I social media e la terza intifada: la scomoda verità

Maanews 15 aprile 2016

di Albana Dwonch

Albana Dwonch è una candidata al dottorato di ricerca presso l’Università di Washington, attualmente ricercatrice a Gerusalemme.

Sei mesi dopo il suo inizio, sono state poste più domande che fornite risposte relativamente alla violenta rivolta dei giovani nei territori palestinesi occupati.

E’o non è una terza intifada?” è stata la questione più dibattuta da molti media ed analisi. La seconda, “I social media vi hanno contribuito?”, ha provocato un analogo disorientamento sul loro ruolo nell’ultima rivolta dei giovani.

La confusione è stata soprattutto evidente nella difficoltà dei media nel definire questi nuovi soggetti senza leadership e le loro inconsuete modalità di mobilitazione. I giornalisti hanno dovuto modificare la propria terminologia e creare nuove espressioni, come “lupo solitario” e “ istigatore informatico”.

Anche questi termini erano comunque problematici. “Lupi solitari” – gli utilizzatori degli strumenti più arcaici della strada – erano difficili da distinguersi dagli “istigatori informatici” – utilizzatori delle tecnologie dei social, che producevano, postavano e diffondevano video di eventi attraverso le loro reti.

Nonostante la difficoltà di definire e spiegare questi nuovi soggetti ed i loro metodi organizzativi decentrati, la conclusione finale è che i social media sono stati un vettore per la diffusione della violenza e per la radicalizzazione della gioventù palestinese negli ultimi sei mesi.

Comunque questa conclusione non tiene conto di uno sviluppo più profondo e persistente. Al di là del ruolo specifico dei social media in questa rivolta giovanile, le più vaste implicazioni del drastico cambiamento dell’ambito sociale e mediatico stanno incominciando a modificare i sistemi politici palestinese ed israeliano e le loro basi di potere interne ed internazionali.

L’uso dei social media ha evidenziato che, mentre l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndt.) ed Israele possono ancora essere in grado di contenere i disordini, di certo l’ANP non può controllare il coinvolgimento dei giovani in essi, né può Israele fermarlo definitivamente.

Perché sono arrabbiati ma senza guida?

Il grado di influenza dei social media sulla dinamica delle violenze in questa rivolta dei giovani è strettamente correlato alla più vasta implicazione del palesamento della crisi di legittimità delle strutture politiche palestinesi.

La scelta dei giovani di non avere leadership e di mobilitarsi in modo decentrato rivela un profondo distacco e perdita di fiducia nei loro partiti e leaders.

L’accusa che la diffusione virale di video violenti attraverso i social media ha amplificato la rabbia ed incitato ad ulteriore violenza è stata ora superata da un altro involontario effetto mediatico di quest’ultimo ciclo di violenza.

Il video del 24 marzo prodotto da un attivista dei diritti dei cittadini ad Hebron ha rivelato il sottile confine tra “istigare” e “mostrare” la violenza.

L’immagine di un soldato israeliano che uccide un palestinese già ferito steso a terra ha rivelato al vasto pubblico il lato meno conosciuto della stessa brutta storia: l’eccessivo uso da parte di Israele della violenza di stato nei territori palestinesi occupati.

Analogamente al sottile confine tra “lupo solitario” e “istigatore informatico”, i video che mostrano “gli attacchi palestinesi col coltello” vengono ora affiancati ai video che mostrano le esecuzioni extragiudiziali israeliane.

L’esposizione della violenza di stato come involontario effetto di attrazione di “lupi solitari” ha portato ad un altro problema: la maggiore sorveglianza e censura per individuare gli “istigatori informatici”.

Israele, con la sua potente infrastruttura informatica e tassi di diffusione di internet tra i più alti al mondo, da ottobre 2015 ha aumentato il controllo su internet ed ha arrestato centinaia di giovani palestinesi per “istigazione online” sulle loro pagine Facebook.

Inoltre il governo israeliano ha chiuso organi di stampa palestinesi in Cisgiordania e determinate Ong israeliane che pubblicizzano video e materiali per la difesa dei diritti umani dei palestinesi sono attualmente sotto indagine dello stato, che le considera sospette di essere agenti stranieri.

