Israele combatte contro i suoi figli migliori: gli ex soldati che hanno il coraggio di parlare

Zehava Galon

1 agosto 2021 – Haaretz

L’Agenzia delle Entrate si è arresa alla pressione da parte delle organizzazioni di destra e ha chiesto che venissero tolti dal proprio edificio i cartelli messi da Breaking the Silence [‘Rompere il silenzio’ – organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.] per una campagna con cui chiedeva al ministro della Difesa e al ministro della Pubblica Sicurezza di agire in modo deciso contro la violenza dei coloni. Tale violenza è un evento quotidiano e il suo obiettivo è il terrore, in modo da espellere i palestinesi dalle proprie terre con la forza combinata dei coloni e dell’esercito e convincerli che non c’è motivo di ritornarvi. Se i palestinesi non coltivano la terra per parecchi anni, il governo la passerà ai coloni. E ora un altro ramo del governo si è unito ai teppisti mascherati di Yesha [l’alleanza dei comuni delle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata, che funge da guida informale per il movimento dei coloni. ndtr.] (Giudea e Samaria).

Qualche parola sui soliti sospetti: il rapper Yoav Eliasi, alias The Shadow [l’Ombra], è un noto teppista, coinvolto nel 2014 nell’organizzazione di attacchi contro attivisti di sinistra durante l’operazione “Margine Protettivo” contro Gaza. Arieh King, vicesindaco di Gerusalemme, diventò famoso nel 2014 quando, dopo l’assassinio di tre giovani studenti della yeshiva [scuola religiosa ortodossa ebraica, ndtr.], aveva invocato “i nostri Fineas” [un’allusione al personaggio biblico noto per il suo fanatismo, ndtr.] per punire i palestinesi, poche ore prima che tre persone autoproclamatesi fineasisti’ rapissero e uccidessero dandogli fuoco un quindicenne, Mohammed Abu Khdeir. C’è poi un attivista di destra, Shai Glick, che orgogliosamente si fa chiamare “una specie di terrorista.” Queste tre perle sono oggi la faccia dello Stato di Israele.

La decisione gli si è ritorta contro: l’Agenzia delle Entrate non aveva alcuna autorità legale di rimuovere i cartelli. E così sono stati tolti l’ultimo giorno della campagna e l’organizzazione Breaking the Silence è stata rimborsata dell’intera somma spesa per la campagna che continuerà. È comunque una giornata funesta quella in cui un’autorità ufficiale in Israele dichiara che la battaglia contro il crimine ideologico è un “atto politico”.

Lo Stato di Israele sta combattendo in modo determinato contro i suoi figli migliori, i soldati che hanno prestato servizio nei territori, ma che, diversamente dalla maggioranza dei loro colleghi, sono rimasti così scioccati da quello che hanno visto e che sono stati costretti a fare che hanno deciso che nessuno avrebbe più dovuto farlo. Hanno denunciato il regime quotidiano di orrori della dittatura militare nei territori, non tanto gli omicidi, che sono relativamente rari, ma piuttosto la sistematica, silenziosa, tacita violenza. Fino a quando non hanno rotto il silenzio.

E a causa di questo sono perseguitati. Attivisti dell’organizzazione sono stati attaccati ripetutamente. Il regime di occupazione israeliano protesta e sostiene che stanno raccontando al mondo quello che hanno visto, come se non fosse il mondo che finanzia le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] e sostiene il regime di occupazione. Contro di loro è stata approvata una legge con lo scopo di impedire loro di parlare agli studenti.

Anche questa, come la battaglia per la rimozione dei cartelli, gli si è rivoltata contro. Eppure, appellandosi a questa legge, la galleria Barbur [centro culturale e artistico indipendente, ndtr.] a Gerusalemme che ospitava Breaking the Silence, è stata chiusa dal Comune. Shai Glick si è vantato di aver messo in guardia la polizia sulla violenza prevista agli eventi dell’organizzazione, il che ha offerto alla polizia la scusa per annullarli.

Gli ebrei sono sempre stati in prima linea nelle lotte per i diritti umani, ovunque e contro ogni regime oppressivo. I rabbini hanno marciato accanto a Martin Luther King quando era molto pericoloso farlo perché i suoi sostenitori finivano ammazzati. E qui, proprio nello Stato degli ebrei, si butta nel cestino questa straordinaria tradizione. Lo Stato ebraico vuole così disperatamente la terra dell’Area C in Cisgiordania che si mette alla testa di chi cerca di far arretrare la rivoluzione dei diritti umani cominciata dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Come se non avessimo imparato nulla dal periodo in cui i regimi potevano trattare i propri cittadini come pareva loro. Verrà il giorno in cui quelli di Breaking the Silence saranno degli eroi e tutta la comunità che incoraggiava attacchi contro di loro abbasserà lo sguardo. Ma come ci libereremo dalla vergogna?

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)




Una sconfitta per Bennett: la Knesset vota contro l’estensione della legge sulla cittadinanza

Michael Hauser Tov

5 luglio 2021 – Haaretz

Nonostante il compromesso raggiunto nella coalizione, scade la legge che vieta il ricongiungimento familiare tra palestinesi sposati con cittadini israeliani. La ministra degli Interni Shaked mette in guardia contro “15.000 domande di cittadinanza” e afferma che vedere i legislatori di estrema destra del Likud che applaudono assieme a quelli della Lista Unita è “follia”

Martedì mattina, dopo una sessione notturna, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] ha votato contro un’estensione dell’emendamento sulla legge sulla cittadinanza, nonostante un compromesso sulla controversa norma raggiunto dalla coalizione di governo. Cinquantanove deputati hanno votato a favore e cinquantanove contro, mentre due membri della Lista Araba Unita [partito arabo islamista che fa parte della maggioranza governativa, ndt.] si sono astenuti.

In risposta, il primo ministro Naftali Bennett ha accusato l’opposizione di danneggiare deliberatamente la sicurezza dello Stato per “amarezza e frustrazione”.

“Chiunque abbia votato contro la legge sulla cittadinanza, da Bibi a Tibi e Chikli, ha preferito la politica politicante al bene dei cittadini israeliani e dovrà renderne conto per molto tempo”, ha detto Bennett, che ha promesso di trovare una nuova soluzione alla questione.

Pochi minuti prima del voto, è stato annunciato che il primo ministro Naftali Bennett aveva dichiarato che il voto era anche un voto di fiducia al governo. Nonostante l’emendamento sia stato respinto, la coalizione è sopravvissuta al voto dato che ci sono state alcune astensioni e non una maggioranza di voti contrari. Amichai Chikli di Yamina [ndtr: alleanza di partiti politici israeliani di estrema destra che fa parte della coalizione di governo] ha votato contro la legge, mentre Mansour Abbas e Walid Taha della Lista Araba Unita hanno votato a favore.

L’emendamento alla legge sulla cittadinanza impedisce ai palestinesi che vivono in Cisgiordania o a Gaza e che sposano cittadini israeliani di vivere permanentemente in Israele con i loro coniugi e nega loro un percorso verso la cittadinanza. La modifica temporanea della legge è stata rinnovata ogni anno dal 2003.

Durante il dibattito sulla proroga della legge, la ministra dell’Interno Ayelet Shaked ha annunciato dal podio che il governo aveva approvato un compromesso. Il suo annuncio ha provocato un prolungamento della sessione per discutere la nuova proposta che si è protratta per tutta la notte.

Dopo il voto, Shaked ha twittato che la vista dei membri del Likud e del sionismo religioso che esultavano accanto ai membri della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeilani di sinistra, all’opposizione, ndtr.] era “follia” e che il fallimento del provvedimento era una “grande vittoria per il post-sionismo”.

“La condotta sconsiderata di Likud e Smotrich [leader della formazione di estrema destra Partito Religioso Sionista, all’opposizione, ndtr.] ha causato la fine della legge sulla cittadinanza e porterà a 15.000 domande di cittadinanza”, ha detto Shaked, aggiungendo che “nemmeno una virgola” era cambiata dalla versione originale della legge, in risposta alle affermazioni contrarie dell’opposizione.

Se la Knesset avesse approvato il compromesso, la proroga sarebbe stata di sei mesi (anziché un anno) e a diverse centinaia di palestinesi sposati con israeliani e che vivono in Israele da molto tempo sarebbe stato offerto lo status di residente non cittadino. Shaked ha detto che i visti A5, che garantiscono i diritti di residenza, sarebbero stati offerti a 1.600 palestinesi, spiegando che questo era il numero approvato dal suo predecessore, Arye Dery [del partito religioso Shas, attualmente all’opposizione, ndtr.]

La Lista Araba Unita in precedenza aveva rifiutato il compromesso e Shaked aveva successivamente avuto colloqui sulla questione con il presidente di quest’ultima, Abbas, poiché era necessario almeno un voto a favore della legislazione da parte del suo partito. Abbas e il suo collega Walid Taha, tuttavia, quando Bennett [primo ministro in carica e leader del partito di estrema destra Yamina, ndtr.] lo ha definito un voto di fiducia al governo, hanno finito per votare a favore dell’emendamento.

Il presidente della Lista Araba Unita ha affermato che “la proposta di compromesso aveva lo scopo di favorire migliaia di famiglie”.

“Ora tutto è nelle mani del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa”, ha detto, invitandoli a “prendere decisioni e fornire una soluzione”.

In una successiva intervista con la radio pubblica Kan Bet, Abbas ha affermato che avrebbero votato “all’unisono” su un bilancio statale che garantirà un “piano quinquennale per affrontare i problemi relativi alla criminalità e alla violenza”.

