Il Senato irlandese approva una proposta di legge di boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane

Noa Landau

12 luglio 2018, Haaretz

Il governo irlandese si è opposto alla legge, ma i parlamentari indipendenti e dell’opposizione l’hanno appoggiata. Israele: l’iniziativa ‘danneggerà anche i palestinesi’

Mercoledì il Senato irlandese ha approvato una proposta di legge per boicottare i prodotti provenienti dalle colonie della Cisgiordania.

La proposta di legge è passata con 25 voti a favore, 20 contrari e 14 astensioni. Essa vieta “l’importazione e la vendita di prodotti, servizi e risorse naturali provenienti dalle colonie illegali nei territori occupati (da Israele).”

La proposta, prima di diventare legge, deve essere approvata da entrambe le camere del parlamento.

All’inizio di quest’anno una votazione sulla proposta di legge era stata rinviata, su richiesta del governo irlandese. Il governo, dietro pressioni israeliane, ha poi cercato di mitigare il testo, ma non è riuscito a raggiungere un compromesso.

La proposta di legge è passata grazie ai voti dei parlamentari dell’opposizione e indipendenti. La senatrice Frances Black, la parlamentare indipendente che ha promosso il disegno di legge, ha recentemente postato un video che invita gli irlandesi a fare pressione sui loro rappresentanti perché lo sostengano.

Il ministero degli Esteri israeliano ha criticato duramente l’Irlanda dopo l’approvazione della proposta di legge, affermando che “il Senato irlandese ha dato il suo appoggio ad un’iniziativa di boicottaggio anti israeliana populista, pericolosa ed estremista, che nuoce alle possibilità di dialogo tra Israele e i palestinesi.”

Il ministero degli Esteri ha aggiunto che la legge “avrà un impatto negativo sul processo diplomatico in Medio Oriente”, e che “danneggerà il livello di vita di molti palestinesi che lavorano nelle aree industriali israeliane colpite dal boicottaggio.”

Il ministero ha detto che Israele sta ancora valutando la sua risposta sulla base degli sviluppi dell’iter legislativo.

L’alto dirigente palestinese Saeb Erekat si è congratulato con l’Irlanda per la decisione di approvare il disegno di legge, affermando di voler “ comunicare il nostro sincero apprezzamento al Senato irlandese per aver sostenuto a testa alta il principio della giustizia, approvando questa storica mozione che vieta il commercio con le colonie israeliane illegali nella Palestina occupata.”

Oggi il Senato irlandese ha inviato un chiaro messaggio alla comunità internazionale ed in particolare al resto dell’Unione Europea: le sole parole riguardo alla soluzione dei due Stati non bastano, se non si adottano misure concrete”, ha continuato Erekat.

Vorrei approfittare di questa occasione per ringraziare tutti coloro che sono stati coinvolti nell’approvazione di questa proposta di legge, dai partiti politici alla società civile palestinese ed irlandese ed in particolar modo alla senatrice Frances Black per il suo coraggio nel proporre questa mozione che promuove la causa della giustizia in Palestina”, ha affermato.

Le reazioni tra i parlamentari israeliani all’approvazione del disegno di legge sul boicottaggio sono state differenziate. La deputata Ayelet Nahmias Verbin (Unione Sionista [coalizione di centro sinistra, all’opposizione, ndtr.]), membro della Commissione della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa, ha detto che “il boicottaggio irlandese sui prodotti provenienti da Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] potrebbe facilmente slittare verso un boicottaggio sui prodotti israeliani e legittimare altri Paesi europei ad adottare una misura simile.”

Nel frattempo, la deputata Haneen Zoabi (Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, all’opposizione, ndtr.]) si è detta “felice che la proposta di legge sia passata” e che “contenga un importante messaggio politico: è tempo che l’Europa riveda il proprio approccio alla strategia di boicottaggio di Israele che sta diventando ogni giorno più fascista, e il diritto internazionale non fa che indebolirsi di fronte alla distruttività israeliana.”

La protesta di Netanyahu

Originariamente la votazione era prevista in gennaio, ma è stata rinviata dopo che il ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatrice di Irlanda in Israele, Alison Kelly, chiedendo spiegazioni. Il ministero ha agito su richiesta del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è anche ministro degli Esteri.

Kelly ha detto a Rodica Radian-Gordon, responsabile dell’ufficio per l’Europa del ministero [degli Esteri israeliano], che la proposta di legge è stata promossa da parlamentari indipendenti, ma che il governo irlandese vi si è opposto. Ha anche sottolineato che il disegno di legge non era una proposta di BDS [Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni, ndtr.], ma si limitava a invitare al boicottaggio delle colonie.

Netanyahu tuttavia non ha accettato questa argomentazione. Ha denunciato la proposta di legge, dicendo che era intesa a “appoggiare il movimento BDS e danneggiare Israele.” In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio, ha aggiunto che la proposta “fa un favore a coloro che cercano di boicottare Israele ed è assolutamente contraria ai principi di libero commercio e di giustizia.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I rapporti scomparsi sugli erbicidi a Gaza

Amira Hass

9 luglio 2018, Haaretz

Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi con le nostre irrorazioni? Che novità, fa spallucce l’israeliano medio e passa ad un altro canale.

Mentre stavo scrivendo il mio articolo sull’erbicida israeliano irrorato a Gaza, ho appreso che i profughi del 1948 dal villaggio di Salama [villaggio che si trovava nei pressi di Jaffa, nell’attuale Israele, ndtr.] vivono nel villaggio di Khuza’a [nella Striscia di Gaza, ndtr.]. Sono agricoltori, come lo erano molti dei loro genitori e nonni. All’epoca coltivavano limoni, banane e cereali e vendevano i loro raccolti a Giaffa ed anche nelle comunità ebraiche.

Noi tendiamo ad associare i rifugiati palestinesi ai campi profughi. Ma a volte si incontra qualcuno che, anche se esiliato dal proprio villaggio, è riuscito a mantenere lo stesso tipo di vita e le stesse risorse – cioè, a lavorare e vivere dei frutti della terra in Cisgiordania e persino a Gaza. La famiglia Al-Najjar di Khuza’a è uno di questi casi.

Insieme a suo padre, Saleh al-Najjar, di 53 anni, lavora 60 dunams (circa 15 acri) di terra che hanno in affitto a Khuza’a. Impiegano tre braccianti e Saleh dice che tutti e cinque lavorano 12 ore al giorno.

Con i lavori agricoli mantengono una continuità, nonostante siano rifugiati ed abbiano perduto le loro terre di Salama – su cui Israele ha costruito [la cittadina di] Kfar Shalem. Intanto Israele mantiene la continuità danneggiando le loro fonti di reddito e la loro salute. Quando la gente dice che la Nakba non è mai finita, può citare la famiglia Najjar come ulteriore esempio. Uno tra milioni.

Negli ultimi quattro anni i Najjar – come centinaia di altre famiglie nella parte orientale della Striscia di Gaza – hanno imparato a temere anche i piccoli aerei civili.

In primavera e in autunno, a volte anche in inverno, per diversi giorni al mattino compaiono gli aerei, che sorvolano la barriera di separazione. Ma le loro emissioni sono trasportate dal vento verso occidente, attraversano il confine e raggiungono i campi di Gaza. Vedendo i loro raccolti avvizziti, gli agricoltori hanno capito che gli aerei spargono erbicidi.

