L’UE ammette di finanziare la ricerca israeliana sugli strumenti di sorveglianza di massa

David Cronin

12 gennaio 2022 – Chronique de Palestine

L’Unione Europea finanzia ricerche che coinvolgono la polizia israeliana, pur ammettendo che possono essere utilizzate a scopi di spionaggio.

Nel corso degli ultimi anni un progetto chiamato Roxanne ha studiato il modo di identificare i criminali con l’aiuto della tecnologia di riconoscimento vocale e riconoscimento facciale.

I documenti destinati all’opinione pubblica presentano il progetto finanziato dall’UE – per un costo di 8 milioni di dollari – come marginale. Tuttavia nelle discussioni a porte chiuse sono state sollevate gravi questioni etiche.

Documenti interni all’UE, ottenuti grazie alle norme sulla libertà di informazione, confermano che esiste il rischio che i risultati di Roxanne vengano utilizzati per la sorveglianza di massa.

Un “controllo etico” del progetto, condotto nel 2020, fa riferimento a piani secondo i quali dati personali verranno condivisi tra l’UE e Israele. Secondo questo documento i dati raccolti nel corso del progetto saranno inseriti in “categorie speciali”, quali i dettagli sulle caratteristiche genetiche, “la salute, i comportamenti sessuali, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche” delle persone.

I problemi che si pongono sono diventati ancor più rilevanti dopo che è stato svolto il “controllo etico”. Accurate indagini condotte lo scorso anno da associazioni di difesa dei diritti umani hanno dimostrato che il software spia Pegasus viene utilizzato più ampiamente di quanto si sapeva in precedenza per sorvegliare i militanti e i giornalisti in diversi Paesi.

La polizia israeliana e il suo Ministero della Pubblica Sicurezza sono tra i partecipanti al progetto Roxanne.

Una delle condizioni per la loro partecipazione è che tutti i dati che inviano all’UE vengano raccolti in modo legale.

La garanzia di un comportamento corretto dal punto di vista legale è evidentemente ritenuta sufficiente – ai fini dei “controlli etici” dell’UE – per dimostrare che i problemi di tutela della privacy sono trattati seriamente.

Nel mondo reale una garanzia israeliana non ha a rigore alcun valore.

Razzismo istituzionale

La polizia israeliana cerca di ottenere nuovi strumenti operativi che le consentano di esercitare una sorveglianza rafforzata senza dover richiedere un mandato.

Una delle principali proposte è di utilizzare delle videocamere nei luoghi pubblici per trovare la corrispondenza dei volti delle persone con le informazioni contenute nella banca dati della polizia.

Una indicazione del genere dovrebbe di per sé escludere la polizia israeliana da Roxanne, che difende in modo puramente formale il principio della “presa in considerazione della privacy”.

Ovviamente ci sono molte altre ragioni per cui la polizia israeliana non dovrebbe beneficiare dei finanziamenti UE per la scienza.

Una di queste è che la polizia israeliana è istituzionalmente razzista.

Un recente rapporto di Human Rights Watch su Lydda, una città israeliana nota anche come Lod, mostra un eclatante esempio di razzismo da parte della polizia.

Descrive come lo scorso maggio la polizia abbia lanciato gas lacrimogeni e granate paralizzanti contro una manifestazione di cittadini palestinesi di Israele a Lydda.

Tuttavia in certi casi, quando estremisti ebrei hanno attaccato dei palestinesi nella stessa città nello stesso mese, la polizia non ha fatto niente né ha protetto i palestinesi.

La polizia e il Ministero di Pubblica Sicurezza israeliani hanno entrambi la propria sede a Gerusalemme est, sotto occupazione militare dal 1967.

Collaborare con loro dovrebbe, per definizione, essere vietato all’Unione Europea, che si è formalmente impegnata ad evitare ogni azione che possa attribuire una qualche legittimità alla presa di controllo e alla colonizzazione di Gerusalemme est.

Tutto porta a credere che Israele non sia stato per niente sincero con i funzionari di Bruxelles.

I documenti relativi al progetto Roxanne riportano un indirizzo in Israele come contatto ufficiale del Ministero di Pubblica Sicurezza. Se i funzionari di Bruxelles consultassero il sito web del Ministero, scoprirebbero che i suoi principali uffici si trovano di fatto in via Clermont-Ganneau a Gerusalemme est.

Ho inviato una e-mail alla Commissione Europea, che amministra Horizon 2020 [programma della Commissione Europea di finanziamento nell’ambito della ricerca, ndtr.] per chiedere se intendesse prendere delle misure relativamente alle operazioni del Ministero israeliano di Pubblica Sicurezza a Gerusalemme est.

Un portavoce della Commissione Europea ha affermato che i progetti di ricerca sono oggetto di una “valutazione etica rigorosa” e che “nessuna accusa di utilizzo abusivo” delle sovvenzioni di Horizon 2020 “è mai stata provata fino ad oggi”.

Dopo questa affermazione ho continuato a chiedere se la Commissione Europea contestasse l’informazione secondo cui il Ministero israeliano di Pubblica Sicurezza sembra essere stato scorretto riguardo all’indirizzo della sua sede a Gerusalemme est. Il portavoce ha risposto che “questa non è una questione che riguarda la Commissione.”

Quando ho espresso la mia perplessità di fronte a questa risposta – sostenendo che la questione era palesemente pertinente, poiché l’UE ha da tempo espresso il proprio punto di vista sullo status di Gerusalemme – il portavoce ha ammesso che avevo ragione.

Il portavoce ha tuttavia eluso la domanda limitandosi a citare le linee guida dell’UE formulate nel 2013.

Queste linee guida affermano che “gli enti israeliani” che ricevono sovvenzioni dall’UE “devono stabilire la propria sede entro i confini di Israele precedenti il 1967”.

Non ho altro da aggiungere”, ha dichiarato il portavoce.

Esperto in oppressione

La partecipazione della polizia israeliana e del Ministero di Pubblica Sicurezza a Roxanne e ad un altro progetto finanziato dall’UE, chiamato Law-Train, ha suscitato proteste da parte del movimento di solidarietà con la Palestina.

Altre proteste sono necessarie. La polizia israeliana e il Ministero di Pubblica Sicurezza sono stati ammessi ad almeno altri otto progetti nell’ambito di Horizon 2020, l’attuale fondo per la ricerca dell’UE.

Tra essi compaiono due iniziative di sorveglianza delle frontiere: Andromeda e SafeShore. Stante che la sorveglianza delle frontiere è diventata sinonimo di crudeltà nei confronti dei rifugiati, occorre interrogarsi sul ruolo preciso ricoperto qui dalla polizia razzista israeliana.

Un aspetto particolarmente inquietante di tutta questa cooperazione è che le millanterie della polizia israeliana sono apparentemente prese per oro colato.

Un progetto finanziato dall’UE, chiamato Shuttle, sta per creare un data base su sangue, residui di polvere da sparo, capelli e saliva. La polizia israeliana vi partecipa e “porterà la propria esperienza in quanto esperta in medicina legale ed eccellenza tecnologica”, secondo il sito web di Shuttle.

Non vi è nessun riconoscimento del fatto che Israele è nei fatti un esperto in oppressione.

Accordando sovvenzioni per la ricerca alla polizia israeliana, l’UE dà contributi ad una forza che incarcera bambini palestinesi, terrorizza intere famiglie facendo incursione delle loro case e apre il fuoco sui fedeli della moschea al-Aqsa di Gerusalemme.

L’ipocrisia dell’UE sembra non avere limiti….

Poco prima che ad inizio settimana Hisham Abu Hawash mettesse fine al suo sciopero della fame, diplomatici europei si sono dichiarati “seriamente preoccupati” per la sua salute.

I diplomatici non erano abbastanza preoccupati da chiedere all’UE di smettere di collaborare con il Ministero israeliano di Pubblica Sicurezza – il dipartimento governativo che sovrintende alle carceri, dove Abu Hawash e molti altri palestinesi sono rinchiusi senza accuse né processo.

A dicembre è stato firmato un accordo perché Israele possa beneficiare del prossimo fondo per la ricerca dell’UE. Chiamato Horizon Europa, questo fondo è dotato di un budget di circa 110 miliardi di dollari.

Come ci si poteva aspettare, l’UE ha fatto la promozione del nuovo accordo esaltando il modo in cui la sua cooperazione con Israele ha a suo dire permesso grandi progressi in materia di medicina e di protezione dell’ambiente.

In modo altrettanto prevedibile non è stato menzionato il fatto che tale cooperazione è un affare d’oro per la polizia razzista di Israele.

* David Cronin è corrispondente dell’agenzia di stampa Inter Press Service. Nato a Dublino nel 1971, ha scritto per diverse pubblicazioni irlandesi prima di iniziare a lavorare a Bruxelles nel 1995. Il suo ultimo libro, “Corporate Europe: How big business sets policies on food, climate and war” [Europa Societaria: come i grandi interessi economici definiscono le politiche su cibo, clima e guerra], è edito da Pluto Press.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




2021 in Palestina: finalmente si è sollevata una nuova generazione

Ramzy Baroud

3 gennaio 2022 – The Palestine Chronicle

Quando è iniziato, il 2021 sembrava essere un altro anno di normalità, in cui l’occupazione israeliana era incessante e così anche la miseria palestinese. Anche se molto di tutto questo resta vero, la dinamica dell’occupazione israeliana è stata sfidata da un sentimento senza precedenti di unità popolare tra i palestinesi, non solo a Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza occupate, ma anche tra le comunità palestinesi nella Palestina storica.

Una forte sensazione di cauta speranza ha finalmente rimpiazzato il prevalente senso di disperazione che si respirava negli anni precedenti. Accanto ad esso si è registrato in tutta la Palestina un senso di rinnovamento e di voglia di seguire nuove idee politiche. Per esempio, secondo un sondaggio condotto dal Centro di Informazioni e Comunicazioni di Gerusalemme (JMCC) pubblicato il 22 novembre, c’è un maggior numero di palestinesi della Cisgiordania che appoggiano la soluzione di uno Stato unico rispetto a quelli che ancora sostengono la soluzione di due Stati, ormai praticamente defunta, che ha dominato il pensiero palestinese per decenni.

La pandemia si fa sentire

Tuttavia l’anno è iniziato con un’attenzione su tutt’altra cosa: la pandemia da Covid-19. Oltre a devastare i palestinesi sotto assedio e occupazione, soprattutto nella Striscia di Gaza, la pandemia ha incominciato a diffondersi tra i prigionieri palestinesi.

A febbraio l’Autorità Nazionale Palestinese, insieme ad associazioni ed organizzazioni internazionali per i diritti umani, ha criticato Israele per aver bloccato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 nella Striscia di Gaza. Sono stati donati vaccini Sputnik 5 dalla Russia, il primo Paese che ha contribuito alla lotta contro la pandemia in Palestina. Alla fine le comunità palestinesi hanno avuto lentamente accesso ai vaccini arrivati attraverso il programma COVAX. Tuttavia la pandemia ha continuato a funestare la Palestina occupata, soprattutto poiché le autorità dell’occupazione israeliana hanno continuato a bloccare le misure di prevenzione palestinesi e a smantellare le strutture di fortuna per il Covid-19 nei territori occupati. Secondo il sito web Worldometer [sito che fornisce dati statistici in tempo reale per diversi argomenti, ndtr.], sono morti a causa del Covid-19 4.555 palestinesi, mentre 432.602 sono risultati positivi alla letale pandemia.

Elezioni cancellate

Come accaduto lo scorso anno, la crisi politica israeliana ha velocemente preso il sopravvento nei titoli dell’informazione, dato che la lotta tra l’allora Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed i suoi rivali è proseguita, portando alla quarta tornata elettorale in Israele in due anni. Le elezioni di marzo hanno infine modificato lo scenario politico israeliano, grazie ad una strana coalizione di governo messa insieme il 13 giugno dal nuovo Primo Ministro israeliano Naftali Bennet. La coalizione ha incluso l’uomo politico arabo Mansour Abbas, il cui partito si è dimostrato determinante per la formazione del governo.

Mentre Netanyahu ed il suo partito Likud sono passati rapidamente all’opposizione, mettendo fine ad un regno durato 12 anni, i palestinesi hanno anticipato le loro elezioni che sono state indette dal presidente dell’ANP Mahmoud Abbas il 15 gennaio.

Le elezioni parlamentari e presidenziali dell’ANP sono state calendarizzate rispettivamente il 22 maggio e il 31 luglio. Era previsto che le due tornate elettorali sarebbero state seguite da un compromesso politico che avrebbe posto fine alla disunione politica palestinese garantendo uguale rappresentanza per tutte le formazioni politiche palestinesi, comprese Hamas e Jihad islamica, in una riproposizione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Purtroppo non è accaduto nulla di tutto ciò. Nonostante positivi colloqui sull’unità palestinese al Cairo nel corso di diverse settimane, Abbas ha annullato le elezioni programmate con il pretesto che tale decisione fosse stata presa per protesta contro il rifiuto di Israele di permettere la partecipazione degli elettori di Gerusalemme est.

In cambio per aver bloccato gli sforzi palestinesi per assicurare una parvenza di democrazia anche sotto occupazione israeliana ad Abbas è stato permesso di rientrare nella lista degli alleati di Washington. Certo in aprile gli USA hanno ripristinato gli aiuti ai palestinesi, con la promessa di riaprire l’ufficio dell’OLP a Washington, che era stato chiuso dall’amministrazione Trump, e anche con l’impegno di riaprire il proprio consolato a Gerusalemme, anch’esso chiuso da Trump nel settembre 2018.

Nonostante questi gesti, che sono serviti a rilegittimare l’ANP dopo quattro anni di completa emarginazione da parte USA, la nuova amministrazione Biden non ha offerto né un percorso per un nuovo processo di pace, né una pressione su Israele per porre fine alla sua occupazione o rallentare la velocità dell’espansione illegale delle colonie nella Palestina occupata. Infatti il tasso di costruzione delle colonie israeliane è cresciuto in modo esponenziale nel 2021 con l’annuncio in ottobre del piano di Israele di approvazione di migliaia di nuove unità abitative israeliane in Cisgiordania.

Da Sheikh Jarrah a Gaza

Le azioni provocatorie di Israele sarebbero passate inosservate da parte della comunità internazionale se non fosse stato per il popolo palestinese, che ha assunto una posizione collettiva utilizzando tutte le forme di resistenza, da Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, a Gaza. I fatti, che hanno infine portato ad una guerra di Israele contro Gaza a maggio, sono iniziati con uno dei soliti tentativi israeliani di pulizia etnica dei palestinesi da diversi quartieri di Gerusalemme est, compresi Sheikh Jarrah e Silwan. Però gli abitanti palestinesi di Gerusalemme hanno iniziato ad organizzarsi contro un ordine del tribunale israeliano di espellerli dalle loro case per essere poi sostituiti da coloni ebrei israeliani, come è stata la consuetudine per molti anni.

La resistenza popolare a Sheikh Jarrah ha incontrato una risposta di estrema violenza da parte israeliana, che ha coinvolto coloni armati, polizia israeliana e forze di occupazione, provocando il ferimento di almeno 178 manifestanti palestinesi il 7 maggio. I palestinesi in tutti i territori occupati hanno iniziato a mobilitarsi in solidarietà con i loro compagni ad Al Quds (Gerusalemme, ndtr.), conducendo ad una nuova devastante guerra israeliana contro la Striscia di Gaza il 10 maggio. La guerra ha provocato l’uccisione di oltre 250 palestinesi, il ferimento di migliaia e distruzioni su vasta scala.

La guerra israeliana mirava a distrarre l’attenzione dai fatti che avvenivano a Gerusalemme est. I disegni israeliani tuttavia sono falliti del tutto perché i palestinesi a Ramallah, Nablus, Haifa e in molte altre città, villaggi e campi profughi palestinesi hanno marciato in solidarietà con Sheikh Jarrah e Gaza, formulando un discorso politico che per la prima volta era scevro da riferimenti settari.

Per soffocare la rivolta palestinese Israele ha inviato migliaia di soldati e poliziotti, insieme a coloni ebrei e milizie armate nei territori occupati e nello stesso Israele. Molti palestinesi sono stati uccisi nei conseguenti scontri e attacchi. Tuttavia gli eventi di maggio hanno messo in luce non solo l’unità tra i palestinesi, ma anche il profondo razzismo che ha pervaso tutti gli ambiti della società israeliana. Il concetto secondo cui i palestinesi della Palestina storica si sono integrati nella nuova realtà e non fanno più parte di un più vasto corpo politico palestinese si è dimostrato completamente falso.

Boicottaggio, disinvestimenti e la CPI (Corte Penale Internazionale)

La resistenza palestinese in patria ha ulteriormente mobilitato la società civile in tutto il mondo. Organizzazioni per i diritti come Human Rights Watch e la israeliana B’Tselem sono arrivate alla conclusione che Israele è uno Stato di apartheid.

Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha ricevuto molti incoraggiamenti nel corso dell’anno, dato che imprese come il gigante del gelato, Ben & Jerry’s, hanno deciso di disinvestire dai territori occupati e la multinazionale dello sport, Nike, ha deciso di porre fine del tutto alle proprie attività in Israele, pur senza giustificare la sua decisione in termini politici.

Inoltre il maggior fondo pensionistico della Norvegia, KLP, il 5 luglio ha dichiarato che non avrebbe più investito in imprese legate alle colonie israeliane. Più tardi nell’anno la famosa scrittrice irlandese Sally Rooney ha annunciato di rifiutare che il suo bestseller ‘Beautiful world, where are you’ fosse pubblicato da una società israeliana.

Intanto gli sforzi per far rispondere delle proprie responsabilità i criminali di guerra israeliani di fronte alla Corte Penale Internazionale (CPI) sono proseguiti incessantemente. In marzo l’allora Procuratrice capo, Fatou Bensouda, ha annunciato l’avvio di un’inchiesta formale su presunti crimini di guerra nei territori palestinesi occupati. Anche se Bensouda non è più a capo della CPI, il caso palestinese rimane aperto, nella speranza che la giustizia internazionale possa infine prevalere.

Nonostante le molte difficoltà, lo spirito di tutti i palestinesi si è nuovamente risollevato quando a luglio la delegazione olimpica palestinese è entrata nello Stadio Olimpico di Tokyo, portando la bandiera palestinese. La piccola delegazione includeva palestinesi di diverse regioni, cementando anche nella cultura e nello sport l’unità palestinese.

Resistere attraverso la fame 

Intanto i palestinesi in sciopero della fame hanno continuato la loro resistenza nelle carceri israeliane, con prigionieri come Kayed Fasfous e Meqdad Al-Qawasmi che hanno proseguito i loro scioperi per 131 e 113 giorni rispettivamente, fino ad arrivare quasi alla morte. Con una dimostrazione di ulteriore sfida, il 6 settembre sei prigionieri palestinesi sono evasi dalla prigione di Gilboa. Benché siano stati tutti catturati e, secondo le testimonianze, torturati in seguito al loro ri-arresto, la notizia ha catturato l’attenzione di tutti i palestinesi, che si sono sentiti più forti per quella che hanno percepito come un’eroica richiesta di libertà.

Tuttavia molti prigionieri palestinesi hanno sofferto anche nelle mani della stessa ANP, che ha continuato la sua prassi di illegittima detenzione e tortura degli attivisti palestinesi dissidenti. La morte di Nizar Banat nelle mani delle forze di sicurezza dell’ANP il 24 giugno ha provocato proteste di massa di palestinesi, in cui migliaia di persone hanno chiesto un accertamento delle responsabilità e giustizia per il critico dell’ANP che è stato picchiato a morte.

Il 2021 è stato un anno di guerra, perdite e distruzione per i palestinesi. Eppure è stato anche un anno di unità, di conquiste culturali e di speranza, poiché una nuova generazione ha infine occupato il centro della scena, affermando la propria identità e centralità per il futuro della propria patria.

Ramzy Baroud è giornalista e editore di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri. L’ultimo è: “These chains will be broken: palestinian stories of struggle and defiance in israeli prisons” (Clarity Press). Il dottor Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




‘Nel mio programma di dottorato a Gerusalemme ero l’unica araba in giro. A parte gli addetti alle pulizie’

Hilo Glazer

31 dicembre 2021 – Haaretz

Nihaya Daoud è abituata a far alzare le sopracciglia. Questa è stata la reazione quando è andata all’estero per un post-dottorato di due anni senza portare i figli e quando è diventata la prima araba in Israele nominata docente di salute pubblica. E non ha paura di stuzzicare le piaghe della sua comunità

Una delle impressioni formative dell’infanzia di Nihaya Daoud, professoressa di salute pubblica all’Università Ben-Gurion, è l’aver capito il sentimento di delusione provato dai propri genitori: il padre aveva dovuto accantonare le speranze di studiare e lavorare tutta la vita nell’edilizia mentre la madre, un’eccellente studentessa, era finita a fare la casalinga.

Sono cresciuta con una mamma che avrebbe tanto voluto continuare le scuole e un papà che avrebbe desiderato una buona istruzione, ma nessuno dei due ci è riuscito,” racconta Daoud, 55 anni. “Così hanno investito tutto in noi, i figli. Da adolescente mi hanno spedita a tutti i gruppi possibili di approfondimento del doposcuola: arte, natura, matematica. Il messaggio era: sii eccezionale.”

Daoud ha preso sul serio il messaggio, determinata a metterlo in pratica. Così circa 10 anni fa, quando le hanno offerto un post-dottorato all’Università di Toronto, non ci ha pensato su due volte. Aveva dei bambini, il più piccolo frequentava la terza elementare, e la sua famiglia rimase piuttosto spiazzata al pensiero che lasciasse la casa per due anni.

Dopo tutto ci sono dei gap generazionali quando si parla dell’idea di quello che una donna deve essere e di cosa le sia permesso fare per realizzarsi,” spiega Daoud. “Per mia madre è stato difficile accettare che andassi da sola. È lei che ha seminato queste ambizioni in me, ma ciò nonostante pensava che fosse un po’ troppo.”

Quelle della famiglia di Daoud non sono state le uniche sopracciglia a sollevarsi. “Ricordo uno dei miei colleghi ebrei chiedere al mio compagno: ‘Come puoi lasciarla andare da sola?’” dice. Ma Daoud, un’epidemiologa sociale la cui ricerca si concentra sulle ineguaglianze nelle politiche sanitarie e sulla salute delle donne, ha ignorato il chiacchiericcio. Uno dei suoi articoli più citati, scritto durante il suo periodo all’estero, riguarda il legame fra il livello economico basso e la violenza da parte di un partner intimo fra le donne indigene in Canada. Anche mentre scriveva articoli per pubblicazioni prestigiose, il soggiorno all’estero ha permesso a Daoud di vedere con occhi diversi il posto dove era cresciuta.

C’è solidarietà nella società di immigrati in Canada, ci si aiuta l’un l’altro. Qui non è più così. La gente è alienata dalla vita della propria comunità: ‘Io vivo per me stesso, fine’.”

È sempre stato così?

No. La società araba in cui sono cresciuta era molto più ugualitaria. I nostri vicini ci portavano la farina e noi gli davamo l’uva. C’era un sostegno reciproco. Oggi alla gente non interessano i vicini, nessuno si guarda intorno. Alcuni hanno una Mercedes, altri non hanno niente da mangiare. La società araba è passata attraverso processi di individualizzazione più estremi che negli Stati Uniti e Canada. Oggi le disparità economiche sono spaventose.”

L’ingresso recente e storico di un partito arabo (United Arab List – UAL- la Lista Unita Araba o Ra’am) nella coalizione di governo in Israele è stato venduto al pubblico arabo anche come una mossa per contribuire a massimizzare i successi materiali.

Certamente. Il pensiero di Mansour Abbas (leader della UAL) [partito islamista, ndtr.] è individualistico-capitalista e non nasce necessariamente dalla preoccupazione per la collettività. È una narrazione che favorisce gli strati più ricchi della società araba. Israele ovviamente è d’accordo. Il messaggio è: primeggiate e preoccupatevi solo di voi stessi, dimenticatevi della vostra nazionalità, identità. Potete diventare il primario di un reparto in un ospedale con un ottimo stipendio, costruire una casa come un castello, ma intorno a voi tutto è orrendo: la strada di accesso al paese non è asfaltata, non c’è illuminazione stradale, c’è immondizia sparsa ovunque, violenza dietro ogni angolo. Ma questo semplicemente non vi deve interessare. È incomprensibile. Le politiche della UAL magari producono qualcosa a breve termine, ma stanno lacerando la comunità araba dall’interno. Fra noi sono in corso cambiamenti pericolosi. E ironicamente la persona in prima linea in tutto ciò è lui stesso un medico, un dentista. Abbas avrebbe dovuto essere una persona istruita che lavora col cuore.”

La sua critica dell’alienazione dei membri di maggior successo della società araba si concentra sui medici.

Perché è il mio campo. Gli uomini arabi che sono tornati dopo aver studiato medicina all’estero non hanno applicato le loro conoscenze al miglioramento dei servizi medici offerti alla comunità araba. Quasi tutti hanno scelto specialità per far carriera, medicina interna, chirurgia, o sono andati ovunque il sistema israeliano li indirizzava. È abbastanza comune vedere una ‘posizione lavorativa’ araba cambiare ogni cinque anni. Ogni reparto ospedaliero ha la sua foglia di fico araba. In genere i medici arabi tendono a preferire cariche in ospedale piuttosto che la medicina di comunità. Secondo me dovrebbero cercare di esercitare una maggiore influenza nelle loro comunità.”

Daoud non indietreggia davanti all’esame delle piaghe infette della propria comunità, ma il suo sguardo è anche costantemente rivolto all’establishment israeliano che le ha ignorate. La sua ricerca, per esempio, si è concentrata sull’impatto di fenomeni socio-politici (demolizioni di case, poligamia, mancanza di stato civile) sulla morbilità e sull’accesso ai servizi sanitari fra gli arabi israeliani. Il suo lavoro differisce perciò dalle classiche ricerche in questo campo, come spiega: “Altri ricercatori di salute pubblica percepiscono le variabili di genere, livelli di istruzione o impiego come elementi che interferiscono negativamente sulla ricerca. Quindi le hanno neutralizzate e standardizzate. Io faccio l‘opposto. Io non metto al centro batteri e virus, ma i sistemi sociali e politici.”

Questa non è ricerca convenzionale,” sottolinea Daoud, aggiungendo che “non è facile far risuonare questa voce critica nella costellazione politica in Israele e in quanto appartenente a una minoranza. Non ha mai trovato un orecchio attento. Quando stavo lavorando al mio dottorato ci fu una discussione sull’uso nelle ipotesi di ricerca del termine ‘discriminazione,’ o se optare per ‘razzismo.’ Io insistevo con ‘razzismo.’ I miei tutor continuavano a dirmi: ‘Dobbiamo insegnarti come sopravvivere nel mondo accademico israeliano.’”

Stile di vita femminista

Daoud è stata la prima araba in Israele a ottenere un dottorato in salute pubblica e dopo è diventata la prima docente universitaria in questo campo della sua comunità. Oltre a essere una ricercatrice molto prolifica che ricopre molte posizioni pubbliche e cariche in vari organismi nazionali, trova anche tempo per l’attivismo politico. All’interno della sua comunità Daoud è considerata un’autorità su problemi sanitari, sociali e di genere e di tanto in tanto anche i politici arabi le chiedono un’opinione. Nell’ultima elezione ha ricevuto offerte di candidarsi da due partiti, racconta, ma le ha rifiutate con decisione.

Daoud è sposata con Anwar, preside di una scuola a Gerusalemme Est. La coppia vive nella comunità ebraico-araba di Neve Shalom, situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, e ha tre figli ormai grandi. È cresciuta a Tira, una città del “Triangolo” (una concentrazione di località arabe nel centro del Paese, vicino alla Linea Verde, [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. ndtr.]), dove è nata anche sua madre. Nihaya è la seconda femmina di sette figli (“Sei di noi sono andati all’università”). Lei crede che l’enorme pressione e l’incoraggiamento ricevuti dai genitori non siano necessariamente unici e limitati alla sua famiglia e abbiano anche un contesto storico.

Il bisogno di dimostrare ciò che si vale con un’istruzione superiore è un ethos adottato da molti ‘migranti interni’ dopo la Nakba,” dice riferendosi alla guerra del 1947-49, la “catastrofe” quando oltre 700.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case. “Persero casa, terra e fonti di sostentamento, quindi gli studi diventarono parte della loro lotta per la sopravvivenza. Per chi è restato nelle proprie comunità e sulle proprie terre l’aspirazione a conseguire un’istruzione non è stata cosi forte, mentre i migranti interni hanno sviluppato una resilienza nel seguire questa strada.”

Daoud ricorda che la biblioteca nella casa dei genitori era sempre ricca e varia e includeva testi di politica. Normalmente andava con il padre alle riunioni del partito comunista, la sorella ha studiato medicina in Bulgaria con il sostegno del partito. Lei ha preferito rimanere in Israele e iscriversi a un corso di laurea in infermieristica all’Università Ebraica di Gerusalemme e da allora ha sempre fatto parte del mondo accademico.

Durante il mio dottorato in salute pubblica presso l’Hadassah (Centro Medico a Gerusalemme) ero l’unica araba del corso e praticamente l’unica araba in giro, a parte gli addetti alle pulizie,” racconta. “Nessuno mi ha fatto concessioni. Al contrario ho dovuto lavorare più duro per farmi strada.”

E per spiegarsi cita il caso di “quando ho contattato la Commissione di Helsinki (che supervisiona la ricerca medica e la sperimentazione sugli esseri umani) presso una notissima istituzione accademica di cui non farò il nome e chiesto di parlare al direttore. La segretaria l’ha chiamato al telefono dicendo: ‘C’è una tizia araba che vuole parlare con lei.’”

Durante la sua permanenza a Toronto, agli inizi del 2010, dove ha studiato per il post-dottorato, Anwar e i figli andavano a trovarla durante le vacanze mentre lei tornava in Israele appena poteva. Per la maggior parte del periodo i lavori di casa furono svolti dal marito. “Capitava anche che arrivassi alle otto di sera, lui non aveva cucinato e non ci fosse niente da mangiare.”

Il femminismo di Daoud non si limitava alla sua casa. Ha fatto la volontaria per la hotline per donne picchiate nella comunità arabo-israeliana ed è stata intensamente coinvolta in organizzazioni della società civile come Women and their Bodies [Donne e i loro corpi], un’ong ebraica e araba. Il suo ultimo progetto, che ha fondato con altre quattro professoresse, si prefigge di incoraggiare studentesse arabe a impegnarsi in carriere accademiche ad alto livello in tutti i campi. Comunque un tentativo di stabilire un comitato per l’avanzamento delle donne arabe è finito in modo frustrante: “Erano coinvolte nell’iniziativa donne provenienti da un’ampia gamma di campi: legge, educazione, sanità e così via. Avrebbe dovuto funzionare secondo il modello della rete delle Donne di Israele [una organizzazione lobbystica]. È stata una grande delusione. Donne di partiti arabi che si considerano vere femministe l’hanno semplicemente silurata a causa di conflitti interni per ottenere fondi.”

Ha provato una delusione simile all’inizio della sua carriera. Allora era la funzionaria del Ministro della Salute incaricata di creare programmi didattici per il sistema scolastico.

I programmi erano destinati al pubblico ebraico e quando ho chiesto che fosse implementato nella comunità araba mi dissero che non c’erano i soldi,” ricorda Daoud. “Ho capito allora che non era il posto giusto per me e ho deciso di cambiare direzione e concentrarmi sulla ricerca.”

La sua prima ricerca significativa si è occupata di come i meccanismi di discriminazione ed esclusione causino problemi di salute fra le donne beduine.

Abbiamo esaminato l’accesso ai servizi sanitari facendo un paragone fra donne di comunità riconosciute dallo Stato e donne di località non riconosciute. Naturalmente la situazione nelle comunità non riconosciute era molto più grave. Abbiamo visto chiaramente che il basso livello sociale fra le donne aveva implicazioni per la loro salute mentale e fisica. Una conseguenza di questo è la frequenza di depressione postnatale fra le beduine. La discriminazione è così profonda e radicata che si può fare molto poco a proposito. Mi sono sentita persa, non avendo nulla da offrire a queste donne.”

E poi si è chiesta: “Che senso ha?”

No, non mi sono mai limitata alle pubblicazioni accademiche, ma ho incontrato le persone rilevanti per parlare dell’argomento. Il tema della poligamia, per esempio, è emerso in un comitato insediato dal Ministero della Giustizia. Purtroppo non sono state invitate abbastanza arabe per comparire in commissione e le sue conclusioni sono state limitate. Lo Stato legalizza la poligamia per far star zitti i beduini su altri temi. In pratica lo Stato ha detto loro: ‘Tenete sotto controllo le vostre donne, ma non parlateci delle terre.’ Lo dico nel modo più diretto. E sfortunatamente l’oppressione delle donne nella società beduina ha conseguenze distruttive per la società nel suo complesso.” (Mentre la poligamia è praticamente illegale in Israele, sembra che in certi contesti le autorità chiudano un occhio).

Come?

Se l’uomo si occupa a malapena della sua ex moglie o della prima moglie, se lei è stata privata della possibilità di studiare, se non ha fonti di reddito, allora in realtà non ha status. E quindi anche la sua autorità sui figli viene meno. Che investimento nei propri figli ci si può aspettare da una donna così? E come ci si può sorprendere di quello che sta succedendo oggi?”

Sta alludendo alla cosiddetta “perdita di governance nel Negev”?

Certamente, questa è una delle spiegazioni. Quando le donne non hanno quasi controllo sulle proprie vite, il loro influsso sui figli è limitato.”

Alcuni anni fa, Daoud ha condotto con la partecipazione di 1.401 donne uno studio che analizzava le dimensioni della violenza domestica in Israele. “Abbiamo visto che la percentuale di denunce di violenza che riguardavano donne arabe era più del doppio che fra le ebree,” dice. Il database da lei creato le è servito come piattaforma per un ulteriore studio, centrato sull’uso dei servizi sanitari da parte delle donne.

I risultati hanno mostrato che le donne arabe che subiscono violenza consultano un ginecologo tre volte più spesso delle donne ebree picchiate. Le donne arabe si servono anche del servizio di stanze di emergenza con frequenza maggiore. La nostra interpretazione è che le donne arabe cercano l’aiuto del sistema sanitario solo quando subiscono gravi violenze fisiche. La decisione di vedere un ginecologo si spiega con la riluttanza a consultare il medico di famiglia e il timore che non risponderebbe adeguatamente. Inoltre il ginecologo consultato molto probabilmente sarà una donna che non vive necessariamente nello stesso paese e con ogni probabilità non sarà parente della paziente.”

Questa osservazione allude a uno dei maggiori ostacoli che si trovano davanti le donne arabe che sono cittadine israeliane nella loro ricerca del migliore servizio sanitario. L’ostacolo, fa notare la docente, parte dalla struttura familiare della medicina di comunità nella società araba, in particolare nelle zone rurali. Quindi molte donne vengono indirizzate a un medico di famiglia che è anche un parente.

Questo è un problema critico per le donne che sono vittime di violenza,” spiega Daoud. “Queste donne non hanno il coraggio di andare da un medico che è un parente oppure se quel dottore nota segni di violenza probabilmente non ci farà molta attenzione.”

Suppongo che ciò faccia sorgere difficoltà anche con problemi di salute meno seri.

Giusto. Dopo tutto non tutte le visite da un medico di famiglia riguardano un raffreddore. Talvolta c’è bisogno di un’impegnativa per un esame al seno o si devono rivelare dettagli intimi. Non è piacevole per una donna se il dottore che la esamina è suo cugino o il cugino di suo marito. Inoltre lei non può scegliere un dottore senza il consenso del compagno. Farsi visitare da un dottore di un’altra hamula (famiglia estesa) richiede una spiegazione: cosa è successo? Perché proprio lui? Perché non vai dal nostro parente? Questo ostacolo è un problema all’interno della comunità araba, ma è collegato a un vizio di tutto il sistema: più un medico ha successo nell’attrarre molti pazienti, più guadagna e la platea più facile da raggiungere per reclutare pazienti è la famiglia.”

Questo è un fenomeno problematico in sé: l’abuso della struttura familiare nella società araba per reclutare medici per scopi di marketing: le health maintenance organizations – HMO [enti privati di previdenza medica, ndtr.] approcciano i medici di famiglia arabi e li pagano enormi somme di denaro per portare i loro parenti nell’HMO. O, alternativamente, offrono loro un posto fisso a condizione che le loro famiglie aderiscano al HMO. Quali sono le conseguenze?

Serie. È una forma di corruzione. Così il sistema sanitario calpesta i diritti delle clienti assicurate. Quando i medici sono assunti non per la qualità dei loro servizi o per la loro eccellenza, ma solo per i benefici economici che possono fornire, si abbandona l’obbligo fondamentale di fornire alla comunità il servizio migliore da parte di tali professionisti. Alcuni di questi dottori sono assunti per lavori a contratto, non in medicina. Io vedo medici di famiglia che sono diventati piuttosto ricchi in questo modo, fanno soldi a spese dei pazienti. Comunque le stesse cose succedono anche nella società haredi [ebrei ortodossi e ultraortodossi, ndtr.]. Il fatto che il sistema permetta che il fenomeno esista, che addirittura lo incoraggi fra i gruppi più deboli della popolazione, è molto grave. Non deve succedere. Il Ministero della Salute deve intervenire.”.

La ricerca più recente di Daoud tratta della separazione tra le madri ebree e quelle arabe nei reparti di maternità degli ospedali. Il fenomeno in sé non è nuovo: è apparso sulle prime pagine dei giornali cinque anni fa in seguito a un’affermazione sull’argomento di Bezalel Smotrich (all’epoca parlamentare di Habayit Hayehudi, [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndtr.]): “È semplicemente naturale che mia moglie non voglia stare vicino a una che ha appena dato alla luce  un bambino che potrebbe assassinare nostro figlio fra 20 anni.” Daoud non cerca di quantificare il fenomeno, ma di svelarne l’origine. Il suo studio è consistito di interviste approfondite con direttori di ospedali, ostetriche, infermiere e neomamme, che hanno consentito a Daoud di rintracciare tre meccanismi di quello che lei chiama separazione razziale e cura iniqua nei reparti di maternità.

Il primo livello è la separazione che esiste in Israele in ogni ambito della vita e ci sono donne che vogliono imporre la separazione all’interno degli ospedali. Il secondo meccanismo è la commercializzazione dei servizi di maternità in Israele. Gli ospedali ricevono grandi somme di denaro dallo Stato per ogni parto e perciò lo staff capitola davanti alle richieste delle donne: ‘Vi daremo quello che volete purché veniate da noi.’ Il terzo meccanismo è ‘l’adattamento culturale.’ Il personale dell’ospedale ha trovato la giustificazione per la segregazione sostenendo che è per il bene delle donne.

Uno dei direttori ci ha detto chiaramente: ‘Quando Svetlana lascia la sala travaglio, perché dovrei metterla in un reparto con Fatma? Per lei sarà molto meglio una stanza con qualcuno come lei. Una mamma russa al massimo avrà un visitatore, un’araba sarà inondata da visitatori di tutta l’hamula.’ Proprio cosi, queste precise parole.”

Dopo lo shock vale la pena chiedere: E cosa ci sarebbe di così tremendo? Se una donna incontra solo gente come lei per tutta la sua vita, perché deve cercare di coabitare in una situazione così intima come il parto?

Una domanda legittima. Noi sappiamo che questa separazione è all’origine di discriminazione e razzismo in tutti gli ambiti della vita: alloggi, istruzione, welfare, trasporti. E noi vediamo come la separazione fra comunità arabe ed ebraiche causi un razzismo sistemico. Quindi non si deve prendere quel modello e clonarlo nel sistema sanitario. Gli ospedali dovrebbero essere strutture aperte a tutti.”

Non è che la conclusione che la segregazione conduca a un trattamento medico non ottimale sia un po’ esagerata?

Non credo che medici e infermieri agiscano in base a un razzismo consapevole o vogliano dare alle donne arabe trattamenti al di sotto della media. Ma noi sappiamo che il sistema sanitario è oberato e affamato di risorse, e così il personale deve stabilire delle priorità. La preoccupazione è che per il solo fatto che tu (in quanto professionista medico) stia mettendo un gruppo di donne appartenenti alla maggioranza della popolazione in una stanza e un gruppo di donne appartenenti alla minoranza in un’altra stanza, visiterai per prima la prima stanza. Quando il sistema soffre di mancanza di personale entrano in gioco gli istinti primari ed è lì che sta il pericolo.”

Cecità culturale’

All’inizio del mese Daoud ha ricevuto il premio Sami Michael Prize for Equality and Social Justice [Premio Sami Michael per l’Eguaglianza e la Giustizia Sociale], assegnato dall’Heksherim Institute for Israeli and Jewish Literature [Istituto Heksherim per la Letteratura Israeliana ed Ebraica] (che prende il nome da un famoso autore israeliano). Buona parte del suo discorso alla cerimonia l’ha dedicata alla pandemia da coronavirus e alle sue gravi conseguenze per i gruppi più deboli della popolazione. Daoud è un membro del gruppo di esperti per la crisi da COVID, un’iniziativa di volontari ebrei e arabi supportato dal New Israel Fund che si sta occupando, fra altri problemi, della diseguaglianza nell’assistenza medica che si è intensificata in conseguenza dello scoppio della pandemia. In questo quadro Daoud ha condotto uno studio che ha anticipato di sei mesi una ricerca simile del Ministero della Salute sul legame fra zone “rosse” (cioè quelle con alte percentuali di COVID) e lo status socio-economico.

La gestione della crisi da coronavirus nella società araba ha fallito,” asserisce. “Un personaggio che non viene dal campo [della sanità pubblica] è stato nominato direttore del progetto per la comunità araba. Questo mi ha fatto davvero infuriare. Ci sono moltissimi esperti e fra tutti si nomina lui? Abbiamo tutti visto le conseguenze. Le località arabe sono state in rosso quasi tutto il tempo. In generale i ministri tendono a nominare arabi con cui è comodo lavorare perché hanno legami con il governo. Questa è la mentalità di un regime militare.”

La nomina del Prof. Salman Zarka come commissario generale per il coronavirus ha portato un cambiamento in meglio nei rapporti con la società araba?

Non ho visto alcun cambiamento di questo tipo. Il commissario si occupa della società in generale.”

Ha importanza che un medico druso [corrente dell’Islam sciita una minoranza arabo-israeliana che il sionismo è riuscito a cooptare, ndtr.] sia l’autorità professionale suprema per la gestione della crisi?

Proviene dall’esercito (Zarka è un colonnello della riserva), dai Medical Corps (Corpi sanitari militari). Come tale si è formato per essere un arabo in quell’ambiente.”

Daoud ha cercato di esercitare un’influenza dall’interno. Mentre il Prof. Hezi Levi prestava servizio come direttore generale del Ministero della Sanità, lei ha lavorato per stabilire una commissione specializzata sotto i suoi auspici per affrontare la crisi da coronavirus nella società araba. In effetti una commissione è stata avviata, ma Daoud si è dimessa dopo un solo incontro.

Hanno nominato figure politiche in un modo inappropriato e inadatto,” spiega. “Quando ho visto che il direttore generale [del ministero] non si è presentato al primo meeting, ho capito che era un corpo senza denti, naso, bocca o occhi in quanto non ci erano stati presentati neppure dei dati trasparenti. Hanno nominato una commissione per poter dire che avevano nominato una commissione. Ho ringraziato e me ne sono andata.”

Sembra un po’ delusa per non essere stata chiamata a ricoprire una carica più importante.

Veramente no. Come ho detto ho avuto la possibilità di farne parte, sono stata invitata alle riunioni. In questo caso non è una questione di ego. Sto cercando di segnalare un problema molto più sistematico. È inaccettabile che non ci siano arabi nei centri decisionali del sistema sanitario eccetto i medici che hanno fatto il servizio militare nei Medical Corps. Non è ragionevole che la persona che ora supervisiona un budget ministeriale di centinaia di milioni di shekel destinati a migliorare la sanità nella società araba sia un ebreo. È illogico che le discussioni sulle disuguaglianze nella salute non siano guidate da un arabo. Ma dove siamo?”

Continua facendo notare che “si è creata una situazione assurda e inspiegabile. Nel sistema sanitario c’è moltissimo personale arabo, inclusi medici in posizioni apicali, ma gli arabi costituiscono meno dell’1% dello staff nella sede principale del Ministero della Sanità. Gli apparati che prendono le decisioni, impostano le politiche e incanalano i fondi sono quasi del tutto senza arabi.”

Eppure Daoud conclude: “Non sto dicendo che va tutto male. Il sistema sanitario in Israele è uno dei migliori in Occidente. Anche il Ministero della Salute ha ammesso le disparità esistenti al suo interno, il che è una situazione molto migliore che nel passato. Semplicemente non sta facendo abbastanza per ridurle.”

In questo contesto la professoressa ha elaborato un piano sistematico che richiede la messa in atto di un’unità ministeriale che si occupi di minoranze e il ritorno della categoria “nazionalità” nei documenti medici.

Negli anni ’80 le organizzazioni della società civile hanno lottato per farla cancellare, un errore da parte loro,” spiega. “La classificazione per nazionalità e altre categorie sociali possono servire come strumenti per implementare delle politiche. Se sai che esiste un certo fenomeno fra gli arabi e ci sono altri dati chiari sugli haredim, si possono adattare risposte specifiche per quelle comunità. Ciò sarebbe meglio della situazione odierna in cui il sistema soffre di cecità culturale.”

Daoud asserisce che riconoscere questo problema è già una mezza soluzione: “Il sistema sanitario deve essere coragggioso e riconoscere le diseguaglianze che esistono al suo interno. Una volta affrontate, vedremo la serenità arrivare nel sistema. Gran parte della violenza contro i team medici deriva dagli atteggiamenti razzisti dei pazienti contro i professionisti dell’assistenza medica che li cura, dagli atteggiamenti dei professionisti verso i pazienti o dagli atteggiamenti dei pazienti verso altri pazienti. Il sistema deve riconoscerlo. La sparatoria all’ingresso di Soroka (avvenuta recentemente nel Centro Medico di Be’er Sheva) non è stato un evento casuale. Il sistema sanitario è un microcosmo di tutti i mali della società. Le disparità in istruzione, impiego, alloggio e trasporti si esprimono in modo tangibile nei nostri corpi e poi noi le curiamo in un sistema sanitario malato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Spogliati, picchiati, colpiti con il taser: le denunce dei palestinesi rivelano la brutalità della polizia di Gerusalemme

Nir Hasson

27 dicembre 2021 – Haaretz

Diverse denunce di gravi comportamenti violenti nei confronti di palestinesi di Gerusalemme Est sono state presentate al ministero della Giustizia. Solo un poliziotto è stato incriminato

Un sedicenne spogliato e malmenato in un bagno pubblico, una donna di 60 anni ammanettata e trascinata sul pavimento, una giornalista sottoposta a commenti sessisti durante un interrogatorio, un giovane aggredito nel centro di una città e un altro trascinato fuori dal letto nel cuore della notte e erroneamente identificato come un’altra persona mentre i suoi familiari venivano picchiati. Tutto questo si ritrova in sei denunce presentate nei mesi scorsi all’unità investigativa sui comportamenti scorretti della polizia presso il ministero della Giustizia, le cui copie sono arrivate ad Haaretz. Dall’esame di diverse denunce di gravi comportamenti violenti nei confronti di palestinesi emerge che solo un un poliziotto è stato incriminato. La risposta della polizia di Gerusalemme: “Questa è un’immagine distorta e unilaterale che non riflette la verità“.

Un’aggressione in un bagno

H., un giovane palestinese di 16 anni, due mesi fa era seduto a bere tè sui gradini della piazza fuori dalla Porta di Damasco a Gerusalemme Est. Afferma di essere stato sorpreso dai poliziotti. Non si sentiva bene, poi qualcuno è arrivato da dietro e gli ha detto di non muoversi, erano poliziotti”, racconta il padre. Non capiva cosa stesse succedendo. È stato ammanettato e portato in un bagno pubblico”. Secondo la testimonianza del giovane, i poliziotti lo hanno aggredito per circa 40 minuti. Tra l’altro, gli hanno chiesto di spogliarsi, prima di stenderlo a pancia in giù sul pavimento, picchiandolo e prendendolo a calci su tutto il corpo.

Questo abuso è stato descritto in una denuncia presentata all’unità del ministero della Giustizia per le indagini comportamento scorretto della polizia dall’avvocatessa Nadia Dakka dell’HaMoked Center for the Defense of the Individual, un gruppo per i diritti umani che protegge i palestinesi. “H. afferma che in quel momento si è sentito in pericolo, con i poliziotti che gli urlavano contro e lo colpivano in faccia”, dice Dakka. Sotto le minacce, i colpi e le urla, H. ha cercato di togliersi la maglietta, e i poliziotti insistevano perché si togliesse anche i pantaloni, urlandogli: ‘Togliti i vestiti, figlio di puttana’. Non avendo egli eseguito [le intimazioni] i poliziotti gli hanno tolto i pantaloni e i boxer”, riferisce Dakka.

Secondo la denuncia, H. era completamente nudo quando i poliziotti lo hanno steso sul pavimento del gabinetto, colpendolo mentre era ammanettato. Uno di loro gli ha persino urlato contro minacciando che lo avrebbe “scopato”. H. ha ricevuto colpi, pugni e calci su tutto il corpo, di conseguenza sanguinava dal naso e aveva ferite al viso. H. riferisce che uno dei poliziotti gli ha dato un calcio ai testicoli. In seguito, i poliziotti gli hanno lavato la faccia a forza sotto un rubinetto. “Gli hanno detto che non volevano che la gente vedesse la sua faccia insanguinata”, afferma la denuncia. Gli hanno tolto le manette in modo che potesse vestirsi, lo hanno ammanettato di nuovo e lo hanno portato su un furgone della polizia mentre, sulla base della denuncia, lo costringevano a tenere le braccia sollevate e la testa abbassata.

Il padre di H. racconta che gli hanno chiesto la carta d’identità solo quando sono usciti dal bagno. Il giovane riferisce che uno dei poliziotti ha detto: Ha solo 16 anni, non fa al caso nostro. Ci serve qualcuno che abbia 19 anni”. Afferma che quando un passante palestinese ha chiesto il suo nome mentre veniva portato verso il furgone, è stato arrestato anche lui. Si sono in seguito incontrati nel furgone. H. è stato detenuto per 24 ore, durante le quali è stato portato in ospedale per cure mediche.

H. riferisce che durante la detenzione non gli è stato dato da mangiare. Nel corso del suo interrogatorio non gli sono state fatte domande su specifici atti da lui presumibilmente commessi né è stata presentata alcuna prova. Il giorno dopo è stato portato davanti a un giudice ed è stato rilasciato agli arresti domiciliari con il consenso della polizia. Nessun procedimento legale ha fatto seguito e nessun atto d’accusa è stato presentato contro di lui. In seguito all’incidente, ha riportato gonfiori, emorragie, ferite da taglio, contusioni e un trauma emotivo. “A guardarlo oggi non è la stessa persona”, dice suo padre. Ha smesso di studiare ed è dimagrito, si vedono le lacrime nei suoi occhi. Mi dice che pensa che tutti quelli che vede per strada possano essere dei poliziotti sotto copertura che potrebbero fargli del male”. L’unità del ministero della Giustizia afferma che la sua denuncia è stata registrata e che sarà trattata secondo la procedura usuale.

Un arresto nel cuore della notte

Dagli scontri avvenuti durante l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle Mura], la serie di attacchi contro Gaza dello scorso maggio, molte denunce di violenze da parte della polizia sono pervenute all’unità che indaga sulla condotta illegittima della polizia. Una di queste riguarda un episodio avvenuto un mese fa, alle 2:30 del mattino. Un gruppo composto da 20 poliziotti ha fatto irruzione nella casa della famiglia Abu Hummus nel quartiere di Issawiya a Gerusalemme est. Non hanno bussato, hanno sfondato la porta. Mia figlia ha sentito qualcosa e ha detto loro che avrebbe aperto la porta, ma loro le hanno detto di allontanarsi, entrando dopo aver sfondato la porta. Mio figlio Mohammed [18 anni] stava dormendo. Uno di loro si è avvicinato al suo letto, lo ha preso per i vestiti e gli ha incappucciato la testa, lo ha ammanettato e lo ha portato via”, spiega il padre della famiglia, Rabah Abu Hummus. “Mia figlia ha provato a scattare delle foto, per cui si sono avventati su di noi, uno di loro con un taser, picchiando noi e i nostri figli”.

Il figlio ha portato la testimonianza dell’episodio a un ricercatore di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndtr.]. Nella sua dichiarazione ha detto che una volta fuori, mi hanno fatto inginocchiare mentre uno di loro mi teneva premuta la testa. Poi mi hanno portato sull’auto della polizia dove era già seduto mio fratello Khader. Sapevo che era lui perché ha detto loro che voleva un’ambulanza, dato che non si sentiva bene”. Mohammed è stato portato alla stazione di polizia del Russian Compound [famigerato complesso in cui sorge, insieme ad altri edifici russi, la Cattedrale della Santissima Trinità, chiesa ortodossa del XIX secolo, ndtr.] dove è stato interrogato per cinque ore con l’accusa di aver sparato con un’arma e lanciato pietre.

Mohammed Abu Hummus non era mai stato arrestato prima e ha negato tutte le accuse. L’interrogatorio è ripreso il giorno successivo, durante il quale è entrata nella stanza una persona che Mohammed non ha riconosciuto. Racconta: Hanno detto che era lui che aveva testimoniato contro di me. Gli ho chiesto: ‘Mi conosci per testimoniare contro di me? Cosa ti ho fatto per farmi portare qui? Mi ha detto che non mi conosceva, che non ero io quello che lui intendeva accusare (quando aveva parlato con la polizia), che quello contro cui aveva testimoniato era un altro Mohammed Abu Hummus”.

Il cognome Abu Hummus è uno dei più diffusi di Issawiya. Il padre, Rabah, crede che nel quartiere ci siano 50 persone chiamate Mohammed Abu Hummus. “Dopo aver sentito questo, mi hanno riportato in isolamento”. Prima che lo rilasciassero, dice, “qualcuno ha aperto lo spioncino della porta e ha detto che si scusavano, mi avevano arrestato per errore”. È stato rilasciato senza condizioni. “Non mi hanno dato nemmeno un pezzo di carta”, dice Mohammed. Afferma che a tutt’oggi non ha ricevuto indietro la sua carta d’identità e due telefoni di famiglia confiscati dai poliziotti. Questa settimana l’unità investigativa sulla condotta illegittima della polizia ha riferito ad Haaretz che la sua denuncia “non era presente sui propri computer”.

Percosso su tutto il corpo

Tra le denunce presentate di recente, l’unità investigativa sul comportamento scorretto della polizia ne ha trovata una che formula accuse contro un poliziotto di nome Gil Zaken, accusato di aver aggredito qualcuno senza motivo. In quel caso, dice HaMoked, è stato posto sotto accusa un solo poliziotto anche se altri agenti hanno preso parte all’aggressione.

Il fatto è avvenuto il 12 maggio, durante la guerra di Israele con Hamas a Gaza. Il querelante, Ahmed Sliman, che lavorava in un bar nel centro di Gerusalemme, stava fuggendo da una banda di giovani ebrei alla ricerca di passanti arabi da assalire. Si è nascosto dietro un muro di pietra con un amico. Sul posto è arrivata la polizia, che aveva ricevuto una segnalazione riguardo alla presenza nella zona di un terrorista armato di ascia. Secondo la denuncia che ha presentato, i poliziotti lo hanno circondato e hanno cominciato a picchiarlo.

“I poliziotti hanno aggredito Sliman prendendolo a calci e colpendolo alla testa e su tutto il corpo, senza tralasciare nessuna parte”, riporta la denuncia presentata al ministero della Giustizia dall’avvocatessa Dakka di HaMoked. Lo hanno ammanettato e perquisito, cercando poi di fargli firmare un documento che includeva, tra l’altro, una dichiarazione secondo cui non sarebbe stato aggredito dai poliziotti. Sliman si è rifiutato di firmare il documento.

Secondo la denuncia, in seguito i poliziotti lo hanno perquisito e aggredito verbalmente, e uno di loro ha detto: “Puoi ringraziare di non esserti preso una pallottola in testa”. I poliziotti se ne sono andati senza arrestare Sliman, che è stato portato in ambulanza in un ospedale per cure mediche. Ha accusato un’emorragia nasale, ferite da taglio al viso, un dente rotto e un’emorragia oculare. Le foto che ha scattato dopo l’episodio mostrano la sua faccia gravemente contusa.

Trascinata con le gambe scoperte

La quarta denuncia è stata presentata a luglio da Wafiya Da’ane, 60 anni. Da’ane si stava dirigendo verso il Monte del Tempio durante l’Eid al-Adha [festa celebrata nel mondo islamico ogni anno nel mese lunare di Dhū l ijja, dodicesimo mese dell’anno, ndtr.] quando degli agenti di polizia le hanno impedito di entrare, ordinandole di consegnare la sua carta d’identità. Secondo la denuncia, quando ha provato a discutere con uno degli agenti, lui ha iniziato a spingerla via dall’ingresso. “Scossa dalla reazione e per la paura, la signora Da’ana ha iniziato a urlare”, afferma la denuncia presentata all’ufficio investigativo interno. “Sentiva che la stavano trattando come una pericolosa criminale, e non come una donna anziana che voleva solo visitare la moschea”.

Sono arrivati ​​altri agenti, tra cui una donna che ha iniziato a urlarle contro in ebraico. Da’ane non ha capito cosa dicesse, ma quando ha visto l’agente donna tirare fuori le manette si è resa conto che la polizia intendeva arrestarla. Ha offerto le mani e non ha opposto resistenza all’arresto. L’agente donna l’ha ammanettata e ha continuato a urlare”, afferma la denuncia.

In seguito, secondo quanto riportato, i poliziotti hanno trascinato Da’ane ancora in manette e uno di loro l’ha afferrata per la gola. Da’ane afferma che l’agente l’ha picchiata e lei è svenuta per alcuni secondi. Quando ha ripreso conoscenza si è ritrovata trascinata dalla polizia con le gambe completamente scoperte, nonostante sia una donna religiosa che indossa l’hijab [velo che copre capelli, gola e parte del volto, ndtr.]” si legge nella denuncia. “La polizia non ha mostrato nessuna sensibilità e l’hanno trascinata in questo stato davanti ai passanti”.

Da’ane non riusciva a credere a quello che stava succedendo “e ha iniziato a piangere per il dolore e l’umiliazione”, viene riferito nella denuncia. “Anche se le sue gambe erano deboli, ha cercato di nuovo di alzarsi in piedi, di porre fine alla scena umiliante che ha ferito gravemente la sua dignità e che ancora la fa piangere ogni volta che le viene in mente”.

Da’ane è stata trattenuta in stato d’arresto presso la stazione di polizia, dove è stata portata in ambulanza essendosi sentita male. Le è stato detto di tornare per essere interrogata entro tre giorni dal suo rilascio. Quando è tornata alla stazione regionale di David, la polizia ha rifiutato di riceverla e di restituirle la sua carta d’identità. Da allora non è stata più richiamata. L’unità investigativa interna della polizia ha commentato che la denuncia è stata ricevuta e presa in esame come di consueto.

Arresto con un taser

Un altro ricorrente di nome Ali Abu Sareh sarebbe stato aggredito dopo essersi avvicinato ai poliziotti di frontiera che avevano aggredito una giornalista nella Città Vecchia. È stato arrestato attraverso l’utilizzo di una pistola stordente ed afferma che la polizia lo ha colpito alla testa e preso a calci sul corpo. Ha riportato fratture al volto e ferite allo stomaco, alla testa e alla schiena. Durante l’arresto ha vomitato due volte.

Secondo la denuncia presentata le sue condizioni cliniche erano così gravi che un medico del carcere del Russian Compound si è rifiutato di accettarlo e ha insistito perché fosse ricoverato in ospedale. La polizia lo ha accusato di aver aggredito un agente e di aver ferito una poliziotta con una forchetta. Nonostante questa accusa, il giorno successivo la polizia ha accettato di rilasciarlo su cauzione e da allora non ha presentato nessuna accusa. L’unità investigativa interna della polizia ha commentato che la sua denuncia è sotto esame.

Interrogata sul colore dei suoi capelli

Un’altra denuncia è stata presentata da Alaa Daiyeh, una produttrice televisiva e fotografa di 24 anni. Secondo la sua querela, il 31 maggio ha cercato di fotografare agenti di polizia che avrebbero aggredito un minore palestinese. Afferma che uno degli agenti si è precipitato su di lei e ha afferrato il suo telefono cellulare. Come riferisce la denuncia, “l’agente, che parlava in arabo, si è rifiutato di restituirle il telefono e l’ha obbligata a mostrargli la sua carta d’identità mentre diceva agli altri agenti che lei lo aveva ripreso usando l’applicazione TikTok, anche se Daiyeh ha insistito sul fatto di non possedere quell’applicazione sul proprio telefono”.

Il poliziotto avrebbe urlato che se non avesse taciuto l’avrebbe colpita e le avrebbe fatto saltare i denti. Daiyeh ha cercato di dissuadere l’agente dal minacciarla, ricordandogli che la sua telecamera portatile stava documentando la discussione. Lui ha risposto in arabo: “Tu e il tuo profeta potete andare all’inferno”, afferma la denuncia. Riferisce che gli agenti l’hanno poi arrestata e interrogata chiedendole informazioni sul colore dei suoi capelli e ordinandole di togliersi l’hijab per verificare che non stesse mentendo. La poliziotta che la interrogava ha ripetuto l’ordine. Più tardi la polizia ha contattato suo fratello perché la convincesse a firmare un ordine restrittivo volontario [che le intimava] di stare lontano dalla Porta di Damasco. Ha riferito che durante la conversazione la polizia ha usato un linguaggio sessista, comprese delle allusioni sessuali. L’unità investigativa interna della polizia ha commentato che la sua denuncia è sotto esame.

“La mancanza di fiducia nell’unità investigativa interna ha portato al risultato che sono pochissimi i palestinesi vittime della violenza della polizia disposti a sporgere denuncia”, ha commentato Jessica Montell, direttrice esecutiva dell’organizzazione per i diritti umani HaMoked. “Questa situazione crea un circolo vizioso che perpetua la violenza della polizia perché gli agenti agiscono con la sensazione di essere immuni da responsabilità”, ha detto. “Nel corso dell’ultimo anno la violenza contro i palestinesi a Gerusalemme est è diventata una routine e quindi spetta all’unità investigativa interna fare giustizia riguardo alle denunce che abbiamo presentato, con l’obiettivo di prevenire ulteriori danni in futuro”.

La polizia: ‘Immagine distorta’

La polizia del distretto di Gerusalemme ha risposto affermando che “I casi menzionati nell’articolo sono tendenziosi e pieni di imprecisioni. Il tentativo di trarre conclusioni sull’attività della polizia presentando un’immagine unilaterale distorce la verità”. Secondo la polizia i casi in cui i civili attaccano o si oppongono all’arresto “richiedono l’impiego delle forze dell’ordine e l’uso ragionevole della forza”.

“Ogni anno durante l’attività operativa la forza viene utilizzata in meno dello 0,1 % dei numerosi contatti tra polizia e civili, una statistica che indica la moderazione della forza e l’uso corretto e proporzionato di tale potere”, afferma la polizia.

Relativamente alle denunce presentate contro di loro, si è rilevato che la maggior parte degli agenti ha agito in base alla legge”, sostiene la polizia. La polizia aggiunge che “si rammarica che, invece di scrivere delle migliaia di casi in cui ogni anno gli agenti di polizia vengono attaccati e molti di loro feriti, come in alcuni dei casi citati, c’è chi sceglie di incolpare la polizia”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Tre progetti di Israele per il 2022

Tawfiq Abu Shomar

27 dicembre 2021 – Monitor de Oriente

Il primo progetto: gli israeliani progettano di assorbire una possibile nuova ondata di immigrati dall’Ucraina e si aspettano che la Russia scateni una guerra contro quel Paese all’inizio del 2022, perché la Russia ha mobilitato 100 battaglioni sulla frontiera dell’Ucraina. Gli esperti raccomandano di prepararsi per questa grande massa di immigrati, per cui devono essere approvati finanziamenti speciali destinati a loro. Esiste anche la possibilità che ciò venga accompagnato da un’altra ondata di immigrati dalla stessa Russia, perché gli Stati Uniti e l’Europa applicheranno sanzioni economiche contro di essa, il che spingerà a emigrare anche migliaia di ebrei russi.

Lo scrittore Micha Levinson il 19 dicembre ha scritto sul Jerusalem Post [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndtr.]: “Secondo l’American Jewish Year Book 2019 [annuario della comunità ebraica nordamericana, ndtr.], circa 200.000 ucraini possono essere ammessi all’alyià [la salita, ossia l’immigrazione in Israele, ndtr.] in base alla legge del Ritorno [norma che stabilisce i requisiti per aver diritto alla cittadinanza israeliana in quanto ebrei, ndtr.]. Benché la maggioranza non si identifichi come ebrea né lo sia in base alle leggi religiose, decine di migliaia di rifugiati potrebbero chiedere la cittadinanza israeliana.” Quindi, secondo Levinson, il governo di Naftali Bennett suggerisce di eliminare il monopolio dell’ebraizzazione imposto dal Gran Rabbinato, ortodosso, per concedere ai rabbini moderni e riformisti la possibilità di ottenerne l’ebraizzazione in modo rapido, perché c’è mezzo milione di immigrati dell’ex-Unione Sovietica e di altri Paesi che non sono ebrei in base ai criteri rabbinici, compreso il Gran Rabbino sefardita [di origine araba o di altri Paesi musulmani, ndtr.] Yitzhak Yosef, che l’anno scorso li ha definiti “comunisti ostili alla religione”. Secondo l’analisi del più importante demografo [israeliano], Sergio della Pergola, docente dell’Università Ebraica, essi rappresentano il 5% degli ebrei israeliani.

Il secondo progetto è comparso il 19 dicembre sul giornale Israel Hayom [quotidiano gratuito israeliano di estrema destra, ndtr.] e riguarda il metodo di repressione delle manifestazioni e delle rivolte del popolo palestinese che continua a resistere sulla sua terra dal 1948. Yoav Limor ha scritto: “Dopo l’operazione Guardiano delle Mura [l’attacco israeliano contro Gaza del maggio 2021, ndtr.] le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] e la polizia israeliani hanno lavorato per ricavare lezioni dal conflitto per il futuro. Si è immediatamente deciso di trasferire alla polizia il comando delle unità della polizia di frontiera dell’esercito, così come di far ricorso alle truppe del comando del fronte interno per sostituire la polizia nella sicurezza delle basi e dei convogli delle IDF. Quanto alle nuove unità della polizia di frontiera, esse saranno formate da riservisti che finora prestavano servizio soprattutto nelle unità militari “regolari”, in genere di fanteria o nella difesa delle frontiere.

L’unità parteciperà alle attività operative in corso in Giudea e Samaria (la Cisgiordania occupata) e a Gerusalemme e, se necessario, opererà sotto il controllo della polizia israeliana per missioni di sicurezza interna, come la prevenzione di disordini violenti nelle città miste.” Queste città miste includono, tra le altre, Lydda, Nazaret, Haifa e San Giovani d’Acri.

Questa unità ha effettuato il suo primo addestramento qualche giorno fa nella città palestinese di Umm Al-Fahm e realizzerà interventi rapidi con il pretesto di mantenere la sicurezza e combattere il terrorismo palestinese e gli assassini giornalieri. Tuttavia l’obiettivo non dichiarato è di opprimere i palestinesi.

Quanto al terzo progetto, viene applicato fuori da Israele dal principale gruppo di pressione a favore di Israele negli Stati Uniti, il Comitato delle Questioni Pubbliche Americano-Israeliane (AIPAC). L’organizzazione progetta di trasformarsi nella lobby israeliana di appoggio ai candidati al Congresso, finanziando la campagna dei membri del Congresso e dei candidati alle elezioni favorevoli a Israele. Li appoggerà finanziariamente e logisticamente per attrarre i sostenitori di Israele sia del partito Democratico che di quello Repubblicano.

La presidentessa dell’AIPAC, Betsy Berns Korn, ha affermato: “In tutta la storia dell’AIPAC il consiglio di amministrazione ha adeguato costantemente la nostra strategia politica per garantire che potessimo continuare ad avere successo in una Washington in continuo mutamento. Il contesto politico del Distretto Federale ha conosciuto un profondo cambiamento. L’esasperazione nei rapporti tra i partiti, il notevole ricambio nel Congresso e la crescita esponenziale dei costi delle campagne elettorali ora dominano il panorama. Perciò il Consiglio ha deciso di introdurre questi due nuovi strumenti.” Ha aggiunto che il PAC [Piano di Accumulo del Capitale] dell’AIPAC “metterà in risalto e appoggerà gli attuali parlamentari democratici e repubblicani, così come i candidati al Congresso, che sostengono Israele. La creazione dei PAC fa parte di varie iniziative nuove che l’AIPAC ha lanciato negli ultimi due anni, inclusa una maggiore presenza sulle reti sociali, un’iniziativa digitale e una prossima applicazione dell’AIPAC. Finora le iniziative hanno aumentato significativamente il numero dei nostri aderenti a 1.5 milioni di membri e sta crescendo.”

L’ex-presidente democratico dell’AIPAC, Steven Grossman, ha commentato questo cambiamento affermando: “Avendo visto le modifiche e l’evoluzione della politica statunitense in quest’ultimo decennio circa, appoggio quello che ha detto l’AIPAC perché darà all’organizzazione e ai suoi membri un’opportunità ancora più significativa di svolgere un ruolo attivo nella vita politica statunitense nel momento in cui ciò è fondamentale.”

Concludo dicendo che mi piacerebbe che potessimo beneficiare dei sistemi israeliani nella pianificazione e nella preparazione del futuro, modificando la nostra lotta, ammettendo in primo luogo i nostri errori e poi facendo progetti per il futuro adeguati per cambiare la nostra strategia.

Ricordate: la politica è una partita a scacchi e si può vincere solo conoscendo i piani dell’avversario.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necesariamente la política editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




I palestinesi rendono omaggio a Desmond Tutu

Ali Abunimah 

27 dicembre 2021 – Electronic Intifada

L’arcivescovo Desmond Tutu è stato un “vero profeta di giustizia e pace,” ha affermato domenica il movimento palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni facendo seguito alla notizia che l’icona della lotta per la libertà del Sudafrica era morto all’età di 90 anni.

Nel corso dei decenni della sua lotta contro l’apartheid e tutte le forme di ingiustizia, Arch, come gli piaceva essere chiamato, ha insegnato a milioni di persone in tutto il mondo, inclusi i palestinesi, il senso di una lotta basata su principi etici, sull’efficacia e su profonde convinzioni per ottenere ‘il menu completo dei diritti.’”

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese che lavora in stretto contatto con le forze di occupazione israeliane, ha lodato Tutu quale “eroe al servizio dell’umanità e delle sue cause.”

L’arcivescovo Atallah Hanna di Gerusalemme ha detto che Tutu “sarà sempre ricordato, anche in Palestina, per il suo ripudio di razzismo e apartheid.”

La Palestina, come il Sudafrica, ha perso un vero patriota, un grande paladino dei diritti umani, un oppositore del razzismo e uno strenuo difensore della causa palestinese,” è il commento del movimento di resistenza Hamas.

A quelli abbastanza vecchi da ricordare la lotta contro l’apartheid in Sudafrica, la faccia e la voce di Tutu sono familiari come quelle di Nelson Mandela, forse persino di più. Ma mentre Mandela e altri leader dell’African National Congress [ANC, Congresso Nazionale Africano, il più importante partito del Paese, fondato nel 1912 e al governo dalla caduta del regime] furono imprigionati dal regime razzista e tenuti lontani dalla vista pubblica, Tutu è stato a tutti gli effetti il portavoce del popolo sudafricano nel mondo.

Con la fine dell’apartheid nel 1994, Tutu ha riservato lo stesso appassionato amore della giustizia alla lotta palestinese.

Durante la mia visita in Terra Santa sono rimasto profondamente turbato perché mi ha ricordato moltissimo quello che è successo a noi neri in Sudafrica,” scrisse nel 2002. “Ho visto le umiliazioni dei palestinesi ai checkpoint e ai blocchi stradali, soffrono come noi quando i giovani poliziotti bianchi ci impedivano di muoverci liberamente nel Paese.”

Ho visitato Israele/Palestina in molte occasioni e ogni volta sono stato colpito dalle somiglianze con il regime sudafricano di apartheid,” scrisse nel 2011. “Le strade e le zone separate per palestinesi, le loro umiliazioni ai checkpoint e ai posti di blocco, gli sfratti e le demolizioni delle case.”

Aggiunse che zone di Gerusalemme Est assomigliano a quello che era il Distretto Sei a Città del Capo”, una comunità multirazziale vecchia di un secolo, distrutta nel 1966 dal regime di apartheid e dichiarata zona riservata solo ai bianchi.

Sostegno al boicottaggio

Avendo capito le somiglianze fra le dinamiche di potere nelle due società colonialiste, Tutu sostenne subito la richiesta palestinese di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Spesso offrì, pubblicamente e in privato, il proprio appoggio direttamente alle campagne BDS nel mondo.

Dopo aver sollecitato le chiese americane a disinvestire dalle compagnie complici dei crimini israeliani contro i palestinesi, come prevedibile attirò le ire della lobby israeliana.

Il suo status di icona non riuscì a proteggerlo dalle calunnie della Anti-Defamation League [Lega Antidiffamazione (ADL), ong USA che combatte “l’antisemitismo e tutte le forme di pregiudizio” e che fa parte della lobby filo-israeliana, ndtr] di aver deviato nell’“antisemitismo.”

Quest’attacco proveniva dalla stessa Lega che negli anni ’80 aveva spiato il movimento anti-apartheid e passato informazioni al governo razzista del Sudafrica.

Ma questi attacchi non impedirono mai a Tutu di sostenere il BDS.

Nel 2014 disse al quotidiano israeliano Haaretz che il boicottaggio internazionale del Sudafrica aveva giocato un ruolo cruciale per favorire il dialogo che portò poi alla transizione alla democrazia.

A un certo punto, il punto di svolta, l’allora governo si rese conto che il costo di cercare di preservare l’apartheid superava i benefici,” spiegò Tutu.

Negli anni ’80 lo stop ai commerci con il Sudafrica delle multinazionali con una coscienza fu in sostanza uno degli aspetti essenziali che misero in ginocchio, senza spargimento di sangue, lo Stato di apartheid.”

Chi continua a fare affari con Israele, chi contribuisce a un senso di ‘normalità ’ nella società israeliana, sta danneggiando i popoli di Israele e Palestina,” aggiunse. “sta contribuendo alla perpetuazione di uno status quo profondamente ingiusto.”

Elogi dagli ipocriti

Adesso Tutu è lodato da molte istituzioni e da molti leader che non avevano prestato ascolto agli appelli per il boicottaggio durante la lotta in Sudafrica e ora nel caso della Palestina.

Membri di spicco dell’Unione Europea, specialmente Germania e Regno Unito, si sono a lungo opposti alle sanzioni al Sudafrica.

Oggi la UE continua a premiare Israele, militarmente, economicamente e politicamente, mentre c’è un’escalation dei suoi crimini contro i palestinesi.

Nulla di tutto ciò ha portato i maggiori dirigenti dell’UE a riflettere prima di rendere omaggio a Tutu come se avessero imparato qualcosa da lui.

Anche Liz Truss, ministra degli Esteri britannica, il cui governo ha recentemente firmato un accordo di “partenariato strategico” militare ed economico con Israele, ha elogiato Tutu:

Addolorata nell’apprendere della morte dell’arcivescovo Desmond Tutu. Fu la forza trainante della fine dell’apartheid in Sudafrica e un meritevole vincitore del Premio Nobel per la Pace. Sono vicina al popolo del Sudafrica.”

Per contrasto il governo di Israele è rimasto in silenzio, forse un raro caso di autoconsapevolezza.

Ma Yishai Fleisher, un leader dei coloni ebrei nella Cisgiordania occupata, ha festeggiato la scomparsa di Tutu: “Oggi è morto un antisemita.”

Fleisher probabilmente parla anche per molti politici israeliani che sono rimasti in silenzio, ma che etichettarono Tutu come “un pericoloso nemico di Israele.”

Oggi un antisemita è morto. Tutu è scomparso, ma Israele è ancora qui.

Questo ha spinto gli utenti di molti social media, me incluso, a sbeffeggiare l’ipocrisia di Starmer [segretario del partito Laburista britannico, ndtr.].

Se Tutu fosse stato un membro del partito laburista, Starmer avrebbe certamente cercato di farlo espellere, come i molti altri che sono stati allontanati per posizioni simili a sostegno dei diritti dei palestinesi.

Uno dei leader dei laburisti e predecessore di Starmer, l’ex primo ministro Tony Blair, ha detto di essere “addolorato” per la morte di Tutu.

Nel 2012 Tutu si ritirò da un summit sulla “leadership” con Blair dicendo che non poteva sedere vicino alla persona che, con il presidente USA George W. Bush, aveva ordinato la catastrofica invasione dell’Iraq basata su menzogne.

Tutu sottolineò l’evidente ipocrisia di un sistema mondiale che trascina leader africani e asiatici davanti ai tribunali e lascia liberi quelli come Blair.

Su quali basi decidiamo che Robert Mugabe deve essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale” mentre “Tony Blair entra nel club degli oratori internazionali?” si chiese Tutu.

Desmond Tutu ha vissuto la vita fino alla fine lottando e parlando a favore di giustizia e verità in Sudafrica, Palestina e nel mondo intero.

Sta a noi compiere il resto del viaggio, ma lui ci ha mostrato la via.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le chiese di Gerusalemme accusano Israele di discriminazione e denunciano il declino dei cristiani

Mustafa Abu Sneineh

21 dicembre 2021 – Middle East Eye

Patriarchi e capi delle chiese denunciano che i cristiani palestinesi sono diventati un bersaglio di attacchi ripetuti da parte di gruppi di estrema destra israeliani.

I cristiani palestinesi hanno criticato Israele per aver ostacolato la stagione turistica natalizia e averli discriminati, affermando di ritenere la loro presenza minacciata nella Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate e in Israele.

I patriarchi e i capi delle chiese di Gerusalemme hanno rilasciato una dichiarazione la scorsa settimana in cui affermano che “i cristiani sono diventati il ​​bersaglio di attacchi frequenti e prolungati da parte di frange radicali”, riferendosi agli attivisti di estrema destra israeliani.

Hanno dichiarato che dal 2012 sono stati registrati “innumerevoli incidenti” con attacchi verbali e fisici contro sacerdoti e che alcune chiese sono state “vandalizzate e profanate”, aumentando così timori che i cristiani palestinesi nutrono per la loro sicurezza.

“Queste tattiche vengono utilizzate dai suddetti gruppi radicali nel tentativo sistematico di cacciare la comunità cristiana da Gerusalemme e da altre parti della Terra Santa”, afferma la dichiarazione, riferendosi alla Palestina e ad Israele.

Chiese bruciate

Dal 2015 attivisti israeliani di estrema destra hanno attaccato diverse chiese in Israele e Palestina.

Alcune figure israeliane vicine al crescente movimento politico del sionismo religioso, che ha quattro parlamentari, hanno chiaramente affermato di voler mettere al bando il Natale e hanno affermato che le chiese sono luoghi di venerazione di idoli, chiedendone la distruzione.

La Chiesa della Moltiplicazione sul Mar di Galilea ha subito un incendio doloso nel 2015 per mano di un gruppo di estrema destra israeliano.

Lo scorso dicembre un israeliano ha tentato di dare fuoco allo storico santuario del Getsemani a Gerusalemme est, nota anche come Chiesa di Tutte le Nazioni, prima di essere arrestato.

Gli attacchi incendiari sono una tattica comune usata dai coloni israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est. Altri attacchi dei coloni includono graffiti razzisti con le bombolette di vernice, la rottura di finestre e il taglio di pneumatici.

I patriarchi e i capi delle chiese hanno affermato che “i gruppi radicali israeliani continuano ad acquisire proprietà strategiche nel quartiere cristiano [nella Città Vecchia di Gerusalemme] allo scopo di diminuire la presenza cristiana”.

Il loro non è il primo allarme del genere negli ultimi giorni.

In un editoriale congiunto sul quotidiano britannico Sunday Times, Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, e Hosam Naoum, arcivescovo anglicano di Gerusalemme, hanno denunciato il declino della presenza cristiana in Palestina causato dai tentativi di gruppi israeliani di estrema destra di espellerli.

Hanno rilevato come un secolo fa in quella che allora era la Palestina del Mandato britannico ci fossero circa 73.000 cristiani palestinesi, che rappresentavano il 10% della popolazione. Hanno fatto notare che invece nel 2019 solo il 2% della popolazione israeliana e palestinese è cristiana e solo 2.000 cristiani palestinesi vivono nella Città Vecchia di Gerusalemme.

“È per questo motivo che quando parli con i cristiani palestinesi a Gerusalemme oggi senti spesso questo grido: ‘Tra 15 anni non resterà nessuno di noi!'”, hanno scritto.

I gruppi di coloni israeliani, spesso incoraggiati dalle autorità, continuano a cacciare i palestinesi – musulmani o cristiani – dalle loro case nei quartieri di Gerusalemme come Sheikh Jarrah, Silwan, Batn al-Hawa e Wadi Hilweh, così come nella Città Vecchia.

Il quinto lokdown

La scorsa settimana Israele ha vietato agli stranieri di entrare nel Paese fino al 29 dicembre a seguito della diffusione della nuova variante del Covid-19, Omicron.

Il divieto include anche i pellegrini cristiani che avrebbero visitato i luoghi santi di Gerusalemme est, Betlemme e Nazareth.

Tuttavia, la decisione è stata criticata da personalità cristiane palestinesi, che hanno affermato che il governo israeliano li ha discriminati consentendo ai giovani ebrei di visitare Israele come parte del progetto “Birthright” [diritto di nascita], che offre tour gratuiti ai giovani ebrei della diaspora.

Wadie Abunassar, portavoce e consigliere delle chiese in Terra Santa, ha scritto su Facebook che la decisione di Israele di vietare l’ingresso a migliaia di pellegrini cristiani vaccinati con la terza dose durante il Natale, consentendo invece a gruppi ebraici di visitare il Paese durante il quinto lockdown, è stata accolta con “disappunto”.

“Ho chiesto a consulenti legali e mi hanno detto che si tratta di una discriminazione morale illegale. Non possiamo assolutamente accettare questa discriminazione razzista. Esorto le autorità israeliane a trattare allo stesso modo tutti coloro che vogliono visitare il Paese senza alcuna discriminazione su base religiosa”, ha scritto Abunassar.

Si stima che circa 10.000 pellegrini cristiani avrebbero visitato la Palestina e Israele durante il periodo natalizio. Ma i viaggi sono stati annullati

La città di Betlemme, in Cisgiordania, dove si crede sia nato Gesù, è stata duramente colpita dalla pandemia e il suo settore alberghiero sta vivendo un secondo Natale senza turisti.

Betlemme è stata la prima città palestinese a imporre il blocco nel marzo 2020 quando sono stati rilevati casi di Covid-19 tra i turisti. È circondato dal muro di separazione di Israele e da posti di blocco militari, che la isolano dalle città di Gerusalemme ed Hebron.

Nel tentativo di mitigare il crollo del settore turistico a Betlemme, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha offerto ai lavoratori alberghieri in città un sussidio una tantum di 700 shekel (196 €).

Gli hotel di Betlemme sono vuoti di turisti e pellegrini stranieri a causa delle restrizioni alle frontiere israeliane per contrastare la diffusione del Covid-19.

Welby e Naoum hanno scritto che i cristiani palestinesi stanno vivendo “una tragedia storica che si svolge in tempo reale”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




HRW: a maggio poliziotti israeliani si sono accordati con ultranazionalisti ebrei per reprimere manifestanti palestinesi

Redazione di PC

14 dicembre 2021 – Palestine Chronicle

Un rapporto di Human Rights Watch (HRW) sulle politiche brutali e discriminatorie ha rilevato che durante la rivolta civile di maggio nella città di Lydda funzionari israeliani si sono accordati con ultra-nazionalisti ebrei di estrema destra.

Il rapporto, rilasciato martedì, evidenzia che a Lydda le forze dell’ordine israeliane hanno fatto uso di una forza eccessiva per disperdere proteste pacifiche da parte di palestinesi e invita la commissione d‘inchiesta dell’ONU a indagare sulle pratiche discriminatorie dello Stato occupante.

Queste prassi includono il modo opposto di trattare manifestanti ebrei e palestinesi; l’evidente appoggio e la collaborazione con gli ultranazionalisti ebrei di estrema destra; la diffusione di disinformazione da parte di funzionari governativi per fomentare la rivolta civile e un trattamento discriminatorio dei cittadini palestinesi di Israele nei tribunali dopo il loro arresto.

In maggio Lydda e altre città in Israele e nella Cisgiordania occupata hanno assistito a rivolte sullo sfondo dei tentativi discriminatori di cacciare palestinesi dalle proprie case nella Gerusalemme est occupata, dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti e i fedeli nella moschea di Al-Aqsa e dello scatenamento di un’aggressione israeliana contro Gaza il 10 maggio.

Nel corso di circa due settimane di rivolta le forze di sicurezza hanno arrestato 2.142 persone in Israele e a Gerusalemme est in operazioni di “deterrenza” che le autorità hanno definito “Legge e Ordine”. Secondo Amnesty International circa il 90% degli arrestati sono cittadini palestinesi di Israele e abitanti di Gerusalemme est occupata.

In giugno un rapporto di Amnesty International sulle azioni repressive ha rilevato che suprematisti israeliani di estrema destra hanno condiviso selfie in cui si sono messi in posa con armi da fuoco e messaggi come “Stanotte non siamo ebrei, siamo nazisti.”

Tra i molti esempi di discriminazione citati da HRW nel rapporto c’è l’evidente collaborazione tra poliziotti israeliani e ultranazionalisti ebrei. Il 12 maggio parecchi ultranazionalisti ebrei che non vivono a Lydda, alcuni dei quali armati, sono entrati in città violando la dichiarazione dello stato di emergenza del governo, emanato ore prima, che vietava l’ingresso a non-residenti.

Nel rapporto viene citato un giornalista israeliano che, nel suo servizio da Lydda, ha affermato che le autorità municipali avevano ospitato durante la notte ultranazionalisti ebrei arrivati da fuori in un edificio di proprietà del Comune nei pressi di un cimitero palestinese. Benché la città abbia negato di essere stata informata di questa iniziativa o di averla approvata, questi gruppi sono andati a prendere di mira palestinesi. Durante la notte hanno lanciato pietre contro case e negozi palestinesi e contro la moschea di Al-Omari. Video di alcuni incidenti mostrano, schierati vicino a facinorosi ebrei, poliziotti che non intervengono mentre questi lanciano pietre.

Durante gli scontri sono stati attaccati proprietà e luoghi di culto palestinesi. Molti sono stati feriti, un cimitero musulmano è stato vandalizzato e decine di auto sono state date alle fiamme. HRW afferma che le forze dell’ordine schierate per garantire la sicurezza a Lydda sono rimaste a guardare o non hanno agito in tempo per proteggere abitanti palestinesi di Lydda dalle violenze da parte di ultra-nazionalisti ebrei che si trovavano vicino a loro o nel loro campo visivo.

Evidenziando la prassi discriminatoria dei tribunali israeliani, HRW mette in luce il netto contrasto del modo diverso in cui sono stati trattati l’assassinio di un palestinese e quello di un ebreo israeliano. Per l’assassinio di Musa Hassuna, un palestinese, le autorità israeliane hanno rilasciato su cauzione in meno di 48 ore dall’omicidio tutti gli ebrei sospettati, dopo che essi avevano invocato la legittima difesa, ed ha chiuso le indagini meno di sei mesi dopo.

Per l’assassinio di Yigal Yehoshua, un ebreo, otto palestinesi sospettati sono stati in carcere per mesi, in attesa di essere processati per vari reati, compreso l’“omicidio come atto di terrorismo”.

Sembra che a Lydda la polizia e le autorità israeliane abbiano trattato i cittadini in modo diverso a seconda che si trattasse di ebrei o di palestinesi,” afferma Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

La commissione d’inchiesta ONU dovrebbe cogliere l’opportunità senza precedenti di contrastare la discriminazione ed altre violazioni che i palestinesi affrontano in Israele esclusivamente a causa della loro identità.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ultima esecuzione extragiudiziale conferma il ferreo sostegno israeliano all’assassinio di palestinesi

Jonathan Ofir

6 dicembre 2021 – Mondoweiss

Nel 2016, quando Elor Azarya sparò in testa ad un palestinese inerme, vi fu effettivamente una discussione su questa azione tra i politici israeliani. Non vi è stato un analogo dissenso questo weekend, dopo l’ultima esecuzione extragiudiziale di Israele.

Sabato scorso un uomo palestinese ha accoltellato un ebreo israeliano vicino alla Porta di Damasco a Gerusalemme, procurandogli ferite lievi. L’uomo, identificato come il 23enne Mohammed Shawkat Salameh della città di Salfit in Cisgiordania, è poi corso verso gli agenti di polizia di frontiera, che gli hanno sparato diverse volte – in particolare due volte mentre già giaceva a terra, immobilizzato, da una distanza di circa 5 metri. Haaretz ha riportato ampiamente sia l’azione che le reazioni.

Il video di quella sparatoria è stato filmato ed è circolato sui social media. 

Soltanto pochi politici in Israele lo hanno criticato. 

Ahmad Tibi, della Lista Unita che rappresenta i palestinesi [con cittadinanza israeliana, ndtr.]:Neutralizzazione” è un eufemismo. Questa è un’esecuzione a sangue freddo, la riprova dell’uccisione di una persona ferita che giace a terra e non minaccia nessuno. Per di più gli sono state negate le prime cure mediche finché è morto, nonostante vi fosse un’equipe medica sul luogo. E’ un atto criminale che richiede un’indagine.”

Ofer Cassif, anch’egli della Lista Unita, ha definito gli spari una “esecuzione sommaria” ed un altro membro della Lista Unita, Aida Touma-Sliman, ha affermato: “Uccidere un uomo che non costituisce più una minaccia è un crimine orrendo. Questa è la realtà creata dall’occupazione.” Anche Esawi Freige, del partito di sinistra [sionista, ndtr.] Meretz, ha detto che sparare dovrebbe servire solo “a salvare vite e non a togliere la vita ad aggressori che non costituiscono più un pericolo.” Lo ha definito “un atto che mostra indifferenza verso la vita umana.”

Fin qui tutto bene – sembra esserci qualche decenza umana nella politica israeliana, che chiama le cose col loro nome. Ma è solo una sottile frangia dello spettro politico. Spostandosi un po’ più a destra, verso il partito Laburista, si trova già sostegno all’assassinio. Il Ministro della Pubblica Sicurezza Omer Bar-Lev: Quando c’è un dubbio, non si indugia.”

Ha detto che gli agenti avevano “un secondo o due” dopo il primo sparo per “decidere se il terrorista che era stato colpito stesse per azionare una cintura esplosiva.”

Ma erano sicuri che ci fosse una cintura esplosiva? L’aggressore indossava una maglietta stretta e non c’era assolutamente traccia di ciò. Negli attacchi col coltello non sono mai state usate cinture esplosive, perché sarebbero state controproducenti rispetto all’obiettivo. Comunque sono passati più di 5 anni dall’ultimo attacco suicida (su un autobus di Gerusalemme) e nessuno di tali attacchi si svolge così. In base alla logica di Bar-Lev, se c’è un minimo dubbio che un palestinese abbia una cintura esplosiva sotto il vestito, è sicuramente meglio sparargli e accertarsi della morte, piuttosto che rischiare – e riguardo ai palestinesi il dubbio c’è sempre.

Più di cinque anni fa, nel caso di Elor Azarya, il paramedico militare che sparò in testa ad un palestinese inerme a bruciapelo, anche Azarya si appellò al fatto di temere una cintura esplosiva. Ma il tribunale respinse questa argomentazione, poiché nessuno lì vicino sembrava preoccupato e la motivazione conclamata di Azarya per lo sparo fu che “doveva morire”.

L’aggressore di sabato scorso non è stato colpito perché fosse sospettato di avere un esplosivo. È stato colpito e lasciato a morire dissanguato perché gli agenti della polizia di frontiera hanno ritenuto che dovesse morire.

E così i politici di tutto il principale arco politico hanno acclamato l’assassinio.

Anche il Ministro degli Esteri, il centrista Yair Lapid, ha detto di “appoggiare in pieno i nostri combattenti. Non lasceremo che i terroristi scorrazzino selvaggiamente a Gerusalemme o in qualunque altra parte del Paese.” Il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato che gli agenti hanno fatto la cosa “ovvia”, sottolineando che hanno il suo sostegno. Il Primo Ministro Naftali Bennett ha detto di “sostenere pienamente” gli agenti che hanno sparato all’aggressore palestinese, affermando che “hanno agito come ci si aspetta da agenti israeliani.”

E’ interessante che nel caso di Azarya vi fu realmente un notevole dibattito riguardo al fatto, che era essenzialmente identico. Allora il Capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot disse che Azarya aveva “sbagliato”. Persino il bellicoso Ministro della Difesa del Likud, Moshe Ya’alon, condannò l’azione: Noi non spariamo semplicemente alle persone, neppure se sono terroristi, neppure ad un altro soldato che ti ha appena sparato ma che poi si è arreso ed è stato neutralizzato, noi non spariamo e basta…Era chiaro ai comandanti che non è ciò che si fa.”[ vedi l’articolo di Gideon Levy sul processo Azarya su zeitun.info]

Ma adesso è qualcosa che si fa. Non c’è dubbio.

Come è accaduto questo slittamento dell’opinione politica egemone? Può essere parte dell’ “effetto Azarya”. Molti in Israele furono sbigottiti dal senso di limitazione che il caso Azarya rappresentava. Azarya rilevò che tali esecuzioni venivano fatte “un sacco di volte”, ma che ora lui veniva usato come capro espiatorio.

E noi abbiamo visto indicatori che certo, questo è stato fatto un sacco di volte dopo il caso di Azarya. L’esecuzione extragiudiziale da parte della polizia del cittadino beduino Yaqub abu al-Qia’an a Umm al Hiran nel 2017 (ci si rese conto in seguito che non era un terrorista e non stava affatto tentando di speronare un’auto) e l’esecuzione da parte della polizia di Ahmed Erekat nel 2020. Questi casi sono chiare esecuzioni, compreso lo stesso diniego di cure mediche, e le analisi di Architettura Forense relative ad entrambi i casi contraddicono esplicitamente l’asserzione che si trattasse di speronamenti deliberati. Nel caso di Al-Qia’an, l’insegnante israeliano, sembra che in seguito molti si siano convinti della sua innocenza. Nonostante ciò, nel caso del palestinese sotto occupazione Erekat, non viene accordato tale beneficio del dubbio e addirittura l’Alta Corte israeliana ha sentenziato che il corpo di Erekat – il suo corpo! – non fosse restituito alla famiglia.

Israele ha deciso di costruire un muro di ferro di negazioni relativamente alla sua politica criminale di esecuzioni extragiudiziali.

Una volta di più, è un motivo per cui è necessaria la CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.]. È un Paese senza legge, che persevera nei crimini di guerra.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger/scrittore, che vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)





Il movimento del Monte del Tempio in rapida crescita sotto il nuovo governo israeliano

Baker Zoubi 

6 dicembre 2021 – +972 magazine

Sfidando un accordo politico pluridecennale le autorità israeliane stanno favorendo un incremento senza precedenti degli ebrei che pregano sul sacro sito a Gerusalemme.

Per gran parte del decennio scorso gli ebrei religiosi che si recano al Monte del Tempio/Haram al-Sharif [Spianata delle Moschee] nella Città Vecchia di Gerusalemme, considerato il luogo più sacro per l’ebraismo e uno dei più sacri per l’Islam, sono lentamente aumentati di numero violando un pluridecennale e fragile “status quo” riguardo al complesso. Però negli ultimi mesi, e in particolare dall’insediamento del governo Bennett-Lapid, il numero di ebrei che vi sono entrati sembra sia cresciuto enormemente.

Stando alle statistiche pubblicate da Yaraeh, un’organizzazione israeliana che promuove l’ingresso e la preghiera agli ebrei sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, negli ultimi tre mesi circa10.000 ebrei sono entrati nel complesso, un aumento del 35% rispetto agli anni precedenti.

Le cifre di Yaraeh mostrano anche che la percentuale di ebrei entrati nel complesso ad agosto era più alta dell’85% rispetto allo stesso mese del 2020 e del 137% maggiore che nell’agosto 2019. A luglio di quest’anno il numero di ebrei entrati nel complesso era maggiore del 76% rispetto allo stesso mese del 2020. Le statistiche di Yaraeh tengono conto sia delle visite al complesso che delle preghiere e delle lezioni di Torah sul luogo dove non erano mai state tenute prima e in violazione del cosiddetto status quo.

Il Monte del Tempio/Haram al-Sharif, dove sono situate la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della roccia (Al-Sakhra), è uno dei posti più contesi in Israele-Palestina. Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est nel 1967 c’è un accordo fra Israele e la fondazione islamica Waqf, il custode religioso giordano del complesso, secondo cui solo ai musulmani è permesso di pregare sul complesso mentre gli ebrei possono pregare al Muro Occidentale (Muro del Pianto). 

Ciononostante negli ultimi mesi la polizia israeliana avrebbe allentato le restrizioni alla devozione ebraica presso il complesso, sono anche stati filmati dei fedeli ebrei mentre, sotto gli occhi della polizia, era loro permesso di pregare liberamente sul monte. La frequenza di tali episodi è cresciuta lentamente in anni recenti sotto il precedente governo Netanyahu, ma negli ultimi mesi è stato rilevato un marcato aumento.

Non sembra una coincidenza che esso si stia verificando sotto il nuovo governo Bennett-Lapid. Il primo ministro Naftali Bennett ha pubblicato a metà luglio una dichiarazione che sembrava affermasse il diritto degli ebrei alla “libertà di culto” sul monte, suscitando la severa condanna di leader musulmani e arabi.

A ottobre il giudice di pace di Gerusalemme ha ribaltato il divieto di avvicinarsi per 15 giorni al sito emesso dalla polizia nei confronti di Aryeh Lipo, un attivista di spicco del Movimento del Tempio dopo che era stato visto pregare lì. Lipo appartiene a un più vasto movimento religioso fondamentalista che cerca di incoraggiare e normalizzare la preghiera ebraica sul sito con la speranza che un giorno si ricostruisca un tempio ebraico.

Il giudice aveva deciso che, visto che la preghiera di Lipo si era svolta silenziosamente, essa non costituiva un rischio per la sicurezza, la tesi che la polizia cita per giustificare l’applicazione del divieto. In seguito, apparentemente su pressione diplomatica degli USA, in appello un altro giudice ha annullato la decisione del tribunale.

Dieci anni fa, persino cinque anni fa, cose simili non sarebbero successe,” dice Hagit Ofran, il direttore del gruppo di controllo sulle colonie di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], a proposito del recente aumento dei visitatori ebrei. “Gli ebrei non potevano pregare (sul complesso). La polizia israeliana lo impediva, intervenendo e impedendo agli ebrei di pregare o svolgere cerimonie religiose durante la visita dei cortili della moschea di Al-Aqsa.”

Secondo Ofran è stato durante il mandato di Gilad Erdan [politico del partito di destra Likud, ndtr.], ministro della Pubblica Sicurezza fra il 2015 e il 2020 (ora Erdan è ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite), che la polizia israeliana ha cominciato a cooperare con gli ebrei che volevano salire sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif. Ciò è continuato con Amir Ohana [anch’egli del Likud, ndtr.] che ha occupato la carica fra il 2020 e il 2021.

Il governo di Netanyahu ha contributo significativamente alla tensione e a tutti questi ingressi (nel complesso), a tal punto che per questa ragione Netanyahu non era più in contatto con il re di Giordania Abdullah II,” dice Ofran. “Tutto ciò sta continuando e le presenze sono in crescita, sebbene Omer Barlev [del partito Laburista, di centro, ndtr.], il ministro della Pubblica Sicurezza, abbia intenzioni diverse.” Barlev, che ha assunto la carica quest’estate, si è impegnato a continuare a cooperare con il Waqf giordano e a impedire agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Abbiamo visto molte volte negli ultimi 10 anni che a Gerusalemme le tensioni cominciano dopo queste visite,” continua Ofran. Lo scoppio della “Intifada dei coltelli” nel 2015, le gravi tensioni dopo l’installazione israeliana dei metal detector sul complesso nel 2017 e le violenze scoppiate in Israele-Palestina nel maggio scorso, tutto ciò è stato preceduto da un aumento delle visite degli ebrei al Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Io concordo con l’opinione che il Likud e il partito sionista religioso, in quanto parte dell’opposizione, stiano appoggiando (le preghiere degli ebrei sul monte) per mettere in imbarazzo il governo,” conclude Ofran. “Quando il Likud era al potere, sul posto c’erano dei controlli per prevenire tensioni durante certi periodi. Ora non hanno alcun problema riguardo all’escalation, al contrario.”

Il deputato Ahmad Tibi che guida la commissione interna su Al-Quds (Gerusalemme) della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani di sinistra, ndtr.] conviene che l’attuale coalizione di governo stia permettendo agli ebrei l’accesso al complesso di Al-Aqsa in numero maggiore. “Ci sono più incursioni e soprattutto si conducono con discrezione le preghiere in presenza della polizia,” dice Tibi, aggiungendo che, mentre i partiti di destra nella coalizione stanno facilitando l’incremento [della presenza religiosa ebraica, ndtr.], “il centro sinistra tace e guarda dall’altra parte per evitare di far tremare la coalizione.”

A luglio Asaf Fried, il portavoce del gruppo di attivisti israeliani dell’amministrazione del Monte del Tempio, ha dichiarato all’emittente israeliana Channel 12 che gli ebrei hanno avuto accesso al monte per anni, ma che sono stati “oggetto di urla e umiliazioni.” Il senso era che “nessuno poteva fare niente là, che quando un ebreo arriva [sul monte] egli rappresenta un problema.” Ma, ha aggiunto Fried, c’è stata una “totale inversione di tendenza, l’ingresso al Monte del Tempio è migliorato, non ci sono barriere all’ingresso… non c’è il Waqf a seguirti, c’è molto più spazio per respirare sul Monte del Tempio.”

Sebbene alcuni gruppi di ebrei entrino nel complesso per la preghiera e il culto, “lo scopo di tutta questa attività è indubbiamente politico,” dice Aviv Tatarsky, un ricercatore presso Ir Amim, [Città di Persone, ndtr.] un gruppo di controllo e difesa con sede a Gerusalemme. “Lo scopo è di aumentare il numero di ebrei che entrano nel complesso di Al-Aqsa che già vede un incremento [di ebrei], per far pressione sul governo affinché cambi l’attuale situazione a loro favore. Lo Stato, come ogni Stato, è sensibile alla pressione sociale e popolare,” continua, e gli attivisti del Monte del Tempio stanno sfruttando questa dinamica.

Eppure per quanto notevole sia l’aumento dei numeri degli ebrei che accedono al complesso, quello che in realtà stanno facendo è altrettanto significativo. “Si sfida lo status quo,” dice Tatarsky. “Anche se Barlev dice che è contrario alla preghiera, la sua polizia non sta facendo nulla per fermarla.”

Tatarsky fa anche notare che, sebbene il Ministero dell’Educazione non sia obbligato a seguire un suggerimento della Commissione per l’Istruzione della Knesset del mese scorso di includere il Monte del Tempio/Haram al-Sharif nei viaggi obbligatori per gli studenti delle scuole israeliane, la proposta è “al vaglio.”

Azzam al-Khatib, il capo di Waqf di Gerusalemme, ha detto che la posizione della fondazione islamica sui recenti sviluppi è “molto chiara.”

Queste incursioni violano le condizioni religiose, legali e politiche esistenti dal 1967,” dice. “È inaccettabile e contrario alle norme internazionali profanare in tal modo le moschee [del complesso].” Al-Khatib concorda che la percentuale degli ingressi degli ebrei è cresciuta sotto il nuovo governo Bennett-Lapid e che le preghiere avvengono apertamente, con scarso o nessun intervento da parte della polizia anche quando il Waqf lo richiede. L’attuale situazione è “senza precedenti,” dice.

Per ora i fedeli ebrei continuano ad accedere al complesso mentre la tensione continua a salire.

Il 21 novembre, Fadi Mahmoud Abu Shkheidem, un abitante del campo profughi di Shu’afat a Gerusalemme e presunto affiliato ad Hamas, il gruppo islamista palestinese, ha aperto il fuoco presso uno degli ingressi della moschea Al-Aqsa nella Città Vecchia uccidendo un israeliano e ferendone gravemente altri tre. Lo sparatore è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane.

L’episodio ha portato a ulteriori inasprimenti e controlli israeliani degli abitanti palestinesi della città, seguiti dalla richiesta di un aumento della sicurezza nella zona, oltre a una richiesta da parte del ministro delle Comunicazioni Yoaz Hendel [del partito di destra “Nuova Speranza”, una scissione del Likud, ndtr.] di riconsiderare l’installazione dei metal detector all’ingresso della moschea di Al-Aqsa. L’ultima volta che Israele ha tentato di farlo i palestinesi hanno condotto una campagna di disobbedienza di massa che ha costretto Israele a rimuoverli.

Baker Zoubi è un giornalista originario di Kufr Misr [cittadina arabo-israeliana, ndtr.] che attualmente vive a Nazareth [città arabo-israeliana, ndtr.]. Baker lavora nel giornalismo dal 2010, inizialmente come reporter per organi di stampa arabi locali e poi come direttore del sito web Bokra. Oggi collabora anche come ricercatore e redattore per programmi televisivi sui canali Makan e Musawa [canali televisivi israeliani in arabo, ndtr.]. Sulla sua pagina Facebook scrive e posta vari editoriali di politica e temi sociali relativi alla società palestinese. Recentemente ha anche cominciato a scrivere per Local Call. [edizione di +972 in ebraico, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)