Il Likud ha festeggiato il risultato del voto, affermando che la proposta di emendamento alla legge era un “accordo marcio, rappezzato nel buio della notte tra Bennett, Lapid, Shaked , LAU e Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.]” che è stato “schiacciato grazie allo sforzo determinato dell’ opposizione guidata da Netanyahu”.

Il parlamentare di Yamina, Amichai Chikli, che ha votato contro l’emendamento, ha chiesto un “governo sionista che funzioni come tale”.

Ha inoltre affermato che “stasera abbiamo avuto la prova delle difficoltà di un governo senza una chiara maggioranza. Un governo che inizia la notte con una proroga di un anno di una legge e la finisce con una proroga di sei mesi, che inizia con 1.500 permessi e finisce con oltre 3.000″.

Secondo le voci precedenti la votazione sui dettagli del compromesso, si sarebbe istituito un comitato per esaminare come rimuovere gli ostacoli burocratici per le rimanenti famiglie a cui non fossero stati concessi i diritti di residenza. Ciò avrebbe riguardato le condizioni per l’Assicurazione Nazionale, le domande per la patente di guida, l’uscita dal Paese e altro ancora. Il comitato avrebbe iniziato immediatamente i suoi lavori al fine di garantire lo stato di avanzamento sufficiente per un compromesso venisse accettato entro i termini di scadenza della proroga di sei mesi.

In vista del voto, il deputato della Lista Unita Ahmed Tibi ha ammonito il suo ex compagno di partito Abbas e lo ha invitato a respingere l’accordo: “Qualsiasi arabo che accetti di approvare la legge in realtà sputa in faccia alle famiglie, ai bambini e ai suoi compatrioti,” aggiungendo che acconsentire al disegno di legge sarebbe stata una “pugnalata alle spalle”.

(Traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Tre giovani donne arabe aggredite da una folla violenta ad Haifa. La polizia ‘guardava e non faceva nulla’

Judith Sudilovsky

| 27 giugno 2021 – Haaretz

Gli agenti sono passati senza fermarsi vicino alle giovani donne, le figlie del console onorario spagnolo nel nord di Israele. Ci sono volute tre telefonate e parecchie ore prima che un’auto della polizia arrivasse sul posto.

La notte del 12 maggio una banda di 30 uomini ha aggredito tre giovani donne e vandalizzato la loro auto di fronte alla loro casa nella German Colony [quartiere costruito nel XIX secolo per accogliere i pellegrini tedeschi in Terra Santa, ndtr.] di Haifa. L’aggressione è avvenuta durante un’ondata di rivolte che nelle città miste è seguita all’attacco missilistico di Hamas contro Israele ed alla controffensiva israeliana nella Striscia di Gaza.

Alcune delle 16 videocamere che la loro famiglia ha installato intorno alla proprietà hanno filmato l’aggressione. Un video del cellulare di un vicino mostra le giovani donne gridare ed affrontare gli uomini che le spintonano, che scagliano sassi contro la loro auto e ne frantumano il parabrezza con dei bastoni.

Le donne – Sama Abunassar, 23, e le sue sorelle Nardine, 20, e Hala, 16 – sono le figlie di Reem e Wadie Abunassar. Wadie è il portavoce dei vescovi cattolici della Terrasanta e console onorario della Spagna nel nord di Israele.

Secondo il resoconto delle sorelle e dei loro vicini, alcuni agenti di polizia dell’unità speciale Yasam [reparto antisommossa, ndtr.] stazionavano a circa 50 metri di distanza lungo la strada, sullo stesso lato della loro casa, ma non sono intervenuti. Un agente ha perfino spinto via Sama, dicendole “vattene da qui” mentre lei lo pregava di aiutarla.

Ero scioccata che stesse accadendo una cosa del genere. Mi aspettavo che qualcuno venisse a difendermi. Non è accorso nessuno, né polizia, né vicini. Eravamo solo le mie sorelle ed io contro 30 uomini,” ricorda Sama, a poco più di un mese dall’aggressione. “Non sapevo cosa fare. Pensavo

Il giorno dopo, la polizia ha preso le riprese delle videocamere di sicurezza della famiglia. Wadie e Nardine hanno riferito alla polizia della notte dell’attacco, ma gli investigatori non hanno raccolto le testimonianze di Sama o Hala.

Nessun sospetto è stato interrogato per aver preso parte all’attacco, che ha anche causato danni ad altre proprietà di arabi lungo la strada.

Il 14 giugno la famiglia Abunassar è stata informata della chiusura del caso per mancanza di prove.

Ma più che mettere in discussione il mancato arresto di qualcuno tra i sospetti aggressori, la famiglia chiede perché gli agenti –che si trovavano a poche decine di metri dal luogo dell’attacco e sono stati testimoni dell’aggressione – non facessero nulla per fermare i facinorosi, permettendo alla violenza di continuare.

Stavo gridando per chiedere aiuto”

Quella stessa mattina circolavano sui social media e di bocca in bocca voci su possibili dimostrazioni in altri quartieri di Haifa, ma non si faceva menzione della German Colony, situata sotto i giardini Baha’i e normalmente frequentata dai turisti per i suoi bar e ristoranti alla moda.

Verso le nove di sera Sama stava tornando a casa dal lavoro all’ Haifa Mall, quando un reparto di agenti di polizia della Yasam l’ha fermata a pochi metri dalla propria casa. Lei ha chiesto il permesso di percorrere la breve distanza fino a casa. L’hanno lasciata passare ed ha parcheggiato nello spazio privato di fronte alla sua abitazione, interrompendo per un momento la chiacchierata in arabo con un vicino, che stava fuori [di casa].

Apparentemente dal nulla, una ressa si è formata intorno a loro; gli uomini provenivano dalla parte orientale della strada, proprio dove si trovava un altro gruppo di agenti di polizia, e alcuni portavano il viso coperto da magliette, altri imbracciavano bandiere d’Israele o ne erano avvolti, molti avevano il volto in piena vista. Gli agenti non hanno impedito loro di invadere la strada.

Il vicino è sparito in casa propria e Sama è stata lasciata sola mentre il gruppo di persone violente l’ha circondata ed ha iniziato a inveire contro di lei, scandendo “Morte agli Arabi” e giurando di non lasciare nemmeno un arabo in città. Hanno spinto Sama ed hanno colpito la sua macchina nuova con bastoni e pietre, frantumando il parabrezza e rompendo le maniglie delle portiere. Quando hanno finito la scorta delle proprie pietre, si sono muniti di sassi trovati nel giardino di famiglia e li hanno gettati contro la macchina, racconta Sama.

Ho chiesto ancora e ancora perché stessero facendo questo. Cosa volevano ottenere in quel modo? Qualcuno mi ha presa e spintonata, ha detto che non sarebbero rimasti più arabi e mi ha spruzzato addosso uno spray urticante. Mi sono coperta il volto con le braccia e il mio braccio ne è rimasto ustionato,” dice Sama. “Hanno usato le aste delle bandiere per spaccare il parabrezza.”

Alle grida di Sama, le sue due sorelle sono accorse fuori dalla casa e l’hanno vista circondata dalla folla violenta.

Terrorizzata, Nardine ha chiamato i suoi genitori, che avevano portato in viaggio verso Tiberiade la sorella minore Eman, di tredici anni, e un amico, poco prima della festa cattolica dell’Ascensione del 13 maggio, la prima uscita serale dopo i lunghi lockdown e le restrizioni causate dal coronavirus.

Ho gridato ai miei genitori di tornare a proteggerci perché non c’era nessun’altro a farlo, né i nostri vicini, né la nostra famiglia, né la polizia.,” dice Nardine. “Ricordo che uno fascinoroso mi ha insultata con un sacco di parolacce volgari e pesanti.”

 È troppo imbarazzante ripetere gli insulti.

Abbiamo preso un aereo verso casa, dovevamo tornare,” afferma Reem. A circa 65 kilometri di distanza, a Tiberiade, lei aveva già visto l’inizio dell’attacco, mentre controllava le telecamere di sorveglianza tramite un’app sul suo cellulare. Dopo due rapine senza arresti in casa propria, ha preso l’abitudine di controllarle regolarmente. “Ho visto le persone arrivare e non ho smesso di urlare a Wadie che dovevamo assolutamente rincasare,” racconta.

Wadie ha immediatamente chiamato il dipartimento di polizia di Haifa e chiesto che mandassero una pattuglia a proteggere le sue figlie. Hanno chiamato altre due volte precipitandosi verso casa, chiedendo che mandassero un’auto, ma inutilmente. Non ne è stata mandata nessuna prima che gli Abunassar arrivassero a casa loro. Solo circa tre ore dopo, intorno all’una di notte, si è presentata una pattuglia.

Ho visto la polizia stare da entrambi i lati [della strada] e non fare niente,” afferma Hala, raccontando l’aggressione. “Ho visto vari uomini gridare ‘Morte agli Arabi’, circondando mia sorella. Volevo aiutarla. Avevo paura che mia sorella morisse. Sono davvero furiosa con la polizia. Stavo urlando per ricevere aiuto”

Nemmeno un sospettato

Durante l’intervista, Hala è stata forte, dicendo di non essere spaventata, ma Reem confida che ora sua figlia non dorme bene e non è riuscita a svegliarsi in tempo per le ultime lezioni dell’anno. Nessuno dorme molto bene, ammette, e lei e le sue figlie cominceranno presto una terapia per il trauma subito. Reem stessa si rifiuta di andare fuori casa durante la notte, per paura di non essere lì nel caso le sue figlie avessero bisogno di lei. Sa di essere diventata troppo protettiva quando loro escono, le chiama e scrive loro messaggini in continuazione, dice.

