Come se Israele non avesse fatto niente di cui vergognarsi prima dell’avvento degli smartphone

Amira Hass

16 aprile 2018, Haaretz

I soldati israeliani che hanno ucciso palestinesi disarmati non sono spuntati dal nulla per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete, ricordate o credete.

La vergogna è importante, è un peccato che arrivi così tardi. La vergogna è necessaria, è triste che così poche persone la provino. Quello che rende possibile questa tardiva apparenza di vergogna è la tecnologia che ha trasformato ogni persona con uno smartphone in un fotografo e ogni applicazione delle reti sociali in uno schermo gigante, portando in ogni casa prove fotografiche imbarazzanti. In rari casi filtrano attraverso il muro dell’insabbiamento e della menzogna innalzato dall’esercito israeliano e attraverso la corazza del “sono comunque tutti terroristi” che gli israeliani indossano volontariamente.

Dalla vergogna a lungo rimandata possiamo intuire che ci sono israeliani che credono che i soldati dell’esercito abbiano iniziato solo poche settimane fa a sterminare palestinesi disarmati. Cioè credono che solo da quando sono comparsi gli smartphone, con la loro possibilità di smascherare pubblicamente in tutta la loro nuda vergogna i soldati e i loro superiori, i comandanti abbiano iniziato a ordinare ai loro soldati di uccidere anche in assenza di un pericolo mortale. In altre parole, che fino a poco tempo fa, finché non sono arrivati gli smartphone, la purezza delle armi venisse scrupolosamente rispettata e non ci fosse spazio per la vergogna. E quindi che sia così anche oggi, in tutti i casi in cui soldati e poliziotti uccidono e feriscono palestinesi quando non ci sono telefonini a riprenderli. Gli israeliani che si vergognano credono che l’esercito menta solo quando c’è una prova fotografica della bugia. In sua assenza l’esercito israeliano e la polizia dicono la verità, i palestinesi e un pugno di persone di sinistra sono quelli che mentono.

La vergogna è demoralizzante per un’altra ragione: ci ricorda della debolezza della parola scritta quando non si basa sulla versione degli avvenimenti del regime, ma piuttosto sulla testimonianza delle vittime del regime. Prima che ci fossero cellulari con videocamera e telecamere di sicurezza ad ogni angolo, raccoglievamo le testimonianze di decine di testimoni oculari. Incrociavamo le loro versioni, verificavamo, esaminavamo, facevamo domande – spesso eravamo sul posto quando avvenivano gli incidenti – e scrivevamo e pubblicavamo. Ma era sempre la nostra parola contro quella dell’essere assolutamente puro: l’ufficio del portavoce dell’esercito.

L’immagine che si voleva trasmettere dell’esercito e del governo era fabbricata sulle scrivanie delle redazioni e nelle strade di Tel Aviv e di Kfar Sava. Ogni giorno e in ogni operazione, il superpotere palestinese risorge per distruggerci e per attaccare la piccola Israele e i suoi teneri figli diciottenni che sono apparsi nel territorio della superpotenza. Non è così: i soldati israeliani che uccidono palestinesi disarmati non sono spuntati fuori per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete o non ricordate o non credete.

Alla vostra attenzione

Ma ditemi, voi che vi vergognate, e a ragione, non vi vergognate del fatto che Israele rubi l’acqua ai palestinesi e imponga loro limitate quote di consumo? Non vi vergognate del rifiuto di Israele di collegare migliaia di palestinesi della Cisgiordania e del Negev israeliano al servizio idrico?

E quando Israele espelle gli abitanti di Umm al-Hiran dalla loro baraccopoli del Negev, non morite di vergogna per lo Stato e per la bella comunità modello, basata su valori ebraici, che sarà costruita sulla terra degli espulsi? Non vi vergognate dello Stato che in tutti questi anni ha impedito il collegamento di Umm al-Hiran alla rete idrica ed elettrica, o dei giudici della Corte Suprema che hanno permesso le espulsioni? Non provate vergogna quando un pugno di israeliani scende dalle proprie colonie e dagli avamposti per attaccare ripetutamente i villaggi palestinesi dei dintorni? Non arrossite, né sbiancate, alla vista dei soldati che stanno a guardare e lasciano che essi aggrediscano, distruggano, sradichino e taglino? E quando la polizia non fa nessuna ricerca dei responsabili, persino quando sono stati filmati e il loro luogo di residenza è noto, non vi vergognate ancora di più? Non provate vergogna per il solo fatto di sapere che questo metodo di violenza dei coloni – incoraggiato dal silenzio delle autorità – è vecchio tanto quanto la stessa occupazione?

