La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme

13 aprile 2016 -* Al-Shabaka e Ma’an News

 

Di : Munir Nuseibah

Israele è esperto nel creare nuovi rifugiati e sfollati interni palestinesi, approfittando di ogni opportunità per farlo e sfruttando crisi momentanee per promuovere misure permanenti.

Ora sta utilizzando le recenti violenze nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) per introdurre un nuovo cambiamento nella sua politica di lunga data di revoca del permesso di residenza per espellere i palestinesi da Gerusalemme est.

Questo nuovo concetto (“tradimento della fedeltà” allo Stato di Israele) è ora utilizzato per revocare la residenza ai palestinesi gerosolimitani, oltre alla possibile demolizione delle loro case. Il governo israeliano sta presentando queste azioni come misure di normale applicazione della legge, ma alcuni studi mostrano che sono parte della sua continua politica di espulsioni forzate, con lo scopo di produrre cambiamenti demografici a lungo termine e di garantire una schiacciante maggioranza ebraica a Gerusalemme. Il sistema giudiziario israeliano e i comandi dell’esercito fin dal 1948 [anno di nascita dello Stato di Israele. Ndtr.] hanno utilizzato una serie di metodi per ridurre al minimo il numero di palestinesi nelle aree cadute sotto controllo israeliano, come ho descritto in uno dei primi editoriali di Al-Shabaka (“Decenni di espulsione dei palestinesi: come Israele lo ha fatto”).

Queste misure hanno incluso l’uso della forza delle armi, restrizioni allo status civile dei palestinesi, restrizioni al diritto di costruire ed espropriazione delle proprietà (soprattutto beni immobili), tra gli altri, per obbligare la maggioranza della popolazione palestinese a diventare rifugiata o sfollata interna. L’ultimo cambiamento israeliano rappresenta un punto di svolta che probabilmente produrrà migliaia di nuove vittime del trasferimento di popolazione. Si tratta della terza svolta normativa di questo tipo nei tentativi israeliani di “sfoltire” la popolazione palestinese di Gerusalemme, come si discuterà più sotto. Lo spostamento forzato dei palestinesi è parte del sistema giudiziario israeliano: deve essere compreso e avversato in modo più deciso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla comunità internazionale come è stato fatto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani in una nuova campagna.

I primi due punti di svolta: “Il centro della vita”

La continua politica di Israele di revoca della residenza si basa sulla posizione sempre più esplicita che i palestinesi a Gerusalemme non sono altro che immigrati stranieri che possono essere facilmente spostati fuori da quello che Israele considera il suo territorio legittimo. Dopo che Israele ha occupato e annesso illegalmente Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana del 1967, ha considerato i gerosolimitani palestinesi “residenti” in Israele, senza diritto di voto per il parlamento israeliano, in modo da evitare di aggiungere un notevole numero di non-ebrei tra i suoi cittadini. Con il passare del tempo, il ministero dell’Interno, con il consenso della Corte Suprema israeliana, ha sviluppato sistemi creativi per revocare questo precario status. In seguito a ciò, dal 1967 più di 14.000 residenze a Gerusalemme sono state revocate, molte delle quali dopo il cosiddetto processo di pace iniziato nei primi anni ’90.

I governi israeliani che si sono succeduti hanno accuratamente scelto la tempistica di nuove modifiche normative per ampliare le possibilità di revoca della residenza, prendendo a pretesto crisi puntuali per farlo. Due importanti casi aiutano a definire i pilastri dell’attuale sistema di revoca della residenza. Il primo è stato il caso dell’attivista pacifista Mubarak Awad, andato negli Stati Uniti nel 1970, dove si sposò con una cittadini americana. Awad era attivo nel promuovere la resistenza nonviolenta prima e durante la Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese tra il 1987 e il 1991. Nel 1987 fece domanda al ministero dell’Interno per rinnovare la propria carta d’identità come residente a Gerusalemme solo per apprendere che la sua residenza israeliana era stata revocata in seguito al fatto che viveva negli USA ed aveva ottenuto la cittadinanza americana. Con il senno di poi, ciò è particolarmente ironico ora che circa il 15% dei coloni che espellono i palestinesi nei TPO sono ebrei con doppia cittadinanza americana e israeliana.

Di conseguenza Awad presentò una petizione alla Corte Suprema israeliana in cui spiegava che il suo diritto di vivere nella sua città natale non avrebbe dovuto essere compromesso per il fatto di trovarsi all’estero. Egli affermò che i palestinesi gerosolimitani dovrebbero avere uno status irrevocabile di residenti, dal momento che non possono essere considerati semplici immigrati in Israele. La Corte Suprema rigettò i suoi argomenti e approvò la revoca della sua residenza. Con una sentenza che ha dell’incredibile, la Corte affermò che le sue idee politiche erano state un fattore che il ministero dell’Interno aveva preso in considerazione quando aveva deciso di revocare la sua residenza.

Per dare un fondamento a questo argomento, il ministero aveva allegato il parere di un ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shabak), con lo pseudonimo di “Yossi”, che affermava che Awad sosteneva la soluzione di uno Stato unico e invocava la disobbedienza civile. Benché la Corte non abbia fondato esplicitamente la sua decisione su questo parere, vi fece frequentemente riferimento nella sua sentenza. Creando un nuovo precedente, la Corte decise che lo status di residente potesse essere negato quando il “centro della vita” di un residente non era più in Israele. Al di là del dramma personale di Awad, ciò che è particolarmente importante è che questo precedente legale sia stato in seguito utilizzato per negare la residenza a migliaia di gerosolimitani.

Nel 1995 la Corte Suprema ha emesso un altro verdetto cardine contro Fathiyya Shiqaqi, la moglie di Fathi Shiqaqi, fondatore del movimento della Jihad Islamica. Residente a Gerusalemme, Shiqaqi è stata obbligata ad andarsene con suo marito, deportato in Siria nel 1988. Sei anni dopo è tornata a Gerusalemme ed ha cercato di rinnovare la sua carta d’identità e di registrare i suoi tre figli. Il ministero dell’Interno ha rigettato la sua richiesta e le ha ordinato di lasciare il Paese. Da allora Israele ha revocato la residenza in base ad un’ordinanza scritta dal ministero se il residente era stato assente per sette anni di fila o aveva ottenuto una residenza permanente all’estero o un’altra cittadinanza. Benché il caso di Shiqaqi non rispecchiasse queste condizioni, la Corte Suprema ha di nuovo approvato la revoca della sua residenza, in quanto Shiqaqi viveva all’estero con suo marito e il “centro della sua vita” non era più in Israele.

Dopo questo secondo punto di svolta migliaia di palestinesi residenti che vivevano fuori dai confini municipali di Gerusalemme in Cisgiordania, a Gaza o all’estero hanno iniziato a perdere lo status di residenti. Questo alto numero di vittime di espulsioni forzate non era necessariamente coinvolto in una qualunque attività politica. La revoca della residenza è dipesa esclusivamente dal criterio del “centro della vita”.

Questi due importanti casi sembra siano stati scelti a proposito. Nella società ebreo-israeliana, molto pochi si identificherebbero nella difficile condizione di un accademico che sostiene la disobbedienza civile o della moglie di uno jihadista islamista. Tuttavia, una volta stabiliti questi precedenti, tutta la popolazione palestinese di Gerusalemme è diventata a rischio.

Il terzo punto di svolta: “ Tradimento della fedeltà”

L’ultimo punto di svolta nella politica israeliana di revoca della residenza ha le sue radici nella revoca da parte del ministero israeliano degli Interni di tre membri eletti nel Congresso Legislativo Palestinese (CLP), così come del ministro palestinese degli Affari di Gerusalemme, nel 2006. Il ministero sosteneva che avevano violato il loro “impegno minimo di lealtà verso lo Stato di Israele”, in seguito alla loro elezione nel CLP e la loro appartenenza ad Hamas. Le organizzazioni dei diritti umani israeliane e palestinesi si sono indignate per l’introduzione della “fedeltà” come nuovo criterio legale di stato civile e la questione è rimasta in sospeso presso la Corte Suprema fin dal 2006. Se la Corte Suprema dovesse approvare questa misura, le autorità israeliane avrebbero a disposizione un nuovo pretesto per l’espulsione forzata, come ha affermato Hasan Jabarin, direttore dell’organizzazione per i diritti umani “Adalah” di Haifa.

Tuttavia il recente scoppio di violenza nei TPO ha fornito ad Israele l’opportunità di agire senza dover aspettare il verdetto della Corte Suprema. Già il 14 ottobre 2015 il “Gabinetto di Sicurezza” israeliano ha emesso una decisione secondo cui “i diritti di residenza permanente di terroristi saranno revocati,” senza dare una definizione di terrorista. Una settimana dopo, il ministero dell’Interno ha notificato a quattro palestinesi, sospettati di aver commesso azioni violente contro cittadini israeliani (tre dei quali accusati di aver lanciato pietre), che il ministero aveva preso in considerazione l’adozione del potere discrezionale per revocare la loro residenza perché le azioni criminali di cui erano accusati dimostravano una “chiara violazione della fedeltà” verso lo Stato di Israele. Nel gennaio 2016 il ministero ha emesso una decisione ufficiale di revoca della residenza contro i quattro gerosolimitani.

Quindi non è più sufficiente per i palestinesi di Gerusalemme vivere effettivamente a Gerusalemme e conservare il “centro della propria vita” in città. Dai gerosolimitani palestinesi ci si aspetta che rispettino il nuovo criterio indefinito di “fedeltà”. L’organizzazione per i diritti umani israeliana HaMoked, con sede a Gerusalemme, ha contestato questa nuova politica presso la Corte Suprema israeliana. Tuttavia la Corte non ha ancora preso una decisione sul caso. Allo stesso modo è ancora pendente il caso dei quattro leader politici palestinesi la cui residenza è stata revocata nel 2006.

Nessuno sa ancora quanti permessi di residenza sono stati revocati in base al relativamente nuovo criterio della “fedeltà”, ma almeno alcuni altri casi sono in attesa di sentenza alla Corte Suprema. HaMoked ha presentato una richiesta sulla base della legge sulla libertà d’informazione per obbligare il ministero dell’Interno a rivelare questa informazione.

Vale la pena ricordare che le leggi umanitarie internazionali proibiscono la pretesa di fedeltà di una popolazione sotto occupazione. Quindi, giustificare una revoca della residenza in base alla “violazione della fedeltà” è contrario alle leggi internazionali. Oltretutto non ci sono giustificazioni per revocare la residenza di chiunque sia sospettato di un atto di violenza perché il sistema penale israeliano punisce già ogni atto di violenza – così come molti atti non violenti – commessi dai palestinesi.

