“Negli ultimi anni Modi’in è diventata il loro centro urbano,” dice Cohen.

L’Ufficio Centrale di Statistica non ha mai fatto un elenco dettagliato del numero di coloni che vivono in ogni insediamento. Negli anni ’60 e ’70 alcune colonie sono state considerate troppo piccole per farvi un censimento, e si presumeva che avessero meno di 50 abitanti. Neppure gli insediamenti illegali o non autorizzati apparivano nei censimenti dell’ufficio finché non venivano legalizzati.

(traduzione di Amedeo Rossi)