Gli apparati di potere reagiscono

La cooptazione di soggetti non statali, un’accresciuta sorveglianza e l’uso eccessivo della forza militare sono la consueta risposta dello stato a queste proteste dei giovani.

Di fatto, con la sua reazione a questi disordini, il governo israeliano agisce in modo perfettamente simile a quello con cui l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno represso e poi schiacciato il movimento giovanile non violento del 15 marzo 2011.

Ispirato alle immagini indimenticabili della primavera araba, il movimento del 15 marzo era iniziato su Facebook sottoforma di un infiammato manifesto, che ha innescato una risposta emotiva in una vasta area di giovani che condividevano le stesse frustrazioni ed hanno occupato le piazze in Cisgiordania e a Gaza.

Queste proteste si rivolgevano contro la divisione tra le fazioni palestinesi ed altre strutture di potere. Poco dopo, le autorità palestinesi hanno significativamente aumentato il controllo su internet, hanno chiuso o cooptato le Ong locali, hanno sciolto i gruppi giovanili online ed hanno incarcerato e minacciato i giovani leaders carismatici.

Quindi, mentre la caccia da parte di Israele ai lupi solitari e agli istigatori informatici è lungi dall’essere finita, si sta sviluppando qualcosa di molto più importante: se da un lato la risposta dello stato alle proteste dei giovani sta diventando relativamente facile da prevedere, dall’altro lato la prossima ondata di protesta giovanile e ciò che comporterà è estremamente imprevedibile.

Abbiamo assistito almeno due volte in questo decennio a proteste diffuse attraverso i social media che hanno cercato di colpire le strutture di potere palestinesi ed israeliane. Entrambe sono state accese da un sentimento di rabbia largamente condiviso ed entrambe hanno sorpreso il sistema al potere. Entrambe sono state momentaneamente arginate.

Però, individuando i social media come la causa del fallimento di questo tipo di mobilitazioni o del loro divenire violente, si svia l’attenzione dal comprendere l’evolversi delle condizioni che permettono la trasformazione del sentimento emotivo di speranza o disperazione nel prossimo movimento per il cambiamento contro i poteri in carica.

Questa comprensione potrebbe drasticamente modificare i rapporti di potere nel conflitto israelo-palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 8

di Alaa Tartir

Al-Shabaka Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è l’ottava parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

La parte è stata scritta da Alaa Tartir, il direttore di Al-Shabaka e anche ricercatore post dottorato al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Chi proteggerà e amplierà l’ondata palestinese di collera attualmente in corso nei territori occupati e come? Dovremmo tutti essere interessati a rispondere in modo approfondito a questa domanda. Il continuo sacrificio del popolo palestinese non deve essere sfruttato, ancora una volta, dalla tradizionale elite politica palestinese come carta [da giocare] in qualche nuova tornata di negoziati destinati a fallire. Non deve nemmeno diventare semplicemente un modo per le autorità di far sfogare la rabbia dei giovani.

L’incapacità prolungata della dirigenza tradizionale palestinese di realizzare le aspirazioni dei palestinesi ha fornito un’opportunità alle nuove avanguardie, quali gli attivisti della società civile palestinese e gli oppositori dell’ANP. Peraltro costoro devono ancora sfruttare appieno quest’occasione. C’è bisogno di un completo cambiamento della classe dirigente palestinese. Ci vorranno tempo, risorse e una determinazione politica nonché una mobilitazione di massa nei momenti cruciali. Gli obiettivi politici e le forme di lotta sono le questioni fondamentali a cui dare una risposta. L’alternativa sta prendendo forma, ma è ancora giovane come i ragazzi che si stanno ribellando. È importante occuparsi di tali questioni subito: senza il sostegno necessario e gli strumenti per coordinare i tentativi e le iniziative , il movimento rapidamente morirà.

Le nuove avanguardie palestinesi devono agire ora per mettere insieme i loro sforzi per creare una strategia di lotta che faccia crescere piuttosto che prosciugare le potenzialità e le energie dell’ondata [di collera]. È un compito arduo, ma è l’unico modo per evitare un’altra delusione che aumenterebbe l’attuale frustrazione e il disorientamento. I momenti di trasformazione storica non sono mai facili.