Da una prospettiva legale e storica più ampia, Israele dovrebbe ricordare che gli spostamenti forzati sono un crimine di guerra se messi in atto in un territorio occupato e un crimine contro l’umanità se molto diffusi o sistematici. Le ultime misure del governo israeliano unite a quelle già esistenti potrebbero configurare il criterio dello spostamento sistematico come equivalente a un crimine contro l’umanità.

Resistere alla politica di espulsione forzata

La lotta contro la revoca della residenza a Gerusalemme ha per lo più avuto luogo nelle corti di giustizia israeliane e finora è stata, in generale, persa. I tentativi di parecchie organizzazioni dei diritti umani palestinesi ed israeliane di sostenere presso la Corte Suprema israeliana che i gerosolimitani non sono immigrati ma nativi che hanno un diritto incondizionato di vivere nella loro città sono falliti. La Corte Suprema israeliana ha sostenuto che il diritto dei gerosolimitani palestinesi di vivere a Gerusalemme est dovrebbe continuare ad essere in mano al potere discrezionale del ministero dell’Interno. L’attuale governo di destra israeliano sta utilizzando questa discrezionalità per promuovere rapidamente l’espulsione di più palestinesi possibile da Gerusalemme.

Inoltre non ci sono contromisure chiare a livello diplomatico ed internazionale contro le azioni punitive di Israele. L’OLP ha ottenuto il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU e quindi ha aderito ad una serie di importanti convenzioni sui diritti umani e sul diritto umanitario internazionale, compreso lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). Tuttavia, non è ancora chiaro quale uso lo Stato di Palestina intenda fare di questo status e di queste convenzioni per resistere alle revoche della residenza a Gerusalemme.

La maggior parte dei ricorsi dopo che la Palestina ha aderito alla CPI sono stati centrati sui crimini che hanno avuto luogo durante la guerra contro Gaza, che ovviamente è importante. Tuttavia vorrei sostenere che la questione delle espulsioni forzate non lo è di meno. A Gerusalemme ed in altre parti della Cisgiordania le espulsioni forzate sono parte del regime giuridico israeliano. Sono state implementate attraverso leggi israeliane, ordinanze amministrative e decisioni dei tribunali. Nel caso specifico di Gerusalemme, le istituzioni giuridiche e amministrative israeliane non prendono nemmeno in considerazione gli argomenti delle leggi internazionali perché Israele considera Gerusalemme israeliana e non un territorio occupato.

Israele deve ricevere il forte messaggio dalle istituzioni giuridiche internazionali e dagli ambienti diplomatici che, nonostante la definizione israeliana, la comunità internazionale considera Gerusalemme occupata e il trasferimento dei suoi civili un reato penale.

Di fronte a questa situazione, varie organizzazione palestinesi dei diritti umani di Gerusalemme est e altrove in Cisgiordania (Al-Quds University’s Community Action Center, St. Yves, Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC), the Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, Badil, Al-Haq e Al-Quds Human Rights Clinic) hanno lanciato recentemente una campagna per resistere alla nuova politica israeliana di espulsioni contro i gerosolimitani. La campagna è iniziata portando questo problema davanti al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU per sollevarlo davanti alla diplomazia internazionale ed ai professionisti dei diritti umani.

La campagna si è concentrata sul porre termine alla revoca punitiva della residenza perché non è ancora stata approvata dalla Corte Suprema israeliana, rendendo questo provvedimento più facile da impugnare. Se, tuttavia, la Corte decidesse che questa politica è legittima, essa verrà inserita nel sistema giuridico israeliano e molto probabilmente espellerà molti altri palestinesi da Gerusalemme.

Istituzioni pubbliche palestinesi, così come organizzazioni della società civile, dovrebbero lavorare duramente contro le politiche sistematiche di Israele di espulsioni forzate. Mentre i palestinesi in generale hanno la sensazione che le leggi internazionali non siano state molto utili alla causa palestinese, questa non dovrebbe essere portata come scusa per abbandonare la battaglia legale. Questa lotta non dovrebbe riguardare solo le istituzioni legali di Israele e le loro politiche discriminatorie, ma dovrebbe anche essere intrapresa a livello internazionale. La stessa Corte Suprema israeliana potrebbe riconsiderare il suo sostegno alle politiche discriminatorie se avesse la sensazione di essere sotto esame.

Rimane da vedere se la pressione della campagna locale palestinese ribalterà la politica di revoca punitiva della residenza. Ciò che è certo, comunque, è che i diritti dei palestinesi a Gerusalemme meritano molta maggiore attenzione e che il problema della revoca della residenza a Gerusalemme deve essere all’ordine del giorno. Avvocati palestinesi, organizzazioni dei diritti umani e istituzioni devono approfittare dell’occasione offerta dall’adesione della Palestina ad una serie di trattati sui diritti umani per incrementare la loro pressione sulla comunità internazionale. E’ ora che la comunità internazionale rispetti i propri obblighi di prendere tutte le misure a disposizione per porre fine al crimine delle espulsioni forzate, obblighi i responsabili a rendere conto di tali politiche e inverta i loro effetti indennizzando le vittime, compreso il loro diritto di tornare nelle proprie case. Centrare le campagne sui diritti legati ad un singolo problema può essere più efficace da un punto di vista legale che impostare campagne complessive che intendano mettere in evidenza molteplici ingiustizie.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

*Al-Shabaka è un’organizzazione no-profit indipendente il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo articolo di fondo è stato scritto dal redattore politico di al-Shabaka Munir Nuseibah, avvocato dei diritti umani e docente dell’università Al-Quds di Gerusalemme. E’ professore presso la facoltà di legge della Al Quds, direttore e cofondatore della Al-Quds Human Rights Clinic e direttore del Centro per l’Azione Comunitaria di Gerusalemme.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha della settimana 5- 11 aprile 2016

Per la seconda settimana consecutiva non sono stati registrati morti palestinesi o israeliani nel contesto di aggressioni o scontri.

Dal mese di ottobre 2015, quando ebbe inizio l’esplosione di violenza, questo è il periodo più lungo senza morti.

Nei Territori palestinesi occupati le forze israeliane hanno ferito 104 palestinesi, tra cui 17 minori; la maggior parte (82%) in scontri verificatisi nel corso di manifestazioni. Il maggior numero di ferimenti (45) registrato nel corso di un singolo episodio è avvenuto nel villaggio di Duma (Nablus), causati dalle forze israeliane intervenute negli scontri tra palestinesi e coloni israeliani che, secondo quanto riferito, marciavano verso il villaggio per esprimere solidarietà al colono israeliano sotto processo per l’attacco incendiario che, nel luglio 2015, provocò la morte di tre membri di una famiglia palestinese.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 37 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco ferendo un pescatore e un contadino; altri sei palestinesi sono stati arrestati. In almeno sei occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno spianato terreni ed effettuato scavi. L’8 aprile, un veicolo delle forze israeliane che era entrato in un’area ad est della città di Gaza, ha subito danni a seguito dell’esplosione di un ordigno. Il 10 aprile, nei pressi della recinzione perimetrale che circonda Gaza, vi è stato uno scambio di colpi tra palestinesi e forze israeliane; non sono state segnalate vittime.

In tre episodi verificatisi a Gerusalemme Est e Nablus sono rimasti feriti tre israeliani, tra cui una donna. A Gerusalemme Est e nei governatorati di Betlemme ed Hebron, il veicolo di un colono israeliano, un autobus e una carrozza della metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni per lancio di pietre da parte di palestinesi. Il 5 aprile, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in seguito ad un episodio di lancio di pietre, coloni israeliani hanno effettuato una dimostrazione, nel corso della quale, attraverso altoparlanti, hanno invitato i negozianti a chiudere i loro esercizi. Le forze israeliane hanno poi costretto negozi e botteghe a chiudere per diverse ore.

L’Avvocato Generale Militare di Israele (MAG) ha annunciato la chiusura delle indagini nei confronti di un alto ufficiale che, il 3 luglio 2015, sparò e uccise un 17enne palestinese, sospettato del lancio di pietre contro il suo veicolo. Il MAG ha accolto il ricorso dell’ufficiale che, secondo i media, mirò alle gambe del giovane ma, per errore, lo colpì nella parte superiore del corpo. Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha condannato la decisione e ha espresso preoccupazione per la “impunità” riguardante l’uccisione di palestinesi.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 ei 25 anni di età attraverso due posti di blocco che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron sotto controllo israeliano. Questo provvedimento, in vigore dal 22 marzo, si aggiunge ad altre rigide restrizioni, vigenti da ottobre 2015, sull’accesso dei palestinesi a tale zona. Sempre nella zona H2, una ragazza palestinese è stata investita dall’auto di un colono israeliano che è fuggito senza prestare soccorso.

L’11 aprile, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno punitivamente sigillato la casa di famiglia di un palestinese sospettato di essere coinvolto in un caso di lancio di pietre che, nel mese di settembre 2015, ha provocato la morte di un colono israeliano; due membri della famiglia del sospettato sono stati sfollati. La Corte Suprema israeliana ha accettato il ricorso di altri tre palestinesi sospettati del coinvolgimento nello stesso caso e ha revocato l’ordine che avrebbe comportato la demolizione o sigillatura delle loro case. Dall’inizio dell’anno, le autorità israeliane hanno demolito o sigillato per motivi punitivi 12 abitazioni ed altre strutture, sfollando 64 persone, tra cui 27 minori. Questa pratica è in contrasto con una serie di disposizioni del diritto internazionale, tra cui il divieto di sanzioni collettive.

Per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, e in un caso costretto i proprietari ad auto-demolire, 71 strutture, 23 delle quali fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, un totale di 159 palestinesi, tra cui 75 minori, sono stati sfollati e altri 326 sono stati in vario modo coinvolti. L’episodio più consistente (34 strutture demolite su 71) si è verificato nella comunità pastorizia di Khirbet Tana (Nablus), che si trova in una zona designata [dalle autorità israeliane] come “zona militare per esercitazioni a fuoco”; qui sono stati 69 i palestinesi sfollati (di cui 49 minori). Dall’inizio dell’anno, questa è la quarta ondata di demolizioni che colpisce questa comunità. Dopo l’episodio appena citato, Robert Piper, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati, ha espresso allarme per il rischio di trasferimento forzato che minaccia la comunità. Delle 71 strutture citate, 16 sono state demolite in cinque comunità beduine che vivono nel governatorato di Gerusalemme, in una zona assegnata per l’espansione dell’insediamento di Ma’ale Adumim (piano di colonizzazione E1); l’espansione creerebbe un’area edificata continua tra l’attuale insediamento e Gerusalemme Est. Queste 16 demolizioni hanno causato lo sfollamento di 55 beduini palestinesi, tra cui 31 minori. Le 586 strutture demolite o confiscate nel 2016, già oggi superano il totale di quelle demolite o confiscate nell’intero 2015 (547).