Laila Sharif, 57 anni, una vicina sedeva con ospiti nel suo giardino, festeggiando l’Eid al-Fitr [festa della fine del Ramadan, ndtr.], quando ha sentito le donne gridare. Lei, il suo figlio diciassettenne Adam e sua nipote sono usciti per provare ad aiutare le sorelle.

Ho sentito le voci delle ragazze urlare. Le conosco. Siamo vicine. Non volevo lasciarle sole. Ho pensato di poter essere in grado di aiutare,” dice Sharif, un’insegnante di chimica delle superiori.

Ma la folla violenta l’ha spinta indietro e ha distrutto l’entrata della sua casa. Un uomo ha estratto una pistola dalla tasca e le ha intimato di rincasare. Afferma che hanno spruzzato contro suo figlio e sua nipote uno spray urticante, poi hanno cominciato a rincorrerla, ma lei è riuscita a scappare nel giardino sul retro attraverso un passaggio nascosto. Quando la maggior parte degli uomini se n’era andata, è uscita di nuovo fuori.

[Nei pressi] c’era la polizia e … non ha fatto un bel niente, Ho la sensazione che li stesse proteggendo [i rivoltosi],” dice Sharif.

Quando è riuscita a raggiungere le sorelle Abunassar, loro erano già collassate a terra, sul ciglio della strada, e piangevano istericamente.

È stato difficile per le ragazze. Erano in stato di shock. Stavano in strada a piangere e urlare. La minore, Hala, … non smetteva di gridare. Era isterica. Sono stata là con loro finché non sono arrivati i genitori,” afferma Sharif.

Sharif ha anche presentato una denuncia alla polizia sull’aggressione, ma non ha ricevuto alcun riscontro.

Descrive un uomo armato di fucile, sulla trentina, poco più alto di lei, con la pelle chiara e i capelli castani coperti da una kippah [zuccotto usato dagli ebrei osservanti, ndtr.]. “Se mi mostrassero una foto, sarei in grado di identificarlo,” dice. “Da allora non mi sento più al sicuro, Ad Haifa non ci sono scontri tra arabi ed ebrei. Bus di rivoltosi sono arrivati in autobus da tutto il Paese.”

Degli agenti di polizia le hanno sorpassate senza soccorrerle senza nemmeno fermarsi a verificare se le sorelle fossero ferite, sostiene Sama. I vicini hanno iniziato a scendere alla spicciolata in strada e qualcuno ha prestato un primo soccorso a Nardine, che aveva una gamba sanguinante.

Quando Wadie e Reem sono arrivati hanno trovato le loro figlie sul ciglio della strada, sconvolte, e qualche vicino attorno a loro. Tuttavia né la polizia né un’ambulanza erano sul posto. Le donne sono finalmente state portate al Rambam Health Care Campus per ulteriori cure, trasportate da un ex-vicino, un autista di ambulanza ebreo che per caso passava lì vicino di ritorno a casa da lavoro.

Non ci immaginavamo che ci fosse da preoccuparsi e credevamo che la polizia sarebbe stata in giro e capace di impedire che succedesse qualunque incidente,” dice Wadie. “Abbiamo voluto credere che le cose fossero sotto controllo. Ho voluto credere che niente sarebbe successo perché le autorità avrebbero svolto il loro lavoro. Conosciamo Haifa come una città tollerante.”

Wadie si aspettava che la pattuglia già appostata nei dintorni della sua casa sarebbe accorsa in aiuto delle sue figlie, così come la polizia era stata in grado di entrare ad Umm al-Fahm e soccorrere una famiglia ebrea, che era entrata per sbaglio nella città araba il giorno dopo gli attacchi alle sue figlie, afferma.

Avevo visto come la polizia aveva reagito contro i rivoltosi arabi la notte precedente,” aggiunge. “Perché tra le decine di aggressori la polizia non è riuscita a trovare neppure una persona?”

La famiglia ha presentato un esposto contro la polizia per il mancato intervento durante l’aggressione e inoltre si è opposta alla decisione di chiudere il caso.

Con tutta la tecnologia a disposizione della polizia e delle forze di sicurezza, con tutte le registrazioni video prese dalle telecamere degli Abunassar, sembra che la polizia non abbia mosso un dito per identificare gli aggressori, afferma l’avvocato della famiglia, Hani Khoury.

Supponiamo pure che quella notte ci fosse una grande quantità di eventi e forte tensione, lo comprendiamo,” sostiene Khoury. “Non c’è comunque alcuna giustificazione per il loro mancato intervento, dato che stazionavano a 50 metri dalla casa, e che la risposta alla richiesta di aiuto delle figlie sia stata: ‘Andatevene di qui’.”

Nonostante il trauma rispetto all’accaduto, nonostante la delusione per come la polizia ha gestito la situazione, loro continuano a credere nella buona volontà della gente e nella tolleranza e coesistenza tipici di Haifa, afferma Wadie. Sanno che ci sono delinquenti ovunque nel mondo e in ogni società, dice. Si aspettano solo che la polizia sia lì per proteggere le persone dalla violenza degli estremisti.

Non abbiamo un altro Paese a cui siamo legati,” dice Reem. “Amo questo e desidero vivere qui, in pace.”

In risposta all’inchiesta su questo caso, la polizia ha dichiarato: “In seguito all’acquisizione dei reclami rispetto al caso è stata aperta e condotta in maniera equa ed imparziale un’indagine ufficiale, a prescindere dalle identità dei sospetti o delle vittime; l’indagine è stata condotta in maniera professionale ed approfondita, con lo scopo di ricostruire la verità e rendere giustizia alle parti coinvolte. Come parte dell’inchiesta ufficiale, è stata presa in considerazione una serie di iniziative, come la raccolta di prove, la visione dei video di sicurezza ed altro. Nonostante gli sforzi investigativi e l’espletamento di tutte le azioni richieste, nessun sospetto è stato identificato in flagranza. Se riceveremo altri dettagli dalla polizia o emergeranno altre notizie, che potrebbero portare a sviluppi nell’indagine, queste saranno controllate come da procedura.”

(traduzione dall’inglese di Andriano Parrotta)




In migliaia manifestano in Cisgiordania dopo la morte di un dissidente in custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Amira Hass, Jack Khoury

24 giugno 2021 – Haaretz

Un palestinese, critico implacabile dell’Autorità Nazionale Palestinese e dei suoi leader, è morto giovedì mattina dopo essere stato arrestato nella sua casa prima dell’alba dalle forze di sicurezza palestinesi. Migliaia di persone sono scese in strada per protestare nelle aree di Hebron e Ramallah.

La famiglia di Nizar Banat, originario della città di Dura, nel sud della Cisgiordania, sostiene che egli è stato picchiato duramente dalle forze di sicurezza palestinesi durante il suo arresto. Nella prima mattinata di giovedì sono emerse voci secondo cui sarebbe stato trasferito in un ospedale e poco dopo l’ufficio distrettuale di Hebron ha annunciato la morte di Banat. Sui social media palestinesi viene dichiarato uno “shahid”, o martire.

I manifestanti a Hebron e Ramallah accusano l’Autorità Nazionale Palestinese di aver commesso un omicidio politico, mentre alcuni gruppi si sono scontrati con la polizia palestinese a Ramallah. I manifestanti hanno anche chiesto che il presidente Abbas e l’Autorità Nazionale Palestinese siano deposti.

Banat, un ex membro del movimento Fatah, è stato più volte arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese per le sue aspre critiche alla leadership nei post e nei video di Facebook. Ha accusato i leader dell’ANP di corruzione e anche di aver tratto vantaggi dall’abbandono degli interessi nazionali palestinesi in cambio di benefici personali e ricchezza.

I gruppi per i diritti umani e la famiglia di Banat hanno dichiarato che l’autopsia ha mostrato che egli è deceduto soffocato dal sangue nei polmoni dopo essere stato picchiato dalle forze di sicurezza. Uno dei medici che hanno preso parte all’autopsia ha anche rivelato che Banat ha subito lesioni a tutte le parti del corpo, comprese testa, braccia e gambe. Il medico ha detto che le circostanze sollevano il forte sospetto di comportamenti criminali

Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato che l’Autorità Nazionale Palestinese avvierà una commissione d’inchiesta sulle circostanze della morte di Banat, ma a Hebron e nell’area di Ramallah si continua a manifestare. I commenti che circolano sui social media paragonano Banat al dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 in Turchia nel consolato dell’Arabia saudita.

Da parte sua, Hamas ha risposto all’incidente incoraggiando la partecipazione di massa ai funerali di Banat e invitando i palestinesi a “cambiare le condizioni pericolose volute dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal coordinamento della sicurezza in Cisgiordania”.

Secondo gli attivisti palestinesi, la casa di Banat si trova nell’area della città di Hebron che è sotto il controllo di sicurezza israeliano, quindi le forze palestinesi devono ricevere il permesso da Israele per entrare nell’area ed eseguire gli arresti.

Banat aveva anche contestato ferocemente Mohammed Dahlan – un rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas – e i suoi sostenitori, molti dei quali sono ex membri dell’establishment della sicurezza palestinese.

Uno degli ultimi video che ha pubblicato su Facebook riguardava l’accordo sui vaccini Israele-ANP, secondo il quale Israele avrebbe dovuto fornire ai palestinesi vaccini Pfizer contro il coronavirus vicini alla scadenza in cambio di nuove dosi che Pfizer invierà a Israele il prossimo anno. Molti cittadini palestinesi, che sono già fortemente scettici nei confronti dei vaccini, erano convinti che l’ANP stesse intenzionalmente nascondendo i dettagli dell’accordo.