La paura di questi pesticidi è persino maggiore di quella dei carri armati israeliani che così spesso schiacciano la vegetazione ad ovest della barriera di separazione – dato che gli erbicidi arrivano più lontano, penetrano nel suolo e inquinano l’acqua. La Croce Rossa dice che le coltivazioni fino a 2 km e 200 metri ad ovest della barriera di confine vengono colpite dall’irrorazione. Quelle che si trovano tra i 100 e i 900 metri di distanza sono state totalmente distrutte. I pozzi d’irrigazione situati a distanza di un chilometro sono stati contaminati.

I rapporti di fonte palestinese sui pesticidi che distruggono l’agricoltura di Gaza sono comparsi per la prima volta alla fine del 2014. Un frutto della fantasia? A fine 2015 il portavoce dell’esercito israeliano ha confermato al sito web +972 che si stava effettuando l’irrorazione di pesticidi. Il Centro Al Mezan per i diritti umani, un’organizzazione di Gaza, ha inviato campioni di terra per le analisi di laboratorio. L’esercito non gli ha riferito che cosa venisse irrorato.

L’irrorazione di erbicidi allo scopo di distruggere i raccolti non è il genere di cose su cui il servizio stampa dell’esercito israeliano o il Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori [l’ente militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] sono contenti di parlare o fornire volontariamente informazioni. Né è il tipo di informazione che preoccupa molto gli israeliani, sia sui social media che come usuale argomento di conversazione nelle case israeliane.

“Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi irrorando pesticidi – che c’è di nuovo? Abbiamo fatto lo stesso coi raccolti dei beduini nel Negev (prima che l’Alta Corte di Giustizia lo vietasse in seguito ad una petizione di Adala) e coi terreni di Akraba [villaggio nella zona di Nablus, nei territori palestinesi occupati, ndtr.] negli anni ’70. Se i nostri bravi ragazzi hanno deciso di farlo, deve essere necessario”, dice facendo spallucce l’israeliano medio, prima di cambiare canale. Ecco perché sto cercando di tornare sul canale precedente.

La Divisione di Gaza dell’esercito israeliano decide; il ministero della Difesa paga le compagnie aeree civili per farlo. I campi di spinaci appassiti e le piante avvizzite di prezzemolo occupano la mia mente. Penso anche ai figli di questi piloti: lo sanno che il vento trasporta i prodotti chimici che i loro papà hanno spruzzato e che un altro papà non può comprare le scarpe ed altre cose ai suoi figli a causa dei raccolti distrutti per questo?

Richiesto di un commento, il ministero della Difesa afferma: “L’irrorazione viene eseguita da compagnie debitamente autorizzate in base alla legge del 1956 relativa alla protezione delle piante.” È vero che le due compagnie civili che trasportano i pesticidi al di sopra della barriera di confine – Chim-Nir e Telem Aviation – sono professionisti riconosciuti in questo campo. Il ministero della Difesa dice anche: “L’irrorazione dei campi è identica a quella effettuata in tutto Israele.”

Chiunque abbia scritto quella dichiarazione, o offende l’intelligenza dei lettori israeliani, oppure confida che prenderanno per buone le sue parole e non si preoccuperanno. Entrambe le cose sono vere

Il ministero della Difesa ha solamente rivelato quali sono gli “identici” erbicidi utilizzati, in risposta ad un’inchiesta di Gisha, il Centro Legale per la Libertà di Movimento, in base alla legge per la libertà di informazione. I componenti chimici sono il glifosato, l’oxifluorfen e il diuron.

Nonostante le numerose scoperte riguardo ai rischi ambientali e per la salute posti dal glifosato, esso viene ancora usato in Israele. Ma il portavoce del ministero della Difesa ignora il fatto che, pur con tutto il dibattito su quanto siano dannose queste sostanze per l’ambiente e per la salute della popolazione, il loro scopo è contribuire a proteggere i mezzi di sostentamento degli agricoltori – non distruggere le loro coltivazioni, come stiamo facendo a Gaza.

L’esercito ed il ministero della Difesa sanno che queste sostanze chimiche irrorate non conoscono confine. Il danno sistematico portato ai raccolti palestinesi dall’irrorazione non è casuale, è voluto. Un’altra forma di guerra contro la salute e il benessere dei palestinesi, e tutto sotto la logora copertura della sicurezza.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Manifestazione di israeliane in solidarietà con donne gazawi

Donne israeliane manifestano dall’altra parte del confine in solidarietà con la Marcia delle donne di Gaza.

 “I nostri dirigenti e i loro non vogliono cambiare, per cui tocca a noi”, secondo una delle attiviste pacifiste israeliane che hanno marciato in solidarietà con la prima marcia organizzata delle donne delle continue proteste di Gaza.

Haaretz

 

Kyle Mackie, Jack Khoury – 4 luglio 2018

 

Martedì pomeriggio un gruppo di circa 50 attiviste si è riunito ed ha marciato in solidarietà sul lato israeliano del confine di Gaza durante la prima marcia delle continue proteste di Gaza organizzata dalle donne.

Dopo essersi incontrate nei pressi de kibbutz Nahal Oz, una delle comunità israeliane che si trovano vicino al confine, il gruppo formato soprattutto da donne ha parlato da un cellulare con una delle donne che hanno organizzato la protesta nella Striscia di Gaza.

“Ci ha ringraziate del nostro sostegno e ci ha detto che per loro è molto importante,” ha detto Ghadir Hani, che ha tradotto dall’arabo all’ebraico le parole dell’organizzatrice.

“Ha parlato del potere delle donne, di come il movimento delle “Quattro Madri” ha aiutato Israele ad uscire dal Libano e di come le donne hanno il potere di cambiare le cose,” ha detto, in riferimento a un gruppo di donne i cui figli hanno fatto il servizio militare in Libano e che hanno formato un gruppo di protesta che ha contribuito a indurre Israele a ritirarsi dal Paese.

Hani, che fa parte del movimento politico e sociale di base “Standing Together” [Resistere insieme], ha detto di preferire non rivelare il nome dell’organizzatrice di Gaza. “Standing Together” organizza ebrei e arabi in campagne per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale, e il gruppo ha organizzato l’evento solidale di martedì insieme a un gruppo di abitanti delle comunità di confine di Gaza chiamato “Other Voice” [Altra voce].

La dottoressa Julia Chaitin, del kibbutz Urim, ha parlato all’organizzatrice di Gaza a nome di “Other Voice”. “Le ho detto che da questa parte del confine siamo circa 50 (persone),” ha affermato la dottoressa Chaitin. “Per 10 anni abbiamo continuato a dire che l’assedio deve finire. Che non le vediamo come nemiche, le consideriamo vicine, e che i nostri dirigenti e i loro non vogliono cambiare le cose, per cui spetta a noi farlo.”

Dopo la telefonata, circa metà del gruppo è andata a piedi o in macchina per circa un miglio attraverso le coltivazioni israeliane fino a un posto panoramico da cui le manifestanti di Gaza erano visibili dall’altra parte del confine. Donne mostravano cartelli con slogan come “Un futuro di dignità e speranza da entrambe le parti della frontiera” e ”No alla prossima guerra contro Gaza”, mentre suonavano sirene e l’esercito israeliano sparava contro le manifestanti gas lacrimogeni, molti dei quali sono stati spinti dal vento indietro verso il gruppo di israeliane.  A 17 anni, Dror Adam, di Sderot, era una delle donne più giovani del gruppo. Ha detto di sentire l’importanza di partecipare perché ha sperimentato di persona come la continua violenza della regione colpisca duramente le comunità da entrambi i lati del confine. Nel 2006, quando Dror aveva 7 anni, la casa della sua famiglia è stata distrutta da un razzo sparato in Israele dalla Striscia di Gaza.

“Siamo vicini,” ha detto Dror, parlando delle donne di Gaza. “Mi dispiace per loro e non devono perdere la speranza.”