Per la seconda settimana consecutiva, le autorità israeliane hanno continuato ad impedire l’importazione in Gaza di cemento per il settore privato, affermando che [in consegne precedenti] una notevole quantità di cemento era stata dirottata rispetto ai destinatari autorizzati. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del Meccanismo per la Ricostruzione di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte in [corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti originali considerano

conosciute dai lettori abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto OCHA della settimana 29 marzo- 4 aprile

Per la prima settimana, da quasi sei mesi, non sono state registrate vittime, né palestinesi né israeliane. Ottantotto palestinesi, tra cui 18 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nei Territori palestinesi occupati.

La maggior parte delle lesioni (76%) sono state registrate il 30 marzo, durante le dimostrazioni per ricordare la “Giornata della Terra”, compresi sei ferimenti presso la recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza; seguono le lesioni nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Queste ultime comprendono incursioni in Azzun ‘Atma (Qalqiliya) e Ya’bad (Jenin), con conseguenti danni materiali e confisca di due veicoli, e un blitz in una scuola a Ras Al Amud, a Gerusalemme Est. 30 gli episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare di Gaza: feriti due palestinesi a 350 metri dalla recinzione. Inoltre, le forze navali israeliane hanno cannoneggiato una barca da pesca ad ovest della città di Rafah, distruggendola completamente.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 e i 25 anni attraverso due checkpoint che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron. Questo provvedimento si aggiunge ad altre rigide restrizioni, in vigore da ottobre 2015, in materia di accesso dei palestinesi a questo settore. Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno rimosso le restrizioni che erano state imposte, la scorsa settimana, al villaggio di Beit Fajjar (Betlemme) e che avevano impedito l’ingresso e l’uscita dal villaggio alla maggior parte dei residenti; tali restrizioni furono imposte in seguito ad un attacco palestinese contro soldati israeliani vicino a Salfit, nel corso del quale i presunti responsabili furono uccisi. Le forze israeliane hanno riaperto anche l’ingresso occidentale della città di Hebron, che si raccorda alla strada 35 e al checkpoint commerciale di Tarqumiya.

Il 31 marzo e il 4 aprile, nella città di Hebron e Qabatiya (Jenin), le autorità israeliane hanno effettuato quattro demolizioni punitive contro le case di famiglia di presunti autori di due attentati verificatisi nel mese di dicembre 2015 e febbraio 2016. Conseguentemente 21 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati sfollati e tre strutture adiacenti alle abitazioni demolite hanno subito danni; inoltre, nel corso degli scontri scoppiati tra palestinesi e forze israeliane durante due delle demolizioni, sono stati registrati 15 feriti. Dal gennaio 2016, 12 strutture sono state demolite per motivi punitivi, sfollando 62 persone, tra cui 27 minori. Nel mese di novembre 2015, il Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati richiese di porre termine a tale pratica, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, perciò vietate dal diritto internazionale”.

Per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 36 strutture. Come risultato, 28 palestinesi, tra cui 11 minori, sono stati sfollati e altri 110 risultano coinvolti. Di queste strutture, 16 si trovavano a Gerusalemme Est, 5 nel governatorato di Ramallah, 5 nel governatorato di Gerico, 4 nel governatorato di Jenin, 4 nel governatorato di Nablus, 2 nel governatorato di Hebron. Di queste strutture 4 erano state finanziate da donatori, tra cui una strada agricola di due chilometri, in Qaryut. Nel villaggio di Jinba, situato nell’area di Masafer Yatta, designata dalle autorità israeliane come “zona militare per esercitazioni a fuoco”, le forze israeliane hanno sequestrato circa 160 pecore per il fatto che pascolavano nei pressi della “Linea Verde” (la Linea di Armistizio del 1949). Nel 2016, ad oggi [in circa tre mesi], sono già state effettuate 513 demolizioni, pari al 94% di tutte le demolizioni effettuate nell’arco del 2015 (547).

Il 23 marzo, nel villaggio di Ya’bad (Jenin), le forze israeliane hanno occupato una casa abitata, convertendola, a quanto pare, in un punto di osservazione militare; ne risultano colpite tre famiglie di 25 membri, tra cui 19 minori. Secondo il proprietario, le forze israeliane sostengono che, da quella zona, palestinesi abbiano lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani.

Nel governatorato di Hebron, il veicolo di un colono israeliano ha subito danni dal lancio di pietre, si sospetta, da parte di palestinesi. Durante la settimana, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in due occasioni, le forze israeliane hanno costretto circa 250 negozi a chiudere per diverse ore, in risposta a presunti lanci di pietre, verificatisi nella zona, ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, lungo la strada Ramallah-Nablus, un veicolo palestinese ha subito danni in seguito a lanci di pietre. Inoltre, sono stati registrati almeno tre episodi di intimidazione che avevano lo scopo di allontanare dei pastori, tra cui due minori, dai pascoli circostanti le colonie israeliane di Yitzhar (Nablus), Mitzpe Yair (Hebron) e Carmelo (Hebron).

Il 3 aprile 2016, le autorità israeliane, pur mantenendo le attuali 6 miglia nautiche quale limite di pesca lungo la costa settentrionale della Striscia di Gaza, hanno ampliato da 6 a 9 miglia nautiche la zona di pesca lungo la costa meridionale. Le restrizioni sono in corso dal 1999, ma dal 2013 Israele, attraverso arresti, utilizzo del “fuoco di avvertimento” e confisca/distruzione di strumenti di lavoro, aveva imposto il limite di pesca a 6 miglia nautiche lungo l’intera costa di Gaza e una “zona vietata” di 1,5 miglia nautiche lungo i confini marittimi settentrionali tra le acque di Gaza e quelle di Israele. Gli accordi di Oslo* (1993-1995) prevedevano un limite di pesca di 20 miglia nautiche. Oltre 35.000 palestinesi dipendono da questo settore per il loro sostentamento.

* nota di Assopace: gli Accordi di Oslo (1993-1995, conclusi a Oslo e firmati a Washington) furono la conclusione di una serie di negoziati condotti tra il Governo israeliano e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione Palestina) come avvio di un processo di pace. Alla presenza di Bill Clinton, la stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sanciva gli accordi.

A partire dal 3 aprile, le autorità israeliane hanno sospeso l’importazione di cemento in Gaza per il settore privato, affermando che una notevole quantità del medesimo non era stata consegnata ai destinatari autorizzati, ma era stata dirottata. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del GRM (Meccanismo di Ricostruzione di Gaza).

Dal 26 marzo, a causa della mancanza di carburante, la Centrale elettrica di Gaza è stata costretta a ridurre del 50% l’attività (la potenza è stata limitata a 35 MW), determinando una media giornaliera di 18 ore di interruzione di corrente. Al momento l’erogazione dei servizi di base, tra cui la sanità e l’acqua, avviene solo grazie alla distribuzione di combustibile per far funzionare i generatori di emergenza degli enti erogatori.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

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nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

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Rapporto OCHA sulla settimana 8- 14 marzo

Il 12 marzo, ad est di Beit Lahia (Gaza), due fratelli (9 e 6 anni) sono morti ed altri due loro fratelli (12 e 2 anni) sono rimasti feriti nel crollo del tetto della loro casa, colpita dai detriti scagliati da una esplosione nel vicino sito di addestramento militare [palestinese] bersagliato da un attacco aereo israeliano.

Nello stesso giorno, nel corso di un altro attacco aereo, è stato ferito un altro minore. Secondo i media israeliani, gli attacchi aerei sono stati la risposta al lancio di un razzo contro il sud di Israele, effettuato il giorno precedente da fazioni palestinesi; lancio che non aveva provocato feriti, né danni.

Durante la settimana sono stati registrati dieci attacchi palestinesi contro israeliani: speronamenti con auto, attacchi e presunti attacchi con armi da fuoco e armi da taglio; complessivamente hanno causato la morte di un turista e il ferimento di 19 israeliani. Le forze israeliane hanno ucciso dieci dei presunti responsabili, tra cui due minori di 16 e 17 anni ed una donna, e ferito un passante. Due degli episodi hanno avuto luogo in Israele, i rimanenti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Inoltre, un colono israeliano è stato ferito e un veicolo danneggiato in due episodi consistenti nel lancio di pietre e nel lancio di una bomba incendiaria. Dall’inizio del 2016, attacchi e presunti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani [1], di un cittadino straniero e di 41 palestinesi presunti responsabili, tra cui 12 minori e tre donne.

In seguito a quattro degli attacchi di cui sopra, le forze israeliane hanno bloccato o predisposto checkpoint agli ingressi principali dei villaggi ove risiedevano i presunti responsabili, e cioè: Az Zawiya (Salfit), Hajja (Qalqiliya), Qabalan (Nablus) e Beit Ur at Tahta ( Ramallah); quest’ultimo blocco ha interrotto anche la strada principale tra Ramallah ed altri cinque villaggi. Le restrizioni sono durate per 4-5 giorni, interrompendo l’accesso ai servizi ed ai luoghi di lavoro.

In conseguenza di uno degli attacchi verificatosi a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno espulso da Gerusalemme la famiglia del responsabile (10 persone, di cui 7 minori) e li hanno informati che la loro richiesta di unificazione famigliare era stata respinta. I quattro figli e figlie maggiori, insieme alla madre, sono stati trasportati dalla polizia israeliana al checkpoint di Qalandiya con l’ordine di allontanarsi, mentre il padre è rimasto sotto la custodia della polizia.

Nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito la casa di famiglia del colpevole di un attacco verificatosi nel mese di novembre 2015, sfollando una famiglia di sei persone, tra cui tre minori. Nei villaggi di Hajja (Qalqiliya), Az Zawiya e Mas-ha (questi ultimi a Salfit), sono stati emessi ordini di demolizione punitiva, o avviate valutazioni preliminari, contro le case degli autori di tre degli attacchi di questa settimana. Nel mese di novembre 2014, il Coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale. “

Attualmente sono trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di 13 palestinesi, presunti responsabili di attacchi contro israeliani; tra essi i corpi di quattro dei palestinesi uccisi in questa settimana; gli altri nove corpi trattenuti sono di palestinesi uccisi nel corso di episodi avvenuti negli ultimi cinque mesi.

Gli scontri con le forze israeliane nei Territori palestinesi occupati hanno provocato il ferimento di 119 palestinesi, tra cui 28 minori. Tre dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale; i rimanenti in Cisgiordania. Oltre il 40% di tutte le lesioni sono state riportate durante un singolo episodio verificatosi a Betlemme, nei pressi della Tomba di Rachele. Circa il 70% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente trattamento medico; le rimanenti da proiettili di arma da fuoco, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Un quindicenne è rimasto ferito manipolando proiettili inesplosi abbandonati dalle forze israeliane durante una esercitazione militare nei pressi della comunità pastorizia di Ibziq (Tubas).