Banat ha affermato nel suo video che se dei palestinesi fossero morti per aver ricevuto dosi di vaccino scadute, Israele sarebbe stato accusato di sterminio di massa – “un’accusa che non avrebbe potuto tollerare”, motivo per cui l’accordo è stato fatto trapelare.

Banat era un membro del partito Liberazione e Dignità e prevedeva di candidarsi alle elezioni parlamentari palestinesi, originariamente previste per il 22 maggio, ma annullate da Abbas.

Gli attivisti palestinesi che criticano l’ANP riferiscono che i suoi apparati di sicurezza stanno esercitando pressioni crescenti contro di loro nel tentativo di metterli a tacere e che nelle scorse settimane molti sono stati arrestati o convocati per essere diffidati. All’inizio di questa settimana anche Issa Amro, un attivista residente a Hebron, è stato arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese dopo aver scritto un post critico sui social media; è stato rilasciato il giorno successivo.

La commissione d’inchiesta annunciata dall’Autorità Nazionale Palestinese sarà guidata dal ministro della Giustizia Mohammed al-Shalaldeh, insieme a una personalità indipendente che si occupa a livello professionale di diritti umani, a un medico in rappresentanza della famiglia e a un membro dell’intelligence palestinese. Il primo ministro Shtayyeh ha affermato che la commmissione d’inchiesta avrà accesso ai reperti autoptici, alle testimonianze della famiglia e di altre parti interessate e a tutte le informazioni rilevanti.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Centinaia di coloni marciano in Cisgiordania contro l’edificazione di case palestinesi

Hagar Shezaf

21 giugno 2021 – HAARETZ

La principale marcia di protesta si è diretta all’avamposto illegale di Evyatar, che i coloni continuano a edificare nonostante un ordine di sgombero dell’esercito israeliano

Lunedì centinaia di coloni hanno partecipato a 14 marce in tutta la Cisgiordania per protestare contro l’edificazione di case palestinesi nell’Area C, che è sotto il controllo della sicurezza israeliana. Lo slogan delle marce era “Combattere per le terre dello Stato”. Durante le marce non è stato registrato nessun incidente.

La marcia principale è iniziata a Tapuach Junction, diretta verso l’avamposto illegale di Evyatar. Diverse decine di coloni hanno marciato attraverso gli uliveti della zona e hanno terminato la marcia con una manifestazione alla quale hanno partecipato il leader dei coloni Yossi Dagan e l’attivista Sheffi Paz, con il cantante Ariel Zilber che ha provveduto all’intrattenimento.

Neora, una madre di tre figli della colonia di Rehelim, ha partecipato alla marcia con la sua famiglia. Siamo venuti perché amiamo questo Paese; siamo infastiditi dal fatto che non vengano costruite nuove colonie. Non siamo in realtà un popolo libero nella nostra terra, [come dice l’inno nazionale]. Si è lamentata del fatto che un gruppo di abitanti del vicino villaggio palestinese di Beita provocherebbe disagi nel corso della notte bruciando continuamente pneumatici nei pressi del suo insediamento coloniale e provocando un denso fumo nel tentativo di far andare via i coloni. Ha detto che gli abitanti del villaggio farebbero anche uso di laser e altre fonti di luce per molestare i coloni.

Altre marce si sono svolte nella Valle del Giordano, sulle colline a sud di Hebron e vicino a Ma’aleh Adumim [colonia israeliana e città palestinese situate ad est di Gerusalemme, in Cisgiordania, ndtr.]. Le marce sono state organizzate da gruppi di destra come Hashomer Yehuda VeShomron, Im Tirzu e Regavim, nonché da vari consigli regionali che sovrintendono alle colonie. Le forze armate israeliane hanno affermato che l’organizzazione delle marce non richiede la necessità di permessi o l’adozione da parte loro di misure speciali.

L’obiettivo di alcune di queste marce era costituito dalle terre definite dall’amministrazione civile come “terreni da indagare”, cioè territori che richiedono un’indagine al fine di determinare se siano di proprietà statale. L’esame dello stato di queste terre è un lungo processo chiamato rilevamento del territorio. I coloni desiderano accelerare il processo in modo che la terra in Cisgiordania possa divenire di proprietà dello Stato. Questo è ciò che è successo a Evyatar, che è stato eretto all’inizio di maggio. L’avamposto coloniale è sorto vicino a Beita, a sud di Nablus. Dopo che i coloni hanno preso possesso della terra in quell’area, è iniziata l’indagine sul suo stato.

Secondo i dati dell’amministrazione civile del 2011, ci sono 1,3 milioni di dunam (129.499 ettari) di terra statale in tutta la Cisgiordania. Dal 1967 a quell’anno solo lo 0,25% di quella terra è stato assegnato ai palestinesi, in contrasto con il 46% dato ai coloni. Per ogni dunam ( 1000 m.) assegnato a un palestinese, 370 sono stati dati ai coloni.

Il gen. Tamir Yadai, a capo del comando centrale, ha respinto una petizione presentata dai coloni di Evyatar riguardo a un’ingiunzione che ne ordinava lo sfratto.

In risposta all’opposizione degli abitanti all’ordine, Yadai ha affermato che [i coloni] hanno “violato palesemente e gravemente la legge costruendo in breve tempo decine di edifici abitati da decine di famiglie”. Il fatto che i coloni abbiano continuato a costruire nel sito anche dopo aver ricevuto l’ordine di fermarsi, a cui doveva seguire lo sgombero dell’avamposto, ha mostrato mancanza di buona fede e contribuisce alla violazione dell’ordine pubblico e dello stato di diritto nell’area, ha aggiunto Yadai.

Il vice consulente legale responsabile per la Cisgiordania, il tenente colonnello Lahat Shemesh, ha affermato che l’avamposto coloniale ha destabilizzato la sicurezza dell’area, portando a decine di istanze di interruzione. Ciò ha richiesto l’allocazione di forze che sono state sottratte ad altre missioni operative.

L’avamposto coloniale ha suscitato proteste tra i palestinesi della zona, che hanno portato alla morte di quattro uomini a causa degli spari dell’IDF [l’esercito israeliano, ndtr.]. La scorsa settimana, il sedicenne Ahmed Zahi Bani Shamsa di Beita è deceduto per le ferite riportate il giorno prima dopo essere stato colpito da un colpo di arma da fuoco sparato da un soldato. L’esercito ha sostenuto che Shamsa sarebbe corso verso un soldato e avrebbe lanciato un ordigno esplosivo prima di essere colpito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ex-procuratore generale scopre che un’associazione di coloni si è impossessata della casa della sua famiglia a Sheikh Jarrah

Nir Hasson

15 giugno 2021 – Haaretz

Michael Ben-Yair è rimasto piuttosto sorpreso quando ha scoperto che un’associazione no profit religiosa ha imposto ai palestinesi che vivono nella casa di sua nonna a Gerusalemme est un affitto di centinaia di migliaia di shekel con l’approvazione di un tribunale rabbinico. L’iter giudiziario per rivendicare la casa rivela il modus operandi dei coloni nella loro spinta per “ebraizzare” Sheikh Jarrah.

Un’associazione no profit dei coloni si è impossessata di un edificio nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est di proprietà della famiglia di Michael Ben-Yair, un ex- procuratore generale e giudice distrettuale in pensione. L’associazione ha gestito l’edificio per anni, riscuotendo l’affitto per un totale di centinaia di migliaia di shekel da abitanti palestinesi, senza che i legittimi eredi della prima proprietaria dell’immobile lo sapessero.

Due anni fa Ben-Yair ha scoperto che la casa di sua nonna era stata presa in consegna dall’organizzazione. Nessuno, dall’Amministratore Generale del ministero della Giustizia alla Divisione dell’Amministratore Giudiziario, dai tribunali rabbinici all’associazione di coloni, ha cercato di trovare i legittimi eredi. Da allora sta conducendo una battaglia giudiziaria per togliere l’edificio ai coloni e consentire ai palestinesi che vi risiedono di rimanervi. Nell’iter giudiziario Ben-Yair ha scoperto i metodi contorti e giuridicamente dubbi dei coloni per “ebraizzare” Sheikh Jarrah.

Ci avrebbero potuto trovare facilmente”

Alla fine del XIX secolo Nahalat Shimon era un piccolo quartiere nella parte occidentale di Sheikh Jarrah. Michael Ben-Yair, ex- procuratore generale durante i governi di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, vi è nato nel 1942. Nel 1948 gli abitanti fuggirono dopo che il quartiere fu conquistato dalla Legione Araba giordana. Come la maggior parte degli abitanti ebrei che scapparono da Gerusalemme est verso la parte occidentale della città, la famiglia venne indennizzata per la perdita della propria casa e ricevette un’altra abitazione e un negozio nel quartiere di Romema.

Negli anni ’90 le organizzazioni dei coloni iniziarono a fare pressione per sostituire gli abitanti arabi di Sheikh Jarrah con ebrei in base a una legge che consente agli ebrei di rivendicare le proprietà che possedevano nel 1948, benché fossero stati indennizzati per quello che avevano perso. Nahalat Shimon era stato diviso in una parte orientale chiamata Karm al-Jaouni, in cui la terra era di proprietà dei consigli delle comunità di ebrei askenaziti [originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] e mizrahi [originari dei Paesi arabi e musulmani, ndtr.]. La terra nella parte occidentale, chiamata Umm Haroun, dove viveva la famiglia di Ben-Yair, era proprietà privata di famiglie ebree.

