Spogliati, picchiati, colpiti con il taser: le denunce dei palestinesi rivelano la brutalità della polizia di Gerusalemme

Nir Hasson

27 dicembre 2021 – Haaretz

Diverse denunce di gravi comportamenti violenti nei confronti di palestinesi di Gerusalemme Est sono state presentate al ministero della Giustizia. Solo un poliziotto è stato incriminato

Un sedicenne spogliato e malmenato in un bagno pubblico, una donna di 60 anni ammanettata e trascinata sul pavimento, una giornalista sottoposta a commenti sessisti durante un interrogatorio, un giovane aggredito nel centro di una città e un altro trascinato fuori dal letto nel cuore della notte e erroneamente identificato come un’altra persona mentre i suoi familiari venivano picchiati. Tutto questo si ritrova in sei denunce presentate nei mesi scorsi all’unità investigativa sui comportamenti scorretti della polizia presso il ministero della Giustizia, le cui copie sono arrivate ad Haaretz. Dall’esame di diverse denunce di gravi comportamenti violenti nei confronti di palestinesi emerge che solo un un poliziotto è stato incriminato. La risposta della polizia di Gerusalemme: “Questa è un’immagine distorta e unilaterale che non riflette la verità“.

Un’aggressione in un bagno

H., un giovane palestinese di 16 anni, due mesi fa era seduto a bere tè sui gradini della piazza fuori dalla Porta di Damasco a Gerusalemme Est. Afferma di essere stato sorpreso dai poliziotti. Non si sentiva bene, poi qualcuno è arrivato da dietro e gli ha detto di non muoversi, erano poliziotti”, racconta il padre. Non capiva cosa stesse succedendo. È stato ammanettato e portato in un bagno pubblico”. Secondo la testimonianza del giovane, i poliziotti lo hanno aggredito per circa 40 minuti. Tra l’altro, gli hanno chiesto di spogliarsi, prima di stenderlo a pancia in giù sul pavimento, picchiandolo e prendendolo a calci su tutto il corpo.

Questo abuso è stato descritto in una denuncia presentata all’unità del ministero della Giustizia per le indagini comportamento scorretto della polizia dall’avvocatessa Nadia Dakka dell’HaMoked Center for the Defense of the Individual, un gruppo per i diritti umani che protegge i palestinesi. “H. afferma che in quel momento si è sentito in pericolo, con i poliziotti che gli urlavano contro e lo colpivano in faccia”, dice Dakka. Sotto le minacce, i colpi e le urla, H. ha cercato di togliersi la maglietta, e i poliziotti insistevano perché si togliesse anche i pantaloni, urlandogli: ‘Togliti i vestiti, figlio di puttana’. Non avendo egli eseguito [le intimazioni] i poliziotti gli hanno tolto i pantaloni e i boxer”, riferisce Dakka.

Secondo la denuncia, H. era completamente nudo quando i poliziotti lo hanno steso sul pavimento del gabinetto, colpendolo mentre era ammanettato. Uno di loro gli ha persino urlato contro minacciando che lo avrebbe “scopato”. H. ha ricevuto colpi, pugni e calci su tutto il corpo, di conseguenza sanguinava dal naso e aveva ferite al viso. H. riferisce che uno dei poliziotti gli ha dato un calcio ai testicoli. In seguito, i poliziotti gli hanno lavato la faccia a forza sotto un rubinetto. “Gli hanno detto che non volevano che la gente vedesse la sua faccia insanguinata”, afferma la denuncia. Gli hanno tolto le manette in modo che potesse vestirsi, lo hanno ammanettato di nuovo e lo hanno portato su un furgone della polizia mentre, sulla base della denuncia, lo costringevano a tenere le braccia sollevate e la testa abbassata.

Il padre di H. racconta che gli hanno chiesto la carta d’identità solo quando sono usciti dal bagno. Il giovane riferisce che uno dei poliziotti ha detto: Ha solo 16 anni, non fa al caso nostro. Ci serve qualcuno che abbia 19 anni”. Afferma che quando un passante palestinese ha chiesto il suo nome mentre veniva portato verso il furgone, è stato arrestato anche lui. Si sono in seguito incontrati nel furgone. H. è stato detenuto per 24 ore, durante le quali è stato portato in ospedale per cure mediche.

H. riferisce che durante la detenzione non gli è stato dato da mangiare. Nel corso del suo interrogatorio non gli sono state fatte domande su specifici atti da lui presumibilmente commessi né è stata presentata alcuna prova. Il giorno dopo è stato portato davanti a un giudice ed è stato rilasciato agli arresti domiciliari con il consenso della polizia. Nessun procedimento legale ha fatto seguito e nessun atto d’accusa è stato presentato contro di lui. In seguito all’incidente, ha riportato gonfiori, emorragie, ferite da taglio, contusioni e un trauma emotivo. “A guardarlo oggi non è la stessa persona”, dice suo padre. Ha smesso di studiare ed è dimagrito, si vedono le lacrime nei suoi occhi. Mi dice che pensa che tutti quelli che vede per strada possano essere dei poliziotti sotto copertura che potrebbero fargli del male”. L’unità del ministero della Giustizia afferma che la sua denuncia è stata registrata e che sarà trattata secondo la procedura usuale.

Un arresto nel cuore della notte

Dagli scontri avvenuti durante l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle Mura], la serie di attacchi contro Gaza dello scorso maggio, molte denunce di violenze da parte della polizia sono pervenute all’unità che indaga sulla condotta illegittima della polizia. Una di queste riguarda un episodio avvenuto un mese fa, alle 2:30 del mattino. Un gruppo composto da 20 poliziotti ha fatto irruzione nella casa della famiglia Abu Hummus nel quartiere di Issawiya a Gerusalemme est. Non hanno bussato, hanno sfondato la porta. Mia figlia ha sentito qualcosa e ha detto loro che avrebbe aperto la porta, ma loro le hanno detto di allontanarsi, entrando dopo aver sfondato la porta. Mio figlio Mohammed [18 anni] stava dormendo. Uno di loro si è avvicinato al suo letto, lo ha preso per i vestiti e gli ha incappucciato la testa, lo ha ammanettato e lo ha portato via”, spiega il padre della famiglia, Rabah Abu Hummus. “Mia figlia ha provato a scattare delle foto, per cui si sono avventati su di noi, uno di loro con un taser, picchiando noi e i nostri figli”.

Il figlio ha portato la testimonianza dell’episodio a un ricercatore di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndtr.]. Nella sua dichiarazione ha detto che una volta fuori, mi hanno fatto inginocchiare mentre uno di loro mi teneva premuta la testa. Poi mi hanno portato sull’auto della polizia dove era già seduto mio fratello Khader. Sapevo che era lui perché ha detto loro che voleva un’ambulanza, dato che non si sentiva bene”. Mohammed è stato portato alla stazione di polizia del Russian Compound [famigerato complesso in cui sorge, insieme ad altri edifici russi, la Cattedrale della Santissima Trinità, chiesa ortodossa del XIX secolo, ndtr.] dove è stato interrogato per cinque ore con l’accusa di aver sparato con un’arma e lanciato pietre.

Mohammed Abu Hummus non era mai stato arrestato prima e ha negato tutte le accuse. L’interrogatorio è ripreso il giorno successivo, durante il quale è entrata nella stanza una persona che Mohammed non ha riconosciuto. Racconta: Hanno detto che era lui che aveva testimoniato contro di me. Gli ho chiesto: ‘Mi conosci per testimoniare contro di me? Cosa ti ho fatto per farmi portare qui? Mi ha detto che non mi conosceva, che non ero io quello che lui intendeva accusare (quando aveva parlato con la polizia), che quello contro cui aveva testimoniato era un altro Mohammed Abu Hummus”.

Il cognome Abu Hummus è uno dei più diffusi di Issawiya. Il padre, Rabah, crede che nel quartiere ci siano 50 persone chiamate Mohammed Abu Hummus. “Dopo aver sentito questo, mi hanno riportato in isolamento”. Prima che lo rilasciassero, dice, “qualcuno ha aperto lo spioncino della porta e ha detto che si scusavano, mi avevano arrestato per errore”. È stato rilasciato senza condizioni. “Non mi hanno dato nemmeno un pezzo di carta”, dice Mohammed. Afferma che a tutt’oggi non ha ricevuto indietro la sua carta d’identità e due telefoni di famiglia confiscati dai poliziotti. Questa settimana l’unità investigativa sulla condotta illegittima della polizia ha riferito ad Haaretz che la sua denuncia “non era presente sui propri computer”.

Percosso su tutto il corpo

Tra le denunce presentate di recente, l’unità investigativa sul comportamento scorretto della polizia ne ha trovata una che formula accuse contro un poliziotto di nome Gil Zaken, accusato di aver aggredito qualcuno senza motivo. In quel caso, dice HaMoked, è stato posto sotto accusa un solo poliziotto anche se altri agenti hanno preso parte all’aggressione.

Il fatto è avvenuto il 12 maggio, durante la guerra di Israele con Hamas a Gaza. Il querelante, Ahmed Sliman, che lavorava in un bar nel centro di Gerusalemme, stava fuggendo da una banda di giovani ebrei alla ricerca di passanti arabi da assalire. Si è nascosto dietro un muro di pietra con un amico. Sul posto è arrivata la polizia, che aveva ricevuto una segnalazione riguardo alla presenza nella zona di un terrorista armato di ascia. Secondo la denuncia che ha presentato, i poliziotti lo hanno circondato e hanno cominciato a picchiarlo.

“I poliziotti hanno aggredito Sliman prendendolo a calci e colpendolo alla testa e su tutto il corpo, senza tralasciare nessuna parte”, riporta la denuncia presentata al ministero della Giustizia dall’avvocatessa Dakka di HaMoked. Lo hanno ammanettato e perquisito, cercando poi di fargli firmare un documento che includeva, tra l’altro, una dichiarazione secondo cui non sarebbe stato aggredito dai poliziotti. Sliman si è rifiutato di firmare il documento.