Durante la settimana sono stati registrati tre attacchi di coloni israeliani contro palestinesi con conseguenti lesioni o danni: un attacco incendiario contro una casa vicino al villaggio di Al-Khader, a Betlemme (il secondo attacco in una settimana) e, nel villaggio Aqraba (Nablus), il danneggiamento di oltre 70 alberi da parte di coloni che hanno lasciato pascolare liberamente il loro bestiame su terre di proprietà palestinese. Inoltre, in Gerusalemme Ovest, un palestinese di 40 anni è stato aggredito da un gruppo di israeliani mentre era al lavoro.

Il 10 marzo 2016, 234 ettari di terra, a sud della città di Gerico, sono stati dichiarati dalle autorità israeliane “terra di stato”. Nell’Area C della Cisgiordania quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti colonici israeliani. Il terreno in questione è adiacente alla colonia israeliana di Almog. In seguito a questa dichiarazione, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha sollecitato Israele a fermare le attività di insediamento.

Due operai palestinesi sono morti nel crollo di un tunnel per il contrabbando in costruzione sotto il confine con l’Egitto. Nel corso della settimana, altri sette operai sono stati posti in salvo dalla Protezione Civile Palestinese, nel contesto di un possibile allagamento delle gallerie da parte delle autorità egiziane. In un altro caso, un membro di un gruppo armato è morto in un tunnel ad est di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrate e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] Escludendo tre israeliani uccisi in un attentato perpetrato in Israele da un cittadino israeliano di origine palestinese, successivamente ucciso.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo i media, il 17 marzo due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano vicino alla colonia di Ariel; gli stessi sono stati successivamente uccisi dalle forze israeliane.

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Rapporto Ocha sul periodo 23 febbraio – 7 marzo 2016

Durante il periodo di due settimane sono stati segnalati nove attacchi palestinesi, o presunti attacchi, contro israeliani e coloni israeliani, con conseguente ferimento di sette israeliani; cinque dei presunti responsabili sono stati uccisi sul posto, tra cui un ragazzo di 17 anni e una donna di 34 anni, mentre un altro palestinese è stato ferito e una ragazza di 14 anni è stata arrestata.

Gli episodi si riferiscono a sette accoltellamenti, o presunti tentativi di accoltellamento: presso il checkpoint DCO di Ramallah, presso il villaggio di Burin (Nablus), di Auja (Jericho), presso gli insediamenti di Ma’ale Adumim (Gerusalemme) e di Eli (Nablus) e nei pressi dello svincolo stradale di Gush Etzion (Betlemme); in quest’ultima località c’è stato un sospetto speronamento con auto, mentre vicino all’insediamento di Ariel (Salfit) sono stati sparati colpi di arma da fuoco contro un veicolo della polizia israeliana. Dall’inizio dell’anno, gli attacchi o sospetti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani e di 31 aggressori (o presunti tali) palestinesi, tra cui dieci minori.

Un ventiduenne palestinese è stato ucciso, con armi da fuoco, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) durante scontri verificatisi nel corso di un’operazione militare che intendeva proteggere l’uscita dal Campo di due soldati israeliani che vi erano entrati erroneamente. Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 225 palestinesi, tra cui 65 minori. Nove dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, i rimanenti in Cisgiordania; la maggior parte di questi ultimi sono avvenuti durante scontri nel corso delle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah); in scontri nei pressi del villaggio di Al-Khader; presso la Tomba di Rachele a Betlemme; e nel corso di undici distinte operazioni di ricerca-arresto. Sale così a otto il numero di palestinesi (tre dei quali minori) uccisi dall’inizio del 2016 durante scontri nei Territori occupati, mentre il numero dei feriti sale a 1.170 (di cui 381 minori).

Il 2 marzo, in seguito ad un attacco [palestinese] nei pressi dell’insediamento [colonico israeliano] di Bracha, le forze israeliane hanno bloccato per cinque giorni consecutivi gli ingressi principali dei vicini villaggi di Burin, Iraq Burin e Madama (5.900 persone), ad ovest della città di Nablus, ed hanno dislocato checkpoints temporanei sulle strade secondarie. Nello stesso periodo, l’esercito israeliano ha aperto l’ingresso a nord del villaggio di Bani Na’im (Hebron), che era rimasto chiuso negli ultimi tre mesi.

Sono tuttora trattenuti dalle autorità israeliane (da periodi di tempo che vanno dai 29 ai 153 giorni) i corpi di nove palestinesi, tutti ex-residenti di Gerusalemme Est, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

Il 25 febbraio, in Jabalia, a nord della città di Gaza, un bambino palestinese di 5 anni è stato ucciso dall’esplosione di un residuato bellico mentre un altro di 6 anni è rimasto ferito.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, sono stati registrati almeno 36 episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento contro civili palestinesi o contro le loro proprietà; in nessun dei casi ci sono state vittime, ma un’aula di una scuola elementare palestinese, ad est della città di Gaza, è stata danneggiata dagli spari mentre erano in corso le attività didattiche. Durante il periodo di osservazione sono stati arrestati tredici palestinesi: tre nei pressi della recinzione di confine che circonda Gaza, dopo essere entrati in Israele senza l’autorizzazione israeliana, un membro della squadra nazionale palestinese di calcio al valico di Erez e nove pescatori arrestati in mare, secondo quanto riferito, dopo essere stati costretti dalle forze israeliane a togliersi i vestiti e nuotare verso l’imbarcazione militare.

Nella città di Hebron, a Deir Samit ed a Tarusa, sempre nel governatorato di Hebron, le autorità israeliane hanno distrutto tre case appartenenti a palestinesi accusati di aver compiuto, lo scorso novembre, attacchi contro israeliani: sfollate 22 persone, tra cui tredici minori. Durante la settimana, a Qabatiya (Jenin), con le stesse motivazioni, sono stati consegnati ordini di demolizione contro altre tre case. Le demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva che contrasta con una serie di disposizioni del diritto internazionale.

Durante il periodo di riferimento, in Area C e presso comunità di Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le forze israeliane hanno distrutto, o smontato e confiscato, 85 strutture, 17 delle quali fornite come assistenza umanitaria. Come risultato, 96 persone, tra cui 41 minori, sono state sfollate e altre 255 sono state coinvolte in vario modo. L’episodio più grave ha interessato la comunità beduina palestinese di Khirbet Tana (Nablus), quasi interamente distrutta (41 strutture), che si trova in una “zona per esercitazioni a fuoco”. Dall’inizio del 2016, il numero delle strutture demolite è già pari al 70% delle demolizioni registrate in tutto il 2015, mentre il numero degli sfollati è quasi il 68% del totale del 2015. Il numero delle strutture finanziate da donatori e demolite (120) ha già superato il totale del 2015 (erano state 108). Il 17 febbraio, Robert Piper, Coordinatore per le Attività Umanitarie e di Sviluppo delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, ha chiesto la cessazione immediata della distruzione di beni di proprietà palestinese nella Cisgiordania occupata ed il rispetto del diritto internazionale.

Durante il periodo di due settimane sono stati registrati otto attacchi di coloni israeliani contro palestinesi, con conseguenti lesioni o danni: l’aggressione e il ferimento di cinque palestinesi, tra cui una donna, a Nablus, Salfit ed Hebron; lo sradicamento di 30 piantine di ulivo in Qusra (Nablus), secondo quanto riferito, ad opera di coloni provenienti dall’insediamento di Esh Kodesh; danni ad un veicolo palestinese ad Asira al Qibliya (Nablus), secondo quanto riferito, ad opera di coloni provenienti dall’insediamento di Yitzhar. Inoltre (non incluso nel conteggio), vicino all’ingresso della colonia di Ariel (Salfit), un palestinese è stato investito e ferito da un veicolo con targa israeliana.

I media israeliani hanno riportato tre casi di lancio di pietre (presso Hebron e Betlemme) da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani, con conseguenti danni per tre veicoli privati. Il 3 marzo, nel villaggio di Shufa (Tulkarm), le autorità israeliane hanno distribuito volantini, minacciando provvedimenti punitivi contro i residenti, nel caso dovesse persistere il lancio di pietre contro le auto israeliane.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 25.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

L’8 e il 9 marzo, in Israele e Gerusalemme, sono stati segnalati sei attacchi palestinesi contro israeliani. Come risultato sono state uccise sette persone, tra cui sei dei presunti responsabili palestinesi; altre 15 persone sono rimaste ferite.

Il 9 marzo, vicino al villaggio di Az Zawiya (Salfit), le forze israeliane hanno ucciso un ragazzo palestinese di 16 anni che aveva tentato un accoltellamento.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

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nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

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Palestina 2016: uno scenario ottimistico

Ma’an News

di Alaa Tartir

Nel 2015 la Palestina non si trovava in buone condizioni. Secondo la rivista dell’IMEU [“Institute for Middle East Understanding”, Istituto per la comprensione del Medio Oriente, organizzazione no-profit che fornisce ai giornalisti informazioni sulla Palestina ed i palestinesi. Ndtr.], nel 2015 circa 170 palestinesi sono stati uccisi e 15.377 feriti da israeliani; Israele ha distrutto o smantellato 539 case ed altre strutture palestinesi nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate (con più di 11.000 ordini di demolizione pendenti contro strutture palestinesi nell'”Area C” [sotto totale controllo di Israele, in base agli accordi di Oslo. Ndtr.] della Cisgiordania occupata); c’erano 6.800 palestinesi incarcerati da Israele al dicembre 2015 e circa 650.000 coloni ebrei nei territori occupati.

La Palestina andrà meglio nel 2016? C’è una qualche ragione di ottimismo e di speranza tra questi cupi avvenimenti e quanto sta accadendo attualmente? Ritengo di sì, nonostante tutto.

Un rapido colpo d’occhio alle analisi esistenti indica che il 2016 sarà un anno ancora peggiore per i palestinesi. Queste analisi prevedono un incremento della violenza, il possibile collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con conseguenze negative per il popolo palestinese, un’ulteriore frammentazione tra i palestinesi nella corsa alla successione di Abbas, feroci e persino sanguinose dispute all’interno di Fatah, rafforzamento delle divisioni tra Fatah e Hamas, continuazione dell’occupazione militare israeliana e il persistere della mancanza di volontà da parte statunitense ed europea di porre fine all’ingiustizia e all’oppressione.