I terreni nella parte orientale vennero in seguito acquisiti da un’associazione no profit chiamata Nahalat Shimon, che è controllata da un’impresa straniera e gestita da un colono militante di nome Yitzhak Mamo. Nella parte occidentale Mamo e alcune associazioni di coloni avevano bisogno della collaborazione di famiglie ebree che avessero ereditato le proprietà. In qualche caso ricevettero questa cooperazione e acquistarono gli immobili, cacciando le famiglie palestinesi che vi abitavano. Nel caso della famiglia Ben-Yair utilizzarono un metodo diverso.

La casa e un negozio annesso sono elencati in un “documento fiduciario”, un tipo di testamento stilato dalla nonna di Ben-Yair, Sarah Jannah, figlia di Menashe Shvili. Nel 1927 dichiarò davanti a un tribunale rabbinico di Gerusalemme che la casa e il negozio sarebbero passati ai suoi eredi e poi agli eredi degli eredi. Aggiunse che se, dio ne guardi, nessun membro della famiglia fosse rimasto in vita dopo gli eredi originari, la proprietà sarebbe passata alla sinagoga georgiana del quartiere. Ciò era frequente in quei giorni nel caso di famiglie senza discendenti ancora in vita.

In base a quest’ultima frase, nel 2002 un’associazione no profit di destra chiamata Meyashvei Zion [Coloni di Sion], gestita da Mamo, fece ricorso a un tribunale rabbinico, chiedendo che Mamo e un’altra persona, di nome Oren Sheffer, venissero incaricati dal tribunale di determinare di chi fosse la proprietà. Il tribunale accolse la loro richiesta. Poco dopo i due informarono il tribunale che non avevano trovato eredi e il tribunale li nominò rapidamente amministratori fiduciari di quell’edificio senza nessun significativo tentativo da parte del tribunale di individuare gli eredi.

La decisione si basava sul presupposto che non si potesse trovare nessun erede, benché Sarah Jannah risultasse all’anagrafe, dato che morì nel 1955, dopo la fondazione dello Stato. Chiunque lo avesse voluto avrebbe potuto facilmente trovare i suoi eredi con una semplice ricerca presso il ministero dell’Interno. “I numeri dell’identità di tutta la famiglia sono consecutivi,” dice Ben-Yair. “Quello di mio fratello termina con 03, il mio con 04, il numero dei miei nonni finiva rispettivamente con 05 e 06.

Nel 2004 l’Amministrazione Generale e l’Amministratore Giudiziario, che avevano gestito la proprietà fin dal 1967, presentarono ricorso contro la nomina dei nuovi amministratori fiduciari, affermando che si sarebbe dovuto cercare di individuare membri in vita della famiglia, ma il tribunale rigettò questa richiesta. Un anno dopo il liquidatore consegnò l’edificio a Mamo e Sheffer, rimborsando persino all’ong 250.000 shekel (circa 63.000 euro) per gli affitti che lo Stato aveva riscosso dagli abitanti palestinesi fino a quel momento. Nei successivi nove anni l’associazione riscosse 600.000 shekel [circa 150.000 euro] di proventi ricavati dalla proprietà.

Nel 2011 un’altra associazione no profit, il consiglio della comunità georgiana, riuscì a impossessarsi della proprietà con l’appoggio di un tribunale rabbinico. Neppure questa organizzazione si mise alla ricerca dei veri eredi. Verbali delle udienze del tribunale rabbinico nel 2016 mostrano che il consiglio georgiano sapeva che la proprietà aveva eredi legittimi che non ne stavano beneficiando. Il consiglio sapeva persino i loro nomi. “Mi dissero che era di un certo professor Yair qualcosa… del prof. Michael Yair; stiamo cercando di trovarlo,” disse il fiduciario georgiano David Bandar in una delle udienze.

Mancanza della minima decenza”

Quando un decennio fa Sheikh Jarrah iniziò a diventare famoso in seguito all’espulsione di famiglie palestinesi dalle proprie case, Ben-Yair si unì alle manifestazioni organizzate da un movimento di solidarietà contro i coloni ebrei. Stilò persino un pamphlet in cui affermava che le famiglie ebree che avevano lasciato le proprie abitazioni lì avevano ricevuto indennizzi, rendendo illegale e immorale la loro richiesta di recuperare le loro vecchie case.

Due anni fa Ben-Yair ha scoperto che i coloni avevano iniziato a cacciare palestinesi da un negozio che pensava facesse parte della casa di sua nonna. Di conseguenza presentò un ricorso all’amministratore giudiziario, il procuratore Sigal Yacobi, che è anche il direttore generale ad interim del ministero di Giustizia. “All’epoca pensavo che la proprietà fosse ancora registrata a nome di mia nonna e avevo ipotizzato che fosse occupata da rifugiati palestinesi, che vi vivevano indisturbati. Dato che avevamo ricevuto un indennizzo nel 1948 non mi sono preoccupato di controllare l’attuale proprietà nell’ufficio del catasto,” dice.

Ben-Yair afferma che, quando ha incontrato la curatrice fallimentare, costei ha fatto un controllo ed ha scoperto che la proprietà era stata considerata senza proprietari.

Le ho detto che noi siamo gli eredi, quindi ha chiesto di vedere il documento fiduciario ed è rimasta sbalordita. Ha visto che si trattava di un bene fiduciario privato e non pubblico,” racconta. Durante l’incontro i membri della famiglia hanno appreso per la prima volta la volontà della nonna. Ben-Yair e sua sorella, Na’ama Bartal, in seguito hanno chiesto al tribunale di verificare il documento fiduciario. Il tribunale ha rigettato la richiesta, affermando che non sono in possesso della documentazione sufficiente a dimostrare il rapporto della loro famiglia con la loro nonna.

Ben-Yair ha presentato appello contro la decisione alla pretura di Tel Aviv, chiedendo che al ministero dell’Interno venga data indicazione di fornirgli i documenti che confermano che egli è il nipote di sua nonna. Ben-Yair ha vinto l’appello e il ministero dell’Interno è tenuto a fornirgli i documenti la prossima settimana.

Nel contempo gli avvocati Michael Sfard e Alon Sapir, con l’assistenza di Peace Now [Ong israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], hanno presentato la richiesta al tribunale rabbinico di nominare fiduciari i membri della famiglia. “Michael Ben-Yair non si era nascosto e non era stato rapito da un Paese ostile; non ha cambiato il proprio nome né si è nascosto nella sua camera da letto. Non solo è una persona facilmente reperibile, è una figura pubblica che fa dichiarazioni pubbliche e tre anni fa ha persino pubblicato un libro su Sheikh Jarrah,” hanno scritto Sfard e Sapir nella loro richiesta al tribunale.

Deve ancora essere emessa una sentenza sul loro ricorso, ma nel frattempo i giudici rabbinici hanno ordinato che ogni attività nell’affido fiduciario venga sospesa. Ben-Yair e sua sorella hanno affermato di sperare che presto riavranno la loro casa e che in seguito intendono citare in giudizio gli amministratori fiduciari di Meyashvei Zion e il consiglio georgiano per il denaro che hanno riscosso dai palestinesi nel corso degli anni.

Dato che il documento fiduciario vieta la vendita della casa, Ben-Yair spera di convincere la sua famiglia ad affittarla alla famiglia palestinese che vi abita per un canone simbolico e per un lungo periodo. “Non si tratta solo di una questione di ‘quello che è mio è mio e quello che è tuo è mio’. È una mancanza della minima decenza ed è inconcepibile in base a qualunque sistema giuridico che io riceva sia l’indennizzo che la proprietà per la quale l’ho ricevuto,” dice Ben-Yair. “Ciò riguarda anche l’espulsione dei palestinesi che diventerebbero rifugiati per la seconda volta mentre non hanno il diritto di cercare di rivendicare i propri beni di prima del 1948 [data della fondazione di Israele, ndtr.]. La giustizia richiede che non vengano espulsi e che venga garantita la loro custodia della casa.”

È una storia folle,” afferma l’avvocato Sfard, che rappresenta Ben-Yair. “La persona che si supponeva cercassero stava seduta proprio là nel suo ufficio al piano di sopra dell’Amministratore Giudiziario dello Stato nel ministero di Giustizia. Ciò dimostra solo la gravità dell’occultamento e del collegamento tra i soggetti dell’ebraizzazione e il tribunale rabbinico. Il tribunale deve verificare che gli amministratori fiduciari non stiano facendo niente per stravolgere le disposizioni della persona che ha lasciato l’eredità o ha stilato il documento fiduciario.”

La storia di Ben-Yair ci fornisce l’opportunità di vedere il sistema di spoliazione a Gerusalemme est,” dice Hagit Ofran di Peace Now. “Le autorità statali, L’Amministratore Giudiziario e il tribunale rabbinico stanno consentendo e persino promuovendo l’espulsione dei palestinesi e la sostituzione con coloni. Il governo non può più sostenere che Sheik Jarrah sia solo una questione immobiliare. È una questione politica che è responsabilità dello Stato, e lo Stato è responsabile anche di impedire l’ingiustizia.”

Ci deve essere stata un po’ di confusione”

L’amministrazione dei tribunali rabbinici afferma: “Nel 2011 parecchie persone si sono recate davanti al tribunale ed hanno sostenuto che non era stato trovato nessun erede. Di conseguenza il tribunale ha ordinato che, in linea con il documento dell’affido, la proprietà venisse utilizzata per scopi pubblici. Anche il consiglio georgiano è tra gli attuali affidatari. Il materiale nel documento mostra che il nome della donna che ha fatto il testamento, Sarah bat Menashe Hannah/Jannah/Shvili, è scritto in vario modo, il che può aver provocato un po’ di confusione.