Secondo la denuncia, in seguito i poliziotti lo hanno perquisito e aggredito verbalmente, e uno di loro ha detto: “Puoi ringraziare di non esserti preso una pallottola in testa”. I poliziotti se ne sono andati senza arrestare Sliman, che è stato portato in ambulanza in un ospedale per cure mediche. Ha accusato un’emorragia nasale, ferite da taglio al viso, un dente rotto e un’emorragia oculare. Le foto che ha scattato dopo l’episodio mostrano la sua faccia gravemente contusa.

Trascinata con le gambe scoperte

La quarta denuncia è stata presentata a luglio da Wafiya Da’ane, 60 anni. Da’ane si stava dirigendo verso il Monte del Tempio durante l’Eid al-Adha [festa celebrata nel mondo islamico ogni anno nel mese lunare di Dhū l ijja, dodicesimo mese dell’anno, ndtr.] quando degli agenti di polizia le hanno impedito di entrare, ordinandole di consegnare la sua carta d’identità. Secondo la denuncia, quando ha provato a discutere con uno degli agenti, lui ha iniziato a spingerla via dall’ingresso. “Scossa dalla reazione e per la paura, la signora Da’ana ha iniziato a urlare”, afferma la denuncia presentata all’ufficio investigativo interno. “Sentiva che la stavano trattando come una pericolosa criminale, e non come una donna anziana che voleva solo visitare la moschea”.

Sono arrivati ​​altri agenti, tra cui una donna che ha iniziato a urlarle contro in ebraico. Da’ane non ha capito cosa dicesse, ma quando ha visto l’agente donna tirare fuori le manette si è resa conto che la polizia intendeva arrestarla. Ha offerto le mani e non ha opposto resistenza all’arresto. L’agente donna l’ha ammanettata e ha continuato a urlare”, afferma la denuncia.

In seguito, secondo quanto riportato, i poliziotti hanno trascinato Da’ane ancora in manette e uno di loro l’ha afferrata per la gola. Da’ane afferma che l’agente l’ha picchiata e lei è svenuta per alcuni secondi. Quando ha ripreso conoscenza si è ritrovata trascinata dalla polizia con le gambe completamente scoperte, nonostante sia una donna religiosa che indossa l’hijab [velo che copre capelli, gola e parte del volto, ndtr.]” si legge nella denuncia. “La polizia non ha mostrato nessuna sensibilità e l’hanno trascinata in questo stato davanti ai passanti”.

Da’ane non riusciva a credere a quello che stava succedendo “e ha iniziato a piangere per il dolore e l’umiliazione”, viene riferito nella denuncia. “Anche se le sue gambe erano deboli, ha cercato di nuovo di alzarsi in piedi, di porre fine alla scena umiliante che ha ferito gravemente la sua dignità e che ancora la fa piangere ogni volta che le viene in mente”.

Da’ane è stata trattenuta in stato d’arresto presso la stazione di polizia, dove è stata portata in ambulanza essendosi sentita male. Le è stato detto di tornare per essere interrogata entro tre giorni dal suo rilascio. Quando è tornata alla stazione regionale di David, la polizia ha rifiutato di riceverla e di restituirle la sua carta d’identità. Da allora non è stata più richiamata. L’unità investigativa interna della polizia ha commentato che la denuncia è stata ricevuta e presa in esame come di consueto.

Arresto con un taser

Un altro ricorrente di nome Ali Abu Sareh sarebbe stato aggredito dopo essersi avvicinato ai poliziotti di frontiera che avevano aggredito una giornalista nella Città Vecchia. È stato arrestato attraverso l’utilizzo di una pistola stordente ed afferma che la polizia lo ha colpito alla testa e preso a calci sul corpo. Ha riportato fratture al volto e ferite allo stomaco, alla testa e alla schiena. Durante l’arresto ha vomitato due volte.

Secondo la denuncia presentata le sue condizioni cliniche erano così gravi che un medico del carcere del Russian Compound si è rifiutato di accettarlo e ha insistito perché fosse ricoverato in ospedale. La polizia lo ha accusato di aver aggredito un agente e di aver ferito una poliziotta con una forchetta. Nonostante questa accusa, il giorno successivo la polizia ha accettato di rilasciarlo su cauzione e da allora non ha presentato nessuna accusa. L’unità investigativa interna della polizia ha commentato che la sua denuncia è sotto esame.

Interrogata sul colore dei suoi capelli

Un’altra denuncia è stata presentata da Alaa Daiyeh, una produttrice televisiva e fotografa di 24 anni. Secondo la sua querela, il 31 maggio ha cercato di fotografare agenti di polizia che avrebbero aggredito un minore palestinese. Afferma che uno degli agenti si è precipitato su di lei e ha afferrato il suo telefono cellulare. Come riferisce la denuncia, “l’agente, che parlava in arabo, si è rifiutato di restituirle il telefono e l’ha obbligata a mostrargli la sua carta d’identità mentre diceva agli altri agenti che lei lo aveva ripreso usando l’applicazione TikTok, anche se Daiyeh ha insistito sul fatto di non possedere quell’applicazione sul proprio telefono”.

Il poliziotto avrebbe urlato che se non avesse taciuto l’avrebbe colpita e le avrebbe fatto saltare i denti. Daiyeh ha cercato di dissuadere l’agente dal minacciarla, ricordandogli che la sua telecamera portatile stava documentando la discussione. Lui ha risposto in arabo: “Tu e il tuo profeta potete andare all’inferno”, afferma la denuncia. Riferisce che gli agenti l’hanno poi arrestata e interrogata chiedendole informazioni sul colore dei suoi capelli e ordinandole di togliersi l’hijab per verificare che non stesse mentendo. La poliziotta che la interrogava ha ripetuto l’ordine. Più tardi la polizia ha contattato suo fratello perché la convincesse a firmare un ordine restrittivo volontario [che le intimava] di stare lontano dalla Porta di Damasco. Ha riferito che durante la conversazione la polizia ha usato un linguaggio sessista, comprese delle allusioni sessuali. L’unità investigativa interna della polizia ha commentato che la sua denuncia è sotto esame.

“La mancanza di fiducia nell’unità investigativa interna ha portato al risultato che sono pochissimi i palestinesi vittime della violenza della polizia disposti a sporgere denuncia”, ha commentato Jessica Montell, direttrice esecutiva dell’organizzazione per i diritti umani HaMoked. “Questa situazione crea un circolo vizioso che perpetua la violenza della polizia perché gli agenti agiscono con la sensazione di essere immuni da responsabilità”, ha detto. “Nel corso dell’ultimo anno la violenza contro i palestinesi a Gerusalemme est è diventata una routine e quindi spetta all’unità investigativa interna fare giustizia riguardo alle denunce che abbiamo presentato, con l’obiettivo di prevenire ulteriori danni in futuro”.

La polizia: ‘Immagine distorta’

La polizia del distretto di Gerusalemme ha risposto affermando che “I casi menzionati nell’articolo sono tendenziosi e pieni di imprecisioni. Il tentativo di trarre conclusioni sull’attività della polizia presentando un’immagine unilaterale distorce la verità”. Secondo la polizia i casi in cui i civili attaccano o si oppongono all’arresto “richiedono l’impiego delle forze dell’ordine e l’uso ragionevole della forza”.

“Ogni anno durante l’attività operativa la forza viene utilizzata in meno dello 0,1 % dei numerosi contatti tra polizia e civili, una statistica che indica la moderazione della forza e l’uso corretto e proporzionato di tale potere”, afferma la polizia.

Relativamente alle denunce presentate contro di loro, si è rilevato che la maggior parte degli agenti ha agito in base alla legge”, sostiene la polizia. La polizia aggiunge che “si rammarica che, invece di scrivere delle migliaia di casi in cui ogni anno gli agenti di polizia vengono attaccati e molti di loro feriti, come in alcuni dei casi citati, c’è chi sceglie di incolpare la polizia”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I coloni hanno un nuovo obiettivo da attaccare: le scuole palestinesi

Gideon Levy, Alex Levac

 16 dicembre 2021 Haaretz

I soldati israeliani impediscono con la forza ai bambini palestinesi di raggiungere la scuola e sparano lacrimogeni nelle aule. I coloni li maledicono, li picchiano e umiliano i loro insegnanti. Immaginate che specie di sentimenti vi ribollano.

Nessuno riceve lezioni migliori sulle teorie dell’occupazione e dell’apartheid dei bambini di Lubban al-Sharqiyah, un villaggio di 4.000 persone situato a 15 chilometri a sud di Nablus. Non è difficile indovinare che tipo di sentimenti vi si stiano sviluppando e quali generazioni usciranno in futuro dalle due scuole elementari, una maschile e una femminile, di Lubban e di altri due villaggi. Gli edifici si trovano entrambi vicino all’autostrada 60, la strada più trafficata della Cisgiordania, utilizzata sia dai coloni che dai palestinesi, dove si sono verificati molti incidenti con lancio di pietre da parte di bambini palestinesi.

I bambini di questo villaggio hanno visto di tutto. Hanno visto soldati israeliani impedirgli con la forza di raggiungere la scuola e coloni che li maledicevano e li picchiavano. Hanno patito il soffocamento a causa dei gas lacrimogeni e sono stati colpiti da proiettili di metallo ricoperti di gomma sulla strada per la scuola e ritorno. Hanno visto i loro insegnanti umiliati – secondo le testimonianze, i soldati hanno costretto più volte di fronte ai loro alunni gli insegnanti a inginocchiarsi– e hanno visto soldati lanciare lacrimogeni nelle aule e nei cortili delle scuole.

A Lubban al-Sharqiyah, i genitori mandano a scuola i figli la mattina senza sapere in quale stato torneranno. In verità il capo del Consiglio locale, Yakub Iwassi, racconta che arriva all’ingresso del villaggio ogni mattina alle 6:30 per accompagnare i bambini a scuola e garantire loro sicurezza. Sebbene si siano verificati incidenti con lancio di pietre sull’autostrada, secondo il capo del Consiglio, sono un ricordo del passato. Non ci sono stati incidenti da più di due settimane, aggiunge Iwassi, e lui e il suo staff stanno facendo tutto il possibile per prevenirli. Recentemente gruppi di genitori si sono offerti volontari per filmare e documentare ciò che accade vicino alle scuole.

