L’obiettivo? Giudaizzazione. Lo strumento? Un’esercitazione militare in mezzo a un villaggio

Yuval Abraham  –

5 febbraio 2021 – 972 Magazine

Mentre i residenti di Jinbeh aspettano che l’Alta Corte determini il loro destino, l’esercito israeliano decide di tenere una vasta esercitazione proprio nel centro del villaggio.

La prima granata ci ha svegliati alle 2 del mattino, un’esplosione formidabile. La porta di metallo della stanza ha tremato e l’odore del fumo ha riempito l’aria. Mi sono alzato dal letto. L’esplosione è stata così vicina che si potevano sentire i soldati al piano di sotto gridare: “Yalla, continua. Presto.”

E’ esplosa un’altra bomba. L’esercito israeliano stava conducendo una massiccia esercitazione di addestramento a Jinbeh, un piccolo villaggio della Cisgiordania nella zona di Masafer Yatta sulle colline a sud di Hebron, dove vivono circa 150 palestinesi.

Si sono accese le luci delle case in tutto il villaggio. Alcuni residenti spaventati si sono precipitati fuori. Quando è tornato il silenzio, Hamdan, che dormiva accanto a me, ha detto: “È tutto, penso che sia finita. Torniamo a dormire. ”

Ma poi c’è stata un’altra esplosione. Le finestre sbattevano, i cani ululavano, io ero spaventosamente teso e tutto è continuato così fino alle 4 del mattino. Nessuno degli abitanti di Jinbeh è riuscito a dormire quella notte.

La mattina seguente abbiamo visto un gran numero di attrezzature militari nella valle. Trenta carri armati e un convoglio di autocarri pesanti carichi di proiettili stavano salendo fino al villaggio, spianando la stretta strada sterrata. Uno a uno, i carri armati hanno superato le dozzine di famiglie e bambini che erano fuori, stanchi dalla notte passata e completamente sotto shock.

Una nonna nata a Jinbeh nel 1942 mi ha detto che non aveva mai visto niente del genere. L’esercito ha condotto per decenni addestramento militare nella zona, ha detto, ma mai in questo modo. Non erano mai arrivati con i carri armati fino alle case abitate.

Nel 1980 l’esercito israeliano dichiarò la zona Area di Tiro 918 anche se dodici villaggi palestinesi, incluso Jinbeh, stavano lì da molto prima che Israele fosse fondato nel 1948. Obiettivo dell’esercito: allontanare i residenti palestinesi.

Mentre la nonna parlava, uno dei carri armati si è schiantato contro il cancello di pietra della casa accanto. Uno dei bambini ha detto di avere paura. Un altro autista da un carro armato ha salutato una ragazza vestita di viola e lei gli ha risposto. Un terzo carro armato è entrato nel cortile di una casa: molto probabilmente il conducente si era confuso sul percorso.

Un altro carro armato ha sbandato contro la vecchia casa di pietra di Ali, 60 anni. L’autista, che sembrava avere diciannove anni, era imbarazzato. Un ufficiale con la barba grigia ha battuto le mani in segno di disprezzo e gridato: “Deficiente, è così che tieni la strada?”

Ali si è avvicinato e ha visto che il carro armato aveva tirato giù dei grandi massi che ora stavano bloccando l’ingresso al suo edificio. L’autista non si è mosso di un centimetro. L’ufficiale ha gridato di nuovo: “Riprenditi dallo shock e corri immediatamente a prendere i cavi di traino”.

I carri armati hanno proseguito oltre gli altri edifici, e Ali è rimasto fuori casa. Ha chiesto a suo figlio di aiutarlo a tirare via i massi. Anche Ali è nato qui a Jinbeh. Mi ha detto che ha lavorato come operaio edile in Israele per tutta la vita, riparando strutture e strade. Nel Kibbutz Be’eri. A Nahal Oz. Così ha detto.

Ali ha detto di avere quattro fratelli che hanno lasciato Jinbeh negli ultimi dieci anni. Hanno abbandonato il villaggio in cui sono nati a causa delle politiche israeliane, a causa dell’Area di Tiro 918, ha sottolineato. Ha spiegato che l’esercito sta impedendo loro di asfaltare le strade e si rifiuta di concedere loro permessi di costruzione o di farli allacciare all’acqua e alla luce.

Jinbeh è uno degli oltre 200 villaggi palestinesi nell’Area C della Cisgiordania occupata su cui l’esercito israeliano ha pieno controllo, in cui vengono sistematicamente negati i permessi di costruzione anche se la terra è proprietà privata dei residenti.

