Commissione della Knesset bandisce una legge per definire Israele come uno Stato di tutti i suoi cittadini

Jonathan Lis

4 giugno 2018, Haaretz

Lunedì [4 giugno] una legge proposta da tre deputati della “Lista unitaria” [coalizione di partiti arabo- israeliani, terza forza alle ultime elezioni politiche, ndt.] in cui si chiede che Israele sia definito uno Stato di tutti i suoi cittadini è stata bocciata dalla commissione di controllo della Knesset [che vaglia l’ammissibilità delle proposte di legge, ndt.] prima che raggiungesse l’aula della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] per la votazione.

Sette parlamentari hanno appoggiato la decisione di impedire il dibattito sulla “Legge fondamentale: un Paese per tutti i suoi cittadini,” proposta dai deputati Jamal Zahalka, Haneen Zoabi e Joumah Azbarga; due deputati si sono opposti (Esawi Freige del Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] e Ahmad Tibi della “Lista unitaria”), e il deputato Bezalel Smotrich di “Casa ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndt.] si è astenuto.

È la prima volta nelle ultime due legislature che una proposta di legge è stata bocciata prima di essere discussa in parlamento.

Il consulente legale della Knesset Eyal Yinon ha chiarito in un comunicato che “sia sul piano teorico che su quello specifico è difficile non vedere una simile proposta di legge come un tentativo di negare l’esistenza di Israele come Stato del popolo ebraico, e quindi, in base all’articolo 75(e) del regolamento, la commissione di controllo della Knesset ha la potestà di impedirne la presentazione.

Yinon ha sottolineato che la legge “comprende una serie di articoli che intendono modificare il carattere di Israele da Stato-Nazione del popolo ebraico a Stato in cui c’è uno status per ebrei ed arabi riguardo alla nazionalità.”

Il consigliere giuridico ha anche detto che la legge sembra intesa per modificare principi basilari –cancellando per esempio essenzialmente la “Legge del Ritorno” (che sancisce il diritto di ogni ebreo di immigrare in Israele), e stabilendo invece che l’ottenimento della cittadinanza israeliana sia basato sull’appartenenza personale ad una famiglia di un altro cittadino dello Stato.”

Inoltre, scrive Yinon, la legge nega il principio secondo cui i simboli dello Stato riflettono la rinascita nazionale del popolo ebraico, oltre al rifiuto dell’ebraico come lingua principale dello Stato.

Durante una discussione sulla proposta della “Lista unitaria”, il presidente della Knesset Yuli Edelstein [ex oppositore del regime sovietico ed ora deputato del Likud, ndt.] ha affermato: “Questa è una legge insensata che qualunque persona intelligente può capire che debba essere immediatamente bloccata. Una legge che intende erodere le fondamenta dello Stato non deve aver accesso alla Knesset. È la prima volta dalla mia nomina come presidente della Knesset 5 anni fa che raccomando che la commissione di controllo escluda una legge. I tre deputati di Balad [uno dei partiti che costituiscono la “Lista unitaria”] continuano a cercare di raccogliere voti con provocazioni, e non possiamo tendere loro una mano in questo.”

Al contrario il deputato Freige ha affermato che “la maggioranza ebraica spesso sfida la minoranza araba, e un esempio di questo è la cosiddetta “Legge dello Stato-Nazione” [legge proposta dal governo per accentuare la prevalenza ebraica sullo Stato, ndt.]. Perché gli estensori di quella legge possono presentarla ma Zahalka no?”

La minoranza,” ha detto il deputato Tibi,” ha il diritto di protestare e di opporsi ad accordi come quelli che stabiliscono diritti di cui gode solo la maggioranza ebraica in Israele, una situazione che rafforza l’inferiorità della minoranza araba.”

Il deputato Smotrich, che si è astenuto, ha detto di essere “completamente d’accordo con il presidente della Knesset che questa è effettivamente una legge assurda. Tuttavia una direttiva che impedisca che una legge venga discussa alla Knesset deve derivare da una Legge Fondamentale, e non dai regolamenti della Knesset.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Pressioni palestinesi fanno annullare la partita amichevole Israele –Argentina a Gerusalemme per la coppa del mondo

Uzi Dann, Noa Landau e Jonathan Lis

6 giugno 2018,  Haaretz

L’ambasciata israeliana in Argentina afferma che la partita è stata cancellata a causa di “minacce e provocazioni” contro il fuoriclasse Messi – Higuain, della squadra argentina: “Alla fine hanno fatto la cosa giusta”

Mercoledì mattina presto l’ambasciata israeliana in Argentina ha confermato, citando minacce non meglio definite e provocazioni contro il fuoriclasse Lionel Messi, che la partita di pallone tra Israele e Argentina in programma sabato a Gerusalemme è stata annullata.

I media argentini hanno informato che le ragioni della cancellazione sono state le pressioni palestinesi e la richiesta dei più importanti calciatori della squadra argentina, compresi Messi e Javier Mascherano, di non venire in Israele. Il quotidiano sportivo argentino “Olé” ha affermato che la partita è stata cancellata in seguito a “minacce e polemiche”.

Su richiesta della ministra della Cultura [e dello Sport, del partito Likud, ndt.] Miri Regev, martedì notte il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato con il presidente argentino Mauricio Macri, nel tentativo di evitare la cancellazione dell’incontro. Fonti dell’ufficio del primo ministro hanno affermato che in un’ulteriore conversazione Macri ha tuttavia informato Netanyahu di non essere in grado di influenzare la decisione finale.

Il quotidiano argentino “Clarín” ha informato che, secondo fonti ufficiali, Marci ha esaminato il problema con la federazione calcistica argentina ed ha appreso che “i giocatori non vogliono giocare in Israele a causa di minacce contro Messi.” Secondo l’articolo Macri si è scusato con Netanyahu e ha detto che le ragioni dei giocatori non erano politiche.

L’articolo afferma anche che Macri aveva intenzione di essere presente alla partita insieme ad una delegazione di uomini d’affari della comunità ebraica argentina.

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Il giocatore argentino Gonzalo Higuaín ha detto a ESPN [emittente televisiva Usa che si occupa solo di sport, ndt.] che “alla fine hanno fatto la cosa giusta. La ragione e l’incolumità fisica vengono prima di ogni altra cosa. Pensiamo che sia meglio non andare in Israele.”

La Federazione Calcistica Israeliana ha affermato di non aver ancora ricevuto una comunicazione ufficiale sulla cancellazione della partita e di essere stata in “contatto diretto” con i dirigenti della Federazione Calcistica Argentina e con la FIFA in seguito alla notizia. La Federazione [israeliana] ha attaccato il presidente della Federazione Calcistica Palestinese Jibril Rajoub, affermando che le sue minacce hanno “superato la linea rossa”.

Domenica Rajoub aveva invitato i tifosi a bruciare foto dell’attaccante Messi e copie della sua maglietta se avesse giocato la partita.

I palestinesi non erano contenti che la partita venisse giocata a Gerusalemme, e la scorsa settimana Rajoub aveva scritto a Claudio Tapia, il capo della Federazione Calcistica Argentina, accusando Israele di utilizzare la partita come “strumento politico”.

Negli ultimi giorni sono state esercitate pressioni su Messi e sulla Federazione Calcistica Argentina perché non giocasse a Gerusalemme, comprese manifestazioni a Buenos Aires e a Barcellona, davanti al campo di allenamento della squadra nazionale [argentina].

Nel suo account di twitter il ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndt.] ha deplorato la decisione, scrivendo: “È molto grave che i calciatori dell’Argentina non abbiano resistito alle pressioni di quanti incitano all’odio contro Israele, il cui unico scopo è di influire sul nostro diritto fondamentale all’autodifesa e ottenere la distruzione di Israele. Non ci piegheremo di fronte a un branco di sostenitori del terrorismo antisemita.”

Mercoledì il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan [del partito di destra Likud, ndt.] ha risposto su Israel Radio alla cancellazione. “Quello che è successo in verità non ha molto a che fare con il boicottaggio. C’è un buon rapporto di amicizia con l’Argentina, ottime relazioni. A causa delle violente istigazioni e minacce da parte di Jibril Rajoub e di tutta la pagliacciata delle magliette insanguinate [da parte dei manifestanti a Barcellona, ndt.] sono sorti timori per la sicurezza personale e i giocatori hanno iniziato a preoccuparsi di essere aggrediti fisicamente a Gerusalemme. Purtroppo prima di informarsi realmente hanno preferito lasciar perdere, il che significa piegarsi alla violenza e al terrorismo che i palestinesi stanno cercando di esercitare, ma guardiamo a tutto il quadro e non perdiamo il senso delle proporzioni.”

Il viceministro alla Difesa Eli Ben-Dahan [rabbino e parlamentare del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.] ha detto che “bisogna lottare contro il terrorismo,” chiedendo a Netanyahu di annullare il permesso di Rajoub per entrare in Israele. “Rajoub è un nemico spregevole,” ha detto, “(Israele) deve dichiarare nemici lui e tutta l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Il deputato Izik Shmuli (Unione Sionista [coalizione di centro, all’opposizione, ndt.]) martedì notte ha parlato dell’annullamento dell’incontro, dicendo: “Invece di calcio, Miri Regev ha voluto la politica e questo ha avuto, e quelli che ne pagheranno il prezzo sono i tifosi che attendevano con tanta ansia la storica partita. Nonostante tutto, imploriamo ancora i giocatori dell’Argentina: è un errore. Venite per il calcio, lasciate perdere la politica.”

Anche il presidente della “Lista Unitaria” [coalizione di partiti arabo-israeliani nel parlamento israeliano, ndt.] Ayman Odeh ha fatto riferimento alla questione in un comunicato, affermando: “Il governo Netanyahu può conquistarsi Trump, ma sta perdendo il resto del mondo. Non puoi continuare a goderti le partite mentre i diritti di milioni di palestinesi sono calpestati. C’è un solo modo per vincere: porre fine all’occupazione e un reale trattato di pace. È ancora possibile.”

La deputata Haneen Zoabi (“Lista Unitaria”) ha salutato la decisione dell’Argentina, affermando che “tenere la partita mentre i soldati massacrano gli abitanti di Gaza è indecente e può essere visto come un’approvazione di ciò.” Anche il parlamentare Yousef Jabareen (“Lista Unitaria”) ha lodato la richiesta, aggiungendo che “il governo di destra deve capire che non può calpestare in modo crudele le risoluzioni dell’ONU e le sentenze delle corti internazionali e aspettarsi che il mondo lo ignori.”

Va notato che la squadra nazionale argentina fin dall’inizio non voleva giocare in Israele, ma preferiva prepararsi per i mondiali, che inizieranno tra nove giorni in Russia, a Barcellona.

Jorge Sampaoli, allenatore dell’Argentina, che non era interessato ad una partita in Israele, si era lamentato di nuovo di ciò negli ultimi giorni. Le possibilità che la squadra di Israele vada a Barcellona sono scarse e l’Argentina ha già iniziato a cercare un altro rivale per l’amichevole.

La gara spostata a Gerusalemme

Lo stadio “Teddi”, che si supponeva avrebbe ospitato la partita, è a Gerusalemme ovest. I palestinesi vedono la parte orientale della città come la capitale del loro futuro Stato che include la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata da Israele.

Comunque lo status della città è in generale una questione molto sensibile. La partita era inizialmente prevista ad Haifa, ma le autorità israeliane hanno contribuito a stanziare fondi perché venisse spostata a Gerusalemme, irritando ulteriormente i palestinesi dopo il riconoscimento da parte del presidente USA Donald Trump della città come capitale di Israele. Lo scorso mese l’ambasciata USA è stata spostata lì.

Il governo israeliano ha trasformato una normale competizione sportiva in uno strumento politico. Come è stato ampiamente scritto nei media argentini, la partita ora si sta giocando per celebrare il 70^ anniversario dello Stato di Israele,” afferma una parte della lettera di Rajoub.

Domenica Rajoub ha lanciato una campagna contro l’Argentina e in particolare contro Messi, sottolineando che ha milioni di tifosi in tutto il mondo arabo e islamico, in Asia e in Africa.

È un grande simbolo, per cui noi stiamo prendendolo di mira personalmente e chiediamo a tutti di bruciare la sua foto e la sua maglietta e di abbandonarlo. Speriamo ancora che Messi non venga,” ha detto a giornalisti dopo aver lasciato la rappresentanza argentina nella città cisgiordana di Ramallah.

Un piccolo gruppo di giovani con la sciarpa della squadra di calcio palestinese ha manifestato fuori dall’ufficio di rappresentanza e ha tentato di dare fuoco a una bandiera argentina.

Rajoub ha a lungo tentato di fare in modo che l’associazione che governa il calcio mondiale, la FIFA, e il Comitato Olimpico Internazionale impongano sanzioni contro Israele. Ciò soprattutto a causa della politica di colonizzazione in Cisgiordania da parte del governo israeliano e perché ha imposto limitazioni ai viaggi degli atleti palestinesi adducendo preoccupazioni per la sicurezza. Questi enti non hanno accolto le sue richieste.

Dal 1986 l’Argentina ha tenuto in precedenza quattro incontri in Israele. La squadra è stata inserita nel gruppo D della coppa del mondo e inizierà i campionati contro l’Islanda a Mosca il 16 giugno.

Molti Paesi non riconoscono né la sovranità israeliana né quella palestinese su Gerusalemme e hanno l’ambasciata in Israele nella zona di Tel Aviv. Tuttavia il Guatemala e l’Honduras hanno seguito l’esempio degli USA spostando le loro ambasciate [a Gerusalemme] lo scorso mese.

La Reuter [agenzia di notizie Britannica, ndt.] ha contribuito a questo articolo.

[traduzione di Amedeo Rossi]




Israele usa gli ebrei della diaspora come scudi umani

Yossi Klein

31 maggio 2018, Haaretz

Israele è contento di sfruttare gli ebrei del resto del mondo, ma non si è preoccupata del fatto che le sue azioni li mettono in pericolo.

Israele è un pericolo per gli ebrei del resto del mondo. Si proclama suo protettore, ma non si preoccupa delle conseguenze che le sue azioni hanno per loro. Gli ebrei all’estero pagano il prezzo dell’ostilità nei confronti di Israele, eppure lo Stato continua ad avvolgerseli attorno come un giubbotto esplosivo. Tu vuoi danneggiarmi? Va bene, ma sappi che loro salteranno in aria per primi.

Gli effetti sugli ebrei all’estero non fanno parte delle stime militari di Israele. Fa quello che fa anche se ciò li danneggia. Ma questo non gli impedisce di affermare di rappresentarli, di parlare in loro nome e di usarli come ostaggi. Sono scudi umani. La vostra lealtà al vostro ebraismo, dice, viene prima della vostra lealtà alla vostra patria.

L’ebraismo nel cui nome lo Stato parla non è quello della maggior parte degli ebrei della diaspora. Israele limita o esclude il loro ebraismo. L’ebraismo di Israele è quello di una minoranza che ha preso il controllo del Paese e negli Stati Uniti è più attento ai cristiani evangelici che agli ebrei riformati o ortodossi. Lo Stato li combatte, eppure li usa.

Il governo di Israele ha sempre utilizzato gli ebrei della diaspora. L’identità israeliana si nasconde dietro l’ebraismo. I pericoli a cui Israele espone gli ebrei della diaspora non l’hanno mai frenato. Nel 1956 ha usato gli ebrei egiziani per sabotare il loro Stato. Ha mandato Jonathan Pollard [ebreo statunitense arrestato nel 1985 per aver fatto la spia a favore di Israele nei servizi di intelligence della Marina militare USA, ndt.] a spiare il loro stesso Stato. Ha imposto se stesso agli ebrei del resto del mondo, obbligandoli a mettere in discussione la propria lealtà, mentre insisteva nell’equiparare le critiche contro Israele a un’aggressione contro l’ebraismo e a tutti gli ebrei – cioè all’antisemitismo. Abbiamo molto di questo tipo di antisemitismo proprio qui. In base a questa formula, metà degli israeliani sono antisemiti perché non sopportano il governo. Ma l’efficacia di accusare il mondo di antisemitismo sta scomparendo. L’uso eccessivo ha usurato il meccanismo della vergogna e ha anticipato la sua data di scadenza. Sono passati i giorni in cui potevamo giustificare un attacco contro Gaza con quello che ci è stato fatto ad Auschwitz.

Israele non lo vuole ammettere, ma dal suo punto di vista c’è un aspetto positivo nell’antisemitismo. “Dimostra” il fallimento dei Paesi stranieri nel proteggere i loro ebrei. La loro negligenza sottolinea le nostre qualità. Il capo dello Stato, che è anche il capo degli ebrei del mondo, è orgoglioso della sicurezza che fornisce ai suoi ebrei, Tre anni fa, dopo gli attacchi terroristici contro ebrei francesi, ha invitato la comunità [ebraica francese] a venire in Israele perché il loro Paese non li può proteggere. (Circa 5.000 ebrei sono morti in attacchi terroristici in Israele).

Israele respinge la condanna per le sue azioni a Gaza. Abbandona gli ebrei ed esclude i non-ebrei, ma farebbe qualunque cosa per avere un po’ di simpatia da loro! È assetato di ogni briciola di apprezzamento. Il nostro Stato privatizzato esproprierà e nazionalizzerà e adotterà e si attribuirà qualunque risultato, da una medaglia nel judo al lancio di una nuova attività imprenditoriale.

Lo abbiamo visto la scorsa settimana. Sono state attaccate due dei più delicate questioni nazionali dell’Olanda: la vittoria di Israele all’Eurovisione e le uccisioni a Gaza, entrambi care al nostro cuore. La parodia olandese di “Toy” [“Giocattolo”, la canzone israeliana che ha vinto l’Eurovisione, ndt.], che includeva critiche alle azioni israeliane al confine con Gaza, è stata immediatamente accusata di “antisemitismo”, e l’ambasciata israeliana ha protestato. L’ambasciata sa molto bene che la canzone non è antisemita, ma ha prevalso il desiderio di confondere la critica a Israele con l’antisemitismo.

Chiunque critichi la cantante Neta Barzilai [la vincitrice dell’Eurovisione, ndt.] critica anche il primo ministro, sua moglie, il suo partito e il governo, e desidera farlo cadere. Perché? Perché lo diciamo noi, e ricaviamo la nostra autorità nel definire l’antisemitismo dai sei milioni di ebrei morti nell’Olocausto.

Ci siamo cercati da soli Benjamin Netanyahu, ma perché sono da criticare tutti gli ebrei del mondo? Perché devono pagare il prezzo della lotta del re degli ebrei con le sue inchieste penali? Se vivessi all’estero starei seguendo le sue recenti iniziative con timore e sospetto. Il bunker sotterraneo [Netanyahu ha convocato le riunioni per la sicurezza nazionale in un bunker, ndt.] e l’auto blindata per Sara [la moglie di Netanyahu, ndt.] non sono di buon auspicio per gli ebrei in Israele e all’estero.

Quando sentiremo che ha chiamato agenti immobiliari in Toscana o ha aperto un conto bancario nei Caraibi sarà venuto il tempo di fare le valigie. L’audace difensore degli ebrei è disposto a sacrificare ognuno di noi pur di far cadere anche solo una singola accusa nella faccenda del sottomarino [uno degli scandali in cui Netanyahu è coinvolto].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La sinistra sionista di estrema destra israeliana

Gideon Levy

27 maggio 2018, Haaretz

Eitan Cabel, del partito Laburista, non propone la pace ma l’annessione. I suoi palestinesi non avrebbero uno status né diritti, e ovviamente sono da ritenere responsabili per questo.

È un peccato che Eitan Cabel non sia segretario del partito Laburista. Se lo fosse, il partito Laburista potrebbe affermare ufficialmente di essere arrivato alla fine del suo percorso. Ma anche così, il suo editoriale sull’edizione di Haaretz in ebraico di venerdì rispecchia adeguatamente le posizioni del suo partito e più in generale quelle della più ampia “Unione Sionista” [coalizione elettorale di cui il partito Laburista è la componente principale ed attualmente all’opposizione, ndt.]. Di fatto il partito Laburista non ha posizioni diverse da quelle che Cabel ha precisato. Perciò dovremmo essere grati al coraggioso parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]: ha esposto la verità sul suo partito e sull’intera sinistra sionista.

Sul problema più grave la sinistra sionista non fa altro che imitare le posizioni della destra. La novità di Cabel è che queste sono le posizioni dell’estrema destra. Cabel e Naftali Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra “Casa Ebraica”, ndt.] sono fratelli, “Casa Ebraica” e ”Unione Sionista” sono gemelli, non c’è più nessuna differenza tra loro. Il vuoto e ipocrita “carro” – una metafora dei valori e del patrimonio ideale – della sinistra sionista è arrivato alla fine del suo percorso. Quanto meno un membro coraggioso addirittura se ne vanta.

Cabel propone un’iniziativa sobria. Non pace ma annessione. Non un’annessione come quella che c’è stata finora, ma un’annessione totale. I palestinesi di Cabel non hanno uno status né diritti passati, presenti o futuri; è persino dubbio che essi esistano. Ovviamente sono da ritenere responsabili di questo e gli ebrei devono avere tutta la terra.

Solo una cosa terrorizza il socialdemocratico di Rosh Ha’ayin [cittadinia del centro di Israele, ndt.] – che, il cielo non voglia, nella Knesset ci saranno 30 deputati arabi. I suoi genitori non sono immigrati dallo Yemen per questo. Shoshana e Avshalom non sono venuti qui per vivere con gli arabi. Quello ce l’avevano già in Yemen. Essi e il loro figlio vogliono uno Stato razzialmente puro. Se un quarto dei deputati fosse arabo ciò distruggerebbe il loro sogno. Il compagno di partito di Bennett Bezalel Smotrich [noto per le posizioni particolarmente estremiste, ndt.] non avrebbe potuto dirlo in termini più razzisti.

Cabel vuole che si faccia qualcosa. Sa che non c‘è una controparte palestinese e non ci sarà mai. Quindi avanti, prendiamo l’iniziativa. Possiamo pensare a un trasferimento, indubbiamente un’iniziativa, atroce quanto l’annessione, ma anche di più, però almeno ciò garantirebbe una soluzione finale. Comunque, Cabel non ci è ancora arrivato. Forse presto farà carriera nei ranghi del partito. Nel frattempo Cabel ne ha abbastanza della limitazione dei blocchi di colonie, il più grande imbroglio della sinistra sionista, su cui c’è un presunto consenso generale.

Una breve storia dei blocchi, proprio come una breve storia delle colonie: prima si trattava di annettere Gerusalemme est. Ciò non poteva essere fatto senza un “confine di sicurezza”, per cui la valle del Giordano è stata aggiunta alle zone intoccabili. Poi è arrivato il blocco di Gush Etzion [gruppo di colonie israeliane nei territori occupati fondato a partire dal 1967, ndt.] in perenne espansione, senza cui Israele non può essere immaginato, e come possiamo lasciare fuori Ma’aleh Adumim [grande colonia nei pressi di Gerusalemme, riconosciuta come città dal governo israeliano, ndt.], che è stata fondata per tagliare in due la Cisgiordania? E cosa ne sarà, fratelli ebrei, della città universitaria di Ariel [colonia nel centro della Cisgiordania, dove sorge la prima università nelle colonie, ndt.]?

Queste sono state tutte aggiunte alla lista non dalla destra ma dalla sinistra sionista, che ha sostenuto la fondazione di uno Stato palestinese, certamente uno Stato palestinese tra Jenin e il suo campo profughi. Ora Cabel sta annettendo anche Karnei Shomron, e cosa dire di Shavei Shomron, Yitzhar e Itamar? Rehelim, Havat Gilad e Baladim [altre colonie in Cisgiordania, ndt.]? Perché no? Il destino dei coloni, che stanno vivendo sotto la “legge marziale”, spezza il cuore di Cabel, perciò, perché non annettere anche loro? Non sono esseri umani? Non sono ebrei? Cabel è un uomo con una coscienza, il suo cuore è sempre dalla parte degli oppressi.

Cabel è uno dei dirigenti del campo della pace, e come dice il nome del suo campo, offre ai palestinesi negoziati prima o poi, quando si comporteranno correttamente. Nel 1948 hanno perso il 78% del loro Paese, ed ora Cabel sta sezionando i resti di ciò che rimane e rubando per sé i blocchi [di colonie], un prezzo per il ladro e il colono.

Ma la Palestina non è perduta. Cabel, di sinistra, vuole discutere di quello che resta. C’è una possibilità che rinunci al campo profughi di Al-Fawwar [a sud di Hebron, ndt.]. Se ci sarà una dirigenza palestinese all’altezza, che mangi con coltello e forchetta, in un giorno di particolare generosità Cabel e il suo partito le offriranno persino il campo profughi di Al-Arroub [sulla strada tra Hebron e Gerusalemme, ndt.]. Dai tempi del Mahatma Gandhi non c’è più stato un uomo di pace come Cabel, da quelli di Nelson Mandela non c’è più stato un simile combattente per la giustizia.

La richiesta di Cabel di essere sobri è un importante contributo al dibattito politico. Tornate sobri, amici di Cabel, non avete niente da offrire. Siete di destra, persino di estrema destra, ed ora siete senza la maschera che avete portato per 50 anni. Eliminate le elezioni in Israele. Dopotutto, (quasi) tutti sono per l’occupazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Lungo il confine di Gaza, sparano (anche) ai medici, o no?

Amira Hass

28 maggio 2018, Haaretz

Un’ambulanza al minuto, 1.300 persone colpite in un giorno: l’ospedale Shifa di Gaza affronta un’emergenza che travolgerebbe i migliori ospedali del mondo.

Dati clinici internazionali dicono che qualunque sistema sanitario occidentale collasserebbe se dovesse curare tante ferite da arma da fuoco ogni giorno quante ve ne sono state nella Striscia di Gaza il 14 maggio. Eppure il sistema sanitario di Gaza, che per anni è stato sull’orlo del collasso in seguito all’assedio israeliano ed alle lotte intestine palestinesi, ha sorprendentemente dimostrato di essere all’altezza della sfida. In Israele gli avvenimenti del 14 maggio sono già storia. Nella Striscia, le loro sanguinose conseguenze segneranno la vita di migliaia di famiglie negli anni a venire.

La cosa più scioccante, più dell’alto numero dei morti, è il numero delle persone ferite da armi da fuoco: circa metà delle oltre 2.770 persone che hanno ricevuto cure di emergenza avevano ferite da colpi di arma da fuoco. “Era chiaro che i soldati sparavano soprattutto per ferire e mutilare i dimostranti.” Questa è la conclusione che ho ascoltato dai miei interlocutori, alcuni dei quali con molta esperienza di sanguinosi conflitti internazionali. Lo scopo era di ferire, piuttosto che uccidere, il maggior numero di giovani per renderli per sempre disabili

I preparativi nelle 10 postazioni di smistamento e di traumatologia sono stati impressionanti. Ognuna delle postazioni allestite accanto ai luoghi delle proteste è stata dotata di infermieri e studenti di medicina volontari. Nell’arco di sei minuti in media riuscivano ad esaminare ogni paziente, stabilire il tipo di ferita, stabilizzare il paziente e decidere chi dovesse essere curato in un ospedale. A partire da mezzogiorno circa, è arrivata all’ospedale Shifa di Gaza un’ambulanza ogni minuto. Le sirene non smettevano di suonare. Ogni ambulanza trasportava quattro o cinque feriti.

Dodici sale operatorie hanno lavorato senza sosta. Le prime ad essere curate sono state le persone con ferite ai vasi sanguigni. Centinaia di persone con ferite meno gravi hanno atteso il proprio turno nei corridoi dell’ospedale, tra lamenti e capogiri. Gli unici analgesici disponibili erano destinati per lo più ai gravi mal di testa, non alle ferite da sparo. Anche se l’anno scorso il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania non avesse ridotto le forniture di medicine alla Striscia di Gaza, in seguito alle direttive dei vertici politici palestinesi, c’è da dubitare che l’ospedale avrebbe avuto gli analgesici e gli anestetici necessari per curare i circa 1.300 pazienti con ferite da arma da fuoco ed eseguire le centinaia di operazioni svoltesi il 14 maggio.

Nessun ospedale al mondo dispone di chirurghi vascolari ed ortopedici sufficienti per operare centinaia di vittime di spari in un solo giorno. Sono stati reclutati chirurghi con altre specializzazioni per operare sotto la guida degli specialisti. Nessun ospedale ha sufficienti equipe mediche per curare così tanti pazienti. Dopo le 13,30, quando i familiari dei feriti hanno iniziato ad affluire nel già sovraffollato ospedale, la situazione ha incominciato ad andare fuori controllo. Una squadra di sicurezza armata del ministero dell’Interno controllato da Hamas è stata chiamata per ristabilire l’ordine ed è rimasta là fino alle 20,30. Nella notte, 70 dimostranti feriti stavano ancora attendendo di essere curati ed altri 40 hanno atteso fino al mattino seguente. Una settimana dopo, è arrivato il momento della chirurgia ortopedica e delle terapie di riabilitazione, ma nella Striscia non vi sono abbastanza fisioterapisti, chirurgi ortopedici e attrezzature mediche.

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità diffuso il 22 maggio, dal 30 marzo al 22 maggio durante le dimostrazioni lungo il confine con Israele sono state ferite in totale 13.190 persone, compresi 1.136 minori. Di queste, 3.360 sono state ferite da proiettili veri sparati dai nostri eroici e ben protetti soldati; 332 di loro versano ancora in condizioni critiche (due persone sono morte per le ferite nel fine settimana). Sono state eseguite cinque amputazioni degli arti superiori e 27 degli arti inferiori. Soltanto nella settimana dal 13 al 20 maggio i soldati israeliani hanno ferito 3.414 gazawi, 2.013 dei quali sono stati curati in ospedali e cliniche gestiti da organizzazioni non governative, compresi 271 minori e 127 donne; 1.366 avevano ferite da arma da fuoco.

I nostri valorosi soldati hanno sparato anche alle squadre mediche che si avvicinavano alla barriera per soccorrere le vittime. Gli ordini sono ordini, anche quando ciò significa sparare agli infermieri. Di conseguenza i medici lavorano in gruppi di sei: se uno viene ferito, altri due lo portano via per curarlo e i tre rimanenti continuano il lavoro, pregando di non rimanere anche loro feriti.

Il 14 maggio un infermiere della Difesa Civile Palestinese è stato ucciso, colpito mentre andava a soccorrere un dimostrante ferito. Per circa 20 minuti i suoi colleghi hanno cercato di raggiungerlo senza riuscirci, impediti dalla pesante sparatoria. L’infermiere è morto per collasso polmonare. Nella settimana dal 13 al 20 maggio altri 24 operatori sanitari sono stati feriti – otto da proiettili veri, sei da schegge di proiettili, uno da un candelotto lacrimogeno e nove per inalazione di gas lacrimogeni. Dodici ambulanze sono state danneggiate. Tra il 30 marzo e il 20 maggio in totale sono stati feriti 238 operatori medici e danneggiate 38 ambulanze.

Il 23 maggio, dopo aver visitato un ospedale ed un centro di riabilitazione a Gaza, il Commissario Generale dell’UNRWA Pierre Krahenbuhl ha evidenziato le ripercussioni dei recenti avvenimenti: “Sinceramente credo che gran parte del mondo sottovaluti del tutto la portata del disastro in termini umanitari che si è compiuto nella Striscia di Gaza dall’inizio delle marce il 30 marzo…In sette giorni di proteste sono state ferite altrettante persone, o addirittura un po’ di più, di quante lo furono durante l’intero conflitto del 2014. Ciò è veramente sconvolgente. Durante le mie visite, sono anche stato colpito non solo dal numero di feriti, ma anche dal tipo di ferite… La ricorrenza di piccole ferite in entrata e grandi ferite in uscita indica che i proiettili usati hanno provocato gravi danni agli organi interni, ai tessuti muscolari e alle ossa. Gli staff sia degli ospedali del ministero della Sanità di Gaza, sia delle cliniche delle ONG e dell’UNRWA stanno lottando per occuparsi di ferite e di cure estremamente complesse.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Quel boato? È la Palestina che scatena uno tsunami legale contro i crimini di guerra israeliani

Victor Kattan

25 maggio 2018, Haaretz

La Palestina è decisa a far cadere su Israele tutto il peso delle leggi internazionali. E sta cominciando adesso.

Questa volta il governo di Benjamin Netanyahu potrebbe essere andato troppo in là nella difesa delle azioni delle sue forze armate a Gaza. Ciò potrebbe portare al fatto che Israele sia obbligato a difendere le proprie azioni davanti a una corte di diritto internazionale.

L’affermazione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman secondo cui “non ci sono innocenti a Gaza”, dove più di 60 palestinesi sono stati uccisi durante manifestazioni il 14 maggio, non poteva essere ignorata dalla dirigenza palestinese. Secondo il rapporto presentato dalla Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI), le persone colpite da cecchini e dal fuoco dell’artiglieria comprendono sei minori, un amputato alle due gambe, un infermiere e 11 giornalisti.

Se teniamo conto della decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – che in sé è stata una flagrante violazione delle leggi internazionali – nello stesso giorno in cui ha avuto luogo la sparatoria, la dirigenza palestinese ha capito di dover prendere l’iniziativa, almeno per conservare la propria credibilità agli occhi del suo stesso popolo.

Supportato dai festeggiamenti che hanno accompagnato la decisione di Trump sull’ambasciata, il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver trascurato, o non avere preso sul serio, importanti iniziative diplomatiche palestinesi negli ultimi mesi che, prese insieme, potrebbero aver rovinato la festa.

Nel settembre 2017 la Palestina ha aderito all’Interpol, l’organizzazione internazionale di polizia; in aprile ha presentato una denuncia contro Israele per aver violato i suoi impegni in base alla “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale”; e proprio la settimana scorsa il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha deciso di inviare una commissione di inchiesta, appoggiata da quasi tutti i membri del Consiglio tranne gli USA e l’Australia, per indagare sull’uccisione di palestinesi sul confine di Gaza da parte di Israele.

Ora il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki ha presentato un ricorso su propria iniziativa alla Corte Penale Internazionale in cui si chiede alla procuratrice Fatou Bensouda di aprire un’indagine sui crimini commessi sul territorio dello Stato di Palestina.

La dirigenza palestinese potrebbe prendere ulteriori passi presso altre corti e tribunali internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo all’Assemblea Generale dell’ONU di fare richiesta di un parere consultivo a quella corte, se facendolo vi vedesse un beneficio politico.

Benché Israele non riconosca lo Stato di Palestina, oltre 130 Stati lo fanno. Dato che Israele sta occupando il territorio di uno Stato membro, in linea di principio la CPI ha giurisdizione in materia.

Il ricorso su propria iniziativa è stato presentato alla procuratrice Bensouda da funzionari del ministero degli Affari Esteri della Palestina. Lo Stato di Palestina ha goduto dello status di Paese osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU dal 29 novembre 2012, ed ha ratificato o aderito a numerosi trattati – compreso lo Statuto di Roma che ha creato la CPI.

Gli USA, per favorire Israele, potrebbero rendere questo ricorso alle leggi internazionali disagevole per i palestinesi. Nel 2015 il congresso USA ha approvato l’“Omnibus Appropriations Act” [“Legge per la Raccolta dei Finanziamenti”, ndt.] per impedire il trasferimento di un sostegno economico all’Autorità Nazionale Palestinese se questa avesse avviato “un’inchiesta giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale o avesse attivamente sostenuto un simile inchiesta, che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Ovviamente i consiglieri giuridici della Palestina potrebbero sostenere di non aver iniziato loro, ma solo richiesto, l’apertura di un’inchiesta: solo il procuratore può avviare un’inchiesta.

Ma comunque l’amministrazione Trump ha già tagliato gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU incaricata di occuparsi dei rifugiati palestinesi, e ha tentato di chiudere la missione diplomatica della Palestina a Washington. Queste azioni hanno eliminato gli incentivi ed i privilegi economici che il presidente Obama, e le precedenti amministrazioni USA, avevano concesso alla dirigenza palestinese.

Finora questi benefici sembravano aver evitato che la dirigenza palestinese presentasse le proprie richieste contro Israele di fronte a corti e tribunali internazionali. La minaccia di ulteriori tagli all’Autorità Nazionale Palestinese evidentemente non ha dissuaso la leadership palestinese dal prendere questa iniziativa, che potrebbe indicare che essa ha trovato altri finanziatori che la tengono a galla.

La decisione di presentare un ricorso su propria iniziativa alla CPI è significativa perché mette pressione sulla procura affinché velocizzi il terzo esame preliminare che sta già svolgendo sulla Palestina.

Questa indagine è stata aperta quando la Palestina ha aderito alla Corte nel gennaio 2015 ed attualmente è nella fase 2 di un processo in 4 fasi. (La fase 1 consiste in una valutazione informativa; la 2 si concentra sulla giurisdizione; la 3 sulla potenziale ammissibilità dei casi; la 4 esamina l’interesse della giustizia).

Il testo del ricorso della Palestina alla CPI indica che, da quando nel gennaio 2015 la Palestina ha aderito alla Corte, il ministro degli Affari Esteri della Palestina ed i suoi giuristi dell’Aia hanno inviato all’ufficio del procuratore tre comunicazioni, un’osservazione e 25 successivi rapporti mensili.

Il ricorso “chiede alla procura di indagare, in base alla giurisdizione temporale della Corte, crimini precedenti, in corso e futuri che ricadono sotto la giurisdizione della Corte, commessi in ogni parte del territorio dello Stato di Palestina.” Il ricorso chiarisce che “lo Stato di Palestina comprende i territori palestinesi occupati dal 1967 da Israele, come definiti dalla linea dell’armistizio del 1949, e include la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.”

Nella sua dichiarazione sul ricorso, l’ufficio di Bensouda ha spiegato che ciò non porta automaticamente all’apertura di un’inchiesta.” Deve ancora completare le 4 fasi di esame preliminare.

Al momento tutti i ricorsi su propria iniziativa alla CPI sono stati presentati da Paesi africani, compresi la Repubblica centro-africana (due volte), la Repubblica Democratica del Congo, le Comore, il Gabon, il Mali e l’Uganda. L’attenzione esclusiva della Corte sul continente è stato argomento di critiche, anche se John Dugard, uno dei legali che questa settimana hanno accompagnato il ministro degli Esteri palestinese alla CPI, giustamente ha sostenuto che sono gli stessi Stati africani che hanno presentato questi ricorsi.

La Palestina è stato il primo Stato non africano a presentare un ricorso su propria iniziativa ed il secondo a prevedere accuse di crimini commessi da Israele.

Il primo venne fatto dalle Comore nel 2013 riguardo a presunti crimini commessi da Israele sulla nave Mavi Marmara, una nave passeggeri con bandiera delle Comore che nel 2010 portava pacifisti verso Gaza [10 passeggeri turchi vennero uccisi durante l’attacco israeliano in acque internazionali, ndt.]. Nonostante due ricorsi, in quel caso il procuratore decise di non aprire un’inchiesta e chiuse la sua inchiesta preliminare.

Non ci sono ragioni per cui il fatto di non essere arrivati a un processo riguardo alla Mavi Marmara possa impedire al procuratore di valutare con cura le denunce palestinesi di crimini commessi nello Stato di Palestina.

È vero, la procura potrebbe avere difficoltà a raccogliere prove, in quanto Israele difficilmente collaborerà, e non è obbligato a collaborare in quanto Israele non è uno Stato membro del Trattato di Roma. Tuttavia, come ben chiarisce il ricorso, i crimini commessi da Israele a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza “sono tra i più ampiamente documentati nella storia contemporanea.”

Questi presunti crimini includono la politica di colonizzazione di Israele, che viola direttamente lo Statuto di Roma ed è stata una delle ragioni per cui Israele non l’ha firmato nel 1998. Secondo il ricorso palestinese, come documentato dall’Ufficio Statistico Centrale di Israele, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima c’è stato un aumento del 70% delle costruzioni di colonie tra l’aprile 2016 e il marzo 2017.

Il ricorso sostiene anche che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso o ferito oltre 1.100 minori palestinesi nel solo 2017. Si riferisce alle uccisioni a Gaza del 14 maggio, alla demolizione di case a partire dal 2016, alla distruzione ed appropriazione di proprietà, alla detenzione illegittima, compresi 700 palestinesi tenuti in detenzione amministrativa che viene rinnovata indefinitamente, senza imputazioni o processo, sulla base di prove “segrete” tenute nascoste ai detenuti ed ai loro avvocati. Altre accuse, precisate in precedenti comunicazioni, osservazioni e rapporti mensili inviati all’ufficio della procura non sono state rese note.

Dei sei Stati che finora hanno fatto ricorso su propria iniziativa alla CPI, la procura ha aperto inchieste su cinque di essi: la Repubblica centro-africana (due volte), il Congo, il Mali e l’Uganda. Un altro (relativo al Gabon) è ancora nella fase 2. Rifiutando di aprire un’indagine sulla flottiglia di Gaza, la procura ha considerato i presunti crimini “non di una gravità sufficiente”. Ma è improbabile che questo argomento impedisca alla procura di indagare su presunti crimini di Israele in Cisgiordania e a Gaza, che sembrano essere molti gravi.

Se la prassi precedente insegna qualcosa, pare ci sia una notevole probabilità che la procura apra questa inchiesta sul caso palestinese. I ricorsi su propria iniziativa si sono conclusi con un processo e con arresti nei casi relativi alla Repubblica centro-africana, al Congo e all’Uganda, dove ordini di arresto sono stati emanati nel 2005 contro membri dell’Esercito di Liberazione del Signore [gruppo di guerriglia con connotazioni religiose responsabile di molte atrocità, ndt.]. I sospettati sono rimasti alla macchia per un decennio finché uno di loro, Dominic Ongwen, si è consegnato alla CPI. Il suo processo è in corso.

Il ricorso della Palestina alla CPI non rende pubblici i nomi delle persone accusate di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, ma è probabile che comprendano autorità ai più alti livelli dello Stato, compresi politici e membri delle forze armate. 

Benché gli ingranaggi della giustizia internazionale siano lenti, sono stati messi in movimento. È solo questione di tempo, finché la procura dovrà decidere se aprire un’inchiesta. Se decidesse che ci sono informazioni sufficienti per acconsentire all’apertura di un’indagine, è probabile che chieda la presenza di persone che vorrebbe interrogare e indagare perché implicate nella perpetrazione di crimini, perché testimoni di questi crimini, oppure perché ne sono stati essi stessi vittime.

Resta da vedere se Netanyahu sarà ancora il primo ministro di Israele quando, e se, il procuratore decidesse di aprire un’inchiesta. Nel frattempo Netanyahu non solo si deve preoccupare dei suoi problemi legali in patria [per accuse di corruzione, ndt.], ma anche di potenziali problemi legali all’estero, che potrebbero sorgere in un futuro non molto lontano.

Per il momento potrebbe essere al sicuro – dato che gode di immunità da procedimenti penali in base alle leggi consuetudinarie internazionali in quanto capo del governo israeliano. Israele non fa parte dello Statuto di Roma e potrebbe sostenere che non è vincolato alle norme dello Statuto che tolgono l’immunità ai capi di Stato per crimini che ricadono sotto di esso. I giuristi della Palestina potrebbero sostenere al contrario che i capi di Stato non godono di immunità se sono responsabili di aver commesso crimini in base allo Statuto di Roma. Potrebbero affermare che le disposizioni dello Statuto che prevedono l’esclusione dell’immunità dei capi di Stato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità riflettono le leggi internazionali consuetudinarie, che sono vincolanti per ogni Stato, compreso Israele, anche se Israele non ha ratificato lo Statuto.

In base alle leggi internazionali membri dell’esercito israeliano di rango inferiore ed ex-autorità di governo non sarebbero tuttavia immuni dalla giurisdizione penale. Se la CPI emanasse un mandato, qualunque Stato che faccia parte dello Statuto di Roma potrebbe applicare quel mandato agli israeliani menzionati se visitassero il loro territorio.

Come potrebbe proteggerli Israele? Potrebbe conferire lo status diplomatico a ex-ufficiali offrendo loro posizioni di ambasciatore in Stati che non sono parti in causa o promuovere funzionari a importanti posizioni nel governo.

In un caso tristemente noto, il Regno Unito fornì all’ex ministra israeliana Tzipi Livni [denunciata da uno studio legale di Londra per crimini durante l’operazione militare “Piombo fuso” contro Gaza nel 2008-09, ndt.] un’immunità per una “missione speciale”, addirittura una provvisoria competenza giurisdizionale, benché non avesse più un incarico di governo.

Dato che 123 Stati fanno parte dello Statuto di Roma, compresa la Palestina, importanti autorità israeliane potenzialmente implicate in crimini di guerra a Gaza o nell’attività di colonizzazione di Israele dovranno presumibilmente pianificare con cautela le proprie vacanze. E se i calcoli politici e legali in patria diventassero sfavorevoli, Netanyahu potrebbe unirsi a questo gruppo maledetto.

L’unica soddisfazione che questi funzionari israeliani potrebbero allora trovare è che un’indagine della CPI potrebbe probabilmente prendere di mira anche Hamas, date le sue azioni durante l’operazione “Margine protettivo” nel 2014. A differenza dei funzionari israeliani, i membri di Hamas, compresi i suoi principali dirigenti, non godono di immunità, e sarebbero un obiettivo molto più facile per la Corte.

Victor Kattan è ricercatore senior all’Istituto per il Medio Oriente dell’università nazionale di Singapore (NUS) e ricercatore associato alla facoltà di diritto nella NUS.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




‘Noi moriamo comunque, quindi che sia davanti alle telecamere’: conversazioni con abitanti di Gaza

Amira Hass

20 maggio 2018, Haaretz

I miei amici di Gaza sono indignati dall’accusa di Israele che sia Hamas a guidare tutto. ‘Il vostro popolo ci ha sempre guardati dall’alto in basso, perciò è difficile per voi capire che nessuno manifesta nel nome di qualcun altro’.

“La capacità di noi palestinesi di essere uccisi è più grande della capacità di voi israeliani di uccidere”, mi ha detto un abitante del campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme all’inizio della Seconda Intifada. Ottimista da sempre, intendeva dire che a causa di questa differenza alla fine le due parti raggiungeranno un giusto accordo.

Martedì di questa settimana, lungo la barriera di confine e di fronte a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza, il fatto che si sia sbagliato è diventato nuovamente evidente. C’è un limite alla capacità dei palestinesi di essere uccisi. Il mattino seguente al lunedì di sangue i manifestanti hanno fatto una pausa. Sessanta nuovi morti e centinaia di nuovi feriti hanno giustificato il momento di calma che chiedevano. Il giorno seguente, il giorno della Nakba, che ci si aspettava fosse il peggiore, in realtà è stato il giorno in cui hanno rinunciato alla simbolica ‘Marcia del Ritorno’ di massa alla barriera di confine.

In mezzo ai campi di girasole e di patate dei kibbutz, invidiavo i miei colleghi che trasmettevano con così grande autoconvinzione le dichiarazioni dell’esercito e dei politici israeliani. Secondo i portavoce israeliani, sia militari che civili, la tregua lungo la barriera di confine è la prova inequivocabile che i leader di Hamas controllano tutto, e tutti sono sottoposti alla loro autorità, sono loro che hanno mandato la gente a morire il giorno prima, sono loro che hanno cambiato il copione il giorno dopo. Molto semplice.

Secondo questi rapporti, l’Egitto ha dato istruzioni di fermare il processo – dietro richiesta israeliana – e Hamas ha obbedito. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh è stato umiliato, e questo ha funzionato. Tutto ciò viene recepito in Israele come dato di fatto, giornalismo investigativo e ulteriore vittoria israeliana. Non c’è bisogno di essere a Gaza per sapere e non conta che l’esercito impedisca ai giornalisti israeliani di entrare nella Striscia.

Tutta la nostra strumentazione bionica è al lavoro: aerostati per scattare foto, droni, intercettazioni, collaboratori e una dichiarazione fuori-onda di un importante dirigente di Fatah a Ramallah. Tutto sembra fornire ciò che noi interpretiamo come verità divina. In confronto, la quantità di dettagli, spiegazioni, ipotesi, negazioni, esitazioni e contraddizioni che riceviamo da parte palestinese è considerata giornalismo scorretto, che non fornisce una spiegazione definitiva.

Accanto agli irrigatori che spruzzano gioiosamente acqua nei campi israeliani, mi sono chiesta: se voi sapevate che Hamas ha pianificato di mandare cinicamente la gente a morire in modo da guadagnarsi nuovamente l’attenzione e dipingere Israele come il demonio, perché state facendo quello che loro volevano? Perché anche voi, che non avete usato mezzi non letali, ubbidite ad Hamas?

C’è una barriera interna, una barriera di sicurezza e un terrapieno che è stato costruito con terra riportata dagli scavi della nuova barriera sotterranea di Israele. E c’è una strada di sicurezza e un’altra ancora. E poi i campi. Intorno a tutto questo ci sono postazioni di vigilanza e al disopra ci sono palloni aerostatici e droni. E tutto ciò che avete potuto fare è stato dimostrare la capacità di Israele di uccidere e mutilare?

Vicinanza silenziosa

Da una collina nei campi del kibbutz Nir Am si possono vedere chiaramente Beit Hanun, Izbet Abed Rabo e i contorni di Shujaiyeh nel nord di Gaza. Ed anche gli alti blocchi residenziali, che svettano alti. L’ ininterrotta area costruita da Beit Lahia all’estremità sud di Gaza sembra molto vicina. Un solo furgone pickup bianco è passato lungo la linea di confine tra i campi coltivati palestinesi e l’ampia striscia di terra in cui Israele vieta di coltivare, e un carro trainato da cavalli andava verso nord.

La silenziosa vicinanza, senza alcun contatto, ha dimostrato la situazione di imprigionamento dal lato opposto. Dopotutto, io una volta ho abitato là, sono andata in tutti quei luoghi che ora vedo col binocolo e ricordo i fatti che ho raccontato e la gente di cui ho scritto, tra una guerra e l’altra, durante le guerre, durante le rivolte e per così dire le tregue.

Ora questi luoghi sono un film, da vedere e non toccare. A uno o due chilometri di distanza ci sono i miei amici, a cui voglio bene, e non ci è più permesso di vederci. Uno di loro ha detto scherzando che sarebbe venuto al campo della ‘Marcia del Ritorno’ sventolando una grande bandiera palestinese per salutarmi. Ma è meglio WhatsApp.

Al telefono i miei amici si indignano e ognuno lo dice a suo modo: dire che Hamas controlla tutto questo significa togliere ad ogni palestinese non solo il suo diritto alla libertà di movimento e ad un livello di vita dignitoso, ma anche il diritto ad una profonda frustrazione e disperazione – ed il suo diritto di esprimerla.

“Gli israeliani ci guardano dall’alto in basso e lo hanno sempre fatto. Ai vostri occhi, un arabo buono è un collaborazionista o un [arabo] morto”, ha detto uno di loro ed ha aggiunto: “Perciò per voi è difficile capire che nessuno manifesta in nome di qualcun altro. Ognuno va là per sé stesso. Noi siamo un popolo senza risorse ed ora senza una strategia e un programma, ed al punto più basso in termini di appoggio internazionale e di organizzazione interna. Ma siamo andati a manifestare per disturbare i festeggiamenti per il trasferimento dell’ambasciata. Gerusalemme ci sta molto a cuore. Andiamo per non morire in silenzio. Perché siamo stufi e stanchi di morire in silenzio, nelle nostre case.”

“Se muori, che sia di fronte alle telecamere. Facendo rumore. Io sto andando alla moschea. Non vi è stato nessun ordine dall’alto di andare alla manifestazione. Sento dei giovani dire che domani andranno a morire alla barriera, come se parlassero di un picnic o di caramelle. Sono andato al campo della ‘Marcia del Ritorno’ due o tre volte, e non mi è piaciuto. Troppa confusione. Se Hamas avesse avuto il controllo dell’intera iniziativa non ci sarebbe stato quel caos. Dopotutto, lo sapete quanto gli eventi di Hamas siano sempre ordinati, organizzati, disciplinati.”

È vero, c’era personale della sicurezza di Hamas in abiti civili; non erano là come Hamas, ma per mantenere l’ordine pubblico a nome del governo in carica, come in ogni evento di massa – per impedire a persone armate di avvicinarsi alla barriera, per evitare provocazioni di collaborazionisti, per intervenire in caso di risse o molestie sessuali.

Hamas ha perso popolarità a Gaza a causa dei fallimenti e dei disastri degli ultimi dieci anni, mi ha giurato un amico dopo avermi ricordato che a lui “non piacciono per niente.” Dice che all’inizio, [i dirigenti di Hamas] non erano entusiasti dell’idea della ‘Marcia del Ritorno’, dopo che dei giovani militanti avevano proposto l’idea a tutti i leader delle fazioni politiche.

In seguito anche Hamas ha aderito all’iniziativa. In quanto organizzazione, Hamas è in grado di offrire ciò che altri gruppi non possono: trasferimenti ai campi della ‘Marcia del Ritorno’, magari un panino e una bottiglia di coca cola e tende. “Ma non possono obbligarci a venire e mettere a rischio noi stessi. Dopotutto, è pericoloso stare ad una distanza anche solo di 300 o 400 metri, perché i soldati ci sparano.”

Uno straniero a Gaza ha avuto questa impressione: “Hamas non può ordinare alla gente di andare alle manifestazioni e mettere a rischio la propria vita, ma può impedire che si avvicini alla barriera.” Uno dei modi è fare dichiarazioni ai media.

I molti morti non di Hamas

Mercoledì è arrivata a molti organi di informazione israeliani la stessa notizia secondo cui un leader di Hamas, Salah al-Bardawil, “ha ammesso in un’intervista alla televisione palestinese che 50 dei 60 uccisi negli scorsi due giorni erano membri di Hamas.” In Israele si è tirato un gran sospiro di sollievo. Hamas? In altri termini, terroristi per definizione, in altri termini, c’è il permesso di ucciderli. C’è persino un ordine in tal senso.

La fonte di informazione era un tweet in lingua araba di Avichay Adraee dell’ufficio del portavoce dell’esercito israeliano. Ha incollato sul tweet un pezzettino di un’intervista di oltre un’ora con Bardawil sul canale di notizie Baladna trasmesso su Facebook.

L’intervistatore, Ahmed Sa’id, ha posto spinose domande che aveva ascoltato per strada, per la maggior parte poste da sostenitori di Fatah: che dite dell’umiliazione che avete subito in Egitto e perché Hamas manda la gente a morire alla barriera – mentre voi ne cogliete i frutti (politici)?

Bardawil ha dovuto difendere la sua organizzazione e dire che non era vero, che non vi è stata nessuna umiliazione e che i membri di Hamas stavano manifestando come chiunque altro, insieme a tutti gli altri.

“Purtroppo questa è l’organizzazione che oggi alimenta le motivazioni e la consapevolezza, soprattutto tra i giovani”, mi aveva precedentemente spiegato uno dei miei amici.

Torniamo a Bardawil. Ha detto che 50 dei 60 uccisi erano membri di Hamas. Ho controllato e mi è stato detto che le cifre ufficiali in possesso di Hamas sono che, dall’inizio della ‘Marcia del Ritorno’ del 30 marzo, c’erano 42 persone legate ad Hamas tra le 120 uccise: membri del movimento, noti militanti, membri di famiglie di Hamas.

Sembra che circa 20 membri dell’ala militare di Hamas siano stati uccisi, e non vicino alla zona delle proteste, ma in circostanze ancora da chiarire. Ma gli altri erano semplici manifestanti disarmati. E manifestavano perché erano di Gaza. Ma una volta che Bardawil ha detto quel che ha detto, è difficile contestare le sue parole in pubblico. “Questa (la cifra di 50) è un’altra delle nostre tipiche esagerazioni”, ha detto il mio amico che non è venuto a sventolare la sua bandiera per salutarmi.

Quanto alle esagerazioni, “l’idea che la ‘Marcia del Ritorno’ interrompa lo stallo e fermi la lenta rovina di Gaza – tutti lo vorremmo, anch’io”, ha detto un altro. “Ma sono i dettagli che non mi piacciono. Che cosa è questa follia della ‘Marcia del Ritorno’ e di togliere il blocco? Non hanno nemmeno riflettuto in modo adeguato sugli slogan. Poiché, se lo scopo è ritornare ai villaggi, il blocco è una questione irrilevante.”

Tra i girasole e i pochi incendi [di copertoni] scoppiati martedì, i soldati erano in allerta nelle loro postazioni. Ondeggiavano continuamente tra un iperattivismo borioso e l’indolenza di un picnic. Erano posizionati entro i perimetri dei kibbutz, a brevissima distanza dalle case. Anche i blindati erano alla distanza di una passeggiata mattutina.

È ciò che viene chiamata una presenza militare nel cuore di una popolazione civile. Ricordo la situazione opposta, di postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza che servivano da scusa ad Israele per diffamare l’organizzazione che si sarebbe fatta scudo dei civili, e all’esercito israeliano per bombardare chiunque si trovasse vicino a loro [alle postazioni].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




Le Forze di Sicurezza israeliane ignorano continuamente gli attacchi razzisti contro gli alunni palestinesi.

Haaretz

maggio 2018

Gli studenti delle colline meridionali di Hebron sono costretti a scegliere tra l’istruzione e la sicurezza mentre un gruppo di rabbini lancia una nuova campagna a loro favore.

■ Da più di dieci anni, i bambini palestinesi sono vittime di violenza su base etnica mentre si recano a scuola.
■ I sospettati sono estremisti israeliani appartenenti ai vicini insediamenti
■ Le forze di sicurezza israeliane spesso e volentieri ignorano gli attacchi
I politici chiudono un occhio davanti a tale disinteresse
■ Una nuova campagna mira a porre fine a questo comportamento scorretto

In mezzo alle violenze dei coloni, andare a scuola è un atto di coraggio:

Per il ventiduenne Ali del villaggio di Tuba, Cisgiordania, decidere di studiare è un modo per reagire. Negli ultimi dieci anni, i coloni estremisti israeliani hanno terrorizzato lui e altri bambini della sua comunità mentre si recavano a scuola nel villaggio di A Tuwani. E continuano ancora oggi. In questi villaggi palestinesi, che cercano di sopravvivere nell’isolata e arida regione della Cisgiordania nota come le colline meridionali di Hebron, la violenza su base etnica e le tattiche di intimidazione contro i bambini sono diventate abituali, ma non meno orribili. Attivisti internazionali scortano i bambini palestinesi verso le loro scuole, e fanno il monitoraggio degli attacchi condotti da estremisti israeliani provenienti dall’avamposto illegale di Havat Maon.

Gli attacchi contro gli studenti palestinesi nella regione sono diventati così usuali che la Commissione per la Tutela dei Minori della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha discusso la questione. Ali ha ammesso che, a causa della sua paura, trovava delle scuse per non andare a scuola, e racconta episodi spaventosi in cui i coloni hanno usato i loro stessi figli per tendere imboscate ai bambini palestinesi che vi si recavano. Nonostante ciò, le forze di sicurezza israeliane spesso ignorano gli attacchi contro i palestinesi in generale e contro gli studenti di A Tuwani in particolare (come qui documentato) e il problema va oltre gli attacchi, riguardando anche le risposte inefficienti o del tutto assenti delle autorità israeliane. Per quanto ne sappiamo, le forze di sicurezza non hanno intensificato i tentativi di prendere i responsabili, e nessun sospettato è stato arrestato né tanto meno portato davanti alla giustizia.

Le forze di sicurezza offrono invece una soluzione inadeguata e francamente assurda: una jeep militare per scortare i bambini quando vanno e tornano da scuola ogni giorno. La scorta, il più delle volte, arriva in ritardo, sempre che arrivi. Questa “soluzione” costringe gli alunni palestinesi a scegliere tra la sicurezza e il diritto all’istruzione. Rifiutandosi di permettere che questi estremisti gli impediscano di sviluppare a pieno le proprie capacità, Ali ha superato la sua paura e ha completato le superiori. Oggi sta per laurearsi e considera la sua formazione una sfida diretta alla violenza dei coloni estremisti e all’oppressione con cui ha dovuto confrontarsi vivendo sotto il controllo militare israeliano.

Ora, i “Rabbis for Human Rights” (RHR) [“Rabbini per i Diritti Umani”, ndt.], un gruppo israeliano di rabbini sionisti per i diritti umani, si è unito al collettivo italiano di attivisti “Operazione Colomba” (legato alla chiesa cattolica) per far pressione sul governo israeliano affinché venga posto fine a quella che considerano una vergogna per lo Stato ebraico. Hanno lanciato una campagna di lettere di protesta in cui chiedono agli ebrei americani di indirizzare i loro valori progressisti e la loro influenza politica per fare un appello al governo israeliano affinché sia garantita la sicurezza dei bambini palestinesi che, tra profonda povertà ed emarginazione, ambiscono ad avere un’istruzione.

Rispetto ad altre zone della Cisgiordania, i villaggi dellarea di A Tuwani raramente sono stati coinvolti nel conflitto violento. Questa zona isolata e rurale, in cui spesso le persone vivono in grotte senza elettricità, acqua corrente o altre infrastrutture, è geograficamente, economicamente e culturalmente lontana dal fulcro della società palestinese. Nonostante ciò, i suoi abitanti pagano un caro prezzo per il solo fatto di essere arabi. Israele sta affrontando numerose minacce per la sicurezza che a volte mettono alla prova la sua capacità di aderire ai principi dei diritti umaniosservano i RHR, ma quando parliamo di proteggere gli scolari palestinesi nella tranquilla comunità rurale di A Tuwani, lontana da qualsiasi zona di conflitto, non è possibile concepire alcuna giustificazione logica per questo sconvolgente fallimento morale che esige la nostra indignazione come ebrei e come israeliani”.

Il crimine più facile da risolvere resta, chissà come, irrisolto.

Per loro natura, gli attacchi contro gli studenti di A Tuwani sono il crimine più semplice da risolvere: avvengono su un ben definito, breve tratto di strada che le forze di sicurezza pattugliano costantemente, ad intervalli di tempo sempre uguali e noti (quando i bambini vanno a scuola o tornano a casa) e succedono da anni con le stesse modalità. Inoltre, gli assalitori provengono per lo più da un piccolo avamposto vicino, Havat Maon, la cui popolazione è molto ridotta, quindi i sospetti (per lo più giovani adulti) non sono difficili da individuare. Per giunta, gli assalti sono ampiamente documentati.

Alla luce di tutto ciò, ci si aspetterebbe tutta una serie di arresti e processi per questi delinquenti razzisti. Invece, per quanto ne sa il gruppo per i diritti umani, nessuno è mai stato arrestato in relazione agli attacchi.

Questo fallimento non è il risultato di una mancanza di capacità delle forze di sicurezza. Anzi, le forze di sicurezza israeliane sono giustamente celebri per la cattura di terroristi e criminali, soprattutto in Cisgiordania. Questo fallimento dipende dal fatto che la sicurezza dei palestinesi, anche dei bambini piccoli, viene considerata una questione secondaria. Non si tratta, quindi, semplicemente di atti razzisti di un gruppo marginale di bulli: è piuttosto una politica di applicazione della legge discriminatoria da parte delle forze di sicurezza israeliane e del governo che le supervisiona. Nella nuova campagna, i “Rabbini per i Diritti Umani” fanno appello al mondo ebraico affinché aiuti a porre fine a questa vergognosa violazione dei valori ebraici. “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto.”. (Levitico 19).

(traduzione di Elena Bellini)




A Gaza non è una “Marcia di Hamas”. Sono decine di migliaia di persone disposte a morire

Amira Hass

15 maggio 2018, Haaretz

La definizione delle manifestazioni da parte dell’esercito israeliano ne riduce la gravità, ma involontariamente assegna anche ad Hamas la parte di un’organizzazione politica responsabile e articolata

Di recente in una serie di occasioni rappresentanti di Fatah hanno detto, riguardo alla “Marcia per il Ritorno” di Gaza: “Siamo lieti che i nostri confratelli di Hamas abbiano compreso che il modo corretto sia una lotta popolare disarmata.” La scorsa settimana il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato qualcosa del genere durante il suo discorso al Consiglio Nazionale Palestinese.

Ciò ha indicato sia cinismo che invidia. Cinismo perché la posizione ufficiale di Fatah è che la lotta armata guidata da Hamas ha danneggiato la causa palestinese in generale e la Striscia di Gaza in particolare. E invidia perché ciò implica che, come ha ribadito la dichiarazione dell’esercito israeliano, un appello di Hamas è sufficiente a portare decine di migliaia di manifestanti disarmati ad affrontare i cecchini israeliani sul confine.

Invece appelli di Fatah e dell’OLP in Cisgiordania, compresa Gerusalemme, non portano più di poche migliaia di persone nelle strade e scaramucce con la polizia e l’esercito. È successo di nuovo lunedì, quando l’ambasciata degli USA è stata spostata a Gerusalemme. Il numero di manifestanti palestinesi a Gaza è stato molto maggiore di quello in Cisgiordania.

La decisione delle manifestazioni della “Marcia per il Ritorno” è stata presa insieme da tutti i gruppi politici di Gaza, compreso Fatah. Ma il gruppo più organizzato – quello che ha fornito la logistica necessaria, equipaggiato i “campi del ritorno” (punti di incontro e di attività che sono stati sistemati a poche centinaia di metri dal confine con Gaza), controllato le informazioni, mantenuto i contatti con i manifestanti e dichiarato uno sciopero generale per protestare contro lo spostamento dell’ambasciata – è Hamas. Persino un membro di Fatah lo ha tristemente ammesso ad Haaretz.

Ciò non vuol dire che tutti i manifestanti siano dei sostenitori di Hamas o simpatizzanti del movimento che hanno obbedito ai suoi ordini. Per niente. I dimostranti vengono da ogni settore della popolazione, gente che ha un’affiliazione politica e quelli che non ce l’hanno.

Chiunque ha paura rimane a casa, perché l’esercito [israeliano] spara a tutti. I pazzi sono quelli che si avvicinano al confine, e sono di tutte le organizzazioni o di nessuna di loro,” ha detto un partecipante alla manifestazione.

Le affermazioni dell’esercito ai giornalisti secondo cui è una “marcia di Hamas” stanno riducendo il peso di questi avvenimenti e l’importanza di decine di migliaia di gazawi che sono disposti ad essere feriti, rafforzando al contempo ironicamente lo status di Hamas come organizzazione politica responsabile che sa come cambiare la tattica della sua lotta, che inoltre sa giocare il proprio ruolo.

Lunedì, con l’uccisione alle 19 di non meno di 53 abitanti di Gaza, non c’era posto per il cinismo o l’invidia. Abbas ha dichiarato un periodo di lutto ed ha ordinato le bandiere a mezz’asta per tre giorni, insieme ad uno sciopero generale martedì. È lo stesso Abbas che stava pianificando una serie di sanzioni economiche contro la Striscia nell’ennesimo tentativo di reprimere Hamas.

Che ne siano consapevoli o meno, volontariamente o meno, gli abitanti della Striscia di Gaza, con i loro morti e feriti, stanno influendo sulla politica interna palestinese. Nessuno oserebbe ora imporre queste sanzioni. Il tempo dirà se qualcuno arriverà alla conclusione che, se Israele sta uccidendo così tante persone durante manifestazioni disarmate, essi possano tornare ad attacchi armati da parte di singoli – come vendetta o come una strategia che porterà a minori vittime palestinesi.

Secondo gli operatori sul campo del centro per i diritti umani “Al Mezan” nelle prime ore di lunedì mattina bulldozer dell’esercito sono entrati nella Striscia di Gaza ed hanno spianato i banchi di sabbia costruiti dai palestinesi per proteggersi dai cecchini.

Circa alle 6,30 del mattino l’esercito ha sparato anche contro le tende dei “campi del ritorno”, e molte di queste sono andate in fiamme. Secondo “Al Mezan”, alcune delle tende bruciato erano utilizzate per il pronto soccorso.

Il sito web “Samaa” ha informato che cani della polizia sono stati mandati nei “campi del ritorno” e che l’esercito ha spruzzato acqua puzzolente nelle zone di confine. Le frenetiche convocazioni di importanti personaggi di Hamas nella Striscia di Gaza perché si incontrassero con l’intelligence egiziana al Cairo sono stati comprese anche prima che si sapesse che gli egiziani hanno trasmesso minacciosi messaggi israeliani a Ismail Haniyeh e Khalil al-Hayya, vice del leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar.

Tutti nella Striscia di Gaza sanno che gli ospedali sono oltre il limite della capienza e che le equipe mediche sono impossibilitate a curare tutti i feriti. “Al Mezan” ha fatto sapere di una delegazione di medici che avrebbe dovuto arrivare dalla Cisgiordania ma a cui è stato impedito di entrare da parte di Israele.

Tutti sanno che le persone ferite che sono state operate sono state dimesse troppo presto e che c’è carenza di medicine indispensabili per i feriti, compresi gli antibiotici. Anche quando ci sono medicine, molti dei feriti non possono pagare neppure il minimo richiesto per ottenerle, e quindi tornano pochi giorni dopo dal dottore con un’infezione. Tutto ciò si basa su informazioni di fonti mediche internazionali.

Tutti i segnali, gli avvertimenti, le molte vittime nelle ultime settimane e le informazioni inquietanti dagli ospedali non hanno tenuto lontano le decine di migliaia di manifestanti di lunedì. Il diritto al ritorno e l’opposizione allo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme sono obiettivi e ragioni validi, accettabili da tutti.

Ma non fino al punto che masse di abitanti della Cisgiordania e Gerusalemme est si unissero ai loro fratelli della Striscia di Gaza. Là l’obiettivo più auspicabile per cui manifestare è l’ovvia richiesta e quella più facile da mettere subito in atto – restituire ai gazawi la loro libertà di movimento e il loro diritto di mettersi in contatto con il mondo esterno, soprattutto con i membri del loro stesso popolo al di là del filo spinato che li circonda. Questa è la richiesta della gente qualunque e non una questione privata di Hamas, dato che i suoi dirigenti e militanti sanno molto bene che una volta entrati nel valico di Erez tra Israele e la Striscia verrebbero arrestati.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele contro Iran: Venti di guerra a Gerusalemme – con il sostegno di Washington

Amos Harel

1 maggio 2018, Haaretz

Israele è determinato a estromettere l’Iran dalla Siria, ma se sbaglia i calcoli, Hezbollah e Hamas potrebbero accettare la sfida. Netanyahu è pronto a correre dei rischi – a un passo dal gioco d’azzardo.

Dopo l’attacco alla Siria attribuito a Israele nella notte di domenica, perlomeno il quinto da settembre, sembra che non ci sia spazio al dubbio. Israele è determinato a sradicare la presenza militare iraniana dalla Siria.

Dopo il precedente attacco alla base aerea T4 vicino a Homs il 9 aprile, in cui morirono 14 persone inclusi sette membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Iran minacciò gravi ritorsioni. Lo stato maggiore di difesa israeliano si preparò di conseguenza, ma finora non era successo nulla. Invece, ora è stato inflitto un altro attacco agli interessi iraniani in Siria.

In base ai rapporti siriani, il raid [israeliano] sugli obiettivi militari tra Hama e Aleppo nel nord della Siria ha causato forti esplosioni – una fonte ha riferito che sembrava ci fosse un piccolo terremoto. Alcuni furono uccisi, apparentemente soldati siriani e miliziani sciiti pro-iraniani.

La scorsa settimana la rete televisiva CNN ha riferito che lo spionaggio americano e israeliano sta controllando i movimenti in Siria delle armi iraniane che potrebbero essere utilizzate per “chiudere i conti” con Israele. L’attacco di domenica notte – questa volta, con tanta forza – potrebbe rivelare che è stato colpito un grosso deposito di armi. E ciò potrebbe confermare il tentativo di sventare una potenziale reazione iraniana.

Con l’Iran a nord di Israele lo scontro è diretto: Israele ha tracciato un limite ed è pronto a farlo rispettare con la forza. Poiché gli iraniani si oppongono sia alla proibizione di Israele alla sua presenza che ai mezzi che Israele sta usando, in assenza di un mediatore tra le parti, questo conflitto potrebbe ancora intensificarsi. La settimana è appena all’inizio.

Paura di provocare Trump

Nell’ultimo anno, due tendenze sono diventate evidenti in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar Assad ha vinto la sanguinosa guerra civile in Siria e gli Stati Uniti stanno ridimensionando la propria presenza nella regione. Anche il loro recente attacco punitivo contro il regime di Assad è stato percepito come un gesto simbolico di addio. Nel frattempo, stanno prendendo forma altre due tendenze: lo sforzo di Israele di espellere l’Iran dalla Siria e Washington che si prepara a una risoluzione per abbandonare l’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze [occidentali], che dovrebbe avvenire intorno al 12 maggio.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra stabilire una relazione fra le ultime due tendenze. L’idea è che l’Iran si stia trattenendo dal reagire contro Israele per le ultime presunte mosse in Siria perché ha paura di commettere un errore che provocherebbe la rabbia degli Stati Uniti. Secondo questo punto di vista, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe rispondere all’escalation tra Iran e Israele abbandonando l’accordo nucleare ancora prima, e in seguito potrebbe persino attaccare i siti nucleari iraniani (il che sarebbe incalcolabilmente più grave di un ipotetico attacco israeliano). Le autorità di Teheran sono anche preoccupate per le varie minacce interne, dalla crisi finanziaria alle accese manifestazioni di protesta. Apparentemente la conclusione logica è che Israele possa continuare a colpire gli iraniani in Siria a suo piacimento.

In effetti, gli Stati Uniti agiscono in modo molto diverso rispetto ai giorni di Obama. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è venuto in Israele dopo aver assunto l’incarico ed è partito per la Giordania poco prima che arrivassero le prime notizie degli attacchi israeliani in Siria. Contemporaneamente, Trump e Netanyahu si sono parlati per telefono, discutendo, come riferito, anche dell’Iran. Si tratta chiaramente di un riconoscimento da parte di Washington dei venti di guerra che soffiano a Gerusalemme. Si potrebbe pensare che se Pompeo avesse potuto rimanere in Israele qualche ora in più, gli avrebbero suggerito di saltare in una cabina di pilotaggio e sparare lui stesso alcuni missili.

Nel frattempo, Netanyahu, come abbiamo scritto alcune settimane fa, è di un umore particolarmente trumpiano, molto diverso dal suo comportamento normale. L’attenzione agli incidenti riguardo alla sicurezza ha superato anche la preoccupazione per le lotte politiche all’interno della coalizione. È pronto ad affrontare rischi inediti, al limite del gioco d’azzardo. Stranamente, lo stato maggiore della difesa è con lui. Contrariamente all’acceso contrasto dell’inizio del decennio [2010] sul bombardamento dei siti nucleari in Iran, questa volta i capi della difesa israeliana portano avanti una linea dura e aggressiva riguardo alla presenza dell’Iran in Siria.

La seccante ma necessaria domanda di questa mattina è cosa succede se Israele sbaglia una mossa.

È vero, l’Iran adesso non vuole importunare gli Stati Uniti. È piuttosto occupato a proteggere il suo programma nucleare da ulteriori pressioni ed è interessato a esibire la sua capacità di colpire in Siria. Un combattimento in Siria non andrebbe bene nemmeno ai russi che sono intenzionati a ristabilire il regime di Assad.

Ma i calcoli di Israele potrebbero saltare se le fiamme in Siria divampassero fuori controllo, e se l’Iran decidesse, smentendo le ipotesi, di trascinare Hezbollah nel conflitto, per esempio dopo le elezioni libanesi del 6 maggio. Hezbollah ha acquisito in Siria un’esperienza largamente operativa. Ha un arsenale di oltre 100.000 fra missili e razzi. Hezbollah non è certamente più forte delle Forze di Difesa Israeliane, ma in caso di guerra, potrebbe provocare danni reali sul fronte interno israeliano, e i combattimenti a terra in Libano potrebbero costare cari all’esercito israeliano.

Un conflitto del genere potrebbe coinvolgere Hamas a Gaza, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ripetutamente segnalato (sembra esserci una discrepanza tra i toni sicuri espressi da Gerusalemme, tra cui quelli di Lieberman, in pubblico, e le loro reali paure). Finora Israele è riuscito a stabilire e mantenere un coordinamento con l’aviazione russa per prevenire qualsiasi attrito nei cieli siriani. Ma, a un certo punto, non potrebbe Mosca decidere che è stufa di ricevere diktat da Gerusalemme?

Israele ha uno scopo comprensibile in Siria. La presenza dell’Iran sta diventando potenzialmente pericolosa e potrebbe in futuro bloccare l’esercito israeliano. Eppure, stamattina, bisogna farsi alcune domande. L’obiettivo di espellere tutte le forze iraniane dalla Siria è davvero raggiungibile, come sembrano pensare il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo dello stato maggiore? Stanno considerando che le cose possano andare storte, sfociando in un conflitto più vasto dal costo molto più alto? Finora non c’è stata alcuna vera discussione in merito, né è emerso alcun dibattito sulla politica che sta prendendo forma al nord – non nel governo né tra i vertici della sicurezza.

( Traduzione di Luciana Galliano)