Per peggiorare ulteriomente le cose, gli osservatori avvertono che il 2016 potrebbe creare un’ “occasione matura” per l’ingresso dell’ISIS in Palestina, soprattutto se un “vuoto nella sicurezza” si venisse a determinare in conseguenza del collasso dell’ANP. Alcune di queste previsioni sono plausibili, ma altre, soprattutto quelle suggerite da diversi apparati di sicurezza locali o internazionali e da istituzioni dei servizi segreti, sono pure speculazioni o predizioni immotivate e senza fondamento. Quelle orientate dai sistemi di sicurezza sono discutibili in quanto danno la priorità alle necessità ed alle fobie della sicurezza israeliana e ignorano i diritti umani fondamentali dei palestinesi e anzi alimentano le tendenze e le trasformazioni autoritarie. Quindi ritengo che, invece di fare un’equivalenza tra il “vuoto nella sicurezza” e l’emergere dell’ISIS o con una situazione di caos, è il momento buono per iniziare ad affrontare la vera domanda per quanto riguarda le questioni di sicurezza: come mettere fine immediata all’occupazione militare israeliana?

Comunque, il problema fondamentale di tutte le summenzionate previsioni dominanti è che ignorano le buone notizie che stanno arrivando dalla Palestina. Ecco un breve elenco di qualche “fonte di speranza e ottimismo” a cui guardare nel 2016.

In primo luogo, e cosa più importante, sta emergendo una nuova e diversa generazione palestinese. Questa generazione propone nuove prospettive, nuovi obiettivi e nuovi strumenti. Mentre una parte di questa generazione si sta ribellando nelle strade della Palestina, un’altra parte (benché meno visibile dei giovani che si stanno ribellando) sta elaborando strategie per la lotta e mettendole in pratica, localmente e internazionalmente.

Questa nuova generazione transnazionale sta anche formando la propria dirigenza intellettuale, fondamentale per ogni processo di cambiamento positivo. Nel 2016 potremmo assistere alla rinascita a lungo attesa del pensiero politico palestinese, benché si tratti di un obiettivo ambizioso. Indubbiamente una nuova leadership è in via di formazione ed emergerà da questa generazione, che è capace di affrontare le cause profonde delle sofferenze, delle debolezze e della frammentazione palestinesi. Non si tratta di un esito irraggiungibile né di un obiettivo improbabile.

Questa generazione non è stanca solo dell’occupazione israeliana e delle sue politiche colonialiste, ma anche dell’attuale dirigenza palestinese, illegittima e non rappresentativa. Sono nauseati e stufi dei continui fallimenti e stanno pensando ed agendo per riuscire ad avvicinarsi alla realizzazione dei propri diritti.

Se questa generazione è “invisibile” a molti osservatori e responsabili politici, è necessario cambiare urgentemente punto di vista, semplicemente perché negli ultimi anni una nuova dirigenza palestinese è emersa, ad esempio, in Israele e nella società civile palestinese.

L’unificazione della leadership palestinese in Israele è un’altra fonte di ottimismo, nonostante tutte le avvertenze del caso. Il “colpo” durante le elezioni parlamentari israeliane del 2015 [si riferisce al fatto che la lista unitaria palestinese è diventata la terza forza politica israeliana. Ndtr.] ha trasformato la minaccia rappresentata dall’esistenza dei palestinesi nella politica israeliana in una nuova opportunità politica.

Se utilizzato intelligentemente, l’emergere di un nuovo leader politico come Ayman Odeh [leader del partito di sinistra arabo-israeliano “Hadash” e della “Lista Unitaria” alle elezioni del 2015. Ndtr.] non sarà senza conseguenze per i diritti politici e civili dei palestinesi e per le dinamiche complessive della lotta palestinese.

In effetti, alcuni osservatori hanno sostenuto che “invece di cercare freneticamente di far rivivere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [la storica coalizione di partiti palestinesi che ha condotto la lotta contro Israele sotto la guida di Fatah e di Arafat. Ndtr.] come rappresentante di tutti i palestinesi…i palestinesi dovrebbero semplicemente guardare ad ovest, ai partiti politici palestinesi all’interno di Israele e già rappresentati nella Knesset (Parlamento israeliano, ndt.).” Questa mossa, nonostante i suoi potenziali limiti, potrebbe significare una nuova configurazione e un diverso sistema di presupposti per il “conflitto israelo-palestinese.”

La “nuova” dirigenza della società civile palestinese emersa nell’ultimo decennio è il terzo elemento di ottimismo e di speranze di giustizia nel 2016. Gli inarrestabili successi del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi ne sono l’esempio principale. Il ruolo importante del BDS e i successi che ha ottenuto non sono solo dovuti alla formazione organica della dirigenza del movimento o ai suoi principi ed obbiettivi unificanti e di vasta portata, ma anche alla sensazione di possedere uno degli strumenti della lotta per l’autodeterminazione, all’evidenza storica relativa all’efficacia di un simile mezzo nel garantire la giustizia e il cambiamento e la trasformazione dell’opinione pubblica internazionale in merito al conflitto israelo-palestinese.

Lo sviluppo del movimento di solidarietà internazionale che lavora in accordo con le priorità e le richieste della società civile palestinese è un esempio stimolante della collaborazione internazionale per la realizzazione di diritti universali.

Peraltro i palestinesi hanno molti più mezzi legali per l’ottenimento dei propri diritti di quanti ne abbiano mai avuti in precedenza. L’adozione di un approccio centrato sui diritti in assonanza con le leggi internazionali come parte integrante di una nuova strategia e prospettiva palestinese è fondamentale per qualunque programma politico alternativo.

Benché sia vero che questo programma politico alternativo non esiste in toto, tuttavia non è vero che non esistano nuove, e critiche, opinioni politiche palestinesi. Queste opinioni politiche, regolarmente marginalizzate – soprattutto se sono indipendenti – all’interno del movimento di liberazione nazionale palestinese, sono un elemento centrale nell’ottimistico scenario futuro grazie al loro contributo ai processi di elaborazione e azione politica in patria, in esilio e nelle sedi internazionali.

Queste voci politiche pongono la creatività, la resilienza e le pratiche di resistenza del popolo palestinese come un modo di vivere sotto occupazione, al centro del proprio pensiero ed analisi, una pratica che si è persa da tempo. Questa “scelta metodologica” ha implicazioni dirette sugli esiti a breve e lungo termine, sulla legittimazione della futura dirigenza e sulle sue scelte e decisioni strategiche.

La materializzazione di queste ragioni di speranza e di ottimismo, o di alcune di esse, nel 2016 potrebbe farne un anno diverso da come se lo aspettano le previsioni prevalenti. Tuttavia una domanda rimane senza risposta: c’è una qualche buona notizia che arriva da Israele?

Alaa Tartir è il direttore responsabile di al-Shabaka, la rete palestinese di politica e ricercatore post-dottorato all’Istituto Superiore di Studi Internazionali e per lo Sviluppo di Ginevra.

Quest’articolo è stato pubblicato originariamente su “Huffington Post”.Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA della settimana 2-8febbraio 2016

Il 3 febbraio, nei pressi della porta di Damasco, a Gerusalemme Est, tre palestinesi hanno effettuato un attacco con coltelli ed armi da fuoco contro forze israeliane, uccidendo una poliziotta israeliana e ferendone un’altra. I tre autori (di 19 e 21 anni), tutti provenienti dal villaggio di Qabatiya (Jenin), sono stati uccisi durante l’attacco;

secondo quanto riferito, nessuno di loro apparteneva ad una qualche fazione. Nonostante la gravità dell’episodio, questa settimana ha fatto segnare, in Cisgiordania, il minor numero di attacchi contro israeliani a partire dall’ottobre 2015. L’episodio sopraccitato porta a 18 il numero dei palestinesi uccisi dall’inizio del 2016 nel corso di aggressioni contro israeliani; tra essi cinque minori.

Dopo l’attacco di cui sopra, le forze israeliane hanno bloccato, per tre giorni consecutivi, tutte le strade in entrata ed in uscita dal villaggio di Qabatiya (23.300 abitanti). Per i residenti l’accesso ai servizi ed ai luoghi di lavoro esterni al villaggio è stato gravemente compromesso; circa 300 permessi di lavoro, concessi ai residenti occupati in Israele, sono stati revocati. Durante gli stessi giorni sono stati registrati diversi scontri e operazioni di ricerca-arresto con conseguente ferimento di 61 palestinesi, tra cui 28 minori.

Durante la settimana sono avvenuti altri tre accoltellamenti all’interno di Israele, con conseguente ferimento di una donna israeliana e di due soldati; secondo quanto riferito, gli episodi sarebbero da collegare al clima di scontro. Uno degli aggressori, un cittadino straniero, è stato ucciso; due ragazze palestinesi di 13 anni, con cittadinanza israeliana, sono state arrestate. Un altro aggressore, la cui identità rimane ignota, è fuggito. [1]

Un 14enne palestinese è stato ucciso, con armi da fuoco, dalle forze israeliane in prossimità dell’ingresso del villaggio di Halhul (Hebron), presumibilmente dopo aver lanciato una bottiglia incendiaria; nello stesso contesto, e con armi da fuoco, è stato ferito anche un 13enne.

Numerosi scontri con le forze israeliane, avvenuti in varie località dei Territori palestinesi occupati, hanno provocato il ferimento di 138 palestinesi, tra cui 45 minori. Otto dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale; i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte dei ferimenti verificatisi in Cisgiordania sono stati registrati nel contesto di scontri scoppiati durante le manifestazioni settimanali a Ni’lin (Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) e durante le operazioni di ricerca-arresto a Qabatiya (Jenin), nella città di Salfit, a Qabalan (Nablus) e al Campo profughi di Al Fawwar (Hebron).

L’8 febbraio, un civile palestinese è morto a causa del crollo di un tunnel per il contrabbando sotto il confine tra Gaza e l’Egitto. L’attività di contrabbando, lungo il confine con l’Egitto, era in gran parte già cessata dalla metà del 2013, in seguito alla distruzione o al blocco, ad opera delle autorità egiziane, della stragrande maggioranza delle gallerie. A quanto si sa, pochi tunnel sono rimasti parzialmente operativi.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato, a terra ed in mare, sono stati registrati almeno 13 casi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento contro civili palestinesi, senza causare vittime. Quattro pescatori sono stati arrestati in mare, dopo essere stati costretti dalle forze israeliane, secondo quanto riferito, a togliersi i vestiti e nuotare verso l’imbarcazione militare; due barche sono state confiscate. Inoltre, in un caso, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno spianato il terreno ad est della città di Rafah.