L’esercito risparmia solo le vecchie case di pietra del villaggio, come quella di Ali. Tutto il resto – la clinica, la scuola, il campo da calcio – può essere demolito in qualsiasi momento. È una politica violenta; un modo per spingere le persone a lasciare la terra che possiedono. Ed è per questo che l’esercito ha dichiarato questa zona area di tiro, anche se qui ci sono raramente delle esercitazioni: per aumentare la pressione.

Nel 1999, col governo del primo ministro Ehud Barak, Israele ha emesso ordini di evacuazione contro i residenti di Jinbeh e di altri villaggi della zona, sostenendo che vivono in un’area di tiro. Ma l’obiettivo di giudaizzare l’area può farsi risalire al piano Allon del 1967, stilato dall’allora ministro del Lavoro Yigal Allon. Era un progetto del partito laburista per la costruzione di colonie nei territori palestinesi occupati.

Questa tattica di utilizzare le aree di tiro per giudaizzare una zona non è attuata solo nelle colline a sud di Hebron. Israele ha dichiarato il 18 % circa della Cisgiordania area di tiro per l’addestramento militare, ed è un’area grande più o meno quanto la parte di Cisgiordania sotto il pieno controllo palestinese. Nel 2014 durante una riunione della sottocommissione parlamentare sulla “costruzione palestinese illegale nell’Area C”, il colonnello Einav Shalev, allora ufficiale operativo del comando centrale, ha ammesso che uno dei motivi principali per incrementare l’addestramento militare in queste aree di tiro è impedire che i palestinesi vi costruiscano.

È importante notare che si tratta di villaggi che esistono da molti decenni. I residenti non hanno modo di costruire legalmente perché l’Amministrazione Civile, il braccio dell’esercito israeliano responsabile del governo dei palestinesi nella Cisgiordania occupata, nega oltre il 98% delle richieste di permesso presentate dai palestinesi nell’Area C. Perfino discutere di questo problema in termini di rispetto delle leggi è assolutamente ridicolo, poiché la legge è chiaramente basata su pregiudizi etnici.

I residenti di Jinbeh hanno presentato una petizione all’Alta Corte israeliana in base a un argomento molto logico: se risiedono su terra di loro proprietà, come può lo Stato espellerli sostenendo che la zona è un’area di tiro? Lo Stato ha sostenuto che, sebbene i residenti di Jinbeh vivano effettivamente in quella zona, vi restano solo per una parte dell’anno in determinate stagioni. Pertanto, poiché il villaggio non è la loro “residenza permanente”, l’esercito può dichiarare la zona area di tiro e cacciare gli abitanti.

Questo è falso. Ma anche se fosse vero, è pur sempre la loro terra, la loro casa. Sono passati più di 20 anni da quando è stata presentata la petizione, che continua a essere trascinata di anno in anno senza una sentenza. Ma c’è una sentenza sul terreno: lenta evacuazione.

L’Amministrazione Civile viene qui ogni mese a demolire case e infrastrutture rifiutandosi di concedere permessi di costruzione, e le persone alla fine si arrendono e se ne vanno. Ma quest’anno il giudice dell’Alta Corte che presiede il caso va in pensione, il che significa che deve emettere una sentenza nei prossimi mesi e decidere se lo Stato può espellere tutti gli abitanti.

Questo è il contesto dietro le esercitazioni militari. Questo è il motivo per cui, dopo anni in cui non c’è stato alcun addestramento in questa area di tiro, l’esercito ha deciso di condurre un’esercitazione in prossimità delle case abitate. È evidente come prima della sentenza lo Stato voglia rafforzare la propria presenza nell’area.

Prima dell’esercitazione, i militari si sono impegnati a non entrare in terra palestinese e a non interferire con la routine quotidiana. Invece soldati e carri armati sono entrati più volte nei terreni agricoli e l’intera esercitazione – dalle esplosioni notturne ai carri armati che invadono la mattina seguente – ha gravemente sconvolto la vita degli abitanti di Jinbeh.

C’è anche chi si è felicitato di questa esercitazione: i coloni. Il Consiglio Regionale delle colline a sud di Hebron si è congratulato con l’Esercito israeliano per l’esercitazione, scrivendo in un messaggio che l’incremento dell’addestramento militare “è uno dei modi per rafforzare la governance, rafforzare il controllo e far rispettare la legge e l’ordine nell’area”.

