Non solo a Sheikh Jarrah: i palestinesi rischiano sfratti ovunque

Redazione di MEE

11 maggio 2021- Middle East Eye

Le famiglie palestinesi hanno subito per decenni continue minacce di sfratti in Israele e nei territori occupati

Nelle ultime settimane la situazione nella Città Vecchia di Gerusalemme e dintorni è peggiorata e la repressione attuata dalle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti palestinesi che protestavano a causa degli sfratti è diventata progressivamente sempre più brutale.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno ancora una volta fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa sparando proiettili di acciaio ricoperti di gomma e lanciando lacrimogeni all’interno del complesso, ferendo centinaia di palestinesi.

L’escalation di violenza sta avvenendo nel contesto della prevista espulsione di 40 palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, della Gerusalemme Est occupata.

Sin dall’inizio dell’anno scorso i tribunali israeliani avevano ordinato lo sfratto di 13 famiglie palestinesi del quartiere, basandosi su una deliberazione di un tribunale di prima istanza agli inizi del 2021 a favore di rivendicazioni vecchie di decenni su lotti di terra da parte di coloni israeliani.

Un’udienza della Corte Suprema per un appello palestinese era stata fissata per lunedì, ma il ministero della Giustizia israeliano l’ha rinviata a causa delle crescenti tensioni nelle ultime settimane.

Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est durante la guerra del 1967, le organizzazioni di coloni israeliani hanno rivendicato la proprietà di terre a Sheikh Jarrah e hanno presentato con esito positivo vari ricorsi per sfrattare i palestinesi dal quartiere.

Quattro delle 38 famiglie della zona rischiano lo sfratto imminente, mentre tre saranno probabilmente sfrattate il 1 agosto.

Quelle rimanenti si trovano a stadi diversi nell’iter giudiziario in vari tribunali israeliani in uno scontro frontale con potenti gruppi di coloni israeliani.

Nonostante l’attenzione recentemente sia concentrata su Sheikh Jarrah, molte famiglie palestinesi in Israele, a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata devono affrontare l’imminente pericolo di espulsione, il che evidenzia l’annoso schema di trasferimenti forzati ed espropriazioni di palestinesi da parte di Israele.

Qui di seguito elenchiamo varie zone dove i palestinesi stanno lottando per rimanere.

Silwan

Come a Sheikh Jarrah, i coloni israeliani hanno avanzato rivendicazioni simili per ottenere la proprietà di terre di palestinesi situate vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Israele ha una strategia di insediamenti detta “Bacino Sacro”, che prevede unità abitative per i coloni e una sfilza di parchi intitolati a località e personaggi della Bibbia nei dintorni della Città Vecchia di Gerusalemme. Il piano richiede la rimozione degli abitanti palestinesi dal quartiere di Silwan.

A novembre un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa a Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim.

Questo gruppo, che mira a espandere la presenza di coloni nei quartieri a maggioranza palestinese di Gerusalemme Est, intorno e all’interno della Città vecchia, ha fatto causa agli abitanti di Batan al-Hawa, sostenendo che, durante il periodo ottomano e fino al 1938, quando le autorità del mandato britannico le spostarono a causa di tensioni politiche, quei terreni erano di proprietà di ebrei yemeniti.

Anche gli abitanti di Wadi al-Rababa, un’altra zona che ospita circa 800 palestinesi gerosolimitani, sono da tempo in guerra con i bulldozer israeliani. A gennaio alcuni abitanti hanno riferito a Middle East Eye che soprusi e tentativi di demolizione da parte delle autorità israeliane sono aumentati durante la pandemia da Covid-19.

L’avanzata dei coloni israeliani a Silwan è cominciata nel 2004, quando furono fondati due avamposti di coloni. Il numero di avamposti era arrivato a sei nel 2014, da appartamenti isolati a interi caseggiati.

Le autorità israeliane hanno annunciato a novembre un piano di scavi per la costruzione di una funivia sopra Silwan. Il controverso progetto altererebbe drasticamente il paesaggio della storica Città Vecchia ed espanderebbe la presenza israeliana nella zona, facilitando l’accesso dei turisti al Muro Occidentale a spese dei negozianti palestinesi della Città Vecchia

Sin dal 1995, l’Autorità israeliana per le antichità scava dei siti a Silwan con il sostegno della fondazione dei coloni “Ir David”, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e trovare testimonianze dell’esistenza della “Città di Davide” risalente a tremila anni fa.

Il completamento del progetto della “Città di Davide” che include un “viale” in stile romano costruito sulle strade che per generazioni sono state dei palestinesi, consoliderebbe la posizione illegale dei 450 coloni  che attualmente vivono a Silwan e marginalizzerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

Giaffa

Altrove, a Giaffa, nella zona costiera a sud di Tel Aviv, Middle East Eye ha riportato ad aprile che Amidar, un’impresa immobiliare israeliana statale, sta progettando di espellere gli abitanti palestinesi dalle proprie proprietà per venderne alcune a Eliyahu Mali, il capo di una sinagoga militante a Giaffa che sta cercando di impadronirsene per trasformarle in una sinagoga.

Decine di cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese, sono stati attaccati lo stesso mese dalla polizia israeliana e dai seguaci di Mali.

Mali è a capo di “Settling in the Hearts“, [insediarsi nei cuori], un progetto di espansione di colonie israeliane che preme per stabilire avamposti nel cuore di città a maggioranza palestinese e nei quartieri della Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e in Israele, come al-Ajami.

In aprile Mahmoud Abed, giornalista e attivista di Giaffa, ha detto a MEE che nella zona si stava attuando da parte delle autorità israeliane “un trasferimento silenzioso” di famiglie palestinesi risultante in “una mancanza di sicurezza personale e di una vita dignitosa” per i palestinesi.

Il 70% dei palestinesi che abitano a Giaffa vive in proprietà di cui Israele si è impadronito nel 1948 tramite società statali, come Amidar. Queste imprese possiedono un terzo della proprietà mentre gli abitanti ne possiedono i due terzi,” ha detto Abed.

In anni recenti Israele ha messo all’asta proprietà a Giaffa e chiesto agli abitanti palestinesi di fare delle offerte in concorrenza con ricchi investitori israeliani sulla quota di un terzo detenuta dalle società statali israeliane.

Nessuno può mettere insieme un milione e mezzo di dollari in 60 giorni per restituirli alle compagnie. Quasi 40 famiglie palestinesi se ne sono andate da Giaffa perché non possono comprare o affittare una casa nella zona,” ha detto Abed a MEE.

Umm al-Fahm

Anche Umm al-Fahm, una cittadina nella regione di Wadi Ara vicino ad Haifa, nel nord di Israele, dove recentemente i manifestanti hanno dimostrato contro la violenza e l’inerzia della polizia israeliana [nei confronti della delinquenza locale, ndtr.], ha visto tentativi di sfratto e demolizioni.

I cittadini palestinesi di Israele protestano da tempo che le proprie città e paesi sono poco serviti dalle autorità israeliane, mentre i permessi di costruzione per fornire alloggi per le comunità in espansione sono difficili da ottenere.

Secondo Arab48 [sito di notizie in arabo, ndtr.] la famiglia Eghbarieh, per esempio, da oltre dieci anni è bloccata da dispute con le autorità israeliane riguardo alla demolizione della loro casa. La famiglia ha recentemente presentato ricorso contro lo sfratto.

Secondo Bldtna, sito web palestinese di notizie che ha riferito di parecchie attività commerciali e case nella zona di Wadi Ara a cui recentemente sono state presentate ingiunzioni di demolizione e sfratto perché non avevano un permesso edilizio, lo scorso agosto bulldozer israeliani hanno demolito un edificio in costruzione a causa di una presunta mancanza di licenza edilizia.

Molti palestinesi hanno dovuto demolire loro stessi le proprie case e attività, di fronte all’alternativa fra il farlo loro stessi o pagare le demolizioni attuate dalle autorità israeliane.

Khan al-Ahmar

Prima di Sheikh Jarrah nel 2021, il destino di Khan al-Ahmar aveva attirato l’attenzione mondiale nel 2018.

Il villaggio si trova in Cisgiordania, fra Gerusalemme Est e le colonie illegali israeliane di Maale Adumim e Kfar Adumim.

Nel settembre del 2018, nonostante richieste di Paesi europei, organizzazioni per i diritti umani e attivisti affinché Israele bloccasse il progetto, la Corte Suprema israeliana ha approvato la demolizione di Khan al-Ahmar.

I piani per demolire Khan al-Ahmar fanno parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di unità abitative per collegare Kfar Adumim e Maale Adumim con Gerusalemme Est, nell’Area C della Cisgiordania controllata da Israele.

Se implementato completamente, il piano E1 di fatto dividerebbe a metà la Cisgiordania, separando Gerusalemme Est dalla Cisgiordania e costringendo i palestinesi a fare una deviazione ancora più lunga per andare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali potrebbero continuare ad espandersi.

Nel 2018, causa della pressione internazionale, Israele ha sospeso i piani di demolire Khan al-Ahmar, ma a marzo il quotidiano israeliano Yedioth Athronoth ha rivelato che i funzionari stavano di nuovo pianificando di sfrattare i palestinesi dal villaggio.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar appartengono alla tribù degli Jahalin, un gruppo di beduini espulso dal deserto di Naqab, anche detto Negev, durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Gli Jahalin si sono poi stabiliti sulle pendici orientali di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie, le cui abitazioni e scuole di fortuna, fatte di ondulato e legno, sono state demolite parecchie volte in anni recenti dall’esercito israeliano.

Legislazione delle colonie

Dall’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha usato due leggi principali per sfrattare i palestinesi dalle loro case.

La Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 classifica i palestinesi che sono stati espulsi o che hanno lasciato il Paese dopo il novembre 1947 come “assenti” mette le loro proprietà sotto il controllo dello Stato israeliano.

La Legge e Ordinanza Amministrativa del 1970 permette il trasferimento di proprietà perdute a Gerusalemme Est nel 1948 solo agli ebrei.

I palestinesi non possono rivendicare diritti su beni posseduti prima del 1948.

La politica israeliana di insediare i propri civili nei territori palestinesi occupati e cacciando la popolazione locale viola norme fondamentali della legislazione umanitaria internazionale,” ha rilevato Amnesty International, citando le Convenzioni dell’Aia e la Quarta Convenzione di Ginevra.

L’ong aggiunge che “stabilire insediamenti comporta atti importanti”, compresa l’ingiustificata “massiccia distruzione e appropriazione di proprietà” e “trasferimento… da parte della potenza occupante di parti della propria popolazione civile nei territori che occupa, o la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di questo territorio” costituisce crimini di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Amnesty ha anche criticato quello che chiama “urbanistica e sistema di zone discriminatori” da parte di Israele.

Nel frattempo, dagli Accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania è stata divisa in Aree A, B e C, con la maggior parte della popolazione palestinese nelle Aree A e B. L’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano, con comunità palestinesi più piccole che nella zona vengono regolarmente minacciate di demolizioni delle proprie case, mentre le colonie israeliane nelle vicinanze prosperano.

Nell’Area C, dove si trova la maggior parte della costruzione delle colonie, Israele ha allocato il 70% della terra alle colonie e solo l’1% ai palestinesi,” secondo Amnesty, mentre a Gerusalemme Est, “Israele ha espropriato il 35% della città per la costruzione di colonie, permettendo ai palestinesi di costruire su solo il 13% della terra.”

Mentre continua la lotta per Sheikh Jarrah nei tribunali e nelle strade, il fato di altre comunità palestinesi mostra che il problema non comincia né finisce con questo quartiere di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’apartheid al tempo del coronavirus

Yoav Haifawi

13 aprile 2020 – Mondoweiss

Devo dissentire dal dottor Azmi Bishara. Cercando di difendere l’ultima disastrosa risposta degli Stati capitalisti dell’Occidente alla pandemia, egli sostiene su “Arab 48” [app di notizie in arabo, ndtr.] che i governi non dovrebbero essere giudicati in base alla loro condotta durante le emergenze. Trovo che sia proprio il contrario. In molti casi abbiamo visto che in tempi normali un Paese se la può benissimo cavare senza un governo in carica. Ma una gravissima crisi mette brutalmente in evidenza molte cose sulla natura di ogni regime proprio nel momento in cui abbiamo disperatamente bisogno di un buon governo che ci protegga, e tutti ne stiamo prendendo atto.

L’“Economist” [noto settimanale di economia pubblicato a Londra, ndtr.] informa che negli Stati Uniti l’EPP (Equipaggiamento Protettivo Personale), salvavita importato dal governo (attraverso la FEMA [ente federale per la gestione delle emergenze]) è affidato a distributori privati perché ci guadagnino a spese della vita delle équipe mediche in prima linea. Abbiamo visto tutti i Paesi ricchi interrompere l’esportazione di prodotti sanitari essenziali e offrire più degli altri per accaparrarsi qualunque cosa sul mercato. Quando l’Italia era nel momento peggiore della crisi, la Germania ha vietato l’esportazione di forniture mediche, ma quando la Cina ha mandato l’equipaggiamento salvavita necessario i dirigenti dell’UE hanno messo in guardia che la Cina lo stava facendo “per fini propagandistici”.

Leggere le notizie locali sul coronavirus in Israele è una storia ancora diversa. Il regime israeliano di apartheid sta dimostrando di essere assurdamente anormale persino nel più abnorme dei momenti. Qui ci sono alcuni esempi strazianti su com’è l’apartheid ai tempi del coronavirus.

Pronti a morire come Sansone

Ci sono molte notizie su come ogni Stato e ogni istituzione sanitaria oggi stia cercando ogni opportunità per comprare EPP. La Turchia è uno dei principali produttori mondiali e uno dei pochi ancora disposti a venderli, nonostante l’epidemia sia in peggioramento sul fronte interno. Bloomberg [rete televisiva di notizie economiche, ndtr.] ha riferito che la Turchia stava fornendo equipaggiamento di protezione personale a Israele, compresi maschere chirurgiche, camici e guanti sterilizzati.

Giovedì 9 aprile tre aerei israeliani dovevano prelevare le forniture mediche da un aeroporto militare turco. Ma poi pare che la Turchia abbia chiesto che in cambio Israele consentisse il passaggio di pari quantità di aiuti turchi contro il coronavirus ai palestinesi.

Sia secondo “Times of Israel” [quotidiano israeliano in rete, ndtr.] che “Arab 48” pare che venerdì 10 aprile Israele abbia rifiutato di arrendersi al “terrorismo” turco e l’equipaggiamento non è stato fornito. Come disse l’eroico “Sansone”: “Che muoia io con i tutti i palestinesi…”

Poi ieri, 12 aprile, “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato in merito a nuovi negoziati tra Israele ed Hamas relativi a uno scambio di prigionieri. Hamas ha affermato di essere pronto ad arrivare a un compromesso rispetto alle sue precedenti condizioni per proteggere prigionieri palestinesi anziani e malati dal pericolo di soccombere al coronavirus in prigione. Ciò che è significativo per il nostro discorso è che, secondo “Haaretz”, i palestinesi intendono che parte dell’accordo sia che Israele fornisca alla Striscia di Gaza, tuttora assediata, un numero non specificato di ventilatori per curare i pazienti di coronavirus. Ciò che è ancora più significativo è che, secondo lo stesso articolo, fonti israeliane hanno negato (a parte ogni dettaglio riportato riguardo al previsto accordo) che potessero essere consegnati ventilatori a Gaza!

Il Mossad ruba EPP?

Molto tempo fa Yeshayahu Leibowitz [eminente intellettuale e religioso israeliano, ndtr.] ammonì che Israele sarebbe diventato uno “Stato dello Shabak” – in riferimento all’onnipotente “servizio della sicurezza generale” (GSS, Shabak [noto anche come Shin Bet, ndtr.]). Un articolo su Maariv [giornale israeliano di centro destra, ndtr.] del 27 luglio 2019 stimava che lo Shabak e il Mossad (il suo gemello, responsabile delle operazioni fuori dai confini nazionali) impieghino ognuno circa 7.000 persone e abbiano un bilancio che supera il miliardo di dollari. Mentre gli investimenti di Israele per la salute sono bassi rispetto ad altri Paesi dell’OCSE, esistono questi due mostri e si è deciso di utilizzarli per lottare contro la pandemia.

Iniziamo con il Mossad. Gli è stato affidato il compito di acquistare equipaggiamento sanitario. Secondo “the Marker” [quotidiano economico in lingua ebraica legato ad Haaretz, ndtr.] avrebbe chiesto una somma di 7 miliardi di shekel [1,8 miliardi di euro], ma per iniziare gliene sono stati dati 2,5 [640 milioni di euro]. Tuttavia non ha competenze professionali in campo medico, né esperienza particolare o infrastrutture tali da operare acquisti su larga scala e gestire procedure di importazione.

Il Mossas si è subito vantato di aver importato 100.000 test virologici da una fonte non specificata, solo per essere redarguito da un funzionario del ministero della Sanità che ha affermato che quelli non erano i test di cui c’era bisogno. Dopo che la critica è stata resa pubblica il funzionario si è affrettato a chiedere scusa, e il Mossad ha promesso di ricontrollare ciò che serve e di continuare la ricerca.

Il 6 aprile “Haaretz” ha riferito che il ministro della “Difesa” di Israele, Naftali Bennett, non ha negato, e di fatto ha implicitamente riconosciuto, che il Mossad ha rubato equipaggiamento medico da altri Paesi. Quando durante un’intervista alla radio militare gli è stato chiesto se il Mossad avesse rubato equipaggiamento sanitario relativo alla pandemia di coronavirus, Bennett ha risposto: “Non risponderò a questa domanda. Stiamo tutti operando in modo aggressivo e astuto.” (È stato riportato in inglese su Middle East Eye).

Non sorprende che il Mossad, specializzato in assassinii, spionaggio e ogni sorta di attività clandestine, faccia ricorso a metodi illegali nel suo nuovo ruolo. Ma ci si potrebbe aspettare che Bennett, che dovrebbe essere un uomo d’affari rispettabile, sia almeno sufficientemente astuto da negarlo. Tuttavia potrebbe avere una buona ragione per far credere all’opinione pubblica israeliana che il Mossad stia rubando per lei. Sulla stampa israeliana alcuni commentatori hanno affermato che dare miliardi di shekel a organismi segreti come il Mossad significa che non c’è alcun controllo su come i soldi vengano spesi. Ora, quando ci fossero delle domande in merito, Bennett potrebbe sussurrare “Shh…” e ammiccare: “Non vuoi mica svelare segreti di Stato.”

Inoltre Israele è abituato ad essere al di sopra delle leggi internazionali per tutti i suoi crimini di guerra, quindi perché dovrebbe temere di rubare equipaggiamento sanitario in giro per il mondo?

Sul ricevitore dello Shabak

Sul fronte interno, allo Shabak è stato assegnato il compito di identificare i percorsi delle persone infettate dal coronavirus e di informare quelli che sono stati in contatto perché si mettano in auto-isolamento. Per la prima volta è diventato di dominio pubblico che lo Shabak può tracciare (ora lo sta facendo in modo ufficiale) l’ubicazione di ogni persona, almeno finché la gente va in giro con il proprio cellulare.

Per i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndtr.], i continui controlli da parte dello Shabak non sono una novità. Persino ad Haifa, il luogo più pacifico sotto l’apartheid israeliana, qualunque giovane palestinese può essere invitato senza alcuna ragione a “colloqui” indiscreti da parte di ufficiali dello Shabak. Per gli attivisti politici il governatore militare (sì, ci sono governatori militari da entrambi i lati della Linea Verde) può emanare un ordine di detenzione amministrativa in base a “prove” segrete dello Shabak, in modo che al detenuto o al suo avvocato non sia consentito neppure sapere di cosa sia accusato. Funzionari dello Shabak compaiono nei tribunali sotto falso nome e alla difesa non è permesso neppure vederne il volto. Le loro parole in tribunale sono considerate indiscutibili.

Appena lo Shabak ha iniziato a prendere di mira israeliani ebrei, certo senza mandarli in prigione ma solo in auto-isolamento, improvvisamente la stampa si è riempita di articoli sui suoi errori.

Una donna aveva fatto in modo che il marito, tornato dall’estero, stesse in auto-isolamento nella loro casa, mentre lei sarebbe rimasta con i genitori per poter continuare il suo lavoro. Ma dopo essere passata per strada nei pressi della sua casa per salutare il marito che era sul balcone a distanza di sicurezza, è stata messa anche lei in auto-isolamento. Un’altra donna ha preparato una torta per un vicino in isolamento e gliel’ha lasciata vicino alla porta chiusa. Anche lei è caduta nella rete dello Shabak. Altri si sono lamentati di non riuscire a capire perché gli sia stato detto di isolarsi, in quanto non gli è stato detto con chi e quando si sarebbero incontrati.

Persone la cui vita è stata improvvisamente sconvolta senza ragione hanno chiamato il ministero della Sanità e gli è stato risposto che non ne sapevano niente, è competenza dello Shabak. Gli hanno detto che “lo Shabak non sbaglia mai.”

Alcuni hanno tentato di chiamare direttamente lo Shabak ed hanno scoperto che non c’è modo di raggiungere il servizio segreto né di presentare ricorso contro le sue decisioni.

Un caso riportato in dettaglio è quello di un medico che aveva qualche sintomo e gli è stata fatta l’analisi del coronavirus. Il test è risultato negativo (nessun virus), ma a quanto pare è stato inserito un risultato sbagliato nel sistema. Subito tramite un messaggino sul telefono è stato ordinato ai suoi parenti, vicini e colleghi di auto-isolarsi. Persino lui, con rapporti con il sistema sanitario e con il certificato di test negativo in suo possesso, ha avuto molte difficoltà a convincere le autorità a riconsiderare la decisione. Solo dopo che i media hanno messo in evidenza l’assurdità della situazione il ministero della Sanità ha ammesso l’errore.

Ciò farà sì che ogni giudice israeliano ci pensi due volte prima di basarsi sulle “prove” segrete dello Shabak per mandare in galera un palestinese? C’è da dubitarne.

La polizia aggredisce abitanti palestinesi di Giaffa

Per le normali forze di polizia israeliane la dichiarazione del blocco totale del Paese è stata un’ulteriore opportunità per maltrattare i palestinesi. Non posso qui riportare le tante violenze in Cisgiordania, dove aggressioni generalizzate contro i palestinesi da parte di coloni e soldati sono già state riportate qui il 6 aprile. Quello che è meno noto è il grave attacco avvenuto l’1 e il 2 aprile contro i palestinesi di Giaffa, una città araba che è stata annessa a Tel Aviv ed ora è sottoposta a pesanti pressioni per “ebraicizzarla/ gentrizzarla”.

La popolazione araba di Giaffa è per lo più povera e marginalizzata, e i rapporti con la polizia erano tesi anche prima della pandemia. Quando è stato decretato il blocco totale, la polizia di Tel Aviv ha avuto l’opportunità di fare una dimostrazione di forza a Giaffa come non è mai stato fatto in nessun altro quartiere. Ha provocato due giorni di estesi scontri che sono continuati fino a notte inoltrata.

Non ho potuto andare a Giaffa, ma ho parlato per telefono con un attivista del posto ed ho sentito il racconto di prima mano su come tutto è accaduto. Il primo giorno, durante quella che avrebbe dovuto essere la messa in pratica del blocco, la polizia ha iniziato ad arrestare giovani del posto. Per quanto ho sentito, ciò che ha provocato di più gli abitanti è stato il fatto che la stessa polizia non abbia dimostrato alcuna intenzione di seguire le istruzioni contro l’infezione. Si spostavano in gruppi compatti, senza mascherine e colpivano la gente a mani nude. Una donna che ha cercato di proteggere suo figlio è stata gettata a terra, la sua testa ha battuto sull’asfalto ed ha iniziato a sanguinare. Le persone in tutto il quartiere scoppiavano di rabbia, non più disposte a sopportare.

Il secondo pomeriggio alcuni attivisti hanno iniziato una veglia silenziosa contro la violenza della polizia, cercando di mantenere il distanziamento sociale stabilito, rimanendo lontani. Benché l’ordine di chiusura totale consenta specificamente le manifestazioni, la polizia ha chiesto che i dimostranti si disperdessero e subito li ha attaccati. Poi la strada è stata chiusa e gli scontri sono ripresi.

Il terzo giorno è stata la stessa dirigenza locale palestinese che ha fatto di tutto per convincere gli attivisti e la popolazione in generale a rimanere in casa. Il pericolo di infezione era troppo grande, e la violenza della polizia e le proteste contro di essa contineranno probabilmente molto dopo la pandemia.

* * *

L’apartheid ha avvelenato le nostre vite per molti anni. È ancora più pericolosa in questi tempi difficili.

Yoav Haifawi è un attivista antisionista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)