È molto importante notare che quelli che affermano di essere gli eredi della deceduta al momento non hanno dimostrato di essere effettivamente i suoi discendenti e a questo proposito hanno avviato un procedimento giudiziario davanti ad altri tribunali. Ciononostante, e per precauzione, quando il ricorrente ha contattato per la prima volta Rachel Shakarji, la responsabile delle proprietà religiose destinate a fini benefici, lei ha scritto al tribunale e chiesto che venisse emanata un’ingiunzione temporanea che desse indicazioni ai riceventi dell’affido fiduciario di non prendere alcuna iniziativa che potesse modificare la condizione dell’affido da un punto di vista giuridico o economico.

È stata immediatamente consegnata dal tribunale un’ingiunzione e questa rimane in vigore, benché quelli che sostengono di essere gli eredi della persona che ha fatto testamento non abbiano dimostrato il proprio rapporto con lei benché siano passati sei mesi da quando è stata emessa l’ingiunzione temporanea. Considerando il tempo trascorso da quando è stato definito l’affido, l’ubicazione della proprietà e i rivolgimenti avvenuti là, è possibile che ci siano stati degli errori. Tuttavia, come notato, finora la rivendicazione del rapporto familiare tra i ricorrenti e chi ha fatto il documento fiduciario non è stato dimostrato.”

L’avvocato Shlomo Toussia-Cohen, che rappresenta il consiglio georgiano, si è rifiutato di fare commenti per questo articolo. Nella loro risposta al tribunale rabbinico i georgiani hanno affermato che Ben-Yair e sua sorella non hanno dimostrato il proprio rapporto di consanguineità con Sarah Jannah e che le dichiarazioni pubbliche di Ben-Yair sui diritti dei palestinesi indicano che egli cerca di agire contro i principi del documento fiduciario e di conseguenza non è legittimato a una parte di esso.

L’ufficio dell’Amministratore Giudiziario Statale ha risposto: “Questa è una proprietà fiduciaria che è stata gestita dall’ Amministratore Giudiziario e riguardo alla quale negli anni 2000 è stata presentata una richiesta di liberatoria da amministratori fiduciari incaricati. Alla luce del fatto che si tratta di un bene fiduciario per scopi privati, questo ufficio ha aperto un’indagine presso il tribunale che ha nominato gli amministratori fiduciari ed ha espresso la propria posizione secondo cui i parenti della defunta dovrebbero essere nominati fiduciari. Tuttavia questa posizione non è stata accettata dal tribunale e di conseguenza nel 2006 la proprietà è stata lasciata ai fiduciari. È superfluo dire che è dovere dei fiduciari nominati agire in base alle volontà del documento fiduciario come stabilito dalla defunta.”

Yitzhak Mamo e Meyashvei Zion hanno rifiutato di fare commenti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tre eroiche missioni compiute da militari anonimi

Amira Hass

14 giugno, 2021 Haaretz

Sul rafforzamento del regime di Hamas nella Striscia di Gaza e altre conquiste non trascurabili recentemente compiute dall’esercito israeliano

In tempo di guerra sappiamo ciò che fanno le forze di difesa israeliane [esercito israeliano, ndtr]. I soldati, anche se la loro identità non viene rivelata o resa pubblica, ricevono l’abbraccio collettivo della nazione. In tempo di pace non sono sconosciuti solo i soldati, lo sono anche le loro azioni. Ma perché sottovalutarli, perché non lodarli apertamente davanti ai loro genitori? Per esempio: nei sei giorni fra il 3 e il 9 giugno, i soldati dell’IDF [forze di difesa israeliane, ndtr] hanno ucciso tre palestinesi, e ne hanno ferito decine, compiuto 151 blitz in Cisgiordania e Gersusalemme Est, arrestato 99 persone, compresi 16 minorenni, e demolito dieci tende e nove baracche nella zona di Gerico.

Ed ora passiamo dal generale a tre esempi specifici:

La data: 11 giugno

La missione: proteggere in generale l’impresa coloniale e in particolare l’avamposto illegale di Evyatar, vicino a Nablus, che potenzialmente potrebbe espandersi fino a comprendere 600 dunam (circa 15 acri, come rivelato la scorsa settimana ad Haaretz da Daniella Weiss, segretaria generale del movimento coloniale di Nahala, che ha costruito l’avamposto).

L’obiettivo: manifestanti palestinesi che vivono nel villaggio di Beita, sulla cui terra, oltre a quella di altri due villaggi (Yatma and Qabalan), si sta costruendo Evyatar.

L’intervento: l’omicidio per colpi di armi da fuoco del quindicenne Muhammad Said Hamail, il ferimento di undici persone sempre per colpi di armi da fuoco e di altre sei persone per l’utilizzo di proiettili metallici rivestiti di gomma, crisi respiratorie in circa 60 manifestanti per l’uso di gas lacrimogeni e il pestaggio di altri sei.

Il risultato: altre famiglie palestinesi in lutto per avere avuto l’ardire di opporsi al mitzvah [comandamento, ndtr] del furto di terre.

Il contesto: la costruzione dell’avamposto illegale è iniziata ai primi di maggio per separare i circostanti villaggi palestinesi l’uno dall’altro; l’esercito ha lasciato che i coloni continuassero ad erigere le strutture nonostante l’ordine di demolizione emesso dall’Autorità civile. I palestinesi hanno manifestato a Beita e finora tre sono rimasti uccisi, ma continuano a manifestare. L’esercito ha bloccato l’ingresso principale del villaggio.

Il senso dell’attività: Golia, ornato dalle stelle di Davide, cerca di sottomettere, zittire e paralizzare Daoud [variante araba del nome Davide, ndtr]

La data: 9 giugno

La missione: criminalizzare ed indebolire le organizzazioni della società civile palestinese.

L’obiettivo: Health Work Committee, ONG nata nel 1985, che opera per garantire alla comunità palestinese l’accesso a prestazioni sanitarie di elevata qualità. L’ONG ha quattordici ambulatori permanenti e mobili che operano in villaggi e cittadine in Cisgiordania.

L’intervento: alle 5 del mattino un’unità militare israeliana con un gran numero di veicoli ha operato un blitz nel quartiere sud-orientale di Al-Bireh, Sateh Marhaba, facendo irruzione nel quartier generale dell’organizzazione, che occupa due piani dell’edificio di Al-Sartawi. L’unità ha confiscato hard disk e schede di memoria, nonché documenti dagli schedari. Ha bloccato l’ingresso principale con barre di ferro a cui ha appeso un’ordinanza di chiusura di sei mesi; l’ordinanza include il divieto di accesso agli uffici per i dipendenti, che verranno altrimenti arrestati e processati per violazione di un’ingiunzione militare.

Il risultato: l’indebolimento della capacità della ONG di fornire prestazioni sanitarie e proseguire le proprie ricerche in materia di salute pubblica.

Il contesto: le importanti ONG palestinesi nel campo della salute, agricoltura e diritti delle donne sono state costituite negli anni ottanta da organizzazioni palestinesi di sinistra con il duplice obiettivo di lottare per la liberazione nazionale e promuovere il principio dell’uguaglianza sociale. E’ da parecchio tempo che Health Work Committee viene preso di mira dall’esercito, dal servizio di sicurezza dello Shin Bet [l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele, ndtr] e da organizzazioni di spionaggio private quali NGO Monitor [organizzazione con sede a Gerusalemme che analizza e riporta i risultati della comunità internazionale delle ONG, ndtr], in quanto diversi dei suoi dipendenti sono legati al fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Walid Abu-Ras, direttore amministrativo e finanziario del gruppo, è agli arresti con l’accusa di essere coinvolto nell’attacco alla sorgente di Ein Bubin sulle terre del villaggio di Dir Ibzi’a, ad ovest di Ramallah, in cui è rimasta uccisa la diciassettenne Rina Shnerb.

Il senso dell’attività: compiere una rappresaglia contro le migliaia di palestinesi che necessitano delle cure della ONG.

La data: dal 22 maggio in avanti

La missione: distruggere qualsiasi parvenza di un ritorno alla normalità.

L’obiettivo: i due milioni di abitanti della Striscia di Gaza

L’intervento: chiusura dei valichi di frontiera per ridurre ad un minimo “umanitario” sia l’entrata delle merci sia l’ingresso e l’uscita dei palestinesi. C’è l’interdizione a fare entrare il carburante, l’interdizione a commercializzare prodotti agricoli dalla Striscia, l’interdizione a introdurre articoli per posta (compresi i passaporti rilasciati a Ramallah).

I risultati: i malati si aggravano, in bilico fra la vita e la morte, perché non sono autorizzati ad uscire da Gaza per farsi curare quando sussiste ancora qualche speranza di guarigione. Il mercato locale è invaso da prodotti agricoli originariamente destinati ai mercati in Israele e Cisgiordania, e gli agricoltori di Gaza perdono le loro entrate. Le ore in cui arriva l’energia elettrica sono limitate, i luoghi di lavoro paralizzati, aumentano le persone senza lavoro bisognose di assistenza e carità. Si annullano i progetti di viaggi all’estero per lavoro-salute-studio attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, per non parlare dei progetti di visita a familiari all’estero.

Il contesto: dal 1991 Israele sta unilateralmente implementando non la “soluzione dei due Stati”, come si aspettavano i sostenitori degli Accordi di Oslo, [sottoscritti nel 1993 fra Arafat e Rabin, ndtr] bensì la “soluzione” delle dieci enclaves palestinesi (Gaza, Hebron, Yatta, Betlemme, Ramallah, Salfit, Tulkarm-Nablus, Jenin, Tubas e Gerico). Il modello è la Striscia di Gaza; quelle in Cisgiordania sono riproduzioni in scala ridotta. Il presente di Gaza rappresenta il futuro-non-troppo-lontano delle altre enclaves, se non faranno i bravi.