L’insegnante di religione della scuola femminile, Iman Daragme, è madre di Ziyad, 14 anni, che frequenta la scuola maschile. L’alunno frequenta la terza media ed è stato ferito ad un occhio durante l’ultimo giorno di disordini vicino alla scuola, il 17 novembre. Quella mattina, racconta Ziyad, è uscito come al solito ma quando è arrivato all’incrocio appena fuori dal villaggio, ha visto dozzine di coloni lungo la strada che porta alle scuole – pensa che fossero in 200 – e soldati dell’Esercito Israeliano in piedi accanto a loro. I coloni stavano protestando contro il lancio di pietre sull’autostrada e i soldati hanno impedito ai bambini di avanzare. Ma Ziyad dice che quel giorno non c’era stato alcun lancio di pietre.

Sua madre si occupa molto di lui. Al momento ha un braccio fasciato, ma non a causa degli eventi di quel giorno: domenica se l’è rotto cadendo dalla bicicletta.

Erano le 7:30 di quel mercoledì mattina, qualche settimana fa. La situazione iniziava a surriscaldarsi. I bambini si sono affrettati verso la scuola, i coloni hanno continuato la loro manifestazione e i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per disperdere i bambini e costringerli a tornare al villaggio. Per quanto lo riguarda Ziyad è sicuro che i coloni stiano rendendo impossibile la vita agli scolari come parte di un piano: “I coloni vogliono chiudere la scuola in modo da impadronirsene”, ci dice. “Hanno già occupato il vecchio mercato vicino al villaggio”.

Gli scontri sono continuati sulla strada per la scuola sino al tardo pomeriggio. La maggior parte degli abitanti del villaggio è arrivata all’incrocio, il posto sembrava un campo di battaglia. Secondo un membro del Consiglio del villaggio, Falastin Noubani, quel giorno 60 bambini hanno patito in qualche modo il gas lacrimogeno e non sono mai arrivati a scuola; 40 sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, quasi tutti in modo non grave. Ma un ragazzo, Ziyad Salame, 11 anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma. Inizialmente si è temuto per la sua vita, a causa di un ematoma cerebrale. Alla fine l’emorragia si è fermata e il pericolo è passato. E Ziyad Daragme, il figlio dell’insegnante, è stato colpito all’occhio da una scheggia o da qualcos’altro. È stato portato a Salfit all’ospedale governativo Yasser Arafat Martire, e da lì è stato inviato all’ospedale oftalmico Hugo Chavez a Turnus Aya, vicino a Ramallah, dove è stato curato.

L’Unità Portavoce dell’Esercito Israeliano in settimana ha emanato questa vaga risposta sulla situazione di Lubban al-Sharqiya: “Alla luce dei recenti eventi di scontri e disordini nelle vicinanze del villaggio, che ricade sotto la giurisdizione della Brigata territoriale Binyamin, alcune misure sono state prese dall’Esercito Israeliano in coordinamento con i rappresentanti del villaggio per arginare il problema. A seguito di queste misure, gli scontri nell’area sono notevolmente diminuiti”.

Le due scuole di Lubban sono vicine l’una all’altra ed entrambe si trovano proprio a ridosso della Strada Statale 60, a circa due chilometri dal centro del paese. Nel 2014 l’Amministrazione Civile, un ramo del governo militare in Cisgiordania, ha costruito una barriera lungo l’autostrada per proteggere gli scolari dalle auto in corsa, e per loro ha costruito anche un marciapiede. Ai palestinesi è proibito costruire qualsiasi cosa in quest’area: l’autostrada è nell’Area C, amministrata da Israele. Prima di queste migliorie, nel corso degli anni circa 20 bambini erano stati uccisi in incidenti stradali sulla strada per la scuola e ritorno.

Gli alunni iscritti alle due scuole sono 661: 421 nella scuola maschile e 240 nella femminile. La scuola maschile è stata costruita nel 1944, quella femminile nel 1971, molto prima di tutti gli insediamenti che stanno ora soffocando il paese da ogni lato; alcuni sono stati costruiti su terreni di proprietà del villaggio.

In una conversazione nel suo ufficio, Iwassi, capo del Consiglio, un uomo d’affari di 58 anni tornato nella sua casa in Cisgiordania dopo aver trascorso 15 anni a Tampa in Florida, ci racconta che negli ultimi mesi è stato minacciato dai soldati dell’Esercito Israeliano che brandivano fucili mentre accompagnava i bambini a scuola. Dice che è stato colpito due volte con proiettili rivestiti di gomma e aggiunge che due settimane fa i soldati hanno afferrato un ragazzo che stava andando a scuola e lo hanno arrestato. Quando Iwassi ha protestato, i soldati gli hanno detto che il ragazzo, Muayid Hussam, 11 anni, aveva lanciato pietre sull’autostrada tre giorni prima mentre andava a scuola. Hussam è stato preso in custodia e rilasciato quattro ore dopo. Iwassi ha indagato sulla vicenda e ha scoperto che il giovane sospettato quel giorno non era nemmeno andato a scuola.

Il capo del Consiglio ci dice che per salvaguardare i bambini ha messo un insegnante ogni 100 metri lungo il percorso che porta alle scuole. In alcuni casi, dice, i coloni si piazzano sul ciglio della strada e minacciano i ragazzi. Gli hanno riferito, per esempio, che un colono aveva gridato che le loro scuole sarebbero passate ai coloni, e addirittura diceva ai bambini che erano stati scelti nuovi nomi: “Brooklyn” per la scuola femminile, “Bnei Yisrael” per quella maschile.

Issawi conserva nel suo cellulare le informazioni che ha raccolto nell’ultimo anno. L’esercito ha fatto irruzione nelle scuole otto volte mentre si teneva lezione; le truppe hanno impedito agli alunni di raggiungere le scuole 76 volte. I droni sono stati avvistati nell’area cinque volte: non è chiaro se li abbiano lanciati l’esercito o i coloni, ma hanno disturbato e spaventato i bambini. Sono stati lanciati gas lacrimogeni nelle aule sette volte e ogni volta gli edifici hanno dovuto essere evacuati. Gli alunni sono stati picchiati 13 volte, ma non hanno riportato ferite. Tredici alunni sono stati fermati per qualche ora o per alcuni giorni. L’Esercito Israeliano ha chiuso i cancelli delle scuole 15 volte. I coloni hanno attaccato violentemente gli alunni sette volte. E ci sono stati circa 100 incidenti, dice Issawi, in cui soldati o coloni stavano minacciosamente vicino agli ingressi delle scuole.

“Con quale diritto i coloni armati vengono al cancello di una scuola?” chiede il capo del Consiglio. “Sai, se mi capitasse di camminare per strada armato, verrei arrestato immediatamente. In tutto il mondo i civili non possono andare in giro armati, solo la polizia e le forze di sicurezza. Allora perché i coloni possono farlo? A volte i coloni urinano davanti alle ragazze. Ho parlato con i soldati, ma non hanno fatto nulla. I coloni gridano ai bambini: ‘Questa è la nostra terra. Qui vivranno solo ebrei. Siete degli animali. Siete cani. Questa terra appartiene solo a noi. Morte agli arabi!’ “

“Questa non è vita”, continua. “I nostri figli non pensano ad imparare, ma solo a tornare a casa sani e salvi. Gli insegnanti hanno paura per gli alunni. Questa non è vita”. Noubani, membro del Consiglio, aggiunge: “I nostri figli hanno il diritto di camminare lungo il ciglio della strada per andare a scuola. Nessuno ci può dettare dove debbano camminare i nostri figli”.

Verso la scuola, da un’altra direzione, c’è anche un sentiero sterrato ma non raggiunge tutti gli abitanti del villaggio.

Iwassi: “Dobbiamo salvaguardare questo percorso, perché ci sono bambini che vengono dall’altra parte della strada. L’esercito può dirmi quali bambini stanno creando problemi e io mi occuperò di loro. Tutto ciò che vogliamo è che i nostri figli possano studiare in pace”.

Noubani racconta che negli ultimi anni gli attacchi da parte dei coloni sono stati continui, ma non erano mai arrivati alle scuole: “Che i coloni vadano lì è una novità. Vengono da tutta la zona, non solo dalle colonie vicine. Eravamo abituati al fatto che abbattessero i nostri alberi, ma gli attacchi ai nostri figli sono una novità”.

Iwassi è d’accordo, e osserva che anche se ci sono sempre stati attacchi da parte di soldati e coloni, non sono mai stati tanti quanti nell’anno passato. Perché pensa che la situazione sia peggiorata, gli chiediamo. “Perché questo governo è un governo di coloni. Questo è il problema. Quando il primo ministro è amico dei coloni, questo è il risultato. Questa è la direttiva. Il governo precedente era meno un governo dei coloni di questo”.

Nel corso degli anni, sono stati sottratti a Lubban circa 5.000 dunam (1.250 acri) di terra con la costruzione delle vicine colonie di Ma’aleh Levona, Eli, Shiloh e Givat Harel.

“Tagliano i nostri alberi e bruciano i campi”, dice Iwassi. “Ti alzi la mattina e tutti i tuoi ulivi sono stati abbattuti. Vogliono una scuola vuota e un villaggio vuoto e un paese senza palestinesi”.

L’ultimo giorno del Ramadan di quest’anno Ahmed Daragme, 34 anni, residente nel villaggio, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dai soldati all’incrocio di Tapuah mentre tornava a casa dopo aver acquistato dei dolci per la festa. I soldati pensavano che avesse in mano una pistola, ma non ce n’era traccia. Il suo amico Mohammed Noubani, 28 anni, che era con lui in macchina, è stato ferito gravemente e da allora è su una sedia a rotelle.

Abbiamo chiesto a Iman, insegnante di religione, qual è la cosa peggiore degli incidenti nelle scuole: “Le maledizioni che i nostri alunni si sentono lanciare dai coloni. E anche quando i soldati a volte stanno vicino alle finestre delle aule. Questo spaventa i bambini”.