Ma non tutte le donne che sono venute a solidarizzare vivono nelle comunità vicine. Hamutal Gouri ha viaggiato da Gerusalemme per andare sul confine.

“Volevo essere qui come presenza di donne e uomini che stanno dicendo: ‘Vi ascoltiamo, anche noi siamo qui come donne, come gente che crede nell’attivismo non violento e in una soluzione pacifica del conflitto,” ha detto Gouri.

“Credo che noi – le donne – siamo quelle che possono farlo e arriveranno a un accordo di pace,” ha continuato, “perché penso che abbiamo una prospettiva diversa. Noi diamo il nostro contributo.” A Gaza migliaia di donne palestinesi hanno partecipato a una dimostrazione lungo il confine con Israele. Ci sono notizie secondo cui l’esercito israeliano ha utilizzato misure per disperdere la folla, sparando lacrimogeni e granate fumogene contro la marcia. Fonti palestinesi hanno anche detto che alla manifestazione tre persone sono rimaste ferite da proiettili veri israeliani, nei pressi della barriera e a est di Gaza City.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Repressione proteste a Gaza

Berretti da baseball e abiti civili: anche Hamas ha i suoi soldati in borghese

 

Questa settimana membri di Hamas hanno disperso in modo violento una manifestazione a Gaza contro la divisione politica dei palestinesi ed hanno aggredito i manifestanti che cercavano di fotografarli mentre lo facevano

Haaretz

Amira Hass

29 giugno 2018

Lunedì decine di uomini con in testa kefiah e berretti bianchi da baseball hanno fatto irruzione in una manifestazione che si svolgeva nel centro della città. Sembra l’inizio di un articolo su un’altra protesta dispersa a Ramallah dalle forze di sicurezza in borghese dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ma in realtà ciò che è successo lunedì è avvenuto a Gaza City. Era una manifestazione di poche centinaia di persone che chiedevano la fine della divisione politica tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania e la revoca delle misure punitive che il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha imposto a Gaza.

I manifestanti, come anche giornalisti e associazioni per i diritti umani, sono convinti che dietro alle violenze per interrompere la manifestazione vi fosse il governo de facto di Gaza; in altri termini, Hamas. Ma Hamas e il ministero dell’Interno di Gaza, controllato da Hamas, negano ogni coinvolgimento.

Siti di informazione riferiscono che l’iniziativa della manifestazione proveniva dalla commissione per i prigionieri di Fatah.

Ad uno sguardo superficiale, sembra che questi manifestanti intendessero “rispondere” alle manifestazioni in Cisgiordania contrapponendosi alla divisione politica – la situazione di due governi palestinesi paralleli. A Gaza la richiesta di porre fine alla divisione è uno slogan che viene attribuito soprattutto ai sostenitori di Fatah e agli oppositori di Hamas, in quanto implica il ripristino del controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese su Gaza.

Ma gli ex prigionieri in Israele di tutti i movimenti palestinesi hanno contribuito ad organizzare la protesta a Gaza. Inoltre, uno dei partecipanti alla manifestazione non era altri che Tawfiq Abu Naim, il capo delle forze di sicurezza nella Striscia.

Abu Naim è sopravvissuto ad un attentato alla sua vita in ottobre, attribuito sia allo Stato Islamico che ad Israele. Nel 1989 è stato incriminato in Israele per aver partecipato alla fondazione dell’ala militare di Hamas e per l’uccisione di palestinesi sospettati di collaborare con Israele. È stato condannato all’ergastolo e poi rilasciato nell’ambito dello scambio di prigionieri con Gilad Shalit nel 2011.

Secondo un comunicato stampa di Hamas, alcuni prigionieri di Hamas rilasciati hanno aiutato ad organizzare la manifestazione e Abu Naim avrebbe dovuto parlare durante la protesta, ma il suo discorso è stato annullato a causa dell’opposizione di alcuni manifestanti. Comunque il messaggio era chiaro. Dopotutto, non ha senso che ex detenuti di Hamas, che hanno contribuito ad organizzare la manifestazione, siano responsabili della sua violenta repressione. Loro, ed in particolare quelli rilasciati in cambio di Shalit, sono stati tra i primi danneggiati dalle misure punitive a Gaza da parte di Abbas.

Circa un anno fa Abbas ha sospeso i loro sussidi mensili e – nonostante le proteste e le promesse – questi pagamenti devono ancora essere ripristinati. Nella società palestinese i sussidi mensili sono considerati un adeguato compenso per il sacrificio dei militanti [che lottano] contro l’occupazione e delle loro famiglie; in special modo quando questi militanti dopo il loro rilascio non hanno ottenuto un lavoro ufficiale con un salario.

Violenta parodia

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, con sede a Gaza City, gli individui con i berretti bianchi da baseball sono comparsi subito dopo l’inizio della protesta. Alcuni sono usciti da una moschea lì vicino. Portavano cartelli e gridavano: “Il popolo vuole che Abbas se ne vada” – un’eco degli slogan del Cairo nel gennaio 2011, quando era presidente Hosni Mubarak [si riferisce alle proteste di piazza Tahrir e alla cacciata di Mubarak, ndtr.].

Sembra una parodia della repressione della manifestazione a Ramallah del mercoledì precedente, in cui dei giovani che indossavano berretti da baseball di Fatah hanno attaccato i manifestanti.

Una parodia molto violenta.  I manifestanti hanno rifiutato la richiesta degli organizzatori di “di gridare slogan unitari.” Sono scoppiati scontri e poi, come scritto nel rapporto del Centro Palestinese per i Diritti Umani, agenti di sicurezza in borghese ed alcuni degli uomini coi berretti bianchi da baseball hanno distrutto il palco ed aggredito alcuni partecipanti.

Chiunque cercasse di fotografare o filmare ciò che stava succedendo veniva aggredito dagli agenti in borghese e costretto a cancellare le fotografie. “Quando ho filmato gli attacchi, circa quattro uomini in abiti civili mi si sono avvicinati e mi hanno ordinato di dargli il mio telefonino”, ha detto un attivista di un gruppo per i diritti umani.

“Mi sono rifiutato e allora altri due tipi sono venuti verso di me con dei bastoni in mano. Li ho seminati e sono andato verso un gruppo di civili che poi si sono rivelati essere membri delle forze di sicurezza; si sono qualificati come tali”, ha aggiunto.

“Io mi sono presentato a loro come membro di un gruppo per i diritti umani che ha il diritto di filmare. Ma questo non gli ha impedito di minacciarmi che mi avrebbero arrestato, mi hanno spintonato, ammanettato e hanno preso il mio cellulare.”

Il telefonino è stato restituito dopo che sono state cancellate le fotografie.

Barbe e pistole

Anche un giornalista di una trasmittente radiofonica palestinese ha detto che agenti in borghese gli hanno strappato il telefonino mentre stava filmando gli avvenimenti. Ha detto ad un ricercatore sul campo del Centro Palestinese per i Diritti Umani che la maggior parte degli individui che sono intervenuti nella manifestazione aveva la barba; secondo lui erano chiaramente militanti di Hamas.

Ha identificato i membri delle forze di sicurezza tra i dimostranti dalle pistole che nascondevano e dalle loro radio. Alcuni manifestanti hanno risposto a quelli che intervenivano con grida di “Con l’anima e il sangue ti redimeremo, Abbas.”

Il giornalista ha detto che un alto comandante delle forze di sicurezza di Hamas – che dalle riprese che non sono state cancellate risulta essere Abu Naim – è andato sul palco ed ha dichiarato che nessun membro delle forze di sicurezza era tra gli aggressori. Ma i manifestanti gli hanno gridato che non era vero: la piazza era piena di uomini delle forze di sicurezza. Il comandante se ne è andato e poi sono scoppiati gli scontri, ha detto il giornalista.

Le condanne da parte delle organizzazioni palestinesi, dell’associazione della stampa e dei portavoce di Fatah e dell’ANP in Cisgiordania non si sono fatte attendere. Il ministero dell’Interno di Gaza ha ripetutamente asserito che non solo non era coinvolto negli eventi, ma che aveva dato la sua approvazione alla manifestazione. Come ha detto Hamas in una dichiarazione, gli scontri sono scoppiati tra i manifestanti a causa della forte tensione a Gaza e dell’oppressione patita dalla popolazione.

Forse il ministero dell’Interno e Hamas sono stati talmente sofisticati da irrompere nella manifestazione senza rivendicare di averla repressa? Se il ministero dell’Interno era così favorevole alla protesta, come mai non ha fermato le persone che l’hanno aggredita? Oppure era davvero un’iniziativa personale di teste calde che per caso erano membri di Hamas?

Secondo alcuni partecipanti, gli uomini con i berretti da baseball, mentre attaccavano i manifestanti, gridavano: “Abbasso la laicità”. Pesanti accuse contro la laicità (quasi un sinonimo di “eresia”) venivano lanciate contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in generale, e soprattutto contro i gruppi di sinistra, ma anche contro Fatah, anche se molti dei suoi più importanti dirigenti sono credenti.

I manifestanti di mercoledì a Betlemme erano per lo più di sinistra; una settimana dopo la famosa protesta a Ramallah hanno sfidato l’ANP e si sono uniti alla richiesta di togliere le sanzioni a Gaza.

Questa volta la polizia palestinese ha evitato di interrompere la manifestazione, si è limitata a mantenere l’ordine, ha offerto acqua fresca ai manifestanti e li ha lasciati gridare i loro slogan.

Secondo le notizie di siti di informazione palestinesi, i manifestanti hanno elogiato Mohammed Def, il capo dell’ala militare di Hamas, hanno chiesto la fine della cooperazione sulla sicurezza con Israele ed hanno gridato slogan sprezzanti verso la lotta nonviolenta e a favore della ripresa della lotta armata.

Simili slogan si sentono abitualmente nelle manifestazioni di piccoli gruppi di giovani che si identificano con la sinistra – “dei laici”, per usare le parole di quelli che hanno interrotto la manifestazione di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Farsi una canna nella base militare in Israele

Farsi una canna nella base militare in Israele

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di totalmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone

Haaretz

Amira Hass |

26 giugno 2018

Il consumo di cannabis tra i soldati israeliani (sia nell’esercito che in servizio di leva) è in aumento. Secondo un articolo del quotidiano Yediot Ahronoth [quotidiano di centro, uno dei più letti in Israele, ndtr.] , basato su un’indagine dell’Autorità anti droga di qualche mese fa,  nel 2017 non meno del 54% delle truppe ne faceva uso.

Come dovremmo interpretare l’aumento dell’uso di marijuana e hashish tra i soldati? Forse tutti i discorsi sulla legalizzazione lo hanno agevolato? Si tratta di una politica più flessibile di repressione e punizione dei fumatori nell’esercito? L’articolo di Yedioth non prende in esame le motivazioni del maggior uso, perciò dobbiamo basarci su ipotesi.

Il giornalista, Amir Shouan, ha parlato con soldati di entrambi i sessi in diverse unità ed ha appreso che ci sono anche comandanti che si drogano e comandanti che sanno quali tra i loro soldati fanno uso di cannabis. E ci sono soldati che guadagnano soldi facili utilizzando applicazioni per vendere hashish. Gli spacciatori fanno persino sconti ai soldati.

L’uso di droga non si limita ai periodi di licenza. “In molte unità, alcune delle quali operative e riservate, fumare cannabis è diventato un fatto diffusopersino all’interno delle stesse basi”, scrive Shouan.

L’istinto immediato è trovare una spiegazione positiva al fenomeno. I soldati, per quanto giovani e programmati, si rendono conto che quello che stanno facendo è male: irrompere nelle case; svegliare i bambini nel cuore della notte puntandogli contro i fucili; sparare agli abitanti di quella prigione che è Gaza, che siano manifestanti, pescatori, pastori o agricoltori; proteggere le demolizioni delle case e dei serbatoi d’acqua della gente; o rimanere passivi in base agli ordini mentre ebrei mascherati attaccano pastori e contadini palestinesi.

Una sorta di conferma di questa interpretazione viene da una soldatessa di nome Shira, che ha detto a Shouan di soffrire di turbe emotive a causa del suo servizio militare. “E allora la sola cosa che ti aiuta è  drogarti. La cannabis ti aiuta a rilassarti, a sopportare il dolore – mentale e fisico – e i pensieri. E quando lo fai con un’altra persona, quando c’è qualcuno che ti è complice nel reato, per un momento dimentichi tutti i tuoi problemi.”

Yuval, un soldato in prima linea, spiega perché i soldati si drogano: “E’ un modo gradevole, divertente, per sopportare la situazione. A volte molte cose non hanno senso, ordini noiosi o tutte quelle cose che dobbiamo fare e con cui non siamo d’accordo. Quando sei fatto, ti butti tutto alle spalle. Dici ‘tutto bene, fantastico.”

I pensieri, il dissenso: Bertolt Brecht scrisse una poesia ottimista nel 1938, intitolata “Generale, il tuo carro armato…”: “Generale, l’uomo può fare di tutto / può volare e può uccidere / ma ha un difetto / può pensare.”

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di essenzialmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone che si oppongono al governo da dittatura militare che è loro imposto. Forse la droga li aiuta a coprire l’ipocrisia. I soldati sono dipinti come i difensori del popolo, mentre sanno che la loro missione è assicurare la tranquillità e l’espansione dell’impresa di colonizzazione.

L’interpretazione ottimistica suggerisce che i soldati sperimentano in ogni istante il contrasto tra la pretesa moralità di Israele e ciò che in realtà si richiede loro di fare. Sballarsi attenua piacevolmente la vergogna. Il crescente uso di cannabis deriva da un diffuso senso di colpa.

L’interpretazione pessimistica ci ricorda che siamo molto lontani dal 1938, e che Brecht si sbagliava. I soldati pensano che i loro generali abbiano ragione. Si identificano con il loro ruolo e la loro missione, ed anche con Israele. Cercano solo un modo per migliorare le proprie prestazioni.

Uno dei danni emotivi attribuiti all’uso della cannabis è l’aumento dell’aggressività. In un esercito come il nostro, che deve continuamente ricordare a chi è assoggettato che il suo giusto ed eterno posto è in basso, l’aggressività personale non è un difetto. Fa parte dello schema di lavoro.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le sei cose che mostrano le truppe palestinesi nel reprimere le proteste a Ramallah

Haaretz

Amira Hass

18 giugno 2018,

La violenta repressione, mercoledì scorso, da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di una manifestazione di protesta contro le politiche restrittive dell’ANP nei confronti di Gaza dimostra:

  1. Che l’ANP ed il partito alla sua guida, Fatah, non intendono tenere elezioni parlamentari

Chiunque abbia interesse a svolgere libere elezioni non reprime brutalmente una piccola manifestazione con modi che coniugano i metodi dell’occupazione israeliana con quelli delle forze di sicurezza siriane ed egiziane. Chiunque voglia vincere le elezioni non ricorre a metodi che repellono alla maggioranza della propria popolazione, allontanandola ancor più dalla sua dirigenza non eletta.

2.     Che il movimento di Fatah si aggrappa con tutte le sue forze al misero potere che gli deriva dal gestire l’ANP sotto il feroce regime militare israeliano.

Altrimenti si sarebbe pubblicamente e immediatamente dissociato dal modo in cui le agenzie di sicurezza palestinesi hanno strumentalizzato i giovani identificati come membri di Fatah. (Si è detto che almeno alcuni provenivano dal campo profughi Jalazun, come Rami Younes, che scrive sui siti web israeliani Sihah Mekomit e +972. Younes ha partecipato alla manifestazione di mercoledì sera e ne ha riferito agghiaccianti dettagli).

3. Che la paura del presidente palestinese Mahmoud Abbas all’interno del movimento Fatah è molto forte

Ci sono membri di Fatah contrari alla repressione della manifestazione che chiedeva la revoca delle misure punitive imposte da Abbas a Gaza, pur condividendo le critiche rivolte ai manifestanti (per esempio, che minimizzano la responsabilità di Hamas per la situazione a Gaza e il suo sottrarsi ai propri obblighi verso la popolazione civile della Striscia). Questi oppositori all’interno di Fatah restano in silenzio per paura di perdere i loro salari o di essere probabilmente estromessi dalle istituzioni di Fatah, in cui si sentono a casa propria.

4. Che l’ANP è capace di programmare ed organizzare quando vuole farlo, diversamente dall’impressione che hanno gli impiegati nei suoi ministeri

Là regna il caos, la mancanza di pianificazione e organizzazione e lo scarso coordinamento, oltre a una buona dose di apatia.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita in modo straordinario a mettere insieme il lavoro di molte delle proprie istituzioni per scoraggiare potenziali manifestanti dal farsi vedere, e poi a reprimere e punire quelli che non si erano lasciati intimorire. Queste istituzioni includono il governo dell’ANP, l’ufficio del presidente, le forze di sicurezza ufficiali e anche poliziotti in borghese – attivisti di Fatah o qualcuno che finge di esserlo. Tutti hanno lavorato all’unisono come in un macchinario ben oliato.

Sono stati tutti preceduti da redattori, artisti grafici e tipografie che hanno preparato poster giganti appesi in piazza Manara a Ramallah, inneggianti all’ANP ed al suo sostegno finanziario alla Striscia di Gaza, affermando al contempo che la radice del disastro di Gaza sia stata il “colpo di stato” di Hamas (con riferimento alla presa in carico da parte di Hamas delle agenzie di sicurezza nella Striscia di Gaza nel 2007, in seguito alla vittoria del movimento nelle elezioni parlamentari). I poster contenevano anche una propaganda di bassa lega sul fatto che i manifestanti fossero dipendenti di ONG rimpinguate da denaro estero e lavorassero per un progetto straniero.

Martedì scorso il governo palestinese ha condannato le proteste che si erano già svolte prima di mercoledì sera, sostenendo che spostavano l’attenzione dalla responsabilità dell’occupazione israeliana e di Hamas per la situazione a Gaza. La sera stessa è stata diffusa una dichiarazione pubblica secondo cui, su consiglio del consulente di Abbas per gli affari locali, è stato deciso che le manifestazioni e le proteste sarebbero state vietate fino alla fine del Ramadan e della festa di tre giorni di Id al-Fitr, che è iniziata giovedì notte, per evitare di disturbare le festività e lo shopping festivo.

Quelli che hanno sfidato il divieto si sono scontrati con un forte e variegato contingente di forze di sicurezza palestinesi. Nello stesso momento in cui le forze hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni e granate stordenti, e le squadracce in borghese hanno iniziato a confiscare macchine fotografiche e ad aggredire e arrestare manifestanti, sia uomini che donne, a Nablus si stava svolgendo una manifestazione a sostegno di Abbas. Ma nessuno ha disperso quella manifestazione.

5. Che lo status quo è molto apprezzato dall’ANP

L’accordo di Taba del 1995 con Israele vieta ai servizi di sicurezza palestinesi di operare nell’area B della Cisgiordania – la parte ufficialmente sotto controllo militare israeliano e controllo civile palestinese ( in base agli accordi di Oslo, ndtr.) – a meno che ciò sia concordato con Israele. Gli vieta anche di operare nell’area C, che è sotto il totale controllo militare e civile israeliano. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono nelle aree B e C, dove si trovano esposti alla violenza dei coloni ebrei e della polizia ed esercito israeliani. L’accordo di Taba è scaduto 19 anni fa, ma l’ANP continua ad osservarlo e non dispiega le proprie forze di sicurezza per difendere fisicamente il suo stesso popolo. Se lo facesse, chissà quali ritorsioni farebbe Israele, forse cancellerebbe le concessioni alla libertà di movimento di cui godono gli alti dirigenti, oppure i permessi di commercio e di estrazione che loro ed i loro parenti hanno ottenuto.

6. Che il governo palestinese aveva ragione a dire che la protesta spostava l’attenzione dall’occupazione

Questo articolo si occupa della violenta repressione della protesta, invece di dedicarsi al fatto che Israele ha prorogato di altri quattro mesi la detenzione amministrativa della deputata palestinese Khalida Jarrar, che è già stata in prigione un anno senza processo. Non stiamo scrivendo dell’ordine di demolizione emesso per la casa di Latifa Abu Hamid nel campo profughi di Al-Amari. Uno dei suoi figli è sospettato dell’uccisione di un soldato dell’unità Duvdevan, che faceva parte delle forze che hanno attaccato il campo circa un mese fa. Israele non riconosce il diritto dei civili palestinesi a difendersi dalle incursioni armate israeliane. Ancor prima che il figlio compaia davanti ad un tribunale militare, tutta la sua famiglia viene punita.

Provate ad immaginare che cosa accadrà nel piccolo e affollato campo quando l’esercito israeliano vi entrerà con i bulldozer e i carri armati. E chi sarà assente? Le forze di sicurezza palestinesi, quelle stesse che sono state addestrate in Russia e Giordania, Egitto e Romania e dall’FBI e dalle polizie europee e che hanno disperso con la violenza una pacifica protesta in piazza Al-Manara a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Giornalisti picchiati, macchine fotografiche distrutte: la polizia palestinese disperde la protesta anti-Abbas a Ramallah

Amira Hass, Jack Khoury

14 giugno 2018, Haaretz

Decine di persone picchiate e arrestate, tra cui giornalisti stranieri, nella repressione delle manifestazioni contro le sanzioni economiche di Abbas a Gaza

La polizia antisommossa dell’Autorità Nazionale Palestinese ha sciolto con la forza una manifestazione a Ramallah mercoledì sera, imponendo il divieto di protesta in nome della festa di Id al-Fitr, che segna la fine del mese di digiuno del Ramadan.

La polizia ha arrestato giornalisti e decine di dimostranti, ha rotto le telecamere e picchiato molti dei manifestanti.

I dimostranti chiedevano al presidente palestinese Mahmoud Abbas di rimuovere le sanzioni che ha imposto a Hamas e ai residenti della Striscia di Gaza, dopo che Hamas ha fallito nel portare avanti un accordo di condivisione del potere.

Le forze di sicurezza palestinesi hanno sparato gas lacrimogeni, granate stordenti e sparato proiettili in aria. Hanno confiscato fotocamere e smartphone, ne hanno rotti alcuni e hanno ordinato ai giornalisti di non intervistare i dimostranti. La polizia ha arrestato giornalisti stranieri e palestinesi e ha picchiato un gran numero di manifestanti. Anche molti cittadini israeliani hanno partecipato alla protesta.

Nonostante la violenta repressione della protesta, un piccolo gruppo di manifestanti è riuscito a sfuggire alla polizia e si è radunato nelle strade secondarie, scandendo slogan come: “Disgrazia e vergogna” e “Con anima e sangue ti riscatteremo, Gaza.

I corrispondenti riferiscono che da sei a quindici persone sono state ricoverate in ospedale per ferite tra cui l’inalazione di gas lacrimogeno. Decine di persone sono state arrestate; un rapporto porta il numero a 80, tra cui alcune giovani donne. I giornalisti stranieri presi in custodia sono stati rilasciati durante la notte.

Mercoledì la polizia palestinese ha disperso una protesta simile a Nablus.

Martedì scorso, l’Autorità Nazionale Palestinese ha vietato le dimostrazioni fino alla fine dei tre giorni di festeggiamenti per Id al-Fitr, che segnano la fine del mese di digiuno del Ramadan. L’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato che la decisione era stata presa per evitare qualsiasi interruzione alle celebrazioni festive. L’ultimo giorno del digiuno è giovedì e la festa inizia la sera, dopo il tramonto.

Mercoledì gli organizzatori, un gruppo di personaggi pubblici e di attivisti sociali che hanno aperto la pagina Facebook “Le sanzioni contro Gaza sono un crimine”, hanno annunciato che avrebbero comunque svolto la manifestazione disobbedendo al divieto. Prima di quest’ultima dimostrazione, una dichiarazione rilasciata dagli organizzatori ha riferito che essi sono stati oggetto di una campagna diffamatoria sui social media, che si diceva contenesse minacce e intimidazioni e li aveva presentati come agitatori esterni.

La prima di una serie di proteste contro le sanzioni di Abu Mazen a Gaza si è tenuta domenica sera con circa 1.500 partecipanti. Una seconda protesta molto più piccola si è tenuta martedì pomeriggio.

Quando mercoledì i manifestanti sono arrivati a piazza Manara a Ramallah, sono stati accolti da un gran numero di poliziotti palestinesi in tenuta antisommossa, con uniformi nere e mimetiche, armati di fucili, gas lacrimogeni, granate assordanti e manganelli. La polizia ha cercato di impedire ai manifestanti di riunirsi e ha ordinato a tutti di disperdersi e di lasciare immediatamente la strada.

I testimoni dicono di aver visto la polizia afferrare un manifestante, picchiarlo e condurlo a un veicolo della polizia, mentre altri ufficiali hanno cercato di sgomberare la strada principale dal resto dei manifestanti. Poiché non ci sono riusciti, i poliziotti hanno iniziato a sparare gas lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti e i molti passanti che riempivano le strade la sera dopo la fine della giornata di digiuno del Ramadan.

Forze di sicurezza in borghese hanno picchiato i manifestanti e anche arrestato alcuni di loro nelle strade piene di gas lacrimogeni. Dopo che queste misure non sono riuscite a fermare la protesta, un terzo gruppo è apparso in abiti civili con cappelli da baseball del movimento Fatah. Anche loro hanno picchiato i manifestanti e cercato di disperdere la folla, mentre urlavano slogan a sostegno di Abbas e in memoria di Yasser Arafat.

In risposta all’arresto dei giornalisti, l’associazione della stampa palestinese ha rilasciato una dichiarazione secondo cui i suoi membri non avrebbero pubblicato notizie sul governo dell’Autorità Nazionale Palestinese e le forze di sicurezza fino a nuovo avviso. Hanno invitato il primo ministro palestinese Rami Hamdallah a dimettersi, ritenendolo responsabile della repressione delle proteste. Molti commenti sulla pagina Facebook dell’associazione hanno accusato lo stesso Abbas della decisione di reprimere la protesta. Non è la prima volta che l’Autorità Nazionale Palestinese ha usato una simile violenza per reprimere le proteste e mettere a tacere l’opposizione.

Le proteste erano contro una serie di sanzioni economiche che Abbas ha imposto a Gaza dopo la rottura dell’accordo di riunificazione dello scorso anno. Ad aprile sono stati congelati i salari agli impiegati dell’ANP nella Striscia. I funzionari hanno riferito di piani per estendere ulteriormente queste misure – che hanno aggravato una situazione già disperata di povertà a Gaza – e per interrompere anche il servizio bancario e Internet.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Dopo aver ucciso Razan al-Najjar, Israele assassina il suo personaggio

Gideon Levy

10 giugno 2018, Haaretz

Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda

Poche parole – “Razan al-Najjar non è un angelo della misericordia” – riassumono la profondità della propaganda israeliana. Avichay Edraee, il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, che parla anche in mio nome, è il rappresentante di un esercito della misericordia che ora si è autonominato giudice del livello di misericordia di una dottoressa che curava un ferito palestinese sul confine di Gaza con Israele e che i soldati dell’esercito israeliano hanno ucciso senza misericordia. Dopo averla uccisa, era anche necessario assassinare il suo personaggio.

La propaganda è uno strumento a disposizione di molti Paesi. Meno le loro politiche sono giuste, più incrementano i propri sforzi propagandistici. La Svezia non ha bisogno di propaganda. La Corea del Nord sì. In Israele viene chiamata ‘hasbara’ – diplomazia pubblica – in quanto: perché avrebbe bisogno di propaganda? Recentemente la sua propaganda è scesa a una bassezza talmente deprecabile che niente può dimostrare meglio di così che le sue giustificazioni sono esaurite, le sue scuse finite, che la verità è la nemica e che ciò che rimane sono menzogne e calunnie.

Si rivolge soprattutto al consumo interno. Nel resto del mondo pochi abitanti di Gaza ci crederebbero in ogni caso. Ma come parte del disperato tentativo di continuare con la repressione e la negazione psicologiche, nell’incapacità di dirci la verità e nell’elusione di ogni responsabilità – tutto è accettabile quando si tratta di questi sforzi.

Una dottoressa con un camice da infermiera è stata uccisa con un colpo di fucile da cecchini dell’esercito israeliano – come hanno fatto con giornalisti con i giubbotti con la scritta “stampa” e con un invalido senza gambe su una sedia a rotelle. Se ci fidiamo dei cecchini dell’esercito israeliano per sapere cosa stanno facendo, contando su di loro per essere i più corretti al mondo, allora queste persone sono state uccise deliberatamente. Sicuramente se l’esercito credesse alla giustezza della campagna militare che sta combattendo a Gaza, si sarebbe preso la responsabilità di queste uccisioni, manifestando rincrescimento e offrendo un risarcimento.

Ma quando la terra scotta sotto i nostri piedi, quando sappiamo la verità e capiamo che sparare contro manifestanti e ucciderne più di 120 e rendere centinaia di altri disabili assomiglia di più a un massacro, non si può chiedere scusa e esprimere rincrescimento. E allora l’aggressiva, goffa, imbarazzante e vergognosa macchina della propaganda del portavoce dell’esercito entra in azione – una fragorosa voce dal ministero della Difesa che aggrava semplicemente quello che è stato fatto. Martedì il maggiore Edraee ha reso pubblico un video in cui si vede da dietro un’infermiera, forse Najjar, mentre lancia lontano un lacrimogeno che i soldati avevano sparato verso di lei. Lo stesso Edraee avrebbe fatto altrettanto, ma quando si tratta di una propaganda disperata, è una prova inconfutabile: Najjar è una terrorista. Ha anche detto di essere uno scudo umano. Sicuramente un medico è un difensore di esseri umani.