Il 3 febbraio, presso due comunità di pastori, a sud di Hebron (Jinba e Halaweh), le autorità israeliane hanno distrutto, o smontato e confiscato, 31 strutture, sfollando 139 persone. Queste e altre dieci comunità (circa 1.300 persone) sono a rischio di trasferimento forzato a causa della designazione dell’area [da parte di Israele], negli anni 80, come “zona chiusa destinata alle esercitazioni militari”. Alcune di queste comunità furono costituite prima dell’occupazione israeliana e sono in possesso dei documenti attestanti i loro diritti sulla terra. L’episodio consegue alla conclusione senza accordo di un processo di mediazione riguardante ricorsi inoltrati alla Corte Suprema israeliana contro la distruzione e lo sfratto di queste comunità.

Durante la settimana, in Cisgiordania, per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o smontate e confiscate, altre 36 strutture di proprietà palestinese, 29 delle quali finanziate da donatori. Come risultato, 26 persone sono state sfollate, tra cui 15 minori; altre 26 persone sono state coinvolte in vario modo. Quattro delle strutture implicate si trovavano a Gerusalemme Est, in aree designate dalle autorità israeliane come “parco nazionale”. Le 157 strutture distrutte o smontate e sequestrate, dall’inizio del 2016 fino all’8 febbraio, equivalgono al 29% delle strutture prese di mira in tutto il 2015.

Sempre in questa settimana, le autorità israeliane hanno emesso nove ordini di demolizione e sequestro contro le case di famiglia di nove presunti autori di attacchi contro israeliani, ponendo le famiglie a rischio sfollamento. Le demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva e, in quanto tali, sono illegali secondo il diritto internazionale.

Un palestinese è stato aggredito e ferito da coloni israeliani nei pressi dell’insediamento di Kiryat Arba (Hebron). In un altro caso, agricoltori di Iraq Burin (Nablus) hanno riferito il furto di due asini da parte di coloni israeliani provenienti dall’insediamento di Bracha. Inoltre, coloni israeliani della fattoria-avamposto di Ma’on hanno impedito ad alunni palestinesi di raggiungere la loro scuola nel villaggio di At-Tuwani (Hebron).

Il 6 febbraio, nei pressi dell’insediamento di Karmei Tzur (Hebron), ignoti hanno incendiato una tenda eretta da coloni israeliani, e utilizzata come sinagoga, su un terreno di proprietà privata palestinese. Una struttura precedente, eretta sullo stesso sito, era stata demolita dalle autorità israeliane nel 2015, in seguito ad una petizione inoltrata presso il tribunale dai proprietari dei terreni. Il Segretario generale dell’ONU ha condannato l’incendio doloso ed ha invitato tutte le parti a rispettare l’inviolabilità dei luoghi sacri.

I media israeliani hanno riferito cinque episodi di lanci di pietre da parte palestinese contro veicoli con targa israeliana, con conseguenti danni a tre veicoli e alla metropolitana leggera di Gerusalemme.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 25.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Tra il 9 e 11 febbraio, le autorità israeliane hanno distrutto almeno 80 abitazioni con le relative strutture ausiliarie di sussistenza, in sette comunità palestinesi in Area C, tutte situate nella valle del Giordano tranne una, sfollando circa 60 persone, la metà delle quali minori.

Il 10 febbraio, le forze israeliane hanno ucciso un ragazzo palestinese 15enne durante scontri all’ingresso del campo profughi di Al Arrub (Hebron).

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace Gruppo di Rivoli TO

e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

 




La divisione di Gerusalemme perpetuerà l’occupazione?

Al-Monitor

Akiva Eldar,

Nei prossimi giorni un piccolo gruppo di uomini e donne si riunirà nell’ufficio del presidente israeliano Reuven Rivlin. Gli ospiti, fondatori di un nuovo movimento chiamato “Salvare la Gerusalemme ebraica”, consegnerà a Rivlin un manifesto che riassume il loro progetto per la città. Il presidente, che in genere inizia le interviste radiofoniche con il saluto “Buongiorno (o buonasera) da Gerusalemme,” ascolterà il loro progetto per la separazione unilaterale di una parte di Gerusalemme est.

I piani di separazione che intendono dividere Gerusalemme dai villaggi palestinesi circostanti non faranno che perpetuare l’annessione di Gerusalemme a Israele.

I principi di un simile progetto sono stati illustrati in un’intervista che Mazal Mualem [ex-giornalista di Maariv e Haaretz ed attuale collaboratrice di Al-Monitor. Ndtr.] ha fatto al presidente di “Campo sionista” [coalizione tra laburisti e Kadima che si è presentata alle ultime elezioni arrivando al secondo posto. Ndtr.] Isaac Herzog, pubblicata il 22 gennaio da Al-Monitor. L’interessante novità nel piano di “Salvare la Gerusalemme ebraica” risiede nella lista degli attivisti del nuovo movimento. La forza trainante e il nome più intrigante è quello dell’ex membro del governo Haim Ramon.

Ramon ha lasciato la politica ed ha tenuto un profilo basso dopo essere stato arrestato per molestie sessuali che nel 2007 hanno coinvolto una soldatessa. Il resto dei suoi amici in Kadima [partito politico israeliano “di centro” fondato da Sharon e Peres. Ndtr.], di cui è stato cofondatore nel 2005 e che in seguito si è sciolto, se ne andò per strade diverse. Molti di questi amici nel nuovo gruppo si chiedono se il movimento per “Salvare la Gerusalemme ebraica” è stato pensato anche per salvare la carriera politica di un uomo a suo tempo considerato la stella nascente nel cielo di Gerusalemme.

Il programma di “Salvare la Gerusalemme ebraica”, che sarà anche presentato all’opinione pubblica, chiede di cedere il controllo di 28 villaggi palestinesi di Gerusalemme est all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). I villaggi in questione erano stati parte integrante della Cisgiordania finché Israele li ha annessi nel 1967. Vi vivono circa 200.000 persone. Con l’annessione, ai palestinesi è stata concessa la residenza permanente ed hanno ottenuto i diritti dei cittadini israeliani, compresi, tra le altre cose, benefici della sicurezza sociale, libertà di movimento a ovest della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania precedente alla conquista israeliana nel ’67. Ndtr.], il diritto a studiare nelle istituzioni [educative] israeliane di istruzione superiore e l’accesso alla moschea di Al Aqsa.

Membri del movimento sostengono che i villaggi palestinesi danneggiano gravemente la prosperità della capitale israeliana in termini di sicurezza, equilibrio demografico [tra ebrei e palestinesi in città. Ndtr.], livello di vita e benessere economico. Considerano che i violenti incidenti a Gerusalemme, che si sono intensificati nel settembre 2015, evidenziano la necessità di revocare l’annessione (sbagliata) dei villaggi a Gerusalemme.

I promotori del manifesto spiegano che sottraendo circa 200.000 palestinesi dai confini municipali di Gerusalemme, gli ebrei in città costituirebbero più dell’80% dei residenti e la percentuale di palestinesi scenderebbe dall’attuale quasi 40% a meno del 20%. Non solo questo, sottolineano: revocare i permessi di residenza israeliana ai palestinesi ridurrebbe il peso economico che questi villaggi impongono ai contribuenti israeliani – circa 2-3 miliardi di shekel (438-665 milioni di euro) annuali di entrate e tasse municipali. I rimanenti residenti di Gerusalemme est, arabi ed ebrei, manterrebbero la loro attuale residenza e cittadinanza.

“Salvare la Gerusalemme ebraica” ha anche proposto l’immediata costruzione di una “barriera di sicurezza continua” tra i “villaggi stranieri” e Gerusalemme. La barriera sarebbe unita al muro di separazione che divide Israele e le colonie dal resto della Cisgiordania. Dopo la separazione dei villaggi da Gerusalemme, l’esercito israeliano (IDF) e altri organi della sicurezza opererebbero al loro interno come fanno normalmente nel resto della Cisgiordania. Secondo il manifesto, per mettere in pratica il piano per garantire la sicurezza di Gerusalemme e il suo carattere ebraico, la Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] dovrebbe emendare la legge fondamentale “Gerusalemme, capitale di Israele”. Tutto il progetto sarebbe messo in atto in modo unilaterale, senza consultare i palestinesi o ottenere il loro consenso.

Uno dei fondatori del movimento, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto ad Al-Monitor che un sondaggio di opinione commissionato dal suo gruppo ha indicato che l’85% dell’opinione pubblica ebraica, così come una parte significativa degli arabi in Israele, appoggia la separazione dai villaggi palestinesi della periferia [di Gerusalemme]. Herzog, di “Campo sionista”, che ha analizzato i risultati del sondaggio, ha rapidamente adottato i principi del piano. “Per il momento non si può ottenere la pace, per cui garantiamo la sicurezza in modo da poter parlare della pace,” ha affermato Herzog nell’intervista ad Al-Monitor. “Mi sono incontrato con (il presidente palestinese Mahmoud) Abbas lo scorso agosto e, mi spiace dirlo, anche in quell’occasione non ho trovato il coraggio o le capacità di leadership necessarie per accettare dolorose concessioni.”

Tuttavia quando Herzog è tornato dal suo incontro con Abbas del 18 agosto aveva fatto un discorso ben diverso. Si è detto che il leader dell’opposizione avesse affermato all’epoca con sicurezza: “Se c’è buona volontà, possiamo raggiungere un accordo che garantisca la sicurezza di Israele; negli ultimi mesi si è emersa una inedita opportunità regionale.” Ha persino proposto un’accelerata tempistica: “entro due anni”. Secondo Herzog, le opportunità non avrebbero dovuto andare perse: “[La congiuntura regionale] consente un appoggio da parte dei Paesi vicini per una mossa diplomatica tra noi e i palestinesi,” ha detto. Herzog aveva anche riferito di aver promesso ad Abbas che avrebbe continuato a cercare di convincere l’opinione pubblica israeliana, che stava gradualmente perdendo fiducia nella pace, della necessità di un simile processo e di portarlo rapidamente avanti.

Ora, neppure sei mesi dopo, il capo dell’opposizione ha perso la fiducia in un dialogo con i palestinesi (sotto gli auspici della “Lega araba”) a favore di misure unilaterali. Davvero dirigenti politici con una lunga esperienza come Herzog pensano che una mossa così drastica possa essere promossa nella polveriera che è Gerusalemme, senza coordinamento e accordo con le controparti palestinesi, arabe e islamiche? Non capiscono che eliminare i 28 villaggi arabi da Gerusalemme est sarebbe interpretato dal mondo come la perpetuazione dell’annessione israeliana delle altre parti di Gerusalemme est, compresi i luoghi santi?