Sul muro della scuola femminile c’è il disegno di un’insegnante con degli alunni. “Insegnaci l’aritmetica e non le botte”, dicono gli alunni all’insegnante con un gioco di parole in arabo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Paradossalmente è la destra israeliana a riconoscere la Nakba palestinese

Yehouda Shenhav-Shahrabani

13 dicembre 2021 – Haaretz

Alla fine qui sta succedendo che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. È tempo di ricordargliela”

Un interessante voltafaccia nel riconoscere la Nakba (“catastrofe”) è arrivato questa settimana da un giornalista di nome Itamar Fleischman, ex portavoce del primo ministro Naftali Bennett. Durante un programma televisivo su Canale 14 Fleischman ha detto quanto segue: “Alla fine quello che sta succedendo adesso è che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. Ed è giunto il momento di iniziare a ricordargliela, la Nakba”.

Anche se i termini sono invertiti (“Gli arabi hanno dimenticato… e bisognerebbe ricordarglielo”), non capita tutti i giorni che un ebreo sionista salti su e riconosca con tanta franchezza la tragedia palestinese.

Anche se la Nakba è il buco nero nella costituzione dello Stato di Israele, e sebbene il riconoscimento della Nakba sia una condizione per la convivenza, lo Stato sovrano di Israele la nega ancora risolutamente. Con la macchina della memoria nazionale e con i suoi rappresentanti culturali, la discussione sulla Nakba resta sotto chiave: ogni tentativo di tornarci è bloccato da una barriera di tabù, e le “strategie di accesso” a una discussione critica sulla Nakba sono interdette.

I libri di testo del sistema scolastico non comprendono il riconoscimento della Nakba e offrono una prospettiva storica superficiale, che ha istruito generazioni di studenti israeliani ad una sistematica ignoranza. La storia della Nakba è anche confusa dalla percezione del governo e del pensiero politico rappresentato dal modello di “Stato ebraico e democratico” che comporta spiegazioni tortuose (“Hanno iniziato gli arabi”, “Non accettarono il Piano di Partizione [della Palestina, elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947; assegnava il 56% della Palestina ad Israele, ndtr.]”, “Non hanno perso occasione”, “I loro capi gli ordinarono di fuggire”).

Il motivo di questa radicale negazione è che rappresenta lo scheletro nell’armadio di Israele, scheletro che minaccia di diventare pubblico e di sconvolgerne l’immagine virtuosa e corretta. La negazione della Nakba è il pilastro del governo israeliano, e gli scheletri che tiene nell’armadio sono la pulizia etnica del 1948, i massacri, la distruzione di villaggi e città e il furto di terre e proprietà palestinesi.

La stessa parola, Nakba, come descrizione della tragedia palestinese era quasi sconosciuta agli israeliani fino al 2011 quando, grazie a una legge insensata soprannominata Legge sulla Nakba, in quasi tutte le case israeliane è comparsa a descrivere la tragedia palestinese. Sino ad allora l’uso specifico della parola “Nakba” alimentava la negazione e assumeva un senso diverso, ad esempio in maniera volgare nell’orrendo (e antisemita) opuscolo titolato Nakba Harta (Cazzate Nakba) distribuito da Im Tirtzu [“Se lo vuoi”, organizzazione sionista non governativa con lo scopo di delegittimare le associazioni israeliane di sinistra e per i diritti umani, ndtr.].

Bisogna ammettere che negli ultimi due decenni il muro della negazione è stato scalfito, grazie soprattutto alle correnti di revisione della storiografia del 1948, a nuove scoperte d’archivio (anche in arabo) che descrivono la pulizia etnica della Palestina e al lavoro di organizzazioni commemorative, la più importante delle quali è Zochrot [organizzazione non profit israeliana fondata nel 2002 a Tel Aviv, con lo scopo di promuovere la conoscenza della Nakba palestinese, ndtr.]

Da queste rivelazioni abbiamo appreso che, anche se accettiamo la dubbia affermazione che in ogni guerra è probabile che ci siano delle espulsioni, in questo caso si tratta di qualcosa di più di un semplice sottoprodotto della guerra perché, anche alla conclusione della guerra, lo Stato sovrano di Israele ha impedito il ritorno dei profughi alle loro case, confiscato le loro terre e saccheggiato le loro proprietà. Ecco perché il concetto di “pulizia etnica” non si riferisce solo alla guerra del 1948, ma anche al divieto di ritorno dei profughi dopo l’instaurazione della sovranità ebraica e alla cancellazione della storia palestinese. Questa è anche una delle ragioni dell’affermazione che la Nakba non è mai finita, e nel discorso palestinese è definita “una Nakba continua”.

Le parole di Fleischman ci portano un passo avanti nel riconoscimento della Nakba, e non sorprende che la dichiarazione provenga dai ranghi dell’estrema destra. Una delle fantastiche anomalie nel discorso pubblico israeliano è che la destra ha sempre preceduto la sinistra sul problema del riconoscimento della Nakba, anche se a scopo di sfida e provocazione.

Circa 10 anni fa, quando Itamar Ben-Gvir [avvocato e leader del partito di estrema destra antiarabo Otzma Yehudit, Potere Israeliano, ndtr.] venne a manifestare davanti all’Università di Tel Aviv sostenendo che sorge sulle rovine del villaggio palestinese Sheikh Munis, studenti e docenti di sinistra uscirono per allontanare i manifestanti. Rimettere in discussione la questione del 1948 mina l’idea di due Stati per due popoli, che si basa su una soluzione del conflitto che non riconosce la Nakba, come se il conflitto fosse iniziato nel 1967.

Ma torniamo a Fleischman. Proseguendo nel discorso, non si è preoccupato di raccontarci la memoria della Nakba o la sua storia. Invece, ci ha presentato il suo progetto per il futuro.

“Se non tornano presto in sé e se continuano a cercare di uccidere i nostri bambini, la loro prossima tappa è trasferirsi in Giordania o nel campo di Al Yarmouk in Siria. Questo accadrà se le cose continueranno in questo modo. La grande tragedia degli arabi è… che semplicemente li caricheremo sui camion, li scaricheremo oltre il confine, ed è così che andrà a finire”.

Fleischman traccia una linea diretta tra passato e futuro con la minaccia di espulsione, legittimando la prossima espulsione. La minaccia di una seconda Nakba è il prezzo da pagare per il riconoscimento della prima Nakba. Questa minaccia di Nakba non ha data di scadenza. Continuerà ad accompagnare i palestinesi come una Spada di Damocle finché vivranno e respireranno. L’unica data di scadenza collegata alla minaccia è la catastrofe. Il riconoscimento della Nakba da parte di Israele è la sola opportunità di dare vita a una discussione che impedisca una seconda Nakba.

L’autore è professore di sociologia all’Università di Tel Aviv e caporedattore di Maktoob, collana di libri di prosa e poesia in arabo ed ebraico presso il Van Leer Institute di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli ordini di demolizione per i palestinesi nell’Area C della Cisgiordania raggiungono il livello più alto in cinque anni

Hagar Shezaf

7 dicembre 2021, Haaretz

Secondo l’Amministrazione Civile, lo scorso anno Israele ha emanato 797 ordini di demolizione, mentre delle licenze edilizie richieste dai palestinesi in Area C nemmeno l’1% è stato autorizzato fra il 2016 e il 2020

L’Amministrazione Civile ha emesso lo scorso anno 797 ordini di demolizione per strutture di proprietà palestinese nell’area C [sotto il pieno controllo israeliano, ndtr] della Cisgiordania, segnando un record in cinque anni, ha rivelato l’associazione per i diritti Bimkom – Planners for Planning Rights in base alla documentazione ottenuta ai termini della legge sulla Libertà di Informazione.

Le associazioni per i diritti umani attribuiscono l’aumento degli ordini di demolizione a una crescente pressione politica per aumentare l’applicazione delle procedure esecutive sulle costruzioni palestinesi in Cisgiordania.
Secondo i dati, tra il 2016 e il 2020, i palestinesi hanno presentato 2.550 richieste di permessi di costruzione, ma solo 24 di loro sono state concesse, un misero 0,9 per cento. Dal 2019-2020 il tasso di richieste approvate è stato ancora più basso, dello 0,65%.

Allo stesso tempo, tra il 2016 e il 2020, sono stati rilasciati permessi di costruzione per 8.356 unità abitative di coloni in Cisgiordania, 384 volte il numero di permessi concessi ai palestinesi nell’Area C, la parte della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano.

Il mese scorso l’Amministrazione Civile ha approvato provvedimenti per la costruzione di 1.303 case in villaggi palestinesi dell’Area C.
Solo un progetto, per 170 case a Barta’a, è stato approvato in via definitiva, mentre per gli altri è probabile che ci vogliano anni prima che vengano autorizzati.

L’architetto Alon Cohen-Lifshitz di Bimkom ha detto ad Haaretz che alcuni dei piani attualmente in fase di elaborazione sono obsoleti o non soddisfano le esigenze attuali dei residenti palestinesi, perché ormai è passato quasi un decennio da quando sono stati originariamente sottoposti all’Amministrazione Civile. “Il quadro fosco che emerge dalle nostre informazioni è quello di gravi discriminazioni”, ha detto.

I dati mostrano anche che fra il 2018 e il 2020 c’è stato un aumento costante del numero di permessi richiesti dai palestinesi prima della costruzione. Mentre la stragrande maggioranza delle richieste viene presentata dai palestinesi solo dopo la costruzione, i dati dell’Amministrazione Civile indicano una chiara tendenza all’aumento delle richieste presentate in anticipo.

Nel 2018 – il primo anno su cui l’Amministrazione Civile ha cominciato a fornire questo tipo di dati – solo 57 richieste sono state presentate dai palestinesi prima dell’inizio della costruzione. Nel 2020 questa cifra si era raddoppiata, con 104 richieste.

Lo scorso ottobre il Ministero delle colonie ha trasferito 20 milioni di shekel a 14 autorità coloniali per acquistare droni e personale di pattuglia per aiutare quelle giunte a monitorare le costruzioni illegali palestinesi.