Rafforzare la governance significa aumentare la pressione di Israele per espellere le comunità locali come quella di Jinbeh, che vive in aree che lo Stato vuole giudaizzare. Israele si sta attualmente concentrando su tre aree della Cisgiordania: la Valle del Giordano, le colline a sud di Hebron e un’area nota come E1, che collega Gerusalemme Est alla Cisgiordania. Là, Israele nega sistematicamente i permessi di costruzione ai palestinesi per costringerli ad andarsene.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi lottano contro lo sfratto dalle case di Silwan, Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

7 dicembre 2018 Al Jazeera

L’occupazione di Batan al-Hawa a Gerusalemme Est da parte dei coloni è “il più esteso processo di espulsione” degli ultimi anni

Batan al-Hawa, Gerusalemme est occupata – Nel corso degli anni, i coloni israeliani hanno continuato ad offrire milioni di dollari a Zuheir Rajabi e ai suoi vicini per le loro modeste case accatastate sul pendio di Silwan a Batan al-Hawa, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata.

Le case si trovano in quello che è noto come il Bacino Storico della Città Vecchia, in prossimità della sacra Moschea di Al-Aqsa, ciò che le rende possedimenti preziosi.

Un colono ebreo una volta offrì a Rajabi un assegno in bianco per la sua casa, chiedendogli di scrivere qualsiasi cifra volesse, da 3 a 30 milioni di shekel (da 800.000 a 8 milioni di dollari).

Ma per Rajabi e gli 700 altri residenti del quartiere – ora minacciati di sfratto – nessuna somma di denaro basterebbe a farli lasciare le loro case.

“Pensavano che in 30 giorni le persone avrebbero abbandonato le loro case”, ha detto Rajabi, dal terrazzo sul tetto del Centro di Comunità del quartiere, che domina la valle.

“La gente qui è molto semplice; hanno una cosa sola, l’onore. Non ci importa di vivere in povertà o in un ambiente malsano, non possiamo sopportare di perdere il nostro onore”, ha detto Rajabi, che è anche il portavoce del comitato Batan al-Hawa.

Gran parte dei residenti di Batan al-Hawa vi abita da oltre 70 anni, molti dopo essere stati espulsi dalle loro ataviche case quando si stava costituendo Israele.

I residenti ora affrontano un’altra espulsione, da parte dell’associazione di coloni ebrei Ateret Cohanim, che sta cercando di lanciare quella che Ir Amim, una ONG israeliana, definisce come la più grande occupazione di quartieri palestinesi a Gerusalemme Est da quando Israele l’ha occupata nella guerra arabo-israeliana del 1967.

La giudaizzazione di Gerusalemme Est

Ateret Cohanim, che ha come obiettivo la giudaizzazione di Gerusalemme est, sostiene che le case di Batan al-Hawa furono costruite su un terreno di proprietà del ‘Jewish Benvenisti Trust’ [cartello religioso ebraico, ndtr.] nel XIX secolo, che lo adibiva all’insediamento in zona degli ebrei yemeniti.

Nel 2002, il Ministero della Giustizia israeliano ha emesso un atto di proprietà del terreno, circa 5,5 dunams (1,4 acri), a favore del Benvenisti Trust, senza informarne i residenti. A quel punto, Ateret Cohanim ha assunto il controllo del Trust.

L’atto è stato utilizzato come fondamento per gli avvisi di sfratto ai residenti, come quello ricevuto dalla famiglia Rajabi nel 2015, che disponeva che le sette famiglie che abitano in quella casa se ne andassero.

Nel giugno di quest’anno, oltre un centinaio di residenti palestinesi in lotta contro gli sfratti ha presentato una petizione, sostenendo che il Trust Benvenisti possedeva solo gli edifici e non il terreno su cui si trovavano.

Dal momento che da allora gli edifici originali erano stati distrutti e ricostruiti, il Trust non poteva rivendicare la terra, sostenevano i residenti.

Lo stesso mese, il governo israeliano ha ammesso che il Ministero della Giustizia non aveva indagato sul Trust prima di emettere l’atto di proprietà.

Tuttavia, il mese scorso l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto l’appello dei residenti di annullare la decisione del 2002, consentendo in effetti ad Ateret Cohanim di proseguire con l’occupazione di Batan al-Hawa.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha detto che la sentenza della Corte ha spianato la via alla pulizia etnica dei palestinesi di Silwan.

“La sentenza dimostra, ancora una volta, che l’Alta Corte israeliana dà il suo beneplacito a quasi tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte delle autorità israeliane”.

La “piovra” di Gerusalemme est

Ad oggi, Ateret Cohanim ha sfrattato 17 famiglie e possiede sei edifici nell’area.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il 45% di tutte le famiglie palestinesi minacciate di sfratto a Gerusalemme Est vive a Batan al-Hawa.