Un’inchiesta militare israeliana, basata ovviamente solo su testimonianze dei soldati, dimostra che non è stata colpita volontariamente. Chiaro. La macchina della propaganda è andata oltre ed ha suggerito che potrebbe essere stata uccisa da armi da fuoco palestinesi, che sono state usate molto di rado durante gli ultimi due mesi.

Forse si è sparata da sola? Tutto è possibile. E ci ricordiamo forse di una qualunque inchiesta dell’esercito israeliano che abbia dimostrato il contrario? L’ambasciatore israeliano a Londra, Mark Regev, che è un altro grande, raffinato propagandista, è stato veloce nel twittare in merito alla “dottoressa volontaria” tra virgolette, come se una palestinese non potesse essere una dottoressa volontaria. Invece, ha scritto, la sua morte è “un ulteriore dimostrazione della brutalità di Hamas.”

L’esercito israeliano uccide un medico in camice bianco, durante una vergognosa violazione delle leggi internazionali, che garantiscono protezione al personale medico in zone di conflitto. E ciò nonostante il fatto che il confine di Gaza non costituisca una zona di guerra. Ma è Hamas che è brutale.

Uccidimi, signor ambasciatore, ma chi potrebbe mai seguire questa logica contorta, malata? E chi può credere a questa propaganda a buon mercato se non qualche membro del Consiglio dei Deputati degli Ebrei Britannici – la più grande organizzazione rappresentativa dell’ebraismo britannico – insieme a Merav Ben Ari [del partito di centro Kulanu, all’opposizione, ndt.], la deputata della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] che ha subito approfittato dell’occasione e ha dichiarato: “Risulta che la dottoressa, proprio quella, non era solo un medico, come vedete.” Sì, quella. Come vedete.

Israele avrebbe dovuto essere scioccato dall’uccisione della dottoressa. Il volto innocente di Najjar avrebbe dovuto toccare ogni cuore israeliano. Organizzazioni di medici avrebbero dovuto esprimersi. Gli israeliani avrebbero dovuto nascondere la faccia per la vergogna. Ma sarebbe potuto succedere solo se Israele avesse creduto alla giustezza della propria causa. Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda. E da questo punto di vista, forse questa caduta ancora più in basso annuncia novità positive.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ministro della Difesa di Israele definisce l’idea di aiutare Gaza ‘delirante’. Ma mente intenzionalmente

Noa Landau

10 giugno 2018, Haaretz

Domenica mattina il ministro della Difesa [israeliano] Avigdor Lieberman si è nuovamente pronunciato contro gli aiuti umanitari a Gaza.

In un’intervista alla radio dell’esercito prima dell’incontro del comitato sulla sicurezza di domenica su questo argomento, Lieberman ha definito l’ipotesi che misure di aiuto umanitario condurrebbero alla cessazione del terrorismo “allucinante e delirante”. Ma alla domanda di specificare che cosa avrebbe consigliato precisamente a riguardo, ha eluso una chiara risposta ed ha continuato ad esprimersi con slogan.

Lieberman, capo del partito Yisrael Beitenu [“Israele Casa Nostra, partito di estrema destra nazionalista, ndtr], in un certo senso ha ragione; le misure di aiuto umanitario qui e nella Striscia di Gaza non sono una soluzione a lungo termine ad un problema che verte essenzialmente sulle aspirazioni alla liberazione nazionale. Ma ha anche torto e mente, perché sa molto bene che la posizione del suo governo, propugnata dall’esercito e dal suo ministero, sostiene gli aiuti umanitari affiancati a vari interventi di sostegno allo scopo almeno di interrompere la violenza nella regione.

Ma è vero che la drammatica situazione economica a Gaza non influisce sul livello delle minacce terroristiche? Dipende da chi si interpella nel governo e da quanto sono negativi i sondaggi per l’intervistato. Solo la scorsa settimana, durante la sua visita in Europa, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto ai giornalisti che l’escalation nella Striscia è dovuta allo strangolamento economico, “chiaro e semplice”, come ha detto lui. Ovviamente Netanyahu accusa Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese per la crisi, a causa degli “enormi investimenti sotterranei” di Hamas, cioè i tunnel. Ma il risultato, secondo il primo ministro, è che “stanno soffocando sul piano economico e hanno deciso chiaramente e semplicemente di schiantarsi contro la barriera (di confine).”

Netanyahu ha anche detto: “Stiamo esaminando varie possibilità per prevenire una crisi umanitaria là [a Gaza]. Israele è quello che fa di più e forse l’unico che si attiva su questo problema.” L’ultima affermazione non è esatta; si stanno sollecitando sforzi internazionali non meno che quelli israeliani per una soluzione e, a differenza di Israele, i governi stranieri stanno anche investendo denaro dei propri cittadini. Ma nei mesi scorsi Israele ha certamente bussato ad ogni porta per raccogliere fondi per l’assistenza a Gaza. Per esempio, a gennaio, durante una conferenza di emergenza a Bruxelles dei Paesi e delle organizzazioni donatori verso i palestinesi, Israele ha presentato un piano di emergenza per la ricostruzione umanitaria di Gaza ed ha chiesto alla comunità internazionale di finanziarlo.

Il piano israeliano per salvare Gaza, che è stato preparato sotto la guida del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori – cioè dell’esercito, quindi dell’ambito di competenza di Lieberman – comprende una proposta di costruzione di un impianto di desalinizzazione, un impianto di depurazione, un impianto di raccolta dei rifiuti, il potenziamento della zona industriale di Erez e altre voci, per un costo totale previsto di 1 miliardo di dollari. Israele ha proposto di fornire competenze tecniche e tecnologia per i progetti e di avere maggiore flessibilità riguardo all’importazione di materiali “a doppio utilizzo”, che potrebbero essere usati anche per atti di terrorismo, a Gaza. Questo significa che ci può essere più flessibilità nel blocco quando Israele lo decide. L’ex Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori, general maggiore Yoav Mordechai, ha detto più volte in passato che “il problema è soprattutto di Hamas e dell’ANP, ma ha un forte impatto su Israele. È una componente ulteriore della concezione di sicurezza dell’esercito

La buona notizia, se così si può dire, è che anche il pubblico israeliano sembra ormai capire la falsità di politici come Lieberman e i suoi epigoni. In un’inchiesta condotta di recente dall’israeliana “Meet the Press” [‘Incontra la stampa’, programma televisivo di Canale 2 israeliano, ndtr.], come risposta alla domanda su che cosa dovrebbe fare Israele riguardo alla Striscia di Gaza, il 41% degli israeliani era d’accordo che Israele dovrebbe fornire “aiuto agli abitanti della Striscia di Gaza”. Questo dato va raffrontato con il 28% che ha detto che Israele dovrebbe “sconfiggere e rovesciare il governo di Hamas”, il 18% che ha auspicato di “lasciare la situazione com’è”, e l’11% senza un’opinione su una questione che influisce così pesantemente sulle loro vite e su quelle dei loro vicini. E questa è la risposta migliore ai politici populisti e incendiari: la gente non è sempre stupida.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Pare che quattro palestinesi siano stati uccisi e decine feriti da fuoco israeliano durante proteste a Gaza*

Jack Khoury, Yaniv Kubovich, Almog Ben Zikri

8 giugno 2018, Haaretz

 In migliaia hanno protestato in cinque punti nei pressi della barriera di confine Oltre 600 feriti, di cui 117 da proiettili veri L’esercito israeliano piazza batterie “Iron Dome” per fronteggiare il lancio di razzi I palestinesi chiedono all’Assemblea Generale dell’ONU di condannare Israele.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza venerdì quattro palestinesi sono stati uccisi e 92 feriti dal fuoco dell’esercito israeliano durante proteste sul confine di Gaza. In migliaia hanno partecipato a quella che si prevedeva sarebbe stata la più grande marcia contro la barriera di confine israeliano da settimane.

Secondo il ministero 618 palestinesi sono stati feriti in totale negli scontri fino alle 7 di sera, di cui 254 sono stati ricoverati in ospedale. Uno dei feriti era in condizioni gravissime, otto hanno subito gravi ferite e 125 sono stati lievemente feriti. Il ministero afferma che 117 persone sono state colpite da proiettili veri.

L’esercito israeliano si stava preparando nel caso in cui Hamas e la Jihad Islamica palestinese avessero iniziato a sparare colpi di mortaio e razzi quando fossero finite le proteste. L’esercito ha schierato un numero significativo di batterie “Iron Dome” [sistema di difesa antimissile, ndt.] nei pressi delle vicine comunità [ebreo-israeliane, ndt.].

Mentre nelle settimane precedenti l’esercito ha affermato che Hamas non era interessato a uno scontro più ampio, il recente lancio di decine di colpi di mortaio contro Israele ha portato l’esercito a pensare che i gruppi islamici potessero cercare uno scontro limitato che includesse il lancio di razzi. Circa 10.000 dimostranti hanno manifestato in cinque punti lungo la barriera. Una postazione dell’esercito israeliano è stata danneggiata quando è stata colpita da spari da Gaza durante le proteste. Inoltre decine di aquiloni e di palloni aerostatici che trasportavano bottiglie molotov ed esplosivi sono state fatte volare all’interno di Israele, e sono stati lanciati contro le truppe israeliane ordigni esplosivi e granate.

Israele si aspettava che le proteste sarebbero state delle stesse dimensioni e violenza di quella del 14 maggio, quando circa 60 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Tuttavia pare che il numero dei presenti sia stato inferiore alle attese.

Si prevedeva che alcuni dei palestinesi che protestavano nel contesto della “Marcia del Ritorno” avrebbero sfoggiato indumenti che ricordano l’Olocausto, compresa una divisa a strisce che rappresentava l’abbigliamento che gli ebrei erano obbligati a indossare nei campi nazisti.

Gli organizzatori della protesta hanno detto che lo spunto intendeva mandare il messaggio che i palestinesi non sono responsabili dell’Olocausto, tuttavia ne pagano il prezzo. Hanno affermato che lo scopo complessivo della protesta era di mostrare al mondo che Israele sta commettendo crimini contro il popolo palestinese.

Venerdì i palestinesi e i loro sostenitori hanno chiesto che l’Assemblea Generale dell’ONU tenga una riunione d’emergenza per adottare una risoluzione che condanni l’”uso eccessivo della forza” da parte di Israele, soprattutto a Gaza, e vorrebbero raccomandazioni che garantiscano la protezione dei civili palestinesi. L’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour ha detto di credere che il presidente dell’Assemblea Generale Miroslav Lajcak fisserà “molto presto” una data. Ha affermato che “molto probabilmente” avverrà il prossimo mercoledì pomeriggio. Mansour ha detto che la risoluzione presentata all’Assemblea Generale, come una precedente risoluzione del Kuwait, chiederà al segretario generale dell’ONU Antonio Guterres di fare una proposta entro 60 giorni “su modi e mezzi per garantire la sicurezza, la protezione e il benessere della popolazione civile palestinese sotto occupazione israeliana.”

Hamas ha esortato i palestinesi della Cisgiordania ad unirsi alla “Marcia del Ritorno” andando a Gerusalemme a pregare alla moschea di Al Aqsa o ai posti di blocco israeliani lungo la strada. Hamas controlla la Striscia di Gaza, ma in Cisgiordania la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese è dominata dall’organizzazione Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Come durante precedenti manifestazioni nelle scorse settimane, l’esercito ha schierato cecchini lungo il confine con Gaza. Afferma di aver ricevuto avvertimenti su possibili tentativi di prendere di mira soldati con spari o esplosivi. Il comitato che organizza le marce settimanali ha affermato di progettare di continuare a farle, nonostante l’alto numero di vittime palestinesi durante le 11 manifestazioni precedenti. Sostiene che l’obiettivo è dire al mondo che i palestinesi continuano a rivendicare i propri diritti, compreso quello al ritorno. I gazawi, che hanno fatto volare aquiloni incendiari oltre il confine, avevano previsto di inviarne decine in Israele venerdì.

“Non siamo legati a nessuna organizzazione,” ha detto uno di quelli che hanno fatto volare gli aquiloni. “L’idea è nata quando abbiamo visto nella prima marcia bambini con aquiloni che avevano bandiere palestinesi. Abbiamo visto che un aquilone vola velocemente ed entra in territorio israeliano, e allora abbiamo pensato di legargli materiale infiammabile o qualcosa che brucia.”

“Non siamo terroristi,” ha insistito. “Siamo una generazione senza speranza e senza una prospettiva che vive sotto un assedio asfissiante, e questo è il messaggio che stiamo cercando di mandare al mondo. In Israele piangono per i campi e i boschi che bruciano. E che ne è di noi, che stiamo morendo ogni giorno? Personalmente, sono andato varie volte alla barriera ed è chiaro che è una questione di tempo prima che mi prenda una pallottola in testa o mi amputino una gamba a causa delle ferite [si riferisce al fatto che i cecchini israeliani usano proiettili a frammentazione che provocano ferite gravissime, soprattutto agli arti inferiori, ndt.]. Per cui faccio volare aquiloni e partecipo alle proteste piuttosto che morire.”

Afferma che, se Hamas o qualunque altra organizzazione palestinese stesse appoggiando gli aquiloni incendiari, lui e i suoi compagni non avrebbero tanti problemi ad avere il materiale per fabbricarli.

“Ogni aquilone costa circa 5 shekel (1,40 $),” spiega. “A Gaza sono parecchi soldi. Quindi la creatività ci porta a utilizzare ogni cosa a disposizione – cartone usato e plastica o qualunque cosa che possa essere usata per costruire un aquilone, che è molto semplice ma sta sfidando l’esercito più potente del Medio Oriente.”

Giovedì mattina l’esercito [israeliano] ha lanciato volantini sulla Striscia di Gaza, avvertendo gli abitanti di non avvicinarsi alla barriera o di non cercare di attaccare gli israeliani.

“Abitanti della Striscia di Gaza! Auguri, e che il Ramadan vi porti fortuna,” dicevano i volantini.

“Un uomo saggio tiene conto delle conseguenze delle proprie azioni in anticipo e sceglie quelle i cui vantaggi sono maggiori dei costi. Se ne tenete conto riguardo all’avvicinarvi o all’attraversare la barriera, arriverete alla conclusione che questa azione non ne vale la pena ed è persino dannosa.”

I volantini invitavano anche i gazawi: “Non lasciate che Hamas vi trasformi in uno strumento per i suoi meschini interessi. Dietro a questi interessi c’è l’Iran sciita, il cui obiettivo è incendiare la regione a favore dei propri interessi religiosi ed etnici. Non dovreste lasciare che Hamas vi trasformi in suoi ostaggi, in modo che possa raccogliere un capitale politico a spese del benessere e del futuro dei gazawi in generale e dei giovani in particolare. Per evitare risultati dannosi, vi invitiamo a non partecipare alle manifestazioni e al caos e a non mettervi in pericolo.”

L’ “Associated Press” [agenzia di stampa USA, ndt.] ha contribuito all’articolo.

*[L’articolo deve essere stato scritto quando la notizia delle uccisioni non era stata ancora confermata e così si spiega il titolo ipotetico. ndt]

(traduzione di Amedeo Rossi)