Le varie autorità hanno ricevuto fino a 4 milioni di dollari e hanno indetto gare d’appalto. Gli agenti non avranno l’autorità per far rispettare alcuna norma – questo è di competenza dell’Amministrazione Civile – ma la logica sottesa è che aiuteranno a localizzare le costruzioni illegali per poi lasciare le procedure esecutive (all’Amministrazione Civile).

Inoltre, nel corso del 2020, l’Amministrazione Civile ha istituito una linea diretta per i coloni per la segnalazione di costruzioni illegali nell’Area C. Nel corso degli anni, diverse organizzazioni e membri della Knesset (Parlamento israeliano), tra cui il presidente del Partito Sionista Religioso Bezalel Smotrich, hanno promosso una campagna chiamata “lotta per l’area C”, che vuole contrastare l’edilizia palestinese. La Knesset ha discusso di tali questioni e i vari provvedimenti sopra elencati sono stati presi per aumentare gli interventi esecutivi.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Il medico di Gaza alla ricerca di giustizia per le sue figlie massacrate non la troverà in Israele

Gideon Levy

28 novembre 2021 – HAARETZ

Anche il dottor Izzeldin Abuelaish ha provato a muoversi nel solco della giustizia. Per 13 anni, dal massacro delle figlie nella Striscia di Gaza, ha girato il mondo parlando di speranza, pace, perdono e convivenza. L’ho visto al Parlamento Europeo e a Tel Aviv. Ha detto di non essere arrabbiato. Durante i suoi interventi era quasi imperturbabile. Era difficile credergli. Un uomo, tre delle cui figlie sono state uccise dall’esercito israeliano, che parla di errore e perdono. Ora è arrivato il momento della rabbia. Anche la Corte Suprema gli ha dato vergognosamente il benservito. Forse ora si renderà conto che la strada che ha scelto non lo porterà da nessuna parte.

Izzeldin, lei non è il primo palestinese che ha tentato la strada della giustizia, arrivando alla disperazione in ogni caso. Marwan Barghouti, ad esempio, ha provato la via della speranza e del dialogo prima di dedicarsi alla resistenza violenta. È finita male per tutti. Quindi si fermi, dottor Abuelaish. Lasci perdere. La smetta di parlare di speranza, giustizia e pace. Non c’è nessuno con cui parlarne. Non c’è nessun interlocutore.

Israele non capisce quella lingua, che è estranea allo Stato. Israele conosce solo una lingua diversa, una lingua alla quale lei deve ricorrere se vuole raggiungere anche una piccola parte dei suoi obiettivi: una [pur] ritardata giustizia per le sue figlie morte; un’ammissione dell’ingiustizia; una riparazione e la prevenzione di tali atti in futuro.

Il caso del medico non sarebbe mai dovuto arrivare in tribunale. Il giorno dopo che le sue figlie sono state uccise, Israele avrebbe dovuto contattare il dottor Abuelaish, che all’epoca faceva parte del personale dello Sheba Medical Center, a Tel Hashomer, nella periferia di Tel Aviv. Il governo israeliano avrebbe dovuto chiedergli perdono e offrirgli la sua assistenza, senza il coinvolgimento di nessun tribunale.

Forse i soldati che hanno ucciso le sue figlie non avevano intenzione di farlo, ma di certo non sono stati abbastanza attenti a non ucciderle. E ‘necessario che qualcuno sia punito e paghi per tale negligenza criminale.

Un precedente? Proprio così. Questo è esattamente lo scopo. Quando Israele comincerà a pagare per i crimini e la negligenza dei suoi soldati, l’esercito comincerà a prendersi maggiormente cura della vita umana. In un raro caso Israele ha dimostrato generosità e umanità. È stato lo straordinario caso di una ragazza di nome Maria Aman, rimasta paralizzata dalla testa ai piedi a causa di un missile israeliano che nel 2006 a Gaza uccise metà della sua famiglia, e non è crollato il mondo. Vive tra noi con tutti i servizi di riabilitazione che le spettano. Non è un precedente e non è pericoloso. È semplicemente un comportamento umano.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se Hamas avesse ucciso tre sorelle ebree. La ripugnante organizzazione ultranazionalista di assistenza legale Shurat Hadin l’avrebbe citata in giudizio, urlando al terrorismo, in metà dei paesi del mondo, e avrebbe vinto.

Abuelaish credeva nel sistema legale israeliano. Il capo della giuria della Corte Suprema che ha ascoltato il suo caso, il giudice Isaac Amit, si è profuso in maniera repellente in manifestazioni sdolcinate di rammarico e gentilezza – “I nostri cuori sono con il ricorrente” – prima di ordinare al medico in lutto di sparire dalla sua vista.

Questa è la corte del cui futuro si preoccupano tanto i progressisti, il faro del quale dovremmo seguire la luce. Ci è stato detto che il tentativo da parte di qualcuno di danneggiarlo provocherebbe alla democrazia israeliana un disastro esistenziale. In effetti, non sarebbe un grande disastro. Nessun danno sarebbe provocato se non alla falsa reputazione di giustizia di Israele.

Ora, caro dottor Abuelaish, prenda una strada diversa. Se non la ascoltano a Gerusalemme, vada all’Aia. È vero che secondo il protocollo anche lì le sue prospettive sono scarse. La Corte penale internazionale non si occupa di singoli casi di negligenza e non ha giurisdizione in merito a tutto ciò che è accaduto qui prima del 2014.

Ma può presentare all’Aia una denuncia contro il sistema giudiziario israeliano per l’immunità automatica che garantisce per tutti i crimini di guerra commessi dallo Stato. Che la ascoltino o meno, questa ingiustizia deve avere un’eco mondiale. E poi, dottor Abuelaish, adotti un altro sistema, uno che potrebbe un giorno privare Israele di un po’ delle armi distruttive che hanno ucciso le sue figlie.

Invece di parlare di convivenza, parli di boicottaggi. Invece che di pace, parli di sanzioni. Si unisca al movimento BDS. Soltanto queste misure potrebbero portare al cambiamento per il quale sta combattendo. Questo è ciò che le ha insegnato la Corte Suprema di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele deve smettere di utilizzare città arabe come terreno di addestramento delle IDF

Israele deve smettere di utilizzare città arabe come terreno di addestramento delle IDF

Zehava Galon

15 novembre 2021 – Haaretz

 

La scorsa settimana il comando Nord delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] ha condotto un’esercitazione utilizzando mezzi blindati nel Wadi Ara [regione di Israele abitata in prevalenza da arabo-israeliani, ndtr.] e nella città di Umm al-Fahm. La giustificazione ufficiale – perché non è esattamente di questo che si è trattato – dell’esercito è stata che lì i vicoli “ricordano il sud del Libano”.

L’esercitazione è avvenuta sei mesi dopo le ostilità contro Gaza e gli sporadici incidenti all’interno di Israele, e persino gli ufficiali delle IDF dovrebbero comprendere ciò che queste manovre rappresentano per gli abitanti di Umm al-Fahm: “Vi possiamo occupare in qualunque momento.” Il presidente della commissione di controllo di Umm al-Fahm, Ali Adnan, in seguito ha affermato alla radio pubblica Kan Bet che Israele sta trasformando i suoi abitanti arabi in nemici, come in Libano.

Se l’esercito voleva fare un’esercitazione in una città che assomigli al sud del Libano ha spazio e anche finanziamenti sufficienti per costruire un quartiere che sembri Marjayoun [cittadina del sud del Libano, ndtr.]. Le IDF non avrebbero progettato e realizzato manovre militari del genere a Safed [città quasi esclusivamente ebraica, ndtr.]. Non avrebbero terrorizzato gli abitanti ebrei in questo modo. Dopo gli avvenimenti di maggio, l’esercito israeliano ha sostenuto che gli autisti di autobus arabi non si sono fatti vedere per le sue esercitazioni. Circa una settimana dopo è risultato che lo stesso esercito aveva rifiutato di coinvolgerli.

Ed è proprio questo il punto. L’esercito si stava addestrando a Umm al-Fahm esattamente come fa regolarmente nelle comunità della Cisgiordania. Gli abitanti sono al massimo comparse. E, se viene sparato un proiettile o un colpo di mortaio vagante, ovviamente si tratterebbe di sfortuna, ma non sarebbe molto importante e in Israele non provocherebbe nessun commento negativo.

Il principale risultato, mai raggiunto in precedenza nella storia di Israele, di questo governo è la collaborazione con la Lista Araba Unita [gruppo politico islamista che fa parte dell’attuale coalizione di governo israeliana, ndtr.]. Ma com’è che anche questo governo continua a trattare come nemici i cittadini arabi di Israele, con la loro pluridecennale esperienza di discriminazione istituzionalizzata e l’altrettanto istituzionale incitamento all’odio?

È per questo che la delinquenza nella società araba viene definita “terrorismo” ed è così che la scorsa settimana è emersa un’altra notizia scioccante: il servizio di sicurezza interna [israeliano] Shin Bet ha estorto delle confessioni a tre abitanti di Giaffa riguardo alla loro presunta aggressione contro un soldato. Se l’avvocato dei sospettati non avesse trovato un video del luogo del delitto e non lo avesse usato per dimostrare che i tre sono arrivati dopo l’incidente, è praticamente certo che sarebbero stati condannati.

Questa è la situazione quando sei un cittadino arabo nello Stato ebraico: sei sempre colpevole. Gli arabi possono essere sottoposti a detenzione amministrativa [cioè senza prove né accuse, ndtr.] e le loro case possono essere perquisite senza un mandato, due procedure che lo Shin Bet e le IDF utilizzano quotidianamente in Cisgiordania.

E qui è il caso di menzionare una cosa che gli ebrei preferiscono dimenticare, ma che è per sempre impressa nella memoria degli arabi di Israele: questi metodi non sono stati inventati in Cisgiordania. Vennero utilizzati per la prima volta contro i cittadini arabi di Israele durante il periodo dello stato d’assedio, finché esso non finì nel 1966.