Quest’impostazione coinvolgerà su diversi fronti momenti di scontro. In altre parole, ciò non dovrebbe essere limitato a una presenza fisica davanti ai checkpoint, ma [occorre] estenderlo all’ambito politico, economico, a quello dei media e ad altri. Indubbiamente lo scontro in una situazione di colonizzazione è l’unico modo per cambiare lo squilibrio di potere, affrontando la situazione sul terreno e costruendo un percorso per il futuro.

Gli attuali movimenti [organizzati] dai giovani e dalle nuove avanguardie della società civile incarnano le politiche dello scontro: stanno agendo collettivamente per sfidare le autorità e la loro pretesa di essere rappresentativi [della volontà del popolo palestinese]. Tuttavia abbiamo bisogno di passare da una situazione odierna di rabbia a un movimento che rappresenti la società palestinese nella sua interezza, trasformandola in una società fondata sui movimenti sociali e sulle reti trasversali che si occupano di questioni politiche, economiche e sociali. Ciò può essere fatto basandosi sulle reti sociali esistenti e su altre per proporre obiettivi di interesse generale, lavorando per la liberazione dalla colonizzazione e sfidando le autorità repressive e le elite. Ciò può trasformare l’attuale ondata di collera in una situazione permanente di scontro con il colonizzatore così come in un movimento sociale che avvicini il colonizzato alla libertà e all’autodeterminazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 7

di Belal Shobaki

Maannews .  da Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la settima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Belal Shobaki, assistente e professore nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Hebron, Palestina e membro dell’Associazione americana di studi politici

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L’attuale movimento popolare rende ancora più urgente che i partiti politici abbandonino i propri interessi e contribuiscano alla crescita della partecipazione della società civile. Fatah e Hamas hanno un’occasione d’oro per attivarsi al di là delle loro preoccupazioni riguardo alle questioni istituzionali della gestione dell’Autorità nazionale palestinese e per agire in modo consono alla loro identità di movimenti di liberazione sotto occupazione. Tutte le fazioni dovrebbero unirsi nel proporre un programma nazionale che faccia a meno di Oslo e delle strutture istituzionali che rendono inefficace la lotta dei palestinesi. Possono usare la loro struttura mediatica per ricostruire una cultura politica, economica e sociale che sostenga la sollevazione piuttosto che per opporsi uno all’altro e mobilitarsi per la propria fazione. Ciò comporterebbe un mutamento nelle tranquille abitudini consumistiche dei palestinesi specie in Cisgiordania.

Fatah potrebbe trovarsi in difficoltà ad agire in tal modo, dato che si identifica con le istituzioni dell’Autorità nazionale palestinese. Tuttavia, Fatah avrebbe ancora di più da perdere se non riuscisse a cambiare [atteggiamento]. L’umore complessivo dell’opinione pubblica palestinese, compreso l’elettorato di Fatah, dissente completamente dal pensiero della dirigenza politica secondo cui gli attuali avvenimenti sono solamente “un’ondata di rabbia” che può essere controllata dalle forze di sicurezza e sfruttata per riprendere i negoziati con Israele. L’incapacità delle fazioni palestinesi a mobilitarsi per un aperto scontro contro l’occupazione mentre la sollevazione dei giovani continua produrrà senza dubbio dei dirigenti sul campo che saranno più capaci di dirigere gli avvenimenti rispetto a quelli che siedono nei loro uffici. Ciò porterà a una divaricazione ancora più ampia tra le forze che stanno agendo senza condizionamenti, vincoli di appartenenza e burocrati governativi.

Un simile movimento dovrebbe guardare al di là dell’alternativa tra Fatah e Hamas. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e la Jihad islamica potrebbero promuovere cortei e manifestazioni di grande impatto contro l’occupazione. Entrambi godono del rispetto del popolo palestinese e sono più liberi di Hamas, che in Cisgiordania è stato oggetto di una campagna di repressione sia da parte di Israele che dell’ANP. Queste due organizzazioni potrebbero lavorare con altre fazioni per sostenere un confronto aperto con l’occupazione israeliana e prendere l’iniziativa per la formazione di comitati di coordinamento per gestire la sollevazione. Questi comitati dovrebbero evolvere in seguito in una dirigenza condivisa che successivamente aderirebbe all’OLP come parte del programma per riformare l’organizzazione.