Il senso dell’attività: fingere che Israele stia punendo Hamas, mentre in realtà sta aiutando questa organizzazione a consolidare il proprio regime nella segregazione della Striscia.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




“Ogni minuto ad Al-Aqsa veniva ferito un altro palestinese “

Amira Hass

31 maggio 2021 Haaretz

La polizia ha sparato due volte al fotografo Abdel-Afo Bassam in quel violento venerdì sul Monte del Tempio. Questa rubrica sceglie di raccontare ciò che è ordinario, che non fa sensazione, che si ripete.

Il dipartimento del ministero della Giustizia che indaga sulle accuse di cattiva condotta della polizia non indagherà sugli spari contro Abdel-Afo Bassam e sul suo ferimento: anche se è successo nel cuore del complesso della moschea di Al-Aqsa; anche se era chiaro che il giovane gerosolimitano stava fotografando; anche se la polizia gli ha sparato due volte; anche se era uno dei cinque fotografi palestinesi a cui la polizia ha sparato nel luogo sacro quel giorno, venerdì 7 maggio. Quel giorno un’altra decina di fotografi sono stati attaccati da agenti di polizia in altri luoghi di Gerusalemme.

Questa rubrica vuole raccontare ciò che è ordinario, che non fa sensazione, che si ripete, ciò che è stato dimenticato nella foga degli eventi più drammatici. E in Israele niente fa meno notizia che sparare a un palestinese che sta fotografando.

Bassam, 28 anni, fotografo freelance che vive nel quartiere palestinese di Beit Hanina a Gerusalemme Est, quel venerdì è arrivato nella piazza di Al-Aqsa verso le 18. “L’atmosfera era tranquilla e piacevole, le famiglie arrivavano da ogni parte. Dal nord, da Gerusalemme e dalla Cisgiordania», mi ha detto due giorni dopo. La guerra scoppiata il giorno successivo ha interrotto il mio progetto originale di scrivere sui fotografi presi di mira e feriti.

“Ho fatto delle foto all’ora di pranzo”, ha detto Bassam. “In seguito mi sono avvicinato a Bab al-Silsila [Porta delle catene, una delle porte di quello che gli ebrei chiamano il Monte del Tempio e i musulmani chiamano Al-Haram al-Sharif]. Ho visto che c’era molta tensione e la gente si era radunata per vedere cosa stava succedendo. Ma la gente continuava a offrirsi reciprocamente cibo. Verso le 20 ho sentito la prima granata stordente esplodere nella piazza. La polizia si è radunata a Bab al-Silsila, come se avesse intenzione di fare irruzione. Penso che i giovani abbiano lanciato loro bottiglie di plastica vuote, forse pomodori, per cercare di impedire l’irruzione. Non credo che si siano lanciate pietre”, ha raccontato Bassam.

Se la polizia individua poche persone che stanno commettendo crimini, non ti aspetti che attacchi l’intera piazza piena di decine di migliaia di persone, comprese donne e bambini, giusto? Ma hanno attaccato. La chiamata alla preghiera è iniziata circa mezz’ora dopo la prima granata stordente. E anche prima, e fino alla preghiera notturna, i membri del Waqf [fondazione religiosa islamica] hanno gridato dagli altoparlanti, hanno pregato la polizia di non fare irruzione e hanno chiesto alle persone di mostrare moderazione.

Mi hanno sorpreso le granate stordenti che la polizia ha lanciato sulla piazza e il gran numero di militari che hanno fatto irruzione. In modo aggressivo, sparando alle persone con proiettili di metallo dalla punta di gomma – proprio così, in tutte le direzioni. Ho fotografato il primo ferito: indossava una maglietta rossa, era steso a terra. Pochi secondi dopo sono stato colpito al braccio destro. Guarda, c’è ancora il segno sul braccio, tondo come il proiettile. Sono caduto e dei giovani mi hanno portato in clinica.

Eravamo solo in due, il ragazzo con la maglia rossa e io. E poi, nel giro di meno di 10 minuti, nella clinica non c’era più posto. All’interno c’erano almeno 20 feriti. Alcuni avevano ferite alla testa. Ricordo di aver visto un ragazzo, tre o quattro vecchi e una donna che venivano curati. Ero ancora un po’ stordito. I medici hanno messo del ghiaccio nel punto in cui sono stato colpito. Ho preferito andarmene, per far posto a chi aveva ferite peggiori delle mie. Sono rimasto fuori e non potevo credere che stesse accadendo ciò che stava accadendo. Ogni centimetro era pericoloso.

Gli scontri continuavano, ho cercato un posto un po’ sicuro. Ma la sparatoria proseguiva, non c’era minuto senza che una o più persone fossero ferite. I medici lavoravano senza sosta. Ho fotografato persone in fuga verso la Cupola della Roccia (che di solito è destinata a donne e bambini). C’erano altri quattro o cinque fotografi accanto a me e ho visto la polizia che ci puntava i fucili.

Il soldato che mi ha sparato era a circa 50 metri da me. Ero con la mia macchina fotografica, di fronte a lui, in qualche modo ho girato la testa nel momento in cui ha premuto il grilletto e sono stato colpito sotto la scapola destra, alla schiena. Questa volta era uno sparo intenzionale, non casuale”. Poiché il dolore non diminuiva, Bassam è stato visitato e ha scoperto di avere una costola rotta.

Se non mi fossi voltato, mi avrebbe colpito in un punto più vulnerabile. Ho sentito dalle squadre della Mezzaluna Rossa [la Croce Rossa araba, ndtr.] che tre persone hanno perso gli occhi nella sparatoria di quel giorno. Il gran numero di feriti (205) non è un caso.

Sono caduto di nuovo e mi hanno riportato in clinica. Il dolore era peggiore della prima volta e la clinica era più affollata di prima. Ci sono voluti circa 10 minuti prima che i medici avessero tempo per me. Di nuovo mi hanno messo del ghiaccio sulla ferita e sono andati a prendersi cura degli altri: molti erano stati feriti da schegge di granate stordenti e sanguinavano.

Ho visto un ragazzo colpito al petto da un proiettile che sanguinava dalla bocca. Non potevo andarmene, perché continuavano a sparare. Questa volta sono rimasto per circa mezz’ora. Sono uscito e non ho potuto fare foto. Sono stato sorpreso a vedere che la piazza era vuota, solo agenti di polizia ovunque che correvano come pazzi, e tutti i cancelli di uscita dalla piazza erano chiusi, quindi i restanti fedeli non potevano andarsene. La polizia ha chiuso le porte della moschea orientale [la principale] con le catene.

Sono entrato nella Cupola della Roccia, come altri uomini che c’erano entrati per trovare riparo. La gente bloccava le porte in modo che la polizia non facesse irruzione. Ma la polizia ha lanciato granate stordenti alle porte e un poliziotto ha gridato chiedendo a tutti di uscire. Ero vicino alla porta, ho sentito un membro del servizio d’ordine del Waqf dire a un poliziotto: “Dammi cinque minuti e usciranno tutti”. Il poliziotto ha detto: “Un minuto”. Questo ha davvero spaventato la gente, le donne hanno iniziato a gridare, altri sedevano e leggevano il Corano e piangevano. Sono rimasto lì tutta la notte, sveglio, ho recitato la preghiera dell’alba e sono tornato a casa, stanco morto”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




25 membri del Congresso USA sottoscrivono una lettera a Blinken per sollecitarlo a condannare gli sfratti di Sheikh Jarrah

Ben Samuels

13 maggio 2021 Haaretz

Il rilevante numero di firmatari è segno che all’interno del Partito Democratico sta aumentando la contrarietà ai progetti di evacuazione.

Washington – Venticinque membri democratici della Camera dei Rappresentanti hanno sottoscritto una lettera al Segretario di Stato Antony Blinken chiedendogli di condannare pubblicamente il progetto di sfratto dei palestinesi dalle loro case nel quartiere di Gerusalemme Est Sheikh Jarrah situate su terreni rivendicati dai coloni israeliani, e di esercitare pressione diplomatica su Israele per evitare l’implementazione del progetto.

Il numero dei firmatari della lettera, fatta circolare per quasi una settimana dai rappresentanti Marie Newman e Mark Pocan, è decisamente più alto di quello previsto, ed è un segno che all’interno del Partito Democratico sta crescendo la contrarietà a quei progetti di evacuazione.

Le critiche dei Democratici arrivano mentre le tensioni in Israele hanno raggiunto un punto di rottura, e un numero senza precedenti di membri di diverse correnti del Partito esprime un inconsueto sostegno senza riserve per i palestinesi di Sheikh Jarrah, nonché critiche per il trattamento da parte di Israele dei manifestanti di Gerusalemme.

Newman e Pocan sono co-promotori di una proposta di legge presentata da Betty McCollum che specifica quali azioni non possano venire finanziate da Israele utilizzando denaro dei contribuenti USA, ed inoltre richiede controlli aggiuntivi sulle modalità di distribuzione degli aiuti. Il disegno di legge proibisce specificamente la distruzione delle proprietà dei palestinesi e McCollum dichiara che “i contributi USA destinati alla sicurezza di Israele dovrebbero promuovere la pace e non potranno mai essere impiegati per violare i diritti umani dei minori, demolire le case delle famiglie palestinesi, o per annettere in via permanente le terre palestinesi.”

Fra i firmatari della lettera compaiono altri co-promotori del disegno di legge McCollum, fra cui Pramila Jayapal, Betty McCollum, Rashida Tlaib, Raul Grijalva, Ilhan Omar, Alexandria Ocasio-Cortez, Andre Carson, Jesus “Chuy” Garcia, Cori Bush, Judy Chu, Ayanna Pressley, Bobby Rush e Eddie Bernice Johnson.