In pratica ci viene chiesto di scegliere tra due sistemi di governo. Uno, un regime basato sull’etnia, un regime di superiorità ebraica, l’altro, la cittadinanza: “Ci sarà una stessa legge e uno stesso rito per voi e per lo straniero che soggiorna presso di voi” (Numeri, 15:16). Quelli che protestano contro la definizione di Israele come Stato di apartheid dovrebbero opporsi fermamente contro l’idea perversa di due sistemi giuridici separati, all’interno dell’Israele propriamente detto: uno per gli ebrei e uno per gli altri israeliani. Ma sorprendentemente quelli che protestano sono esattamente gli stessi che stanno insistendo perché vengano ripristinati i metodi del governo militare.

I diritti umani non possono essere separati: se non ci sono diritti per gli arabi di Israele, i diritti degli ebrei verranno minacciati. I nuovi strumenti saranno troppo allettanti per la polizia e le altre forze di sicurezza. Meglio fermarsi qui prima che sia troppo tardi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

La scorsa settimana le proteste durante il discorso a Londra dell’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, sono state immediatamente definite antisemite e persino paragonate alla Notte dei Cristalli. Ma molti ebrei britannici hanno duramente criticato il razzismo di Hotovely e anche il suo sostegno all’occupazione.

Tommer Spence

15 novembre 2021 – Haaretz

 

Le proteste della scorsa settimana contro l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, durante il suo discorso alla London School of Economics (LSE), hanno innescato un’ondata di condanne nella politica britannica, con importanti esponenti conservatori e laburisti che le hanno etichettate come antisemitismo e un attacco alla libertà di parola.

In alcuni casi le istituzioni ebraiche britanniche sono andate oltre, e il Jewish Chronicle ha paragonato l’incidente alla Notte dei Cristalli, quando migliaia di ebrei furono mandati nei campi di concentramento dai paramilitari nazisti, le loro proprietà distrutte e le sinagoghe profanate.

In qualità di rappresentante eletto degli studenti ebrei nel Board of Deputies [la seconda maggiore organizzazione ebraica del Regno Unito, dopo la Initiation Society fondata nel 1745, ndtr.], il principale organo rappresentativo della comunità ebraica britannica, considero molto seriamente l’antisemitismo nei campus, anche perché è qualcosa che ho vissuto in prima persona.

L’antisemitismo è profondamente radicato nella società britannica, quindi non c’è dubbio che si annidi nelle università, e che i luoghi comuni sugli ebrei possano – inconsciamente o meno – influenzare il modo in cui le persone percepiscono e criticano lo Stato ebraico.

Ma se vogliamo sradicare l’antisemitismo da ogni tipo di discorso e di militanza relativi a Israele, allora dobbiamo essere molto chiari su cosa lo sia e cosa no.

Non si discute su eventuali minacce di violenza o intimidazioni rivolte a Hotovely: sono chiaramente inaccettabili.

Ma sono inaccettabili come atti individuali, riferibili solo a sé stessi. Suggerire che da soli rappresentino atti di antisemitismo semplicemente perché l’ambasciatrice è una funzionaria del governo israeliano è tanto inconsistente quanto dannoso, dato che uno dei messaggi fondamentali dell’educazione contro l’antisemitismo è che gli ebrei e lo Stato di Israele sono distinti e non intercambiabili.

Non ci sono testimonianze di canti antisemiti intonati durante la protesta quando Hotovely se n’è andata, e ha potuto parlare senza essere interrotta. L’idea che quanto accaduto sia paragonabile alla Notte dei Cristalli solo perché l’incidente è avvenuto nello stesso giorno è così grossolana che rasenta il revisionismo sull’Olocausto.

La realtà è che affermare che i manifestanti contro Hotovely potessero essere mossi solo da odio contro gli ebrei serve solo – inconsapevolmente o meno – a occultare il suo razzismo passato ed attuale. Implica che non vi sia alcuna ragione legittima che possa provocare espressioni di critica quando in realtà è vero il contrario.

Il curriculum di Hotovely in politica include l’invito alla Knesset [il parlamento israeliano] di un gruppo razzista e violento contrario ai matrimoni misti, e l’affermazione che fosse “importante prevedere delle procedure per prevenire i matrimoni misti”.

È sostenitrice dichiarata della soluzione discriminatoria di un unico Stato, avendo espresso esplicitamente la propria visione di come la Cisgiordania potrebbe essere portata sotto il permanente controllo israeliano senza dare la cittadinanza ai palestinesi che vi vivono. Da quando è diventata ambasciatrice ha chiarito che questo continua ad essere il suo punto di vista e ha continuato a fare commenti razzisti, descrivendo la Nakba come una “bugia araba” in uno dei suoi primi eventi pubblici lo scorso anno.

I politici e i commentatori che si sono precipitati ad accusare i manifestanti di antisemitismo pensavano senza dubbio di parlare in nome di, oppure a, una comunità concorde su questo punto. L’ironia è che, mentre si è registrata una condanna  unanime delle minacce di violenza contro Hotovely alla LSE, gli ebrei britannici non sono mai stati più divisi su Israele – in gran parte proprio grazie a Hotovely.

Dopo anni di latente scontento per l’occupazione, la nomina ad ambasciatrice di una nazionalista dichiarata ha provocato un’ondata di frustrazione nei confronti del governo israeliano. Quasi 2000 ebrei britannici hanno firmato una petizione chiedendo che la nomina di Hotovely fosse respinta ed è stata apertamente criticata da figure pubbliche di alto livello, tra cui il rabbino capo del Reform Movement [movimento religioso che vuole adattare l’ebraismo alle mutate condizioni del mondo moderno, ndtr.], la seconda comunità del Regno Unito.

Da quando è arrivata a Londra un anno fa, alcune istituzioni pubbliche hanno cercato di ignorare la frattura, ospitandola in numerose occasioni e rifiutandosi di contestare anche i suoi commenti più incendiari. Eppure all’interno della comunità ebraica ha continuato a crescere l’opposizione nei suoi confronti.

Dopo che la fazione progressista Liberal Judaism [seconda in Gran Bretagna dopo Reform Movement nella World Union for Progressive Judaism, ndtr.]  l’ha ospitata per un evento questa primavera, decine di membri di base sono intervenuti e uno dei membri del consiglio di amministrazione del movimento – il presidente del gruppo di azione antirazzista – si è dimesso per protesta. L’amministratore delegato di Liberal Judaism, il rabbino Charley Baginsky, ha in seguito espresso rammarico per come l’evento fosse stato strutturato in modo acritico e per come ai membri della comunità non fosse stata data l’opportunità di obiettare prima che esso fosse annunciato pubblicamente.

Il movimento giovanile sionista Noam, parte della corrente conservatrice di Masorti [movimento di ebrei tradizionali, non strettamente osservanti in Israele, che si identificano principalmente con l’ebraismo ortodosso, ndtr.], ha apertamente boicottato Liberal Judaism in merito ad un evento con Hotovely, un fatto senza precedenti nelle comunità ebraiche di tutto il mondo. La sua prima apparizione di persona nella comunità ebraica, meno di un mese fa, è stata accolta dall’uscita di attivisti ebrei.

Senza dubbio qualcuno – non ultima l’ambasciata israeliana – spera che gli eventi alla LSE della scorsa settimana mettano fine a questo malcontento all’interno della comunità ebraica, che la scena di Hotovely oggetto di feroci proteste evochi un senso di solidarietà che porti al fatto che futuri disaccordi vengano espressi a porte chiuse, come lo furono con i predecessori di Hotovely. Ma i fatti suggeriscono il contrario.

Le violenze di maggio in Israele-Palestina hanno mosso le proteste guidate da ebrei del Regno Unito più vaste mai avvenute a sostegno dei palestinesi, una tendenza che è molto probabile aumenti mentre continua l’occupazione. Le opinioni impudenti ed estremiste di Hotovely non faranno altro che esacerbare questa tendenza, e finché rimarrà in carica molti ebrei britannici con orgoglio la contesteranno sulla base dei loro principii.

Tommer Spence è uno dei fondatori di Na’amod [movimento di ebrei britannici contro l’occupazione, ndtr.], e rappresentante degli studenti ebrei nel Board of Deputies degli ebrei britannici.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

Edilizia sprecona, un doppio sistema stradale, viaggi rallentati dai posti di blocco e asfalto al posto di spazi aperti: la politica di Israele in Cisgiordania e a Gaza ha un costo ecologico.

Amira Hass

7 novembre 2021 – Haaretz

 

L’inquinatore numero 1 nei territori palestinesi occupati è il controllo che Israele esercita sulla terra e l’impresa di colonizzazione. Non è una citazione letterale, ma questo è lo spirito di ciò che ha detto la scorsa settimana il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh al summit sull’ambiente COP26.

La sua presenza è stata a stento menzionata sui media internazionali, per non parlare di quelli israeliani, a ulteriore dimostrazione di quanto marginale sia diventata la questione palestinese nell’agenda globale. Ma ciò non sminuisce affatto il danno all’ambiente.

Tutti gli studi e gli articoli relativi alle condizioni ambientali nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania rilevano un rapporto con la politica israeliana. Questi comprendono un dettagliato documento dell’ONU del 2020, rapporti dell’associazione giuridica palestinese Al-Haq nel corso di vari anni ed un articolo pubblicato dal gruppo di esperti palestinesi Al-Shabaka nel 2019 (“Climate change, the Occupation and a vulnerable Palestine” – “Cambiamenti climatici, occupazione e la vulnerabilità della Palestina”).

È tuttavia difficile quantificare l’impatto totale sul riscaldamento del clima delle azioni del governo e dei civili israeliani nei territori conquistati nel 1967.

La relazione della ragioneria dello Stato sulla mancata limitazione da parte di Israele delle emissioni di gas che causano l’effetto serra non menziona nemmeno i territori (occupati). E neppure analizza la spaventosa previsione dell’ONU, risalente al 2012, secondo cui la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile entro il 2020 se Israele non avesse profondamente modificato la sua politica verso l’enclave. Sono passati quasi due anni dalla “scadenza” posta dall’ONU e nulla di sostanziale è cambiato. L’ONU deve aver sottovalutato l’enorme capacità di resilienza degli abitanti di Gaza.