Il seguente fatto – 2,5% della terra dello Stato è destinata al 20% della popolazione (i cittadini palestinesi di Israele) – non fa sì che voi, per la vergogna, vogliate che la terra si apra e vi inghiotta?

E cosa ne dite dei pochi abitanti di Gaza a cui è permesso di viaggiare all’estero attraverso il ponte di Allenby [posto di confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, ndt.] che sono obbligati a promettere per iscritto di non tornare per un anno? E dei palestinesi della Cisgiordania a cui non è consentito incontrarsi con amici e parenti che vivono nella Striscia di Gaza? E del divieto di vendita dei prodotti di Gaza in Cisgiordania e di esportarli, tranne pochi camion che trasportano una ridotta quantità di beni? E cosa dite del fatto di tener imprigionate 2 milioni di persone dietro il filo spinato e il controllo militare e le torri da cui sparare? Secondo voi tutto questo non meriterebbe di essere incluso nell’elenco delle disgrazie collettive degli ebrei?

Israele non si è mai spaventato e non si spaventa ora ad uccidere civili palestinesi – individualmente, separatamente e in massa. Ma uccidere palestinesi non è un fine in sé. Al contrario i 70 anni di esistenza di Israele dimostrano che l’appropriazione della terra palestinese è un obiettivo supremo del nostro Stato, e che l’appropriazione si unisce alla riduzione del numero di palestinesi su quella terra.

Espellere palestinesi dalle loro case, dalla loro patria e dal loro Paese in tempo di guerra è un mezzo collaudato per ridurre il numero di una popolazione. Quando questo non è fattibile, concentrare i palestinesi in affollate riserve (su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra lo Stato di Israele e la Giordania prima dell’occupazione della Cisgiordania, ndt.]) è un altro metodo, di routine e continuo. Chiunque abbia trovato ciò difficile da credere prima del 1993 ha ottenuto la prova definitiva negli accordi di Oslo: sotto l’ombrello del processo di pace il principale obiettivo dei governi (laburisti e del Likud) e delle loro burocrazie è stato di dimostrare la giustezza delle accuse secondo cui nel profondo siamo davvero un’entità coloniale. Ciò vi fa sentire orgogliosi?

(traduzione di Amedeo Rossi)




In questi giorni essere un israeliano è un dramma

Nehemia Shtrasler

13 aprile 2018, Haaretz

Solo un cuore malvagio potrebbe non capire che chiunque dia un ordine di sparare proiettili letali su dimostranti disarmati sta dando un ordine palesemente illegale.

Va bene, ho capito. Non puoi dire: “Mi vergogno di essere israeliano.” Dopo aver detto questo, devi scusarti per evitare di essere licenziato [si riferisce al caso di un conduttore radiofonico che, dopo aver postato quella frase, ha dovuto chiedere scusa per non essere licenziato, ndtr.].

Se è così, posso dire di essere rimasta scioccata? Che non riuscivo a credere a ciò che sentivo? Che ho provato una fortissima nausea nel sentire il numero di persone uccise e ferite durante le dimostrazioni palestinesi vicino al confine tra Israele e Gaza?

E’ legittimo ordinare all’esercito di impedire ai dimostranti di entrare in Israele dalla Striscia di Gaza, ma deve essere fatto con mezzi non letali: idranti, gas lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per colpire alle gambe i dimostranti. Ma non con proiettili veri e certamente non con proiettili veri con l’intenzione di uccidere.

Chiunque dia un ordine di sparare proiettili veri contro dimostranti disarmati che non stanno mettendo a rischio la vita dei soldati, sta dando un ordine palesemente illegale, su cui sventola una bandiera nera. Solo un cuore malvagio potrebbe non capirlo.

Questa settimana è stato pubblicato un video scioccante. Mostrava un cecchino che sparava ad un palestinese che non rappresentava affatto un pericolo. Il palestinese con la maglietta rosa si trovava ad una distanza notevole dalla barriera di confine, per cui non vi era ragione al mondo di sparargli.

Nel video lo si vede in piedi per un istante e poi cadere, colpito ad una gamba. E poi si sentono le voci di incitamento e di tripudio dalla nostra parte: “Wow, che video fantastico, figlio di puttana, sta scappando con la gamba sollevata, via di qui, figli di puttana.”