Ad essi si sono aggiunti diversi rappresentanti che non comparivano nel disegno di legge McCollum, fra cui Gerald Connolly, Jared Huffman, Peter Welch, Judy Chu, Alan Lowenthal, Veronica Escobar, Jackie Speier, Anna Eshoo, Chellie Pingree, Debbie Dingell e Hank Johnson.

“Le famiglie palestinesi hanno tutti i diritti di vivere in sicurezza all’interno delle proprie case. Ecco perché ho proposto ai miei colleghi di scrivere insieme al Dipartimento di Stato chiedendo l’immediata condanna di queste brutalità perpetrate dal governo israeliano contro le famiglie palestinesi a Gerusalemme Est. L’America deve difendere i diritti umani dovunque,” ha dichiarato Newman in un comunicato. La lettera afferma che “i progetti israeliani di demolire le case palestinesi di Al-Bustan [sobborgo a sud della moschea di al-Aqsa, Gerusalemme, ndtr.] e di cacciare i palestinesi dalle proprie case di Sheik Jarrah costituiscono un’evidente violazione della Quarta Convenzione di Ginevra [che protegge da atti di violenza e dall’arbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato,ndtr]

Facendo riferimento ad un dissenso di lunga data da parte degli americani nei confronti delle demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme Est, i legislatori chiedono che l’amministrazione Biden “invii immediatamente il più energico messaggio diplomatico a Israele affinché desista dai suoi progetti” e nel contempo ribadisca pubblicamente che rimane valida la posizione USA sulle demolizioni delle abitazioni in vigore dai tempi dell’amministrazione Nixon.

I parlamentari richiedono inoltre il sollecito riesame di precedenti richieste fatte dal Congresso al Dipartimento di Stato affinché questo indaghi se l’uso di armi statunitensi nella demolizione di case da parte di Israele violi la legge di controllo sull’esportazione di armi [AECA: Arms Export Control Act, 1976, ndtr] e aggiungono che l’ambasciata USA in Israele dovrebbe “inviare osservatori per documentare l’evacuazione forzata dei palestinesi da parte di Israele, comprese informazioni dettagliate sulle unità militari coinvolte in tali operazioni e sull’utilizzo di armi statunitensi, coerentemente ai controlli e rendicontazioni riguardanti la legge Leahy ed eventuali violazioni dell’AECA.

L’AECA dichiara che le armi statunitensi sono vendute esclusivamente per scopi di legittima difesa, mentre la Legge Leahy proibisce agli USA di finanziare l’equipaggiamento e l’addestramento di forze militari straniere sospettate di violazioni di diritti umani o di crimini di guerra.

(Traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




I cittadini arabi di Gerusalemme dimostrano un coinvolgimento senza precedenti nelle proteste a Gerusalemme

Nir Hasson, Yanal Jbareen, Fatima Khamaisi

9 maggio 2021 – Haaretz

Tradizionalmente i cittadini arabi di Israele hanno evitato di unirsi alle lotte dei palestinesi. Tuttavia le recenti proteste di Gerusalemme segnano un radicale cambiamento.

Dei 200 palestinesi feriti nei violenti scontri di venerdì a Gerusalemme, due lo sono stati in modo relativamente grave. Data la partecipazione senza precedenti di cittadini arabo-israeliani agli ultimi incidenti, non è sorprendente che entrambi non siano abitanti di Gerusalemme Est, ma cittadini arabi di Israele.

Secondo Sireen Jbareen, 25 anni, un’esponente di spicco del movimento di protesta dei giovani cittadini arabi, dalla sola città araba di Umm al-Fahm più di 250 manifestanti hanno partecipato alle proteste di venerdì a Sheikh Jarrah. Inoltre le centinaia di dimostranti che venerdì sera si sono scontrate con la polizia nel complesso della moschea di Al-Aqsa erano arrivate da città arabe della parte centro-settentrionale di Israele.

Tuttavia il rapporto tra i palestinesi di Gerusalemme est e i cittadini arabi di Israele è complesso. Da una parte gli arabo-israeliani mediano tra gli abitanti di Gerusalemme est e le autorità israeliane, in quanto la maggioranza di loro ricopre posizioni di spicco nella parte orientale della capitale israeliana (avvocati, presidi di scuola e funzionari di agenzie governative). D’altra parte gli abitanti di Gerusalemme est nutrono risentimento nei confronti dei cittadini-arabo-israeliani benestanti, che, sostengono, hanno dimenticato i loro fratelli di Gerusalemme che soffrono soggetti all’occupazione israeliana.

Negli scorsi anni questo concetto è stato confermato, in quanto solo i palestinesi gerosolimitani hanno partecipato alla lotta di Gerusalemme est. Solo di rado le ondate di protesta a Gerusalemme est, soprattutto riguardo alla moschea di Al-Aqsa, hanno provocato manifestazioni anche altrove in Israele.

Tuttavia nessuno ricorda un coinvolgimento così massiccio di cittadini arabo-israeliani alle manifestazioni di Gerusalemme est. Durante gli ultimi 10 giorni di Ramadan decine di autobus di fedeli, alcuni dei quali hanno preso parte ai recenti scontri con la polizia, sono arrivati nella capitale dalle città e cittadine arabo-israeliane del nord e del centro. Per molti palestinesi, gerosolimitani e non, ciò segna un cambiamento radicale.

La vecchia generazione palestinese, che ha vissuto due intifada all’inizio degli anni ’90 e 2000, “dice che non ne è uscito niente per loro” e che “hanno ormai perso la speranza,” dice Jbareen. “Ora i giovani sentono di dover uscire (e protestare),” aggiunge. Yara, 21 anni, anche lei di Umm al-Fahm, afferma che “ciò che sta avvenendo a Gerusalemme non succede solo ai suoi abitanti,” sottolineando che gli arabi cittadini di Israele lottano affinché gli arabi in tutto Israele possano esercitare il proprio diritto di rimanere sulla loro terra. Gli abitanti di Umm al-Fahm hanno un ruolo centrale nelle proteste degli arabo-israeliani in generale. Tra i manifestanti palestinesi gerosolimitani i giovani di Umm al-Fahm hanno la reputazione di non aver paura della polizia.

Unirsi ai palestinesi di Gerusalemme è strettamente legato alla recente ondata di proteste a Umm al-Fahm contro l’indifferenza della polizia nei confronti della crescente violenza all’interno della comunità araba. Un paio di mesi fa tre organizzazioni di giovani impegnate nel sociale si sono unite per formare l’“United Fahmawi Movement” [Movimento Unitario Fahmawi] (Fahmawi è il soprannome di chi abita a Umma al-Fahm). I suoi dirigenti coordinano sia le proteste contro la polizia a nord che le proteste a Gerusalemme. Anche le reti sociali hanno giocato un ruolo fondamentale nel riunire i giovani sostenitori della lotta. Sabato molti giovani hanno cambiato l’immagine del proprio profilo sulle reti sociali in solidarietà con i feriti negli scontri nel complesso della moschea di Al-Aqsa usando l’hashtag Palestinian Lives Matter [Le vite dei palestinesi contano, in riferimento al movimento degli afroamericani contro le violenze della polizia negli USA, ndtr.].

Recentemente persino la comunità drusa di Israele, che in genere evita di unirsi alle proteste della comunità araba e sicuramente non si fa coinvolgere in quelle dei palestinesi di Gerusalemme, ha iniziato a postare video su social media utilizzando l’hashtag Save Sheikh Jarrah” [Salvare Sheikh Jarrah]. Finora, domenica [9 maggio], l’hashtag ha ricevuto più di 1.5 milioni di condivisioni su Twitter ed è comparso nel pannello di tendenza in Israele e in Cisgiordania.

“Venerdì, quando sono arrivato a Sheikh Jarrah, ho visto chiaramente la separazione razzista,” dice Shadi Nassar, 23 anni, dalla cittadina arabo-israeliana di Arabeh, nel nord. “Gerusalemme è il centro della questione palestinese, senza di essa non c’è liberazione del popolo palestinese, che vive sotto occupazione e un’ingiustizia storica.” Ha aggiunto che i giovani arabo-israeliani stanno andando a Gerusalemme “per esprimere solidarietà agli abitanti di Sheikh Jarrah la cui capitale sia Gerusalemme” così come nella lotta per la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale.

Lin Jbareen, 17 anni, di Umm al-Fahm, afferma che dopo che “ho visto l’ingiustizia e la sofferenza del (suo) popolo,” ha capito “che la resistenza in ogni sua forma è efficace e quindi sto cercando di fare del mio meglio per partecipare alle manifestazioni e alle iniziative sociali in modo che forse un giorno ci sarà una grande rivoluzione.”

Ibrahim, 18 anni, della città arabo-israeliana di Kafr Kana, sempre nel nord, vede le proteste come un obbligo religioso. “Gli abitanti musulmani di Gerusalemme stanno soffrendo discriminazioni in ogni aspetto della vita, come l’espulsione dal quartiere di Sheikh Jarrah,” dice. “Sono contro le discriminazioni in generale, soprattutto nei confronti dei deboli, e quindi è un mio obbligo religioso appoggiarli,” aggiunge. Yara, 22 anni, della città settentrionale di Baka al-Garbiyeh, sostiene che i cittadini arabo-israeliani giovani si stanno unendo alle ultime proteste “perché siamo un unico popolo, una Nazione, dalla Galilea al Negev, e continueremo ad andare (alle proteste)”, dice.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)