Tuttavia un’affermazione chiave presente nel report della Ragioneria getta luce sulla rimozione israeliana riguardo all’impatto dell’occupazione sull’inquinamento locale e globale. Così si legge: “In una situazione di conflitto o di potenziale conflitto tra i principali obiettivi dei ministeri del governo e l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas causa dell’effetto serra, i ministeri danno priorità alla promozione degli obiettivi centrali dei loro compiti ministeriali rispetto alla riduzione delle emissioni – fatta eccezione per il Ministero della Protezione Ambientale…”

Come rispecchiato nella politica dichiarata e messa in atto, gli obiettivi dei governi israeliani – compreso quello attuale – consistono nell’espandere le colonie, spingere sempre più israeliani ed ebrei della diaspora a stabilirsi in Cisgiordania, garantire il totale controllo su circa il 60% della Cisgiordania (“Area C”), perpetuare la separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, mantenere separate le popolazioni palestinese ed ebraica e abituare il mondo, come “soluzione”, alla realtà di enclave palestinesi separate e scollegate tra loro.

Un conseguente scopo non dichiarato è l’indebolimento sistematico dell’economia palestinese. Tutti questi obiettivi hanno un costo, nella forma di un danno ambientale sui generis. Eccone alcuni esempi.

Asfalto fin dove arriva lo sguardo

Parte del danno che l’occupazione sta provocando all’ecosistema si concentra nella superflua e ideologicamente motivata edificazione e costruzione di strade a spese degli spazi aperti e verdi palestinesi.

L’edificazione per gli ebrei nelle colonie si sta molto espandendo, sia per migliorare l’attrattività che per impadronirsi di quanta più terra palestinese possibile.

Nell’ottica di mantenere separate le due comunità, dei palestinesi e dei coloni, e di consolidare l’annessione de facto, Israele sta creando un sistema di doppie strade. Il principale criterio per pianificare nuove strade è soddisfare la domanda dei coloni presenti e futuri, il che significa accrescere il loro numero e accorciare i tempi di spostamento tra le colonie e Israele. I veicoli palestinesi sono indotti o costretti a viaggiare su strade secondarie, parallele e circonvallazioni. Ai palestinesi è vietato percorrere la maggior parte delle strade che collegano le colonie tra loro e con Israele, o devono percorrere strade che non li portano da nessuna parte.

Inoltre migliaia di metri quadri in Cisgiordania sono asfaltati e non rispondono ad alcuno scopo civile: “strade di sicurezza” intorno alle colonie, a spese dei terreni da pascolo e da coltivazione palestinesi, e strade asfaltate lungo la tortuosa barriera di separazione, ad uso esclusivo dei veicoli militari.

Per di più gli alberi vengono sradicati, i terreni agricoli distrutti e l’accesso ai terreni coltivati sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza è interdetto con l’apparente motivazione della sicurezza, a causa della violenza dei coloni e allo scopo di espandere le colonie e le loro infrastrutture.

Aumento delle emissioni

Inoltre le restrizioni alla mobilità e diversi divieti relativi allo sviluppo sono fattori che concorrono all’incremento delle emissioni di gas serra. Le distanze e i tempi di percorrenza tra le enclave e le sotto-enclave palestinesi – cioè dai villaggi vicini alla loro città capoluogo – aumentano a causa dei posti di blocco fissi e mobili e delle zone a cui i palestinesi è vietato l’accesso, come le colonie e i blocchi di colonie. Tempi di percorrenza più lunghi significano più consumo di carburante e maggiori emissioni.

Non solo vi è stato un generale aumento di automobili sulle strade: ingorghi di traffico sono provocati dai posti di blocco lungo le strade e agli ingressi delle città. I veicoli che vanno a passo di lumaca negli ingorghi inquinano di più di una guida continua a velocità normale. Uno studio del 2018 dell’istituto palestinese di ricerca applicata Arij ha riscontrato che in Cisgiordania ogni anno vengono sprecati 80 milioni di litri di carburante a causa degli intasamenti ai posti di blocco, delle zone chiuse alle auto palestinesi e della necessità di fare delle deviazioni. Lo studio ha stimato che questo provoca ogni anno 196.000 tonnellate in più di emissioni di CO2.

Lo studio ha anche calcolato che vengono perse 60 milioni di ore di lavoro all’anno, con un costo di 270 milioni di dollari.

Israele controlla tutte le risorse idriche del Paese, ma non considera la Striscia di Gaza come parte geografica naturale di esso, che significherebbe godere di una quota delle risorse idriche, come per esempio avviene per le comunità ebraiche nel deserto. Perciò la Striscia di Gaza deve arrangiarsi con una parte delle falde acquifere costiere all’interno dei suoi confini artificiali, che non forniscono acqua sufficiente per una popolazione di due milioni di persone. Dopo essere state sfruttate eccessivamente per 30 anni, le falde sono state inquinate da infiltrazioni saline e di acque reflue. Circa il 96% della sua acqua è considerato non potabile e deve essere depurato in impianti specifici. Tale depurazione consuma un’enorme quantità di carburante al giorno, poi l’acqua depurata viene trasportata [con autobotti ndtr.] nelle case, producendo ulteriori emissioni.

Collegare Gaza alla rete idrica nazionale israeliano (che utilizza grandi quantità delle risorse della Cisgiordania) sarebbe stato meglio sia per i palestinesi che per il clima del pianeta.

In Cisgiordania Israele raziona la quantità di acqua che i palestinesi possono estrarre e usare. A causa delle scarse quantità il flusso nelle tubazioni è debole e l’acqua non riesce a raggiungere molti quartieri e villaggi palestinesi situati ad altezze relativamente elevate. Tuttavia ancora una volta la soluzione è ad alto dispendio di carburante: trasferire l’acqua in autobotti che la fanno confluire in cisterne sui tetti e in pozzi.

Inoltre Israele rifiuta di consentire a decine di villaggi e di comunità di pastori, soprattutto nella Valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron, di collegarsi al sistema idrico. Queste comunità palestinesi impoverite devono dipendere dall’acqua trasportata da autobotti e trattori, per la quale pagano cinque volte tanto se non di più, e questo senza contare il danno recato all’ecologia.

Tendenze neoliberiste

Il controllo di Israele limita le possibilità energetiche e di sviluppo dei palestinesi in enclave isolate senza contiguità territoriale.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha incoraggiato, e continua a farlo, tendenze neoliberiste che danneggiano l’ambiente, come l’aumento dei consumi, compreso quello delle automobili. Ma la sua situazione di inferiorità e di soggiogamento rende difficile prevedere e pianificare a lungo termine,

anche attraverso aspetti che accolgano comportamenti economici di responsabilità ambientale.

Ridurre le emissioni richiede lo sviluppo del trasporto pubblico a prescindere da considerazioni di profitto. Ma, anche se l’Autorità Nazionale Palestinese non era in bancarotta, un progetto come un sistema ferroviario tra le città palestinesi è stato reso impossibile a causa della frammentazione del territorio in sacche isolate, senza nessuna autorità sulla terra circostante. Il miglioramento delle opzioni esistenti di trasporto pubblico, come autobus e minibus, richiede di finanziare le imprese private e comunali e di aumentare il salario dei conducenti, considerando i costi aggiuntivi dovuti alle attese ai posti di blocco e al dover effettuare deviazioni più lunghe; sono necessarie anche nuove linee di autobus, in grado di viaggiare per più ore.

La soluzione di ridurre i perenni ingorghi di traffico aggiungendo delle uscite dalle città (e costruendo corsie per il trasporto pubblico in ogni distretto) è difficile se non impossibile.       Ciò è dovuto alle colonie e ai loro piani di espansione, alle norme di pianificazione discriminatorie dell’Amministrazione Civile (israeliana) e alla richiesta dell’apparato di sicurezza che il numero di punti di ingresso e di uscita dalle città palestinesi sia il più limitato possibile.

Il controllo israeliano sulla terra, le risorse idriche e la pianificazione in più del 60% della Cisgiordania non consente all’ANP di razionalizzare la distribuzione dell’acqua: cioè di distribuire attraverso tubazioni l’acqua dalle aree fertili (per esempio Gerico) ad altre, come Betlemme.

Il controllo e le limitazioni alla pianificazione da parte israeliana rendono inoltre più difficile all’ANP spostare le aree industriali “sporche” fuori dalle zone residenziali ed espandere i confini urbani sulla base di considerazioni ambientaliste.

Inoltre, l’Autorità Nazionale Palestinese viene limitata nella sua possibilità di sviluppare una consapevolezza tra la popolazione riguardo alla protezione ambientale immediata e a lungo termine ed è geograficamente vincolata nella sua possibilità di applicare le leggi e le norme esistenti – per esempio per l’impedire l’interramento a scopo di lucro di rifiuti israeliani e altri generi di scorie nei terreni dei villaggi palestinesi.

La cronica debolezza finanziaria dell’ANP, il suo mancato rispetto della promessa che il processo di Oslo avrebbe portato alla fine dell’occupazione e la sua fama di essere corrotta hanno ridotto al minimo la fiducia della gente in essa. La fiducia della popolazione è essenziale quando un governo intende far crescere la consapevolezza e formulare politiche in ogni ambito, dalla delicata ma necessaria questione della riduzione della natalità, alla riduzione dell’utilizzo di pesticidi chimici, alla promozione dell’uso del trasporto pubblico. La divisione interna palestinese tra Gaza e la Cisgiordania, tra Hamas e Fatah, sviluppata e approfondita dalla politica israeliana di isolare e scollegare Gaza, limita inoltre lo sviluppo e la messa in atto di una pianificazione e progettazione a lungo termine sull’ambiente da parte palestinese.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

In Cisgiordania il furto di terre è consentito solo al governo israeliano

Zvi Bar’el

3 novembre 2021 – Haaretz

 

Questa settimana il ministro della difesa Benny Gantz è stato ispirato dalla shekhina (spirito divino) e ha deciso di non sostenere l’iniziativa che permetterebbe l’acquisto di terre in Cisgiordania da parte di privati cittadini ebrei, invece che tramite una società e ciò solo previa approvazione dell’Amministrazione Civile. Una fonte della Difesa ha spiegato ad Haaretz che “estendere l’opzione di acquistare dei terreni a ogni cittadino darebbe come risultato acquisizioni irresponsabili da parte di ebrei e sarebbe visto dall’Autorità Palestinese come ‘uno sgarbo’ (Lunedì).