Tuttavia, creare una nuova area [politica] è condizionata rispetto al superamento della passata esperienza e in particolare della formula di Oslo per una soluzione a due Stati. Coloro che attualmente hanno il monopolio delle istituzioni politiche palestinesi sono gli stessi che sostengono ancora questa ipotesi. Se l’opinione pubblica trasforma la sollevazione in un rifiuto di Oslo, oltre alla lotta contro l’occupazione, o emergeranno nuovi dirigenti che perseguiranno nuove alternative oppure gli attuali dirigenti si sentiranno obbligati a cambiare il loro comportamento a parole e nella prassi politica.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 3

di Nijmeh Ali

da Al-Shabaka Ma’an News

La gioventù palestinese che è scesa nelle strade sta dando inizio ad un’importante fase nella risposta all’occupazione israeliana e all’ingiustizia, indicando il ruolo significativo che la generazione dei più giovani potrebbe svolgere, sostituendo l’attuale leadership.

Tuttavia rimane un problema: la nuova generazione è in grado di spostare la rivolta o l’ondata di rabbia dalle strade agli ambiti politici o diplomatici? Il problema sta nel fallimento della rivolta contro le tradizionali leadership palestinesi di Fatah, di Hamas e della sinistra: è questo ciò che occorre per trasformare lo spirito della rivoluzione in risultati diplomatici e politici.

I partiti politici palestinesi si comportano normalmente come i partiti di tutto il mondo: valutano i vantaggi politici che possono ricavare da questa ondata di rabbia, in termini di ripresa dei negoziati con Israele. Non agiscono come partiti rivoluzionari che combattono una lotta di liberazione, e non sono in linea con sentire popolare. Così, i partiti erigono ostacoli piuttosto che appoggiare la rivolta dei giovani o qualunque altra azione al di fuori della cornice istituzionale prestabilita, come i gruppi armati delle fazioni. Le azioni incontrollate non avvantaggiano i partiti politici, perché (i partiti) non possono dirigerle.

La questione non è creare un nuovo spazio all’interno o all’esterno dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Sta anche nel cambiare il comportamento politico dei palestinesi come popolo subordinato agli attuali apparati politici. E’ indispensabile superare le strette affiliazioni di parte che hanno rafforzato la divisione interna tra palestinesi ed indebolito l’OLP. L’ondata di rabbia popolare è un’aperta ribellione contro tali strette affiliazioni ed è un’espressione della necessità di rafforzare il livello nazionale in quanto opposto alle affiliazioni di parte.

Tuttavia, data la realtà esistente e la crescente divisione tra fazioni, sarebbe stato più opportuno che i giovani si fossero ribellati contro l’attuale leadership politica e l’avessero rimpiazzata con leader più giovani che avessero energia politica, credibilità e vigore.

I leader locali non sono mai stati isolati dalla loro leadership centrale: Fatah e Hamas, per esempio, sono movimenti politici di massa piuttosto che partiti politici in senso tradizionale. Perciò non ci si deve prospettare uno scenario in cui potrebbe emergere un movimento popolare indipendente, anche se possono essere istituiti dei comitati popolari, come successe nella prima intifada. Vale la pena di notare che la leadership nazionale unificata di quell’intifada era stata formata da attori politici che perseguivano obbiettivi politici comuni ed una visione incentrata sulla fine dell’occupazione come tappa fondamentale verso la liberazione.

In breve, abbiamo bisogno di una primavera palestinese all’interno dei partiti, piuttosto che di strutture politiche alternative che rafforzerebbero la divisione e la miope partigianeria. In assenza di una ribellione dei giovani all’interno dei partiti politici palestinesi, nessuna rivolta otterrà un reale cambiamento politico. I sacrifici del popolo palestinese andranno sprecati, aumentando la frustrazione ed il senso di impotenza. Sarebbe davvero preoccupante se questa frustrazione sopprimesse lentamente la fiducia dei palestinesi nella loro capacità di liberarsi.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Traduzione di Cristiana Cavagna