Cosa ne sarebbe delle migliaia di palestinesi che si trovano ancora dall’altra parte della barriera, con una riduzione delle entrate per la perdita dei loro diritti di residenza, di cui hanno goduto per quasi 50 anni? Dovrebbero andare a cercare un aiuto nei centri di reclutamento di Hamas e della Jihad Islamica? Dovrebbero importare le tecniche di scavo dei tunnel dalla Striscia di Gaza nel campo di rifugiati di Shuafat in direzione dei quartieri ebraici adiacenti?

Un altro degli ideatori del piano, che ha chiesto anch’egli l’anonimato, ha detto ad Al-Monitor: “Sappiamo che non c’è modo che (il primo ministro Benjamin) Netanyahu prenda anche lontanamente in considerazione l’adozione del progetto. Il nostro obiettivo principale è di mostrare all’opinione pubblica che c’è gente dalla nostra parte che ha cominciato a fare progetti piuttosto che rimanere legata allo status quo.” Ha anche affermato che il gruppo è pienamente cosciente che la sinistra farà a pezzi la proposta e i suoi promotori: “Questo è il nostro secondo obiettivo,” ha detto, con un mezzo sorriso, “avere uno spintone dalla sinistra che ci spingerà verso destra.”

Non è affatto certo se il movimento politico e i suoi progetti rallenteranno lievemente l’emorragia di voti degli elettori israeliani dal “Campo sionista”. E’ più probabile che accelereranno la fuga dell’elettorato palestinese dal campo di Abbas in costante calo.

Un articolo pubblicato nell’edizione del settembre 2011 della prestigiosa rivista Foreing Affairs [autorevole bimestrale nordamericano che si occupa di politica estera. Ndtr.] suggerisce che ci sono dirigenti politici israeliani che credono (o per lo meno credevano all’epoca) che ci sia un altro modo migliore di porre fine al conflitto con i palestinesi. In base al piano presentato nell’articolo, Israele avrebbe votato a favore del fatto che la Palestina diventasse un membro a pieno diritto delle Nazioni Unite. Immediatamente dopo, negoziati per un accordo permanente sarebbero stati ripresi con il sostegno della comunità internazionale. L’accordo sarebbe stato basato sui parametri delineati dal presidente Clinton nel 2000 ed ampliati dal presidente Barak Obama nel maggio 2011: la nascita di uno Stato palestinese in base ai confini del 1967, con uno scambio di territori e un accordo per la sicurezza. Non si potrebbe fare niente di meglio.

Quell’articolo – “Perché Israele dovrebbe votare per l’indipendenza palestinese”- è stato scritto dal parlamentare israeliano Isaac Herzog.

Akiva Eldar è un articolista della sezione di Al-Monitor dedicata alla situazione in Israele. E’ stato un importante opinionista ed editorialista di Haaretz e è stato anche il capo dell’ufficio USA del quotidiano in ebraico e corrispondente diplomatico. Il suo libro più recente (insieme a Idith Zertal), “Signori della Terra”, sulle colonie ebraiche, è stato tra i best seller in Israele ed è stato tradotto in inglese, francese, tedesco e arabo.

Traduzione di Amedeo Rossi




Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati riguardante il periodo: 26 gennaio – 2 febbraio 2016

Durante la settimana sono stati registrati cinque attacchi e presunti attacchi di palestinesi contro israeliani, con il conseguente ferimento di cinque israeliani, tra cui tre soldati ed un 17enne; due dei sospetti responsabili palestinesi sono stati uccisi sul posto, uno è rimasto ferito ed altri quattro arrestati.

Uno degli episodi, il 31 gennaio, ha avuto come protagonista un poliziotto palestinese che ha aperto il fuoco contro i soldati israeliani che presidiano uno dei posti di blocco che controllano l’accesso alla città di Ramallah (DCO checkpoint). Gli altri episodi includono uno speronamento con l’automobile ad un posto di blocco ad ovest di Ramallah e tre accoltellamenti e presunti accoltellamenti: vicino alla Barriera nel governatorato di Tulkarem ed a Gerusalemme Est (due casi).

Dopo il sopraccitato attacco con arma da fuoco al checkpoint DCO, l’esercito israeliano ha drasticamente limitato l’accesso e l’uscita dalla città di Ramallah, rendendo problematico l’accesso delle persone ai servizi ed ai luoghi di lavoro. Il checkpoint DCO è stato completamente chiuso e sono stati allestiti posti di blocco sulle due gallerie che collegano la città ai villaggi orientali attraverso Ein Yabrud e Yabrud, così come lungo una delle principali strade di collegamento con la strada 60 (attraverso il villaggio di ‘Ein Siniya). All’inizio di questa settimana, altri due percorsi che collegano alcuni villaggi ad ovest di Ramallah con la città (attraverso i villaggi di Beit ‘Ur at Tahta e Deir Ibzi’) erano già stati bloccati, incanalando il traffico verso deviazioni più lunghe.

I corpi di dieci palestinesi, tutti ex residenti di Gerusalemme Est, sospettati di aver condotto attacchi contro israeliani, sono tuttora trattenuti dalle autorità israeliane. All’inizio di questa settimana le autorità israeliane avevano restituito due corpi di quelli precedentemente trattenuti.

Durante la settimana, 46 palestinesi, tra cui 16 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di proteste e scontri avvenuti in varie località dei territori palestinesi occupati. Tale numero di feriti è il più basso tra quelli registrati in una singola settimana dall’inizio dell’escalation di violenza nel mese di ottobre 2015. Sei dei ferimenti sono avvenuti in prossimità della recinzione perimetrale della Striscia di Gaza ed i restanti in Cisgiordania. Gli scontri in Cisgiordania si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Bil’in e Ni’lin (entrambi nel governatorato di Ramallah) ed a Kafr Qaddum (Qalqiliya); durante operazioni di ricerca-arresto in Ya’bad (Jenin) e nell’Università Al Quds di Abu Dis (Gerusalemme); durante scontri nei pressi di Abu Dis (Gerusalemme), Silwad (Ramallah) e nell’area H2 di Hebron. In quest’ultima località, dieci studenti che frequentano una scuola adiacente al luogo degli scontri, hanno subìto lesioni causate da inalazione di gas lacrimogeno.

Secondo i mezzi di informazione, a nord est della città di Gaza, sette membri di un gruppo armato palestinese sono morti in seguito al crollo di un tunnel militare.

Nella Striscia di Gaza sono stati registrati almeno 17 episodi di apertura del fuoco di avvertimento da parte delle forze israeliane verso civili palestinesi in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare; nessuna vittima, ma gli agricoltori ed i pescatori sono stati costretti ad abbandonare le posizioni.

Per mancanza dei permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito 42 strutture di proprietà palestinese in tre comunità in Area C e Gerusalemme Est; tra esse: 32 abitazioni, sette cisterne per l’acqua ed una struttura agricola. Come risultato, 168 persone, tra cui 94 minori, sono stati sfollati ed altri 24 sono stati diversamente colpiti dal provvedimento. Una delle comunità colpite, la comunità beduina di Ein Ayoub, situata nel governatorato di Ramallah, venne completamente demolita nel dicembre 2013.

Le autorità israeliane hanno informato la Corte Suprema circa la loro intenzione di eseguire, senza ulteriore avvertimento, ordini di demolizione nella comunità pastorizia palestinese di Susiya (Hebron); gli ordini erano stati emessi contro strutture costruite presumibilmente in violazione di una precedente ingiunzione del tribunale. Secondo le informazioni fornite verbalmente dalle autorità israeliane, questa decisione potrebbe riguardare fino a 40 strutture. Le autorità si sono impegnate a fornire un preavviso di 45 giorni qualora decidessero di demolire altre struttura della comunità.

Il 27 gennaio, tutti i residenti della comunità pastorizia palestinese di Khirbet ar Ras al Ahmar (Tubas), costituita da 11 famiglie, tra cui 23 minori, sono stati sfollati dalle loro case per nove ore, per far posto ad una esercitazione militare israeliana. Questa comunità è una delle 38 comunità pastorizie beduine palestinesi (6.224 persone) situate in aree definite dalle autorità israeliane come “zone chiuse per l’addestramento militare a fuoco”.

In due diversi episodi avvenuti in Area C, le forze israeliane hanno sequestrato camion e materiali da costruzione a motivo del loro utilizzo per “lavori non autorizzati”. Il sequestro ha riguardato tre camion utilizzati per un progetto di ristrutturazione finanziato da un donatore umanitario nella comunità di Ad Deir, nel nord della Valle del Giordano (Tubas).

La Corte Suprema israeliana ha respinto le petizioni presentate contro il tracciato della Barriera vicino alla città di Beit Jala (Betlemme). I firmatari hanno sostenuto che la Barriera pregiudicherà i loro mezzi di sussistenza agricola, danneggerà il tessuto delle loro comunità e causerà danni ambientali ai terrazzamenti agricoli storici.

I media israeliani hanno riportato quattro episodi di lancio di sassi da parte di palestinesi contro veicoli a targa israeliana, con il conseguente ferimento di un colono e danni a due veicoli israeliani ed alla metropolitana leggera di Gerusalemme. Inoltre, durante il periodo di riferimento, è stato registrato un attacco di coloni in Arraba (Jenin), con il taglio di almeno dieci mandorli di proprietà palestinese.

Durante la settimana, nella Striscia di Gaza si sono verificate interruzioni di corrente fino a 20 ore/giorno, rispetto alle 12-16 ore/giorno precedenti. Le cause stanno nei guasti sulle linee elettriche di alimentazione provenienti da Israele e dall’Egitto e nella scarsa fornitura di combustibile, insufficiente al funzionamento della Centrale elettrica di Gaza. Un uomo di 53 anni è morte avvelenato dalle esalazioni tossiche emesse dal carbone utilizzato per riscaldare la sua casa.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno indicato che più di 25.000 persone con bisogni urgenti, di cui circa 3.500 malati necessitanti di cure, sono registrate ed in attesa di attraversare in Egitto.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 febbraio, in Gerusalemme Est, palestinesi hanno compiuto un attacco con coltello ed arma da fuoco; l’episodio si è concluso con l’uccisione di una donna poliziotto israeliana e dei tre presunti responsabili; almeno una ulteriore poliziotta è stata ferita.

Il 2 febbraio, le forze israeliane hanno distrutto 24 abitazioni in due comunità nel sud di Hebron (Massafer Yatta); tali comunità sono a rischio di trasferimento forzato a causa della precedente designazione dell’area come “zona per esercitazioni a fuoco”; 134 persone sono state sfollate a seguito delle demolizioni.