Il ragazzo in rosa non sapeva nemmeno di essere nel mirino del cecchino. Lo si vede aggirarsi senza paura. Non sapeva che Israele aveva dichiarato una “zona di guerra” da 80 a 100 metri all’interno del territorio sovrano di Gaza e che chiunque vi entri può essere ucciso.

Parlando di questo incidente, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto: “Il cecchino merita una medaglia…L’esercito israeliano è l’esercito più morale al mondo.” Una medaglia per cosa? Per possedere un fucile sofisticato con mirino telescopico ed aver sparato a gente inerme come a facili bersagli, mentre lui sta ben nascosto, senza correre alcun rischio? Per un’operazione come questa, l’esercito merita il riconoscimento di esercito più morale al mondo? Dovrebbero fare un remake di “1984” [libro di George Orwell in cui si immagina un futuro totalitario, ndtr.] in stile Lieberman.

I gazawi avevano diversi tipi di “armamenti”. Avevano delle fionde, come Davide contro Golia. Avevano dei pneumatici, che hanno bruciato. Ed avevano anche degli specchi, portati da casa, che hanno usato per tentare di accecare i cecchini, una tattica usata per la prima volta da Archimede contro i romani 2.000 anni fa. Con queste antiche armi sofisticate hanno lottato senza successo contro i cecchini, che hanno ucciso 32 di loro, compreso il fotografo Yaser Murtaja,, che indossava un giubbotto con scritto “stampa” a caratteri grandi. Hanno anche ferito circa 300 persone con proiettili veri, 20 delle quali in modo grave, e circa altre 1.000 con proiettili ricoperti di gomma e gas lacrimogeni.

Sono numeri che la mente non può accettare. Abbiamo evidentemente toccato il punto in cui la vita umana non vale un centesimo.

Ma non è del tutto vero. Dipende dalla persona.

Nel 2009 venne pubblicato il libro “La Torah del re”. Parlava di ciò che la legge dice riguardo all’uccidere non ebrei. Basandosi su “prove” tratte dal Talmud [uno dei testi sacri dell’ebraismo, secondo solo alla Bibbia, ndtr.], sosteneva che il divieto di omicidio della Torah [i primi 5 libri della Bibbia, base dell’insegnamento ebraico, ndtr.] si applica solo agli ebrei; uccidere i non ebrei è consentito.

All’epoca il libro sollevò una tempesta e provocò una forte opposizione, ma oggi a quanto pare verrebbe accettato con totale condivisione. Il fatto è che molti politici ed esperti non sono stati affatto turbati né dai proiettili veri sparati sui dimostranti né dall’alto numero di persone uccise e ferite.

Hanno detto che “i gazawi hanno mandato i loro figli a commettere atti terroristici, per cui è giusto che li abbiamo fermati.” Hanno detto: “Abbiamo lasciato Gaza, perciò non dobbiamo vergognarci di niente.” Hanno descritto i dimostranti come “un’invasione di terroristi il cui scopo era distruggere Israele”, aggiungendo: “Gloria all’esercito israeliano per aver fermato l’invasione senza vittime da parte nostra.”

E le vittime civili disarmate dall’altra parte? E’ tutto a posto. Vedi “La Torah del re.”

E’ un dramma essere un israeliano in questi giorni. Dramma accompagnato da un irrefrenabile disgusto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele usa la tecnologia per non dover fare i conti con quel che sta facendo ai palestinesi.