I nostri cuori hanno sussultato davanti a un gesto così rispettoso, a tale profondità di visione e saggezza diplomatica. La decisione di Gantz è la risposta del ministero della Difesa a una petizione presentata da Regavim, un’ONG a favore dei coloni, contro la legge attuale, “una legge razzista che esiste in un solo posto al mondo, qui in Israele,” secondo il direttore generale Meir Deutsch. La “legge razzista” alla quale fa riferimento permette di acquistare privatamente terre in Cisgiordania solo a palestinesi, giordani o stranieri di origine araba. Che cos’è questo se non apartheid antiebraico?

Ma un momento prima che crolli il mondo e che i nostri cuori si riempiano di orgoglio per la coraggiosa decisione del ministro, va ricordato che anche questa legge che Gantz sta difendendo intrepidamente è palesemente illegale. Essa contraddice il diritto internazionale, che vieta di trasferire un popolo occupante nei territori occupati e di cambiare la composizione demografica di quei territori; non mette freno alla “impresa delle colonie” e sotto i suoi auspici avamposti e fattorie individuali sono stati e saranno autorizzati. Gantz si oppone alla criminalità privata, solo quella supervisionata dal governo è legale.

La paura di Gantz “di fare uno sgarbo” all’AP è superflua. Lo stesso si può dire della paura espressa dal maggiore Zvi Mintz, che era a capo del dipartimento immobiliare della divisione per la consulenza legale dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] della Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndtr.], che “l’emendamento (ossia il permesso concesso a privati cittadini ebrei di acquistare terre) è probabile che sia visto come una violazione delle leggi di confisca in tempo di guerra e che porti a notevoli critiche a livello internazionale.”

Perché ciò che è vero circa l’acquisto da parte di privati cittadini è anche vero, secondo il diritto internazionale, per gli acquisti da parte di società. Bastava ascoltare le critiche mosse dal Segretario di Stato USA, Antony Blinken, e dal portavoce della Casa Bianca circa l’intenzione di procedere con la costruzione di oltre 3.000 unità abitative in Cisgiordania, per rendersi conto che ai loro occhi, e a quelli della comunità internazionale, non c‘è differenza fra l’illegalità delle colonie sponsorizzate dal governo e lo stesso reato perpetrato da un privato cittadino. Entrambi sono crimini. Tra l’altro per l’AP non fa alcuna differenza chi fa lo sgarbo, un privato cittadino, una società o un governo.

Lasciamo da parte le violazioni del diritto internazionale, il disprezzo per le critiche della comunità internazionale e la resa ai signori e padroni che vivono sulle terre rubate. Queste fanno già parte di un’antica cultura politica. Ma quando la sopravvivenza di questo governo intoccabile, teneramente coccolato, si basa su una decisione scolpita nella pietra di non fare nulla che susciti una controversia diplomatica per timore di strappare la fragile copertura protettiva di questa unità della coalizione, qual è il significato della nuova costruzione nelle colonie?

Tutti i partiti cosiddetti di “sinistra” avrebbero dovuto sollevare una protesta, puntare il dito accusatorio contro il ministro della Difesa e minacciare di far cadere il governo. Dopo tutto, si è già d’accordo che non ci sia “fattibilità diplomatica” di negoziati diplomatici, per non parlare di una soluzione del conflitto.

Apparentemente la sinistra nel governo di destra non solo non si rende conto della contraddizione fra l’espandere le colonie e l’assenza di una praticabilità diplomatica, ma sta anche aggiudicando a se stessa e ai propri colleghi la “fattibilità politica” di perpetuare l’impossibilità diplomatica.

Forse hanno chiuso gli occhi per un momento, ma quando Gantz non ha emendato la legge, non stava pensando all’AP, ma ai suoi colleghi nel governo. Con un cenno della mano ha anche concesso legittimità alla legge esistente che la sinistra ha cercato per anni e con tutte le forze di annullare e ha indossato la veste del giusto che ora proclama la propria innocenza.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Non c’è destra o sinistra in Israele, solo sionismo e non sionismo

Gideon Levy |

17 ottobre 2021 – Haaretz

La scorsa settimana Angela Merkel ha espresso la sua ammirazione per la solidità della nuova coalizione israeliana. L’editorialista di Haaretz Carolina Landsmann si chiede su questo sito se abbiamo a che fare con un governo ambiguo oppure con uno che ha messo allo scoperto il più grande inganno di tutti i tempi. Il giornalista Ron Cahlili afferma che la destra ideologica e la sinistra sionista sono la stessa cosa. Tutti e due evocano una vecchia storia, quella del gatto che esce dal sacco: in Israele non c’è né sinistra né destra. L’unica divisione ideologica è tra sionisti, vale a dire quasi tutti, e non sionisti, molto meno numerosi.

La cancelliera può quindi tranquillizzarsi. Quando è stato formato l’attuale governo non è avvenuto nessun miracolo e la Germania non ha nulla da imparare da esso. Non c’è stata nessunacontingenza politica”, per usare la frase coniata dal primo ministro. L’attuale coalizione si mantiene facilmente poiché è una coalizione basata sul consenso, senza grandi divari tra i suoi componenti. Il Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.] (meno Netanyahu) e gli ultra-ortodossi potrebbero formare un’estesa coalizione trasversale, che rappresenti una società ampiamente trasversale.

Questo governo sarà ricordato come quello che, pur non volendolo, ha smascherato il grande inganno. È sorto sulle onde dell’odio provato nei confronti di Netanyahu, e vive (e continuerà a vivere) sulla base dell’unità di fondo dei suoi componenti. Se domani mattina Merav Michaeli [leader del Partito Laburista Israeliano e Ministra dei Trasporti nel Governo Bennett, ndtr.] sostituisse Naftali Bennett [leader del partito Nuova Destra e attuale primo ministro israeliano ndtr.], non si verificherebbe alcun terremoto. A parte qualche cambio di stile, Israele resterebbe uguale a quello di prima.

Il presunto incarico epocale del primo primo ministro nazional-religioso non è foriero di cambiamenti. Non perché Bennett abbia tradito la sua ideologia, ma perché questa situazione concorda sorprendentemente bene con le posizioni delle componenti di sinistra di questo governo.

Non è che la sinistra sionista sia di destra, o che la destra ideologica abbia tendenze di sinistra. E non sono tutti degli opportunisti, il che sarebbe il segno della morte dell’ideologia. Al contrario, Israele ha un’ideologia, eccome! Un’ideologia dominante che mette in ombra tutto il resto. Si chiama sionismo ed è la religione che dirige e unifica la nazione. (Quasi) tutti sono sionisti e tutti credono nella supremazia ebraica su questo Paese, compresi i territori che esso occupa.

Sinistra e destra sono uguali nel loro culto delle Forze di Difesa Israeliane [esercito israeliano, ndtr.] e dello Shin Bet [l’agenzia interna d’intelligence dello Stato israeliano, ndtr.], il cui ruolo è il mantenimento del regime della supremazia ebraica sopprimendo ogni opposizione ad esso. Quando il nuovo capo dello Shin Bet, Ronen Bar, ha affermato che il servizio di sicurezza è il bastione della democrazia, aveva ragione. Proprio come la Stasi [organizzazione di sicurezza e spionaggio della ex Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], il ruolo di Bar è quello di sostenere il regime che, nel linguaggio dello Shin Bet e del popolo, è chiamato democrazia, piuttosto che tirannia ebraica.

Non c’è un membro di questa coalizione che stia pensando di porre fine all’occupazione, che la pensi diversamente sull’Iran anche l’assedio di Gaza è consensuale. Questo vale anche per le IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndtr.] e per l’operato di insediamento coloniale in corso. Pertanto, non c’è nulla di sorprendente nel silenzio degli agnelli: nel loro intimo, tutti vogliono l’occupazione.

Le differenze sono nella confezione. La sinistra vuole avere un aspetto migliore, motivo per cui i suoi rappresentanti occasionalmente si recano presso il quartier generale palestinese della Muqata a Ramallah, sollevando eventualmente anche una proposta alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] riguardo ai pogrom in Cisgiordania. Non molto di più.

L’attuale governo ha scompaginato la mappa politica. Da questo momento in poi dobbiamo affermare la verità: non ci sono veri divari tra i sionisti. I non sionisti sono pochi, quasi tutti non ebrei, tutti privi di legittimazione. Ci sono differenze tra gli Haredi [gli ebrei ultra ortodossi, ndtr.] e gli ebrei laici, e divari tra gli ebrei Ashkenazi [discendenti degli ebrei provenienti dall’Europa centrale e orientale, ndtr.] e Mizrahi [gli ebrei provenienti dai Paesi del mondo arabo, ndtr.], ma i cliché su una polarizzazione in questa nazione sono vuoti e privi di significato. L’unico abisso si trova tra i sostenitori della supremazia ebraica e i loro oppositori. Ecco perché la maggior parte dei cittadini arabi del Paese non fa parte di questo gioco. Ecco perché Israele si sta avvicinando al momento della verità. Si relaziona con le proprie fondamenta nei termini di uno Stato ebraico in una terra con due popoli, esponendo la sua vera immagine in tutta la sua nudità.

Chi avrebbe mai creduto che un governo esplicitamente non ideologico che cerca di fuggire da tali argomenti come da un incendio sarebbe stato il primo governo a rivelare la verità? E la verità è che non sono molti i Paesi in cui l’ideologia appaia ancora così importante; non ci sono democrazie con una ideologia unica tirannica e dominante. Israele è uno Stato sionista proprio come l’Unione Sovietica era uno Stato comunista. Anche lì non è stato difficile mettere insieme un governo di comunisti moderati ed estremisti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)