Il 2 febbraio, l’accesso in entrata/uscita dalla città di Ramallah è tornato alla normalità.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace Gruppo di Rivoli TO




Rapporto ONU OCHAoPt: 29 dicembre 2015 – 11 gennaio 2016 (147)

Nel periodo di riferimento di questo rapporto (due settimane), sono stati registrati dodici attacchi e presunti attacchi palestinesi contro israeliani, nel corso dei quali tre israeliani, tra cui due soldati, sono stati feriti; nove attentatori e presunti attentatori palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Due dei palestinesi uccisi erano minori (16 e 17 anni). Gli attacchi ed i presunti attacchi includono: otto accoltellamenti e tentativi di accoltellamento, un investimento con auto e due scontri a fuoco effettuati da presunti palestinesi, poi fuggiti. Tutti questi episodi sono stati segnalati in Cisgiordania, di cui due a Gerusalemme Est. Le circostanze di numerosi incidenti rimangono controverse. Secondo quanto riferito, nessuno degli autori e presunti colpevoli apparteneva a fazioni o gruppi armati. Dal 1° ottobre fino alla fine del periodo di riferimento del presente rapporto [102 giorni], 97 palestinesi, tra cui 21 minori, e 23 israeliani sono stati uccisi nei Territori palestinesi occupati ed in Israele [1] nel corso di attacchi e presunti attacchi contro israeliani.

C’è stato un forte calo della frequenza e dell’intensità di proteste e scontri avvenuti nel periodo cui si riferisce questo rapporto: in tutti i Territori palestinesi occupati sono stati registrati un totale di 203 feriti palestinesi [nell’arco di due settimane] (per confronto: nel corso dell’ultimo trimestre del 2015, la media è stata di 240 feriti [palestinesi] ogni settimana). I feriti includono 41 minori e 3 donne. Dodici dei ferimenti si sono verificati durante scontri vicino alla recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza, nei pressi del valico di Erez e ad est del campo profughi di Al Bureij. Il resto dei feriti (191) sono stati registrati in Cisgiordania; il numero più alto è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (85), seguito dai governatorati di Qalqiliya (27), Hebron (24), Betlemme (25) e Ramallah (20). Almeno 25 dei ferimenti in Cisgiordania e 8 nella Striscia di Gaza sono stati provocati da arma da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono stati causati da proiettili di gomma o inalazione di gas lacrimogeno (solo le persone che ricevono assistenza medica sono conteggiate come feriti).

Un quarantenne palestinese è morto per le ferite riportate il 31 dicembre, quando fu colpito con arma da fuoco durante gli scontri nel campo profughi di Al Jalazun (Ramallah). Questo decesso porta a 51 (28 in Cisgiordania e 23 nella Striscia di Gaza) il numero di palestinesi uccisi dal 1° ottobre durante proteste e scontri con le forze israeliane.

Il 6 gennaio, in Area C, ad est di Gerusalemme, nella comunità beduina di Abu Nuwar, adducendo la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno distrutto undici strutture: cinque abitazioni, cinque latrine finanziate da donatori ed un ricovero per animali; sono state così sfollate cinque famiglie, composte da 26 persone, tutte rifugiati, tra cui 18 minori. Quattro giorni più tardi, le forze israeliane hanno smantellato e confiscato le cinque tende residenziali fornite, in risposta alle demolizioni, dalla Mezzaluna Rossa Palestinese. Abu Nuwar è una delle 46 comunità beduine nella Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato, a seguito di un piano di “rilocalizzazione” delle autorità israeliane. Si trova all’interno di una zona conosciuta come E1, destinata [dalle autorità israeliane] all’espansione verso ovest dell’insediamento [colonico] di Ma’ale Adummim, realizzando così un abitato continuo tra questo insediamento e Gerusalemme Est.

Sempre in Area C, in altre due comunità di pastori, a causa della mancanza di permessi di costruzione, è stato notificato l’ordine di blocco dei lavori per due progetti umanitari: il rifacimento di una strada in Khirbet ar Rahwa (Hebron) e la realizzazione di una cisterna d’acqua in Kardala (Tubas). Nel primo caso, le autorità israeliane hanno anche sequestrato parte dei materiali da costruzione.

In Gerusalemme Est e nel villaggio di Surda (Ramallah), le autorità israeliane, con ordinanze punitive, hanno demolito due case e ne hanno sigillato un’altra, sfollando 19 persone, tra cui 7 minori. Le case appartenevano alle famiglie di tre palestinesi accusati di aggressioni verificatesi nel mese di ottobre 2015, nel corso delle quali furono uccisi sei israeliani e gli stessi palestinesi accusati di essere gli aggressori; altri nove israeliani rimasero feriti. Il 16 novembre, il coordinatore umanitario per i Territori occupati palestinesi ha chiesto di fermare le demolizioni punitive, che violano il diritto internazionale.

A Gerusalemme Est, nei quartieri di Silwan, Sur Bahir e Beit Safafa, a motivo della mancanza dei permessi edilizi, il Comune ha demolito tre case in costruzione di proprietà palestinese ed una struttura commerciale. Sono state coinvolte un totale di 28 persone, la metà dei quali minori.

Il 30 dicembre, le autorità israeliane hanno emesso un decreto di espropriazione che riguarda oltre 10 ettari di terreni di proprietà palestinese ad est della città di Qalqiliya, per la realizzazione di un by-pass stradale. Secondo un giornale israeliano, questa misura è stata presa in risposta alle richieste di sicurezza dei coloni che affrontano rischi quando percorrono il tratto di strada che attraversa il villaggio di Nabi Elyas. I lavori richiederanno lo sradicamento di centinaia di alberi di ulivo appartenenti a diversi contadini del villaggio di Azzun.

Nel governatorato di Hebron, nel periodo di riferimento si è assistito ad una attenuazione di alcune delle restrizioni di movimento imposte dalle autorità israeliane dall’ottobre 2015; è così leggermente migliorato l’accesso della popolazione ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Ciò ha comportato, in primo luogo, la rimozione dei posti di blocco permanenti allestiti agli ingressi principali delle località principali: le città di Hebron, Halhul, Sa’ir, Samu’, Yatta, Beit Ummar, Tarqumiya, e il campo profughi di Al Arrub, riducendo in modo significativo i ritardi. In questi luoghi, durante il periodo di riferimento, sono stati dispiegati ad intermittenza e per brevi periodi di tempo, posti di blocco “volanti”. Sono tuttavia rimasti al loro posto la maggior parte degli ostacoli che, posizionati a partire da ottobre 2015, bloccano le vie di accesso secondario che incanalano il traffico verso le strade principali menzionate sopra.

L’accesso e la circolazione interna della zona H2 di Hebron, sotto controllo israeliano, sono rimasti gravemente limitati. Uno dei principali punti di controllo dell’ingresso a questa zona, il checkpoint 56, è stato riattivato dopo lavori di fortificazione. A causa di procedure di controllo più severe, il tempo medio di attraversamento per i residenti registrati è aumentato da 10 a 40 minuti. Inoltre, l’ordine di chiusura della zona H2 di Tel Rumeida, che permette l’ingresso solo ai residenti registrati, è stato prolungato fino al 31 gennaio e la zona interessata è stata ampliata.

Nel corso del periodo di due settimane cui si riferisce il presente rapporto, nel governatorato di Nablus, sono stati registrati due attacchi di coloni israeliani con conseguenti lesioni o danni materiali: un 24enne palestinese è stato aggredito e ferito nei pressi dell’insediamento di Shave Shamron; coloni israeliani provenienti, secondo quanto riferito, dall’insediamento Itamar hanno compiuto atti di vandalismo e danneggiato una casa palestinese nel villaggio di Beit Furik. Le autorità israeliane hanno emesso atti d’accusa contro due coloni israeliani in relazione all’incendio doloso, appiccato nel villaggio di Duma nel luglio 2015, che provocò la morte di tre membri della stessa famiglia, tra cui un bambino, e lesionò gravemente un altro minore.

I media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi, contro veicoli con targa israeliana, con conseguenti danni a tre veicoli privati vicino ad Hebron e a Betlemme, oltre che alla Metropolitana leggera di Gerusalemme (due casi)

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, sono stati registrati almeno dieci episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro civili palestinesi, senza causare vittime. È stato riferito che in almeno un caso, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato una serie di razzi verso Israele, due dei quali sono caduti in Israele, in una zona aperta, mentre i rimanenti sono ricaduti in Gaza. Non sono stati segnalati feriti o danni.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 144 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 252 palestinesi; il governatorato di Hebron conta il maggior numero di operazioni e arresti. Tra i luoghi interessati alle incursioni: l’Università Birzeit a Ramallah, dove sono stati confiscati computer e documenti e arrecati danni alla proprietà; nella città di Nablus, gli uffici di un’organizzazione per i diritti umani che sono stati chiusi per sei mesi, con ordinanza militare, per presunta istigazione contro gli israeliani; ancora a Nablus, una scuola secondaria nella quale sono stati anche arrecati danni materiali.

Nella Striscia di Gaza la fornitura di energia elettrica si è deteriorata per due giorni a causa di danni riportati da due delle tre linee egiziane di alimentazione che provvedono alla fornitura a Gaza-Sud, così come ad una delle linee israeliane che alimentano Gaza City. Nelle zone interessate il black-out è giunto fino a 18 ore al giorno, compromettendo l’erogazione di servizi di base e rendendo ancora più precari i già scarsi mezzi di sostentamento e le condizioni di vita.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è stato chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 37 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno indicato che sono registrati, e in attesa di attraversare, oltre 25.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 bisognosi di cure mediche.

1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 12 gennaio tre palestinesi, tra cui un ragazzo di 17 anni, sono stati colpiti con armi da fuoco e uccisi dalle forze israeliane in due episodi separati: durante un presunto tentativo di accoltellamento al bivio di Beit ‘Einun (Hebron) e durante gli scontri nel corso di una operazione di ricerca-arresto a Beit Jala (Betlemme).

Il 13 gennaio, nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza, vicino a Beit Lahia, le forze israeliane hanno colpito con armi da fuoco e ucciso un palestinese e ne hanno feriti altri tre; non sono ancora chiare le circostanze.

Ezio R. e Giovanni L.V. per “Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”

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Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazioni, corredate da dati numerici e grafici statistici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati. Sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

Sullo stesso sito sono reperibili mappe dettagliate della Striscia di Gaza e della Cisgiordania:
Striscia di Gaza:
http://www.ochaopt.org/documents/Gaza_A0_2014_18.pdf
Cisgiordania:
http://www.ochaopt.org/documents/Westbank_2014_Final.pdf

La scrivente “Associazione per la pace – gruppo territoriale di Rivoli”, stante l’imparzialità dell’Organo che li redige, utilizza i Rapporti per diffondere un’informazione affidabile sugli eventi che accadono in Palestina. Pertanto, traduce i Rapporti in italiano (escludendo i dati statistici ed i grafici) e li invia agli interessati. Tali Rapporti sono anche scaricabili dal sito Web dell’Associazione, alla pagina:
https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali