Rapporto settimanale Ocha periodo 1 – 14 dicembre 2015 (due settimane).

Il periodo di riferimento di due settimane (1-14 dicembre) ha registrato 15 aggressioni, o presunte tali, da parte di palestinesi; 13 degli autori, o presunti autori, sono stati uccisi (tra essi due minori di 16 e 17 anni) mentre un altro minore di 16 anni è stato ferito. Nel corso delle suddette aggressioni sono rimasti feriti 31 israeliani, tra cui un bimbo e 13 membri delle forze di sicurezza [1]

Gli episodi comprendono otto accoltellamenti e tentativi di accoltellamento, cinque investimenti con auto e due scontri a fuoco effettuati da presunti palestinesi che sono fuggiti. Tredici di questi episodi sono avvenuti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e due a Gerusalemme Ovest. Le circostanze di numerosi episodi rimangono controverse. Nessuno degli autori e presunti autori, secondo quanto riferito, apparteneva a fazioni o gruppi armati.

Secondo i media israeliani, il Ministero israeliano della Giustizia ha aperto un’indagine penale sulla sparatoria ed il ferimento di una ragazza palestinese di 16 anni, accusata di aver effettuato un accoltellamento a Gerusalemme Ovest, il 23 novembre; a quanto riferito, l’inchiesta non riguarderà l’uccisione della ragazza palestinese di 14 anni, avvenuta nella stessa circostanza. Questa è la prima indagine, di cui si ha notizia, relativa alla condotta tenuta dalle forze israeliane nel rispondere all’ondata di aggressioni palestinesi verificatesi a partire dal 1° ottobre 2015. A seguito di tali aggressioni sono stati uccisi 71 palestinesi ed altri 23 sono stati feriti, sollevando serie preoccupazioni per il probabile uso eccessivo della forza e uccisioni extragiudiziali.

Nel corso di tre diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, tre palestinesi: nel contesto di una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme); durante le manifestazioni vicino alla recinzione che circonda Gaza; all’ingresso nord della città di Hebron.

Altri 1.409 palestinesi sono stati feriti in questi e in altri scontri verificatesi in tutti i Territori palestinesi occupati (oPt): 102 nei pressi della recinzione che circonda Gaza e i rimanenti [1.307] in diverse località della Cisgiordania. La stragrande maggioranza delle lesioni (1.290) ha avuto luogo nel contesto di proteste contro l’occupazione di lunga data e le politiche israeliane connesse, tra cui il trattenimento da parte delle autorità israeliane dei corpi dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane negli ultimi mesi. Almeno il 7% dei ferimenti avvenuti in Cisgiordania, e il 43% di quelli nella Striscia di Gaza, sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei restanti sono stati causati da proiettili di gomma o inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti (422) relativi ad una singola località, continua ad essere registrato nella città di Qalqiliya: questi includono un gran numero di persone non coinvolte negli scontri, ma curati per aver inalato gas lacrimogeno mentre attraversavano il posto di blocco che controlla l’unico ingresso alla città o per averlo inalato nelle loro case in prossimità degli scontri.

Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno arrestato 365 palestinesi in Cisgiordania, più di un quarto nel governatorato di Gerusalemme, durante 214 operazioni di ricerca-arresto. Nella Striscia di Gaza, due pescatori palestinesi sono stati arrestati nel contesto delle restrizioni israeliane in materia di accesso al mare. Anche un componente dello staff della Mezzaluna Rossa Palestinese è stato arrestato mentre usciva da Gaza attraverso il valico di Erez.

Le autorità israeliane hanno demolito, mediante esplosivo, due appartamenti: nel campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Erano case di famiglia di due palestinesi (uno ucciso e l’altro in carcere) sospettati di aggressioni contro israeliani nel 2014 e 2015. 37 persone (inclusi 18 minori) sono stati sfollati: le due famiglie interessate alle demolizioni ed i residenti di cinque appartamenti adiacenti alla casa di Nablus, gravemente danneggiati dall’esplosione. Altri tre appartamenti, adiacenti alla casa demolita nel campo profughi di Shu’fat, hanno subito danni. Entrambi gli episodi hanno innescato scontri con le forze israeliane e il conseguente ferimento di 46 palestinesi. Dal 1° ottobre le autorità israeliane, per la “necessità di dissuadere i palestinesi dal compiere aggressioni”, hanno effettuato 14 demolizioni punitive, sfollando un totale di 108 palestinesi, tra cui 54 minori (sia dalle case interessate al provvedimento, sia da quelle confinanti).

In area C e a Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione, sei strutture abitative, tra cui tende finanziate da donatori, e una struttura commerciale sono state demolite. Le demolizioni di Gerusalemme Est sono avvenute nella zona di Beit Hanina ed hanno provocato lo sfollamento di due famiglie di profughi registrati (16 persone, tra cui 10 minori). Una delle demolizioni in Area C è stata effettuata nella comunità pastorizia di Al Hadidiya, nel nord della Valle del Giordano che, dal 25 novembre, ha subìto ripetute demolizioni o confische di strutture. Nel corso del periodo, sono state demolite e confiscate tre tende, finanziate da donatori e fornite come aiuto umanitario post-demolizione; sfollati quindi, per la terza volta, 15 palestinesi, tra cui quattro minori. Altre quattro tende, finanziate da donatori, sono state confiscate. In un altro caso, nella comunità pastorizia di At Tabban (Hebron), le forze israeliane hanno confiscato materiale fornito da un’organizzazione internazionale per la riparazione di sette abitazioni: questa è una delle 14 comunità della zona Massafer Yatta a rischio di trasferimento forzato, a causa della designazione dell’area come “zona per esercitazioni a fuoco”.

Nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno notificato a tre famiglie palestinesi ordini di sfratto da attuare entro 20 giorni. Questo consegue ad una sentenza di un tribunale israeliano a favore di ‘Ateret Cohanim, organizzazione di coloni che rivendica la proprietà dell’edificio. La stessa organizzazione ha anche avviato un procedimento legale contro altre tre famiglie dello stesso quartiere. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani Ir Amin, a Gerusalemme Est, circa 130 famiglie palestinesi sono soggetti a procedimenti giudiziari, nel contesto delle attività di insediamento [di israeliani] nel cuore dei quartieri palestinesi.

In Area C, le autorità israeliane hanno spianato con bulldozer una zona agricola vicino al villaggio di Shufa (Tulkarem), perché “terra di stato”; nel corso dell’operazione hanno distrutto una grande serra di pomodori, 4.500 mq di terra coltivata a spinaci e una rete di irrigazione; hanno inoltre sradicato e sequestrato 150 ulivi e 40 alberi di limone. I beni in questione costituivano la principale fonte di reddito per nove famiglie, composte da 59 persone. Secondo Peace Now, nel mese di ottobre di quest’anno, nei villaggi di Jinsafut (Qalqiliya) e Deir Istiya (Salfit), le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” 30.000 mq di terra, per consentire la legalizzazione retroattiva di strutture esistenti, oltre che nuove costruzioni nella colonia israeliana di Karnei Shomron.

Il 4 e il 7 dicembre, le forze israeliane hanno sparato numerose granate verso la zona di Fukhari, ad est di Khan Younis e contro un luogo di addestramento militare a sud-est della città di Gaza, causando danni ad alcune case adiacenti; il contesto di questi incidenti rimane poco chiaro. Inoltre, in almeno 15 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, senza causare vittime o danni; sono inoltre entrati nella Striscia di Gaza in due occasioni, durante le quali hanno effettuato operazioni di livellamento del terreno e scavi.

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato diversi razzi verso Israele, tutti ricaduti in Gaza. In due casi, gruppi armati palestinesi hanno aperto il fuoco contro veicoli militari israeliani nei pressi della recinzione che circonda Gaza; le forze israeliane hanno risposto sparando con mitragliatrici pesanti. Non sono stati segnalati feriti.

È stato riferito che l’8 dicembre, 14 palestinesi sono rimasti intrappolati per quattro ore in un tunnel per il contrabbando, sotto il confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Il tunnel è crollato prima che una squadra palestinese di soccorso riuscisse a raggiungerli: sette i feriti.

Due palestinesi (uno in possesso di cittadinanza israeliana) sono stati feriti in due diversi attacchi di coloni israeliani: il conducente di un bus israeliano che è stato aggredito vicino alla colonia di Betar Illit (Betlemme) e un pastore che è stato attaccato dal cane di un colono israeliano nella parte settentrionale della Valle del Giordano. Sono stati segnalati ulteriori episodi di impossessamento di proprietà, impedimento degli spostamenti di palestinesi e intimidazioni; ad esempio, nella zona H2 di Hebron, ad alunni ed insegnanti è stato impedito di raggiungere la loro scuola.

Nel periodo in esame, tre coloni israeliani sono stati arrestati, e sono attualmente sotto interrogatorio, in relazione all’attacco incendiario del 6 settembre nel villaggio di Duma, che provocò la morte di tre membri della stessa famiglia [palestinese] e gravi lesioni ad un altro membro.

Oltre i ferimenti di israeliani riportati sopra (paragrafo 1), sei coloni israeliani, tra cui un minore, sono rimasti feriti dal lancio di pietre contro veicoli in transito nei governatorati di Betlemme, Hebron e Ramallah, in Cisgiordania.

Il governatorato di Hebron continua ad essere la zona più colpita dalle restrizioni di movimento, con conseguenti lunghi ritardi e interruzioni all’accesso a servizi e mezzi di sussistenza per gran parte della popolazione. Tutti gli itinerari (incluse le strade sterrate) che conducono alle principali arterie di traffico (strade 60, 356, 35 e 317) sono rimasti o interamente bloccati per il transito dei veicoli, o sono controllati da posti di blocco “volanti” dispiegati per gran parte del tempo. Il blocco totale include tre delle strade principali di accesso alla città di Hebron, così come gli ingressi principali ad As Samu’, Bani Nai’m e al campo profughi di Al Arrub. L’accesso dei palestinesi all’area di insediamento [colonico], all’interno della zona di Hebron City sotto controllo israeliano (H2), è rimasto fortemente limitato, includendo il divieto di ingresso per i maschi tra i 15 e i 25 anni in alcune aree (via Shuhada e [quartiere di] Tel Rumeida), ad eccezione dei residenti.

I movimenti dei palestinesi, in alcune parti della Cisgiordania settentrionale e centrale, continuano ad essere impediti da posti di blocco e altri ostacoli. Il 9 dicembre, a seguito di una sparatoria, due delle strade principali della città di Tulkarem sono state bloccate con cancelli in ferro, e da allora sono rimaste chiuse. A Ramallah il checkpoint che controlla il principale accesso orientale alla città (DCO checkpoint) è stato chiuso in entrambe le direzioni per due giorni. Contemporaneamente, nel resto del governatorato, i palestinesi continuano ad essere gravati dalla chiusura di altre importanti vie di accesso : un segmento della Old Road 60; l’ingresso orientale di Ein Yabrud (serve 40 villaggi); gli ingressi principali ai villaggi di ‘Abud, Sinjil e Al Mughayir. Per quattro giorni durante il periodo di riferimento, l’esercito israeliano ha chiuso il posto di blocco parziale di Nabi Salih, che interessa direttamente cinque villaggi della zona (circa 17.000 persone). Nel governatorato di Gerusalemme, circa 20.000 palestinesi continuano a risentire della chiusura dell’ingresso principale della città di Ar Ram, e di un posto di blocco permanente collocato ad uno degli ingressi del villaggio Hizma. A Gerusalemme Est, nel periodo di riferimento, sette dei nuovi checkpoint e blocchi stradali, schierati in ottobre 2015, sono stati rimossi, mantenendo operativi otto ostacoli, che pregiudicano l’ingresso e l’uscita dai quartieri di Issawiya, Sur Bahir e Jabal al Mukkabir.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni, il 3 e 4 dicembre, consentendo a 1.526 persone di uscire da Gaza e ad 860 di entrarvi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali.

_______________________ fine del testo del Rapporto ________________________

[1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.


Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 15 dicembre, secondo i media israeliani, due palestinesi sono stati uccisi con armi da fuoco dalle forze israeliane: avevano investito con i loro veicoli soldati israeliani che stavano conducendo una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme).

“Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”
Ezio R. e Giovanni L.V.

assopacerivoli@yahoo.it




La domanda non è perché la violenza sta esplodendo a Hebron, ma perché adesso?

Lo scontro è inevitabile quando centinaia di coloni vivono in mezzo a centinaia di migliaia di palestinesi.

di Amira Hass

Haaretz

Il rompicapo che il servizio di sicurezza israeliano ha cercato di risolvere nelle scorse settimane, riguardo al motivo per cui il centro dell’escalation si è posizionato tra Gerusalemme e Hebron, non è complicato. Queste sono le due città in cui i coloni vivono nel cuore della popolazione palestinese. In entrambe, i coloni sono pesantemente protetti, il che significa che sistematicamente ci si imbatte in soldati, poliziotti, agenti di sicurezza israeliani armati, come anche lo sono gli stessi coloni. In altre città la vita può andare avanti quasi dimenticandosi delle colonie e delle postazioni militari che le circondano. A Gerusalemme e a Hebron questo è impossibile, la protezione di poche centinaia di coloni impedisce costantemente la vita di centinaia di migliaia di palestinesi.

Dal punto di vista palestinese, la vita prosegue all’ombra di violente provocazioni quotidiane e di infinite umiliazioni. Perciò la vera domanda è perché l’ondata di protesta popolare, comprese le aggressioni individuali all’arma bianca, è esplosa adesso e non prima. Non è ancora possibile sapere se gli attacchi con le armi di venerdì segnano una nuova fase e se i tentativi israeliani di repressione la fermeranno oppure incoraggeranno altri a prendere le armi.

Uno dei compiti dei servizi di sicurezza palestinesi nelle ultime settimane è stato quello di controllare che individui armati non si avvicinassero a punti di contatto con l’esercito israeliano, ma questa non è l’unica spiegazione al fatto che non siano state usate le armi. Finora, anche senza indicazioni dall’alto, la maggior parte dei palestinesi concorda che sia meglio non essere indotti all’uso delle armi, a causa dell’amara esperienza della seconda intifada e della paura della repressione israeliana. Le persone che hanno sparato e ferito tre israeliani sono evidentemente giunte alla conclusione che ora i palestinesi lo possono accettare e sono pronti ad affrontare una maggiore repressione.

Come previsto, nella notte tra venerdì e sabato l’esercito israeliano ha compiuto raids in diversi quartieri. Un sito web di informazioni, identificato come appartenente ad Hamas, ha riferito che nel quartiere di Abu Sneina i soldati hanno arrestato un uomo delle forze di sicurezza palestinesi. Era probabilmente da quel quartiere, parte del quale è sotto il controllo della sicurezza israeliana, che sono stati colpiti i due giovani israeliani vicino alla Tomba dei Patriarchi.

Secondo fonti palestinesi, venerdì notte e sabato mattina[i coloni] israeliani hanno attaccato parecchie case palestinesi nei quartieri di Tel Rumeida e Jaber, attraverso i quali passa la strada che collega la città vecchia di Hebron a Kiryat Arba. Hanno tentato di entrare nelle case ed hanno tirato pietre almeno contro una di esse, mentre i soldati israeliani si trovavano lì vicino. Domenica l’esercito israeliano ha occupato almeno tre case nella città vecchia di Hebron, ha radunato gli abitanti di ognuna di esse in una stanza ed ha comunicato che le case erano diventate postazioni militari per 24 ore.

La settimana scorsa sono state bloccate le strade di accesso diretto che collegano Hebron ai villaggi e alle città vicine. Nella città vecchia di Hebron, chiunque non sia residente in Shuhada Street o Tel Rumeida non può entrare in questi quartieri. Il checkpoint all’entrata della moschea di Al-Ibrahimi (Tomba dei Patriarchi) è stato chiuso. Venerdì pomeriggio ai musulmani è stato impedito di entrare nel loro luogo sacro.

L’esercito israeliano ed il servizio di sicurezza Shin Bet hanno effettuato incursioni in ogni casa in cui un membro della famiglia è stato recentemente ucciso dai soldati o dalla polizia. In alcune delle case, i soldati hanno controllato ogni stanza ed esaminato i materiali di costruzione. I residenti hanno dichiarato a Haaretz che il personale dello Shin Bet ha comunicato loro l’intenzione di far esplodere le case. Non si trattava di casi in cui un militare o un civile israeliano era stato ucciso, ma di aggressioni all’arma bianca che avevano causato una lieve ferita, o addirittura nessuna.

Le famiglie sostengono di essere certe che se i soldati avessero voluto, avrebbero potuto ferire o arrestare i loro parenti. Dopo l’uccisione, che le famiglie ritengono intenzionale, la seconda più grave punizione è la sottrazione del corpo. Per le famiglie e per i loro congiunti, il pensiero che i loro cari giacciano in un obitorio e non abbiano ricevuto una degna sepoltura incrementa il livello di odio ed avversione nei confronti di Israele e degli israeliani.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Sapere che cosa accadrà alle loro famiglie non spaventa i palestinesi

Tre residenti di Jabal Mukkaber (sobborgo palestinese di Gerusalemme est, n.d.t.) sapevano che le loro case e la vita delle loro famiglie sarebbero state distrutte, eppure sono andati a Gerusalemme martedì scorso con determinazione omicida.

di Amira Hass

Haaretz

La mattina del 6 ottobre, quando la polizia ha fatto saltare in aria la casa di Ghassan Abu Jamal – uno degli assassini nell’attacco terroristico di novembre alla sinagoga Har Nof – a Gerusalemme est ed ha provocato gravi danni agli appartamenti di suo fratello e dei genitori, suo cugino Ala’a Abu Jamal stava a guardare.

“Ha cercato di dire ai poliziotti ‘Perché dovevate fare questo?’ ”, ricorda S., un parente. “ ‘La Corte Suprema ha approvato la demolizione della casa di Ghassan, ma ha dato ordine di evitare di danneggiare gli appartamenti vicini. Perché colpite anche la famiglia dei genitori e del fratello?’ ” Ma loro non hanno ascoltato. “Lo hanno insultato e picchiato davanti a sua moglie e a tre bambini”, ha aggiunto S.

Una settimana dopo, il 13 ottobre, il cugino Ala’a, dipendente della Bezeq (azienda di telecomunicazioni, n.d.t.), ha lanciato la sua auto aziendale contro Yeshayahu Kirshavsky ad una fermata di autobus a Gerusalemme. Poi è uscito dalla macchina ed ha ucciso Kirshavsky, di 60 anni, con un’accetta, prima di essere ammazzato.

“Noi, io, siamo ancora sotto shock,” ha detto S. “Lui era un uomo tranquillo, con la testa a posto. Aveva un lavoro stabile, a differenza di Ghassan, che era sempre disoccupato. Sono così preoccupato di come la gente viene spinta a gesti estremi. Se un uomo come Ala’a ha fatto quel che ha fatto – ed io sono contrario a questo con tutto il cuore – chi può sapere che cos’altro può succedere? Dopo la punizione dell’intera famiglia di Ghassan e di suo cugino Uday per l’attacco alla sinagoga, lui sapeva che cosa aspettarsi: che sarebbe stato ucciso; che avrebbero distrutto la sua casa; che la vita dei suoi figli e di sua moglie sarebbe stata distrutta. Eppure ha fatto quel che ha fatto.”

“Che governo stupido”, ha detto S. “Non vedete che così non funziona, che i vostri metodi di punizioni collettive provocano esattamente l’opposto?”, ha chiesto.

La figlia di Ghassan, Salma, ha compiuto cinque anni circa un mese fa. Ha chiesto una torta con in cima una vecchia foto di lei e suo papà. Nella foto, lei lo guarda con adorazione e lui le sorride con amore. E’ servita molta glassa e molta panna montata per ricoprire la torta rettangolare.

Dal momento dell’approvazione da parte della Corte Suprema della demolizione della casa di Ghassan, due mesi fa, sua moglie Nadia ed i loro tre bambini hanno vissuto al piano di sotto con il fratello Muawiyyah. L’Alta Corte di Giustizia, che ha respinto una petizione da parte di Hamoked (Centro per la difesa dei diritti individuali ed umani del gruppo Addameer, ndt) contro la punizione della famiglia, ha anche approvato la sua deportazione da Gerusalemme est alla Cisgiordania, poco dopo il compleanno della bambina.

Nadia è parente di Ghassan –  entrambi appartengono allo stesso clan nel villaggio beduino di Sawwahra, che è stato diviso a metà nel 1967: parte di esso è rimasta in Cisgiordania ed un’altra parte, conosciuta come Jabal Mukkaber, è diventata un quartiere di Gerusalemme est.

Quando è stato costruito il muro di separazione in Cisgiordania all’inizio del nuovo millennio, sono stati interrotti i contatti tra le due zone, e solo Nadia è rimasta nella sua casa di Gerusalemme grazie ai permessi di residenza temporanea del Ministero dell’Interno. Dopo l’attacco alla sinagoga, la sua richiesta di rinnovo del permesso è stata respinta.

Il giorno del compleanno di sua figlia, i bambini della grande famiglia e le loro madri si sono riuniti nella piccola stanza degli ospiti di Muawiyyah per festeggiare. Ma Nadia, vestita di nero, non era con loro, ha preferito restare in un’altra stanza.

Non poteva pretendere di essere felice, o che la tensione e la preoccupazione per il futuro non le devastassero l’anima. I suoi tre bambini sono cresciuti circondati dalla famiglia allargata nel quartiere di Gerusalemme: Nadia non può strapparli al loro ambiente naturale, ma al tempo stesso non può abbandonarli e andare a vivere da sola in Cisgiordania.

La torta è stata portata nella stanza e messa su un piccolo tavolo. Dopo aver spento le candeline, con l’aiuto di una zia, Salma ha brandito un lungo coltello affilato e lo ha puntato dritto sul viso del suo papà morto. Ha affondato il coltello nella gola e ha continuato tagliando parti della sua faccia, e poi della propria faccia, in pezzettini che sono stati distribuiti tra i bambini. Allora sua zia si è allontanata dal tavolo ed è andata in un angolo della stanza, sperando che nessuno si accorgesse delle sue lacrime.

I bambini ovviamente non hanno capito il simbolismo del coltello che tagliava l’immagine del padre. Il coltello ha detto ciò che i parenti evitano di dire apertamente: che sono arrabbiati col padre, Ghassan, che li ha abbandonati, che non si è preso cura di loro ed ha fatto quel che ha fatto. Alcuni preferiscono non vedere fotografie dettagliate degli omicidi, per scacciare il pensiero del coltello che forse ha colpito il corpo di persone che stavano pregando.

“Quale cuore è più spezzato di quello di un padre il cui figlio ha fatto questo?” ha detto a Haaretz il padre Mohammed. Ha detto cose simili un anno fa. “Che dio possa perdonarlo”, mormora S.

S. ha anche detto martedì scorso che il cugino Ala’a ha accompagnato le famiglie di Ghassan e del cugino Uday in tutte le fasi della punizione collettiva decisa da Israele.

“Gli interrogatori dei parenti, le ricorrenti incursioni e visite della polizia nelle loro case, qua e là pugni, insulti, il fratello Muawiyyah che ha perso il lavoro”, ha raccontato.

E poi hanno sigillato la casa dei genitori di Uday. “Sigillare” vuol dire buttare del  cemento nella casa e riempire tutte le stanze di un liquido che si solidifica fino a raggiungere 50-80 cm. dal soffitto.

La bella casa di povera pietra della famiglia fu costruita negli anni ’30. Non sarà più possibile abitarla. Ora i genitori di Uday affittano un piccolo appartamento nelle vicinanze, ma continuano a pagare le tasse  municipali per la casa riempita di cemento.

La famiglia ha subito altre forme di punizione collettiva non ordinate dalla Corte Suprema. Per esempio, i vicini e i conoscenti li evitano, perché sanno o temono che se fanno visita alla famiglia, lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, si presenterà il giorno dopo o la polizia farà loro una visita notturna, con tutto ciò che comporta – lo spavento dei bambini nel cuore della notte, colpi e schiaffi, grida ed insulti, una porta o un mobile rotti.

Quando Ala’a ha deciso di seguire le orme del cugino, sapeva benissimo che avrebbe potuto essere ucciso. Questo pensiero non lo ha spaventato. Sapeva anche delle punizioni che i suoi genitori, sua moglie ed i suoi figli avrebbero subito. Forse può avere immaginato che le punizioni sarebbero state ancor più dure, data l’attuale ira ed il desiderio di vendetta di Israele.

Altri due residenti di Jabal Mukkaber hanno sparato ed accoltellato dei passeggeri di un autobus nel quartiere di Armon Hanatziv di Gerusalemme martedì scorso, uccidendo Haim Haviv, di 78 anni e Alon Gruverg, di 51. Non solo sapevano che sarebbero quasi sicuramente morti, ma anche che le loro famiglie avrebbero pagato un caro prezzo per le loro azioni.

Uno di loro era Baha Aliyan, che S. non conosceva, ma ne aveva sentito parlare. Era un attivista sociale, che ha iniziato varie attività per migliorare la qualità della vita, come aprire delle librerie in diversi quartieri palestinesi o sollevare lo spirito collettivo partecipando a diverse gare del Guinness Mondiale dei Primati. S. ha detto di Baha la stessa cosa che aveva detto di Ala’a: “Se un uomo simile decide di fare quel che ha fatto, è solo un’ennesima prova di quanto la situazione sia deteriorata, di quanto sia diventata pericolosa.”

Quando è stata annunciata la sua morte, è circolato ampiamente un post che Aliyan aveva caricato su Facebook il 12 dicembre 2014 – i 10 comandamenti di ogni shahid (martire): “Ci vedremo in paradiso”, era il decimo comandamento. “Non voglio manifesti”, era il secondo, mentre il primo imponeva alle organizzazioni politiche di “non utilizzare il mio sacrificio e la mia morte, perché appartengono alla patria, non a voi.” In altri termini, non pagate per il mio funerale o per la tenda funebre (un’usanza musulmana,ndt)  per sbandierare in cambio i vostri vessilli.

Il terzo comandamento protegge le madri: “Non date fastidio a  mia madre con domande solo per provocare commozione negli spettatori televisivi.”

L’ottavo comandamento dice che è sufficiente che la gente venga a pregare dopo il funerale. Il nono dice che lui non deve diventare un altro numero dimenticato.

Nel quarto chiede di non instillare odio in suo figlio. “ Vorrei lasciagli scoprire da solo la sua patria e morire per lei, non per vendicare la mia morte.”

Nel quinto comandamento, Aliyan ha scritto: “Se vogliono demolire la mia casa, lasciateli fare. La pietra non ha maggior valore dell’anima che dio ha creato.” Il sesto comandamento dice al popolo di non essere triste per la sua morte. “Siate tristi per ciò che accadrà a voi dopo di me.” E poi: “Non guardate a ciò che ho scritto prima del mio sacrificio. Chiedetevi ciò che c’è dietro di esso.”

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




I giovani palestinesi soffrono di un continuo disagio, l’occupazione israeliana.

Parlando di Terza Intifada, i palestinesi con meno di 30 anni discutono su chi vedono alla testa delle ultime violenze.

Al Jazeera

Mentre le prime pagine dei media si concentrano sui drammatici attacchi all’arma bianca da parte di palestinesi e israeliani, gli uni contro gli altri, contemporaneamente nelle ultime settimane migliaia di giovani palestinesi sono scesi in strada in Israele, a Gerusalemme est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per chiedere la fine della pluridecennale occupazione israeliana, per protestare contro le violenze delle forze di sicurezza israeliane e dei coloni e per chiedere il riconoscimento dei loro diritti umani.

Ovviamente gli accoltellamenti sono una novità, mentre le proteste sono di lunga data – tranne per il fatto che oggi coinvolgono una nuova generazione di palestinesi, quelli che sono cresciuti nell’epoca del processo di pace di Oslo e delle conseguenti frustrazioni e fallimenti. Come le proteste della prima Intifada nel 1987, alcune delle manifestazioni di oggi sono pacifiche, mentre altre si sono trasformate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

Mentre i veterani palestinesi e gli analisti affrontano la questione se gli attuali avvenimenti presentino le caratteristiche di una nuova intifada, Al Jazeera si è messa in contatto con un certo numero di palestinesi con meno di 30 anni in tutta la regione. Abbiamo posto loro due domande:

1) Chi pensi che diriga l’attuale rivolta?

2) Se queste proteste e questi scontri continueranno, come ti aspetti che risponderanno le forze di sicurezza israeliane, i coloni e l’Autorità Nazionale Palestinese?

Alcune delle loro risposte sono state tradotte dall’arabo, altre sono state espresse in inglese ma sono state corrette.

Lema Nazeeh

Avvocata di 27 anni di Ramallah, Cisgiordania

Questa sollevazione popolare è spontanea e chi la guida è la nuova generazione – soprattutto studenti medi ed universitari. Questa volta siamo scesi in strada e abbiamo raddoppiato la resistenza ovunque, a cominciare da Gerusalemme fino alla Cisgiordania e a Gaza. Stanno partecipando anche i palestinesi che vivono nei territori del ’48 [in Israele]. Il messaggio della nuova generazione è che la Palestina sarà libera e che siamo determinati a porre fine all’occupazione e al terrorismo dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Per continuare, abbiamo bisogno di creare un comitato unitario in cui il popolo si possa organizzare e dirigere il movimento al di fuori dell’establishment politico.

I palestinesi di qualunque parte devono essere uniti nella resistenza contro l’occupazione – manifestando a Gaza, Gerusalemme, Haifa, Ramallah, Betlemme, Yaffa ed Hebron. Finché continuerà l’occupazione dobbiamo continuare a resistere per una vita di libertà e dignità.

Le forze di sicurezza israeliane ed i coloni continueranno con la loro violenza e il terrorismo contro di noi, ma noi, il popolo, abbiamo una sola voce, che il governo israeliano, i gruppi sionisti e i membri della comunità internazionale complici dei crimini israeliani contro i palestinesi non potranno mai far tacere. Non è il momento di aver paura.

Fadi Salah Al Shaik Yousef

28 anni, specialista in sviluppo infantile a Gaza City, Gaza

Questa intifada popolare, che non è organizzata né diretta da nessuna autorità, è una reazione normale a tutti gli anni di ingiustizia, di crimini e di umiliazioni perpetrati da Israele contro il popolo palestinese. Considerando il grande numero di palestinesi uccisi e feriti per mano delle forze di sicurezza israeliane si tratta di una reazione assolutamente normale.

Queste proteste e questi scontri accadono perché il popolo palestinese ha perso ogni speranza nei propri dirigenti, persino nell’umanità. Abbiamo scoperto che le soluzioni pacifiche non stanno portando alla fine dell’occupazione – per cui dobbiamo continuare a resistere.

La gente di Gaza ormai non ha più niente da perdere, per cui siamo pronti ad aiutare in ogni caso la Cisgiordania. Noi marciamo fino alla frontiera con Israele e protestiamo per dire ai nostri fratelli in Cisgiordania che siamo solidali con loro e respingeremo ogni attacco israeliano contro di loro.

Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese possono tentare di controllare la situazione, ma non ci riusciranno. Nessuno lo può fare. E’ anche difficile prevedere dove porterà tutto questo. Siamo abituati al fatto che Israele commetta dei crimini e poi faccia la parte della vittima. Non mi aspetto che questo cambi. Da parte sua l’Autorità Nazionale Palestinese deve cessare ogni forma di coordinamento in materia di sicurezza con l’occupante.

Come questo finirà dipenderà dalla volontà del popolo e dal livello di sostegno diretto o indiretto che riceveremo dalle varie fazioni palestinesi.

Nadine Khoury

16 anni, studentessa di scuola superiore a Taybeh, in Cisgiordania

Vorrei puntualizzare che questo non sta succedendo solo da una settimana. Ho vissuto qui in Palestina da circa tre anni e mezzo e mi sono resa conto che questi atti inumani sono molto comuni nella vita palestinese (il che non li rende meno tragici).

Penso effettivamente che i palestinesi stiano cercando di iniziare una terza intifada perché ne hanno abbastanza di vivere accanto a questa gente che continua a prendersi la loro terra, a uccidere i loro figli ed hanno realmente il coraggio di fare e giustificare tutto ciò. Tuttavia, anche se sono d’accordo che una terza insurrezione può essere la nostra unica possibilità di liberarci dell’occupazione israeliana, non penso che ora sia il momento migliore. I palestinesi non hanno la tendenza a pensare ed agire tutti insieme, per cui, finché non troveranno un’unità, personalmente non penso che ci sarà un’intifada. Vivendo in Palestina, posso notare la brutalità da ambo le parti per cui, per il momento, non vedo che la situazione si possa calmare  a breve.

Se e finché questi scontri continueranno, credo che le forze di sicurezza israeliane ed i coloni seguiteranno ad usare la forza, in ogni modo possibile, per reprimere una terza intifada. Israele vuole solo mantenere il controllo sul popolo palestinese e sulla indebolita Autorità Nazionale Palestinese. So che il popolo palestinese continuerà a lottare ardentemente per la propria terra, i propri diritti e la propria libertà. Una kefiah (hatta, copricapo palestinese, ndt.) e una pietra non sono niente rispetto a un giubbotto antiproiettile e a un cecchino. Purtroppo è una lotta impari e il mondo sta a guardare quello che succede.

Omar Daraghmeh

27 anni, traduttore a Tubas, Cisgiordania

La recente violenza è il risultato dell’assenza di un qualunque orizzonte politico tra i palestinesi e le autorità d’occupazione israeliane a causa della continua aggressione israeliana (dell’esercito e dei coloni) contro i palestinesi in generale e la profanazione della sacra moschea di Al-Aqsa in particolare.

Le tensioni spariranno e la tranquillità verrà gradualmente ripristinata a meno che la più ampia maggioranza della popolazione palestinese si unisca alla sollevazione, sopratutto i gruppi armati palestinesi nei campi di rifugiati della Cisgiordania o nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Ci si aspetta che Israele scateni una guerra contro Gaza mentre darà mano libera ai coloni e chiuderà Gerusalemme e la Cisgiordania e intensificherà la campagna di arresti.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese se ne verrà fuori con le sue inutili dichiarazioni, terrà qualche “riunione d’emergenza” e chiederà una “protezione internazionale” per i palestinesi mentre contemporaneamente reprimerà ogni protesta palestinese contro l’occupazione.

Tarek Bakri

29 anni, ingegnere e ricercatore a Gerusalemme

Forse quello che è successo alla moschea di Al-Aqsa ha spinto molti altri a partecipare alla rivolta, ma la vedo come qualcosa di più grande. Riguarda l’occupazione e le sue politiche. A un certo punto crediamo che ci sia  una parte che sta eliminando l’altra. Gli israeliani stanno portando avanti una sorta di lenta pulizia etnica a Gerusalemme  attraverso esecuzioni immediate e seminando la paura per fare in modo che i palestinesi lascino la città. Israele vuole che Gerusalemme abbia una maggioranza ebraica.

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a queste umiliazioni quotidiane. Succederà che i palestinesi alzeranno il livello della resistenza. Nel frattempo aumenterà la violenza dei coloni. Ma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese rimarranno a guardare.

Raya Shamali

17 anni, studentessa di scuola superiore ad Arraba, Israele

La tensione tra le due parti è sempre stata  alta ed ogni tanto qualcosa la scatena e la rende più evidente. L’attuale situazione sta portando a scontri ancora peggiori tra i sionisti e i palestinesi e tra i cittadini palestinesi di Israele e il governo.

Ciò che sta avvenendo ora, i giovani palestinesi che lottano contro l’occupazione, è simile a quello che è successo nella seconda intifada, durante la quale questa generazione è cresciuta. Purtroppo è probabile che ciò porti a molti morti da entrambe le parti e colpisca in tutti gli ambiti della vita.

Finché le proteste continuano, mi aspetto che le forze di sicurezza israeliane continueranno nella repressione e nel razzismo verso i palestinesi. Mi aspetto anche che i coloni israeliani intervengano in modo più deciso.

E’ difficile dire cosa faranno le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. O cercheranno di porre fine a quello che stanno facendo quelle israeliane, cosa che ci potrebbe portare a una guerra, o reprimeranno i manifestanti in modo che la situazione non diventi ancora peggiore.

Mustafa Staiti

29 anni, fotografo cinematografico a Jenin, Cisgiordania

Per la mia generazione – nata a metà degli anni ’80 durante la prima rivolta e che ha vissuto la seconda in tutti i suoi aspetti – è più facile avere un’opinione su quando tutto ciò diventerà quello che chiamiamo intifada. Una nuova azione può obbligare il mondo a trovare una soluzione finale per i palestinesi, o terminare con un altro disastro ad aggiungersi alla pulizia etnica a danno dei palestinesi. Quelli che scendono in strada adesso sono di una generazione più giovani di me. Sono nati nel culmine della violenza durante la seconda intifada – sono arrabbiati, senza paura e non gli importa quello che gli possa succedere. Non hanno niente da perdere; hanno sempre vissuto in guerra.

L’Autorità Nazionale Palestinese è instabile perché è legata ad accordi che dovrebbe mandare al diavolo, ma ciò porterebbe a una divisione o ad una violenza tra palestinesi. Israele cercherà di occupare più terra e continuerà ad usare la mano pesante. I coloni saranno i più soddisfatti se l’esercito israeliano invaderà la Cisgiordania e se si avanzerà verso l’idea di un unico Stato di Israele [compresi i Territori Occupati].

Mariam Barghouti

22 anni, studentessa universitaria a Ramallah, Cisgiordania

Credo ci sia una grande discrepanza tra il dibattito in corso all’estero sul fatto  se questa sia una terza intifada o no e la realtà sul terreno, dove questa discussione appare insensata. Al di là delle etichette, i giovani palestinesi stanno esprimendo il proprio malessere contro l’aggressione israeliana e i fallimenti della dirigenza palestinese per trovare una concreta soluzione per il popolo palestinese.

La grande maggioranza dei giovani che scendono in piazza ha tra i 13 e i 27 anni. E’ importante notarlo perché questa è la generazione di Oslo. E’ una generazione che non conosce una realtà oltre il muro dell’apartheid o le tattiche repressive dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quello a cui stiamo assistendo non sono solo casuali atti di violenza, questa frustrazione ha infettato il popolo palestinese ormai da anni, stiamo lentamente implodendo. Piccoli atti di protesta in Cisgiordania, razzi da Gaza, scontri nella Palestina storica [Israele], tutto questo va a braccetto. Non possiamo decontestualizzare la situazione attuale dal passato. Ogni reazione è stata preceduta da un’azione, sia che si tratti del progressivo aumento dell’aggressione israeliana o della repressione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Non è solo uno scontro  nei confronti dell’aggressione israeliana, ma un messaggio all’Autorità Nazionale Palestinese che si creerà una rivolta se continueranno la normalizzazione dell’occupazione, tenendo tranquillo Israele grazie al coordinamento per la sicurezza, pretendendo contemporaneamente di parlare in nome dei palestinesi.

Questo è un momento cruciale, in cui i giovani diventano protagonisti. Le voci che erano rimaste assenti dalle politiche israelo-palestinesi stanno erompendo attraverso il suono di cori, pietre, accoltellamenti e qualunque altro metodo disponibile. Non si può dire dove finirà tutto ciò, ma non credo che adesso sia importante. La situazione potrebbe benissimo terminare con l’aiuto dell’Autorità Nazionale Palestinese, succube di Israele; oppure l’escalation potrebbe continuare ad aumentare finché formeremo una dirigenza dal basso che possa iniziare a formulare delle richieste. Comunque il messaggio chiaro è che per ogni azione c’è una reazione e questa è la reazione della gioventù palestinese al  fallimento dei negoziati e alle continue aggressioni israeliane.

Finché gli scontri continueranno da parte dei giovani palestinesi, le forze di sicurezza israeliane risponderanno nell’unico modo che conoscono, cioè con la violenza. E’ insito nella loro struttura coloniale opprimere e opporsi ad ogni forma di resistenza palestinese. E’ una tattica istituzionalizzata e non una reazione alle manifestazioni palestinesi. Le vite dei coloni sono state turbate dai palestinesi, non si sentono più a loro agio nella loro opera di colonizzazione e ciò potrebbe avere uno di questi due risultati, potrebbero accentuare  la violenza contro i palestinesi (come vediamo attualmente), o capire che la colonizzazione non gli conviene economicamente o socialmente e questo potrebbe obbligarli a voler lasciare le loro colonie. La differenza tra i giovani palestinesi e i coloni israeliani è che i giovani palestinesi non hanno dietro di loro un appoggio, si sostengono uno con l’altro. D’altra parte i coloni hanno il sostegno dell’esercito israeliano e naturalmente del sistema giudiziario israeliano, che non li incolperà né li condannerà per le continue violenze perpetrate contro i palestinesi.

Quanto alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non agiranno senza un ordine della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Attualmente stanno permettendo ai giovani palestinesi di scontrarsi con le forze di sicurezza israeliane non per un sincero appoggio al popolo palestinese, ma perché stanno attenti a che la rabbia  in piazza non si rivolga contro di loro. D’altro canto ho detto “permettono” ai giovani, perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora il potere di placare l’ira dei giovani che scendono in strada. Il silenzio dell’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe benissimo essere un metodo per lasciare che i giovani che manifestano si stanchino invece di cercare di tranquillizzare le masse come fanno di solito. Quello che è orribile comunque è la possibilità che l’Autorità Nazionale Palestinese utilizzi lo spirito dei giovani in piazza come una merce di scambio con Israele per rafforzare la propria legittimità in Cisgiordania come l’unica autorità in grado di ottenere la calma e controllare le masse palestinesi e obbligare Israele a tornare al tavolo dei negoziati.

Stilato da Renee Lewis, Ehab Zahriyeh, Nadeem Muaddi e Nadia AbuShaban

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto ONU OCHAoPt:15 – 28 settembre 2015 (due settimane).

Le forze israeliane, nelle due settimane di riferimento, hanno ucciso due palestinesi. Il 22 settembre, al checkpoint di Ash  Shuhada Street di Hebron, una studentessa diciottenne è stata colpita da più proiettili di arma da fuoco. Per le ferite riportate la studentessa è morta il giorno stesso in un ospedale israeliano. Secondo le autorità israeliane, la donna aveva tentato di accoltellare un soldato. Tale versione è stata contestata da Amnesty International che ha citato l’evidenza di una “esecuzione extragiudiziale”. Il 24 settembre un venticinquenne palestinese è morto per le ferite di arma da fuoco riportate il 18 settembre durante scontri tra forze israeliane e palestinesi al checkpoint di Beit Furik (Nablus). Secondo i media, le autorità israeliane affermano di aver sparato in risposta al lancio di bottiglie incendiarie contro un veicolo israeliano; fatto che testimoni oculari palestinesi negano.

Sempre il 22 settembre, nel villaggio Khursa (Hebron), un 21enne palestinese è stato ucciso dalla deflagrazione di un ordigno esplosivo che tentava di gettare contro un veicolo delle forze israeliane.

Durante il periodo di riferimento, 51 palestinesi, tra cui due minori, e cinque poliziotti israeliani, sono rimasti feriti durante scontri in Haram al Sharif-Monte del Tempio. Secondo il direttore della Moschea di Al Aqsa, l’interno della moschea ha subito danni. Gli scontri hanno avuto luogo nelle settimane in cui, in coincidenza con le festività ebraiche, erano aumentati gli ingressi di coloni e di altri gruppi israeliani nel Complesso mentre, viceversa, all’ingresso dei palestinesi venivano imposte varie restrizioni, attenuate solo durante i quattro giorni della festa musulmana di Eid. In collegamento a quanto sopra, diffuse proteste palestinesi e scontri hanno avuto luogo in altre zone dei Territori occupati, compresa la Striscia di Gaza, provocando il ferimento di 128 palestinesi, tra cui 43 minori, così come di 14 membri delle forze israeliane (tutti in Cisgiordania), nonché danni a circa 100 ulivi, investiti dal fuoco conseguente al lancio di lacrimogeni contro i manifestanti in Tuqu’ (Betlemme).

In Cisgiordania le forze israeliane hanno ferito altri 106 palestinesi (tra cui 37 minori) e due volontari internazionali: 13 palestinesi durante operazioni di ricerca-arresto in Hebron City, Beit Ummar (Hebron), Tuqu’ (Betlemme), Deir al Hatab (Nablus), nel Campo profughi di Jenin (Jenin) e nella città di Nablus; 86 palestinesi ed un volontario internazionale durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed a Bil’in (Ramallah); un minore palestinese ed un volontario internazionale durante il funerale di un palestinese ucciso dalle forze israeliane a Beit Furik; tre palestinesi ad un checkpoint nella zona H2 di Hebron e tre feriti durante altri scontri.

Membri di gruppi armati palestinesi hanno lanciato diversi razzi verso il sud di Israele. Il 18 settembre un razzo è caduto a Sderot, causando danni alla proprietà; il 21 settembre un altro razzo è caduto nella zona di Hof Ashkelon senza provocare feriti o danni. Un altro razzo lanciato da Gaza è stato intercettato da Israele, senza danni. Il 19 settembre, forze aeree israeliane hanno lanciato almeno due missili contro una torre di telecomunicazioni ad est di Jabalia – utilizzata, a quanto riferito, da un gruppo armato – e contro una torre-acqua ad est di Beit Hanoun. Entrambe le strutture e un certo numero di case vicine hanno subito danni, mentre due residenti civili palestinesi sono stati feriti.

L’8 settembre, in Gaza City, un 17enne è stato ferito dalla esplosione di un residuato bellico. UNMAS [United Nations Mine Action Service] stima che ci siano oltre 5.000 ordigni inesplosi a Gaza, residuati delle ostilità del 2014. Dal cessate il fuoco dell’agosto 2014, almeno undici persone sono state uccise da ordigni inesplosi e 110 ferite.

Le forze israeliane hanno effettuato 128 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania, per la maggior parte (44) nel Governatorato di Gerusalemme. Similmente, dei 248 palestinesi arrestati in tutta la Cisgiordania, 154 sono stati arrestati nella sola Gerusalemme; tra essi circa 40 minori.
A Gaza, il 15 settembre, le forze israeliane hanno ferito un membro delle forze di sicurezza di Gaza mentre cercava di impedire ad un palestinese di valicare la recinzione perimetrale per entrare in Israele senza autorizzazione. Secondo quanto riferito, nel periodo considerato da questo Rapporto, 13 palestinesi hanno tentato di attraversare la recinzione per entrare in Israele senza autorizzazione; quattro di essi sono stati arrestati dalle forze israeliane. In due occasioni le forze israeliane sono entrate all’interno della Striscia di Gaza e hanno spianato il terreno ed eseguito scavi nei pressi della recinzione.

Sono stati segnalati tre attacchi di coloni israeliani contro palestinesi, con lesioni o danni alle proprietà: l’aggressione fisica contro un palestinese che, per errore, era entrato all’interno dell’insediamento di Shave Shomron; un incendio doloso, a sud di Hebron, che ha causato danni a circa 550 alberi e che, secondo quanto riferito, è stato appiccato da coloni dell’insediamento di Haggay; il danneggiamento di una cisterna per acqua ad Al Khader (Hebron), da attribuire, secondo quanto riferito, a coloni dell’insediamento di El’azar. Inoltre (non incluso nel conteggio), nella zona H2 di Hebron, un bambino di sette anni è stato investito da un guidatore fuggito senza prestar soccorso.

Sempre nel periodo cui si riferisce questo Rapporto, sono stati registrati 14 attacchi di palestinesi, con lesioni a coloni israeliani o danni alle loro proprietà: la media settimanale più alta (7) dal febbraio 2015. Si è trattato di lanci di pietre contro veicoli israeliani nei Governatorati di Hebron, Betlemme, Gerusalemme e Ramallah. In un caso sono state lanciate bottiglie incendiarie contro case nella colonia di Nof Zion a Gerusalemme Est, causando lesioni a cinque coloni e ad un membro delle forze israeliane.
La fornitura di combustibile a Gaza – compreso quello per la Centrale elettrica – è stata interrotta a causa della chiusura dei valichi durante le festività ebraiche, ma anche per la mancanza di un coordinamento efficace tra le autorità palestinesi, con la conseguente carenza di combustibile sul mercato locale ed interruzioni di energia elettrica in tutta la Striscia fino a 20 ore al giorno. Verso la fine del periodo di riferimento [15-28 settembre] è ripresa la fornitura di carburante per la Centrale elettrica e le interruzioni di corrente si sono ridotte a 12-16 ore al giorno. Durante il periodo considerato dal precedente Rapporto [8-14 settembre], le interruzioni di corrente erano aumentate dalle 12-16 ore/giorno a più di 20 ore/giorno, a causa della generale mancanza di carburante ed a problemi sulle linee elettriche egiziane, problemi in seguito risolti. Le interruzioni di corrente hanno gravemente perturbato la fornitura dei servizi di base, tra cui quelli sanitari e quelli riguardanti l’acqua.