Ofri Ilany

4 aprile 2018, Haaretz

Nell’estate del 2017, i siti di notizie israeliani raccontavano di una nuova tecnologia sviluppata nei laboratori dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane): un software per combattere la sindrome da stress post-traumatico. Inizialmente si prevedeva un utilizzo del programma tra i soldati al fronte: li avrebbe allenati a identificare gli “elementi di minaccia” e avrebbe aumentato la loro resistenza allo stress post-traumatico. Lo sviluppo (di questo software, n.d.t.) venne pubblicizzato nel periodo in cui era stato reso noto che a 143 soldati che avevano combattuto a Gaza nel 2014 era stato ufficialmente diagnosticato il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS). La società israeliana, da allora, è andata avanti velocemente, lasciandosi alle spalle la sanguinosa incursione a Gaza per far fronte a innumerevoli altre questioni. Ma, per i soldati rientrati, l’orrore non è scomparso. Le urla di terrore, i corpi in pezzi e la sensazione di impotenza si ripresentano in flashback quando meno te l’aspetti. Gli ebrei israeliani erano quasi tutti convinti che la guerra a Gaza fosse giusta e necessaria, e le truppe fortemente motivate che hanno assaltato i quartieri di Gaza erano sostenute da dimostrazioni di incoraggiamento, canzoni confortanti di cantanti famosi ed esortazioni di rabbini militari e personalità televisive. Tuttavia, a quanto pare, mandare la Generazione Y a fare incursioni militari in zone densamente abitate lascia qualche segno sulle loro anime. E Israele, come affronta il problema? Inventa una nuova tecnologia, ovvio. “Formazione dell’attenzione”, questo è il nome che le ha dato il responsabile della divisione per la sanità mentale delle forze di terra, che spiega che tale metodo migliorerebbe le prestazioni e ridurrebbe il tasso di abbandono del servizio militare. E in futuro, a quanto si dice, ci sarà un sistema di cura del trauma attraverso la realtà virtuale, con magari anche il supporto del MDMA (anche conosciuta come ecstasy). Questi potrebbero essere sviluppi decisamente importanti, ma racchiudono anche il problema fondamentale di Israele: la convinzione che per ogni ostacolo ci sia una soluzione tecnologica. Nei suoi anni da Primo Ministro, Benjamin Netanyahu ha cercato di alzare il morale israeliano a livelli mai visti prima. Molti israeliani provano una costante sensazione di euforia, come se vivessero dentro un’utopia divenuta realtà. Il giornalista Israel Harel aveva ragione quando ha scritto, nell’editoriale della scorsa settimana, che Israele è in piena fioritura. La vecchia Israele, spaventata e in preda all’ansia, è diventata oggi una società sicura di sé che gode della prosperità del proprio Stato. Negli ultimi due anni, anche quella sorta di paranoia che un tempo era caratteristica degli israeliani è stata rimpiazzata da un nuovo tipo di mentalità: tutto è meraviglioso, siamo forti, siamo popolari, tutti ci amano e noi amiamo noi stessi. In realtà, Israele ha fatto in modo di superare molti dei problemi che la preoccupavano in passato con l’aiuto di soluzioni tecnologiche. I missili che minacciavano le aree di confine vengono oggi intercettati dall’Iron Dome. Le ondate di rifugiati africani sono state bloccate da un muro. La crisi idrica è stata contenuta da impianti di desalinizzazione. La minaccia demografica viene contrastata dai passi avanti nei trattamenti per l’infertilità. E il BDS viene combattuto dall’impegno di squadre addestrate di persone che rispondono e fanno propaganda sui social media. Perfino l’ “intifada dei coltelli” è stata neutralizzata da una qualche specie di algoritmo che permetteva di identificare il potenziale attentatore addirittura prima che lui sapesse di esserlo. Praticamente per ogni minaccia il Paese ha prodotto una soluzione tecnologica appropriata. È stata creata una toppa per ogni strappo nella sicurezza. Tutto ciò può essere considerato alquanto impressionante e ammirevole. Ma in realtà non è stato risolto alcun problema politico. I palestinesi sono ancora qui ed è chiaro che sono la maggioranza nell’area compresa tra il mare e il fiume Giordano. Quindi la situazione resta invariata solo grazie ai mezzi di brutale coercizione. Lo Stato ebraico ha sviluppato una eccezionale capacità di gestione delle masse umane su larga scala. Con l’aiuto di muri, checkpoint, alleanze, ormoni, software e altri sistemi sofisticati, gestisce la popolazione palestinese e quella ebraica in modo da limitare la pressione esercitata sul regime. Usando la tecnologia del “freno alla storia”, è stata in grado di rallentare processi storici che sembravano inevitabili. Ma, col passare del tempo, la tensione insita nel regime sionista relativamente a chi non gode dei diritti politici sta spingendo le autorità a impiegare misure sempre più disperate. La gaudente Israele anela a reprimere la propria consapevolezza dei palestinesi e smania per buttarli fuori dal sistema, altrimenti dovrà riconoscere che qui ci sono altri esseri umani con aspirazioni legittime. Queste non sono persone come te, ci dicono, loro sono “minacce”, mostri di videogame che devono essere eliminati per passare al prossimo livello. E continuano a spuntar fuori in ogni momento. A questo punto, abbiamo fatto ricorso alla manipolazione tecnologica su noi stessi per fare una specie di allenamento mentale, in modo che saremo in grado di affrontare questa sfida. Siamo arrivati, così, alla situazione in cui centinaia di cecchini sparano a manifestanti disarmati e li uccidono al ritmo di 10 al giorno, e nessuno si rifiuta di obbedire agli ordini. Durante la prima intifada, ma anche nella seconda, una cosa del genere avrebbe provocato shock e orrore. Ma ora non più. Ci siamo allenati, usando l’ideologia, la religione, gli algoritmi, la mindfulness, qualunque cosa, per raggiungere uno stato di consapevolezza che ci permette di superare l’istinto elementare della compassione che normalmente sorge spontaneo davanti alla sofferenza umana. Le migliaia di persone dall’altra parte della barricata vengono descritte con ogni tipo di etichetta. I politici e gli analisti le dipingono come ribelli, provocatori, terroristi, nemici, infiltrati, islamici, antisemiti, addirittura omofobi. Ma, come amano dire i commentatori televisivi, a scanso di equivoci queste cose, che hanno braccia e gambe e teste, si chiamano anche “esseri umani”. E il loro rifiuto di accettare una vita in cui sono intrappolati è esattamente ciò che li rende umani. Il loro principale crimine, quello per il quale vengono colpiti dai lacrimogeni, da pallottole di gomma e da colpi d’arma da fuoco, è aver osato apparire nel nostro campo visivo proprio quando stavamo per sederci a mangiare matza e haroset (pane azzimo e marmellata densa di frutta e noci, cibi tipici della pasqua ebraica, n.d.t.). Un anno fa, Israele ha cercato di oscurare quasi completamente il 50° anniversario dell’occupazione. Da allora, la sua arroganza è aumentata, e oggi programma le celebrazioni per il 70° anniversario della sua nascita, questo mese, come un’orgia onanistica. Autorizzati dalle dichiarazioni d’amore di Donald Trump, Netanyahu e il suo governo aspirano a incenerire una volta per tutte il progetto palestinese, con 70 ore di danze Hora. Ma a questo punto qualcuno dovrebbe andare a rovinargli la festa. Quindi, in un certo senso, le marce palestinesi sono motivo di speranza, perché costringono gli Israeliani a ricordarsi che vivono in questa terra insieme a un altro popolo, che ha le proprie aspirazioni. Con o senza l’appoggio di Trump, dovremo tenerne conto. O forse potremmo sviluppare nuove tecnologie di auto-inganno e cercare altri modi di curare la psiche dei cecchini che sparano ai civili lungo il confine. Funghi allucinogeni, magari.
(Traduzione: Elena Bellini)




Perché l’esercito israeliano ha confiscato i soldi della figlia di un palestinese cieca e in lutto?

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

L’esercito israeliano ha confiscato il denaro di Yasmin Eshtayyeh a un valico di frontiera, definendolo “denaro terrorista” – senza prove, interrogatori o processi. Lei non ha permesso che le avversità le impedissero di lottare per riaverlo.

Circa 5.000 shekel (1.425 dollari) mi hanno portato a Yasmin Eshtayyeh; più precisamente, una combinazione di 357 dollari, 500 shekel e 668 dinari giordani. Sono le valute e gli importi che le autorità israeliane al valico di confine con la Giordania hanno tolto, sequestrato e confiscato dalle borse di Eshtayyeh e di sua sorella Suhad nel 2013. Lo scorso 14 febbraio, un anonimo soldato dell’ufficio del difensore civico della direzione del Comando Centrale delle Forze di Difesa Israeliane ha stabilito che Eshtayyeh non ha il diritto di appello o obiezione. Fine della discussione.

E immediatamente, dietro un’esile storia di israeliani che confiscano denaro, è apparsa l’intera vita di una giovane donna di 31 anni cieca dalla nascita. La memoria le dice che si è accorta di essere diversa solo a 5 anni. I suoi genitori, e in particolare suo padre, Sael, l’hanno circondata e coccolata protettivamente. Sua madre, Muna, l’ha sempre lavata e vestita (ancor oggi sua madre le sceglie i vestiti).

Una volta, una cuginetta andò a trovarla e fecero il bagno insieme. All’improvviso la cugina scomparve. Dov’era? Era andata a vestirsi. E fu allora che Yasmin, 5 anni, capì che i bambini della sua età si vestivano da soli. Poi, o prima, notò anche che per strada gli altri bambini correvano, saltavano, andavano al supermercato da soli, mentre lei – qualcuno la teneva sempre per mano. Gli indizi erano sempre più numerosi. Il concetto di vista non le era ancora del tutto chiaro, ma lo era la sua differenza dagli altri.

La coscienza dell’esistenza di un’entità suprema che tutto governa ha preceduto la sua consapevolezza della cecità e del senso della vista. Almeno questo è quello che le dice la memoria. All’età di 4 anni o giù di lì – nel 1991 – la famiglia era seduta nel cortile di casa nel villaggio di Salem, a est di Nablus.

“All’improvviso qualcuno ha gridato: ‘Vieni qui, altrimenti sparo'”, racconta. Il “vieni qui” era in ebraico, il resto in arabo. Sapeva già cosa fosse sparare. A quanto pare aveva anche sentito la parola “esercito”. I colpi sull’asfalto che aveva sentito, lo sapeva, erano pietre lanciate dai bambini. Le parole non si erano ancora trasformate in un concetto completo. Quello fu il suo primo incontro cosciente con la voce di un soldato, rappresentante del dominio in terra.

“Pensavo che un soldato fosse un essere gigantesco”, ricorda. “Più grande delle persone normali. Non capivo come potesse comportarsi in questo modo, contro gli esseri umani.” Come per molti altri, “ebreo” e “soldato” divennero sinonimi nel suo lessico. Fu la più grande tragedia della sua vita, a 17 anni, a permetterle di distinguere tra i due.

Richiesta respinta”

Non dimenticherà mai il soldato di nome Uri. “Uno dei peggiori che ho visto nella mia vita”, dice. Usando proprio questa parola: “visto”. Nel dicembre 2013 partecipava con altre donne palestinesi ad un incontro ad Amman sul progresso dei diritti delle donne disabili in Medio Oriente. La ragazza che aveva scoperto solo a 5 anni che le bambine si vestono da sole era ora titolare di un master in inglese e in traduzione, e abile rappresentante delle donne disabili che vogliono integrarsi nella società e nel lavoro.

Eshtayyeh lavorava per l’organizzazione palestinese ‘Stars of Hope’, fondata per promuovere l’integrazione delle donne con disabilità, e ha rappresentato l’organizzazione ad una conferenza sotto l’egida delle Nazioni Unite in dicembre. Sua sorella si è unita a lei come accompagnatrice. Quando sono tornate, il 22 dicembre, le altre donne hanno attraversato il valico al-Karameh (“dignità” in arabo) (noto anche come il valico di Allenby) senza incidenti ma, con loro grande stupore, lei e sua sorella sono state trattenute.

Furono fermate al controllo dei passaporti, fu loro chiesto di rimuovere i copricapo e i cappotti e di togliersi le scarpe. Furono perquisite corporalmente e furono presi loro i soldi trovati nelle borse. Eshtayyeh racconta della stanza angusta in cui furono portate, dell’acqua potabile che non venne loro offerta e del bagno a cui non fu loro permesso di andare, e del soldato Uri, che non le lasciava muovere, e gli urlava contro. C’era anche un poliziotto israeliano che si presentò come Ahmed. “Mi disse: ‘Siamo preoccupati che qualcuno di Hamas possa usarti.’ Risposi che avevo studiato all’università, viaggiato all’estero e lavorato, e che non avevo mai permesso a nessuno di approfittarsi di me.”

Furono interrogate sulla provenienza del denaro. La risposta era facile: 500 shekel (attualmente $ 142) e altri 98 dinari ($ 138) provenivano dal suo stipendio alla Birzeit University, dove lavorava come consulente presso il Center for Development Studies. Era molto orgogliosa di potersi mantenere e aiutare la famiglia. Aveva ricevuto altri dollari da ‘Stars of Hope’ per coprire le spese del viaggio, e avrebbe dovuto restituire quanto rimasto. Il denaro preso a sua sorella veniva da alcune ragazze e donne della famiglia che volevano gli comprassero dei cosmetici nella capitale giordana. Ma le giornate alla conferenza erano state più lunghe e intense di quanto ci si aspettasse, avevano avuto poco tempo per fare compere e, soprattutto, avevano scoperto che Amman non era meno cara.