B’Tselem lo ha definito “il più esteso processo di espulsione” in città degli ultimi anni.

Rajabi ha detto che suo padre ha comprato il loro appezzamento di terra nel 1966 dopo che erano stati espulsi dai quartieri ebraici della Città Vecchia, senza alcun risarcimento.

“Sono nato qui, sono cresciuto qui, mi sono sposato qui, ho vissuto qui tutta la mia vita”, ha detto.

Amareggiato dalla sentenza della Corte, ha detto che la società israeliana si sta spostando verso la “estrema destra”.

Rajabi paragona Ateret Cohanim a una piovra i cui tentacoli stanno attanagliando la Città Vecchia e Silwan.

“Ateret Cohanim è un’organizzazione potente, non solo politicamente. Ha anche soldi”, ha detto Rajabi.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’organizzazione usa diverse tattiche per costringere i palestinesi a vendere le loro proprietà, tra cui minacce a carattere sessuale e ricatti di vario tipo – come minacciare di rendere pubblica una vendita concordata in segreto così che il venditore, temendo per la propria vita, sarebbe costretto ad abbassare significativamente il prezzo per evitare l’ira della propria comunità.

[L’ONG israeliana] Ir Amim dice che il governo israeliano è stato direttamente coinvolto nell’agevolare gli insediamenti privati illegali nella città vecchia e nei quartieri palestinesi circostanti.

“Il governo ha agito tramite il Custode Generale e il Registro dei Trust (entrambi sotto il Ministero della Giustizia) per agevolare il sequestro di Batan al-Hawa, aumentando il budget per la sicurezza del 119 % per il periodo 2009-2016 in modo da garantire la protezione degli estremisti ebrei che si insediano nel cuore dei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est”, ha affermato la ONG.

Consolidare il controllo ebraico

Secondo un rapporto di Ir Amim, l’obiettivo politico di gruppi come Ateret Cohanim è consolidare il controllo ebraico a Gerusalemme Est e contrastare la soluzione dei due stati.

Yacoub al-Rajabi, membro del comitato di Batan al-Hawa, ha affermato che i coloni stanno cercando di acquistare la sua casa dal 2003.

Un anno e mezzo fa, Ateret Cohanim gli ha offerto 2 milioni di dollari per vendere la sua casa e abbandonare la causa in tribunale, ma senza risultato.

“Se ci sfrattano dalle nostre case, costruiremo tende vicino alle case, non andremo da nessuna parte, ci rifiutiamo di andare altrove, rifiutiamo di essere trasferiti [per la terza volta]”, ha detto Yacoub.

Ha descritto il quartiere come una prigione dove i residenti si sentono intrappolati e sono regolarmente attaccati da coloni, polizia, esercito e istituzioni governative israeliane per spingerli ad andarsene.

Dice che, ad ogni festa ebraica, i residenti non possono lasciare le loro case e per ordine militare i bambini non possono andare a scuola.

“Non abbiamo altro che la nostra risolutezza. Cercheremo di difendere noi stessi e i nostri diritti … Abbiamo la proprietà di questa terra ed è nostra per legge”, ha detto.

L’ufficio di Rajabi si trova nel Centro della comunità costruito per i bambini – l’unico posto nel quartiere dove i bambini possano giocare in sicurezza. In un angolo del suo ufficio, uno schermo mostra i filmati dalle telecamere a circuito chiuso installate all’esterno.

Dall’altra parte della strada, una decina di telecamere controllano la sua casa. Le ha fatte installare per documentare gli attacchi dei coloni o delle autorità israeliane, dopo che suo padre è morto per l’inalazione di gas lacrimogeni sparati dalla polizia.

Rajabi afferma che le telecamere sono state estremamente utili a smentire le false affermazioni dei coloni e delle autorità israeliane.

Il destino delle loro case è ora presso la Pretura di Gerusalemme, che deve decidere se il Trust Benvenisti possiede solo gli edifici o anche la terra.

Ma Yacoub ha detto che c’è poca speranza che la giustizia possa essere difesa dai tribunali israeliani.

“Persino durante l’udienza la stessa giudice ha detto che ci sono alcuni problemi legali nel verdetto del tribunale”, ha detto Yacoub, aggiungendo che i residenti cercheranno con tutti i mezzi di rimanere nelle loro case, anche portando il caso alla Corte Penale Internazionale.

“Questa [sentenza del tribunale] non ci spezzerà, continueremo a lottare per i nostri diritti, continueremo a lottare per la nostra proprietà sulla terra e sulle nostre case”, ha affermato.

(traduzione di Luciana Galliano)