In Cisgiordania, nel periodo in esame, le forze israeliane hanno intensificato le restrizioni di accesso: tra esse la chiusura, dal 20 settembre, dell’ingresso nord della città di Ar Ram con blocchi stradali; la chiusura, per diversi giorni, delle strade agricole a sud e ad ovest del villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya); la chiusura degli ingressi ai quartieri Al Isawiya e Sur Bahir (Gerusalemme Est) e Deir Nidham (Ramallah).

Per mancanza dei permessi edilizi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito cinque strutture nel Governatorato di Gerusalemme. Tra queste, tre strutture commerciali nel villaggio di Hizma, una struttura per animali in Al Isawiya ed una casa in costruzione nella zona di Silwan. Le autorità israeliane hanno emesso ordini di sgombero contro 600 m2 di terreno ad est di Qusra (Nablus), sostenendo che è “terra di stato”, e contro più di 2 ettari di terra nel villaggio Qarawat Bani Hassan (Salfit), sulla base del fatto che si tratta di una “riserva naturale”; in quest’ultimo caso, i proprietari sono tenuti a sradicare gli alberi ivi piantati quattro anni fa. Inoltre, nel Governatorato di Tubas, le autorità israeliane hanno confiscato, per motivi non chiariti, un trattore in Ein al Hilwa ed un serbatoio per acqua in Humsa Al Bqai’a.
Il valico di Rafah è stato eccezionalmente aperto il 17 settembre per oltre 500 pellegrini palestinesi diretti a La Mecca (Arabia Saudita). Il valico è stato continuamente chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 33 giorni di aperture parziali.

Ezio R. e Giovanni L.V. per

“Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”

* note

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazioni, corredate da dati numerici e grafici statistici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati. Sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

Sullo stesso sito sono reperibili mappe dettagliate della Striscia di Gaza e della Cisgiordania:
Striscia di Gaza:
http://www.ochaopt.org/documents/Gaza_A0_2014_18.pdf
Cisgiordania:
http://www.ochaopt.org/documents/Westbank_2014_Final.pdf

La scrivente “Associazione per la pace – gruppo territoriale di Rivoli”, stante l’imparzialità dell’Organo che li redige, utilizza i Rapporti per diffondere un’informazione affidabile sugli eventi che accadono in Palestina. Pertanto, traduce i Rapporti in italiano (escludendo i dati statistici ed i grafici) e li invia agli interessati. Tali Rapporti sono anche scaricabili dal sito Web dell’Associazione, alla pagina:
https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali




L’economia al cuore delle colonie illegali di Israele

07/01/2015  ma’an news

Gerusalemme (IRIN) – Tra tutti gli ostacoli nei negoziati di pace tra i dirigenti israeliani e palestinesi forse il più grave sono le circa 150 colonie israeliane in Cisgiordania.

Queste comunità, considerate illegali dall’ONU, hanno incrinato i rapporti di Israele persino con i suoi alleati: quest’anno il presidente filo-israeliano della commissione per gli affari esteri del parlamento britannico ha dichiarato che la decisione di sviluppare nuovi insediamenti “mi ha indignato più di qualunque altra cosa nella mia vita politica.”

Nonostante un congelamento ufficioso dei progetti di colonizzazione, alla fine di dicembre il Comitato della Pianificazione e del Bilancio di Gerusalemme ha gettato le basi per approvare permessi edilizi per circa 400 case sul territorio palestinese a Gerusalemme e approvato un piano per altre 1.850 per un quartiere che si trova sul confine.
Benché siano spesso concepite come il risultato di una missione religiosa da parte degli ebrei per reclamare altro territorio, di fatto per molti coloni le ragioni per andarci a vivere sono economiche – incoraggiati da sistemi di incentivazione pianificati dal governo per spostarli nella terra occupata. Ma per alcuni il fatto di andare a vivere in una colonia può avere l’effetto di radicalizzarli.

“Qualità della vita”

E’ un giorno infrasettimanale nell’insediamento di Ariel, in Cisgiordania. Al campus dell’università gli studenti condividono una pausa per fumare. Due donne che fanno fare un giretto ai loro cani chiacchierano in ebraico con accento russo. Niente fa pensare che non si tratti di altro che di una qualunque cittadina israeliana.
Ma benché non sia nota per una forte tendenza ideologica o per violenti attacchi contro i suoi vicini palestinesi, sconfinando di circa 16 chilometri ad est della Linea Verde che divide Israele dai Territori Occupati in Cisgiordania, questa cittadina di 19.000 abitanti è decisamente una colonia.
Ad Ariel molti residenti vivono come i pendolari israeliani. C’è una superstrada diretta a Tel Aviv, a meno di 40 chilometri di distanza, con autobus che collegano regolarmente alla capitale e meno frequentemente a Gerusalemme, a 50 chilometri.
“La gente viene qui in cerca di qualcosa di diverso” dice Avi Zimmerman, capo del Fondo di Sviluppo di Ariel [che si incarica di migliorare la vita ed i servizi della colonia e di promuoverla a livello locale e internazionale. N.d.tr.] e portavoce di fatto di questo Comune. Ebreo osservante, è arrivato otto anni fa in cerca di una comunità eterogenea.
“Ci troverai gente che è venuta per la qualità della vita, persino per sfuggire all’umidità di Tel Aviv.”
Ma per molti la cosa più importante sono i vantaggi economici. Il prezzo delle case è cresciuto rapidamente in Israele negli ultimi sette anni, con il costo della vita e dei beni alimentari che ha provocato proteste di massa nell’estate del 2011. Il costo medio di un appartamento ad Ariel è di 1.098.774 shekel (circa 233.780 €), molto meno della media di Tel Aviv di 2.363.263 shekel (circa 502.821 €).
Gli affitti bassi nel 2009 hanno fatto di Noa e del suo fidanzato dei coloni temporanei quando hanno iniziato a cercare un posto vicino alla sua università a Gerusalemme. “Entrambi eravamo studenti e dovevamo trovare un posto economico per vivere,” spiega Noa, un’insegnante di ballo sulla trentina. Non erano riusciti a trovare niente a portata delle loro tasche a Gerusalemme, ma ad Anatot, una comunità di 1.000 abitanti a sette chilometri all’interno della Linea Verde, il prezzo andava bene.
Amit, madre trentaquatrenne di un bambino, vede la sua colonia – anche se non la chiama così – 5 km oltre la Linea Verde solo come un semplice quartiere periferico di Gerusalemme. Lei e suo marito avevano vissuto in città, ma quando si sono messi a cercare una casa lei voleva “la casa, un giardino e un parcheggio. E avere un parco ed avere vicino Gerusalemme sono una grande cosa.” Lei viaggia a Gerusalemme per lavoro, e suo marito a Tel Aviv: “Non la vedo come una terra contesa [la definizione che il governo israeliano da dei Territori Occupati. N.d.tr.]” sottolinea, ma “per me è un sobborgo di una grande città e io ci torno di sera.”

Incentivi del governo

Secondo il Yesha Council, un’organizzazione che rappresenta e promuove le colonie in Cisgiordania, in base all’ultima stima del giugno 2014 c’erano 382.031 coloni ebrei in Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, che Israele non considera territorio occupato. Questa spinta oltre la Linea Verde è stata incoraggiata dai successivi governi israeliani.
La maggior parte degli aiuti di Stato viene elargita in base alla definizione di circa tre quarti delle colonie come “area di priorità nazionale”, insieme ad altre zone che si ritiene abbiano bisogno di sostegno – comunità vicine ai confini con il Libano o Gaza oppure periferiche e sottosviluppate.
Le aree di priorità nazionale ottengono sconti sul prezzo della terra e sovvenzioni per i mutui, e quelle riconosciute dal ministero dell’Edilizia ricevono investimenti statali per le infrastrutture [riguardanti] gli appartamenti. Nelle aree designate con il più alto livello di priorità ci sono riduzioni sul costo della terra e sulle spese per lo sviluppo.
Anche gli investimenti per le infrastrutture delle colonie, come le strade, sono cruciali, e gli insegnanti che vivono nelle colonie ricevono una generosa assistenza, compresa quella che l’ONG israeliana B’tselem segnala come un incremento di salario del 15-20% e un contributo governativo del 75% delle spese di viaggio e dell’80% per l’affitto della casa. In quanto aree di priorità nazionale, le colonie ricevono anche ulteriori investimenti per l’educazione, comprese ore addizionali di scuola e più fondi.
Per lo più i vantaggi individuali diretti sono stati eliminati, con agevolazioni fiscali sul reddito abolite nel 2003, portando molti coloni a pensare che le colonie dovrebbero essere considerate come qualunque altra città israeliana.
Avi Zimmerman discute l’idea che ingiuste agevolazioni fiscali abbiano spinto la gente nei territori palestinesi.”Si continua a parlare degli incentivi a causa del passato.” Ora “non ci sono incentivi diretti, per esempio non ci sono più prestiti bancari.”
Natan Sachs, uno studioso del Centro per le Politiche in Medio Oriente della Brooking Institution [centro studi nordamericano, considerato tra i più influenti al mondo. N.d.tr.] ed esperto di politiche israeliane, concorda sul fatto che “non ci sono incentivi diretti, nel senso che non ci sono sovvenzioni.”

Ma “ci sono molti modi per ‘incoraggiare la colonizzazione’, soprattutto il prezzo della terra e le licenze edilizie. Non ci sono incentivi espliciti ma in concreto ci sono ancora agevolazioni notevoli.

Radicalizzazione

Il miglioramento della “qualità della vita” dei coloni è uno dei principali cambiamenti dalle origini del movimento di colonizzazione alla fine degli anni ’60, quando, dopo la vittoria nella guerra del 1967 contro l’Egitto, la Giordania e la Siria, Israele ha iniziato a spostare i suoi cittadini in quelle che vengono chiamate Giudea e Samaria, i nomi biblici dei territori occupati in Cisgiordania.

Molti dei primi coloni hanno sperato di rivendicare quello che vedevano come l’Israele biblico, come spiega Elie Pierpz, direttore degli affari esterni del Yesha Council.
“Considerazioni di carattere religioso erano il principale stimolo per lo sviluppo negli anni ’70 e ’80. C’è una spinta ideologica, questa è l’ultima frontiera sionista; 100 anni fa era Tel Aviv, 60 anni fa era il Negev e la zona nord del paese, e negli ultimi 47 anni lo sono state Giudea e Samaria.”
Il fenomeno dei coloni per ragioni economiche è variegato. Ariel, per esempio, è un misto di immigrati dall’ex Unione Sovietica, laici e osservanti, ma non ebrei ultraortodossi.
Dror Etkes, un esperto di colonie, sostiene che la differenza terminologica tra i coloni per motivi economici o per migliorare la qualità della vita e i loro omologhi più ideologizzati non è realmente giustificata, tutti sono parte del progetto di occupazione più complessivo, che lo vogliano o no.

“Quando l’ideologia si incontra con l’economia è sempre meglio, e magari l’ideologia arriva a coincidere con gli interessi individuali. La gente si racconta delle favole. E’ molto facile essere coloni. Quello che non vuoi vedere è meglio non vederlo.”
Comunque le colonie, anche quelle dominate da migranti economici, possono spostare le proprie convinzioni verso destra.
Etkes nota che molti recenti attacchi violenti contro i palestinesi sono venuti dai cosiddetti insediamenti “non ideologici”. Lo scorso mese una scuola bilingue ebraico-araba a Gerusalemme è stata data alle fiamme. Due dei tre sospetti, che hanno confessato il delitto, sono di Beitar Illit, non nota in precedenza per le convinzioni di estrema destra.
E anche se i coloni per ragioni economiche possono vedere se stessi come a-politici o persino di sinistra – Noa dice di essere “di centro sinistra, a volte di sinistra” – andando negli insediamenti il comportamento elettorale dei coloni può cambiare in base ai propri interessi personali.
I coloni ultraortodossi sono il paradigma di questo cambiamento. In grande maggioranza poveri, negli ultimi 15 anni molti si sono spostati in zone come Beitar Illit o Modi’in Ilit per via dei costi economici degli affitti e del contesto omogeneo, con molto spazio per il loro alto tasso di natalità. Storicamente, non erano interessati alla colonizzazione o alla militanza sionista.
Neve Gordon, professore di politiche e governo all’università Ben Gurion e autore di “L’occupazione di Israele”, sottolinea che i partiti che rappresentano questo settore hanno cambiato la propria politica. “Nei primi anni ’90 i partiti degli ortodossi erano favorevoli ad un compromesso sulla terra, oggi molto meno, perché una notevole percentuale del loro elettorato vive nei territori occupati: lo spazio cambia le coscienze.”

Un ostacolo alla pace

La “qualità della vita” dei coloni è diventata di pubblico dominio dopo gli accordi di Oslo del 1993 tra i leader israeliani e palestinesi, quando ci sono stati seri colloqui per uno scambio di territori. Per molto tempo si è ipotizzato che grandi insediamenti, anche quelli vicini a Gerusalemme come Ma’ale Adumim, Beitar Ilit, Modi’in Ilit , quelli troppo grandi per essere evacuati, e luoghi strategici come Ariel sarebbero stati inclusi in ogni futura soluzione dei due Stati.
Ma continue inchieste hanno suggerito che una grande percentuale di coloni non ideologici sarebbero stati pronti a lasciare le loro case e spostarsi all’interno della Linea Verde, dietro compensazioni.
Tuttavia al momento, sostiene Sachs, “ci sono perversi disincentivi ad andarsene.” L’opinione pubblica israeliana in larga misura vede che il governo si è sbagliato nel 2005 quando se n’è andato da Gaza, con alcuni ex coloni che sono stati portati via a forza dalle loro case che si lamentano in televisione per aver ricevuto scarsi indennizzi e per l’incapacità del governo a risistemarli in modo corretto.

Secondo Sachs ciò rende comprensibilmente diffidente chi potrebbe essere intenzionato ad andarsene dalla Cisgiordania. Un gruppo costituito da un ex direttore dello Shin Bet [servizio di intelligence israeliano. N.d.tr.], Blue White Future (Futuro bianco azzurro)[sono i colori della bandiera israeliana e il gruppo BWF è favorevole alla soluzione dei due Stati, n.d.tr.], sostiene un’evacuazione volontaria ed unilaterale dei coloni con un indennizzo.
Amit ha comprato la sua casa proprio nel periodo dell’evacuazione di Gaza e dice che la possibilità di un’eventuale evacuazione “era qualcosa a cui avevamo pensato.” La sua zona è stata spesso citata come una di quelle che è abbastanza vicina a Gerusalemme da essere inclusa tra quelle spettanti ad Israele, e questa è stata una ragione per comprare.
“Se ci fosse una forma di indennizzo (come parte di un accordo di pace), non rimarremmo qui sotto un governo palestinese.”
Ma è improbabile che grandi insediamenti colonici come Ariel siano spostati da un’altra parte, anche nel caso di un eventuale accordo di pace con i palestinesi. In un certo senso, sono semplicemente troppo grandi per essere spostati.

Per Zimmerman, che è stato ad Ariel per otto anni, il concetto di compensazione è irrilevante, in quanto non vede come il governo israeliano possa fare anche solo il tentativo di evacuare Ariel. “Questo sta per essere gestito dal governo eletto. Stanno facendo una politica su questo e c’è accordo tra i politici israeliani che Ariel è parte di Israele, punto.”

E’ forse questa certezza che ha portato il prezzo delle case di Ariel a salire: in sei anni fino al 2013 il prezzo delle case nuove e di quelle di seconda mano è aumentato del 104%. Altre colonie hanno visto un aumento, compreso Beitar Ilit (80%), Efrat (77%), in maggioranza laico, e Oranit (65%). Poiché i prezzi delle case in Israele sono ancora più alti di quelli nelle colonie, il loro aumento ha accresciuto la pressione per trovare nuovi insediamenti.
Pierpz è entusiasta del futuro della colonizzazione. “Le comunità molto unite (dove fare autostop è un modo di vivere, le porte molto spesso rimangono aperte, i ragazzi sono sicuri nelle strade non controllate fino a notte alta), sono una delle ragioni per cui la gente vuole rimanere e allevare le prossime generazioni qui.”
I dirigenti palestinesi dicono che prenderanno in considerazione le motivazioni dei coloni nei negoziati per i confini di un futuro Stato palestinese. Ma alla fine vedono ogni colonia come una violazione della terra palestinese, sia che i coloni siano arrivati per avere aria fresca e sistemazioni economiche sia per motivazioni religiose.

(traduzione di Amedeo Rossi)