Nonostante le spiegazioni, prima che se ne andassero fu consegnata loro una notifica della polizia israeliana in cui si dichiarava che i loro soldi erano stati sequestrati “per via del sospetto trasferimento di fondi collegati a un’associazione illegale, e il comandante delle forze israeliane in Giudea e Samaria [ la Cisgiordania] intende confiscare il denaro sequestrato”. Verso le 01:30, di quel giorno di dicembre di quattro anni fa, dopo un ritardo di otto ore, fu loro permesso di lasciare il terminal vuoto. Pregarono che gli fossero lasciati un po’ di soldi per poter prendere un taxi per tornare a casa. Quelli che avevano preso i loro soldi rifiutarono. Allora aspettarono qualche ora in più che uno zio arrivasse in macchina nel mezzo della notte dall’area di Nablus per venirle a prendere.

Quello fu l’inizio di una saga burocratica e legale che continua fino ad oggi, che ha introdotto nella vita di Yasmin Eshtayyeh non solo soldati e agenti di polizia ma anche i giudici della Corte Suprema Elyakim Rubinstein (ora in pensione), Noam Sohlberg e Menachem Mazuz.

Due amici israeliani hanno scritto al consulente legale militare in Giudea e Samaria, chiedendo che i soldi fossero restituiti. La risposta del consulente legale è arrivata l’8 aprile 2014. Dichiarava che solo un giorno prima, cioè il 7 aprile, era stato emesso un ordine di confisca del denaro, “alla luce della presentazione di informazioni di intelligence affidabili e comprovate.” Senza prove, senza evidenze, senza spiegazioni né dettagli, senza ascoltare ciò che le donne avevano da dire. Non sono state arrestate, non sono state convocate per un interrogatorio sul reato che avrebbero presumibilmente commesso, non sono state processate.

Fino al 25 dicembre 2013, i palestinesi le cui proprietà fossero state confiscate per ordine del comandante militare potevano almeno ricorrere a un tribunale militare. Ma quel giorno il maggiore Gen. Nitzan Alon, all’epoca capo del Comando centrale e sovrano in Cisgiordania, firmò un ordine che privava i tribunali militari di tale autorità ed esonerava quindi i confiscatori dal dover fornire una parvenza di prova e trasparenza.

In una società in cui famiglie anche numerose dipendono da un solo stipendio, dove il salario minimo mensile è di 1.400 shekel ($ 405), e molte donne guadagnano anche meno di questo, 5.000 shekel ($ 1.425) sono una grande quantità di denaro. Le sorelle si sono rivolte a Yesh Din: Volunteers for Human Rights, un’organizzazione che opera in Israele e in Cisgiordania. Gli avvocati di Yesh Din Michael Sfard, Emily Schaeffer Omer-Man e Noa Amrami hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a loro nome. La petizione sosteneva che l’ordine di confisca era illegale, così come la negazione del diritto di ricorso. L’Alta Corte ha unito la loro petizione a due casi simili. I giudici non hanno nemmeno considerato i casi di confisca nelle petizioni e hanno stabilito che non vi fosse alcun impedimento legale nell’ordine del capo del Comando centrale che negava il diritto di appello. Allo stesso tempo, hanno suggerito che l’esercito rendesse possibile “un forum di opposizione o appello sulle decisioni di confisca”, per ridurre il numero di petizioni all’Alta Corte. Pensavano che i casi specifici che erano stati loro sottoposti avrebbero potuto essere risolti nel quadro di un simile “forum”.

L’esercito ha accettato la proposta, con una differenza sostanziale: è stata debitamente istituita una commissione composta da rappresentanti dell’ufficio dell’avvocato militare, del Corpo di intelligence e dell’Amministrazione civile, ma la sua autorità è stata limitata a discutere di “sequestro di oggetti”, una fase precedente alla confisca. Chiunque la cui proprietà fosse già stata dichiarata confiscata avrebbe dovuto dirle addio. Lo scorso maggio, i giudici hanno espresso soddisfazione, hanno dichiarato che la petizione aveva “raggiunto un obiettivo importante” e ordinato allo stato di pagare ai rappresentanti dei tre ricorrenti le spese legali di 10.000 shekel ($ 2.850).

Per Yasmin e Suhad Eshtayyeh questo era un risultato kafkiano. Grazie alla loro e ad altre petizioni, i giudici avevano suggerito che l’ordine fosse emendato ed è stata istituita una commissione militare per ascoltare le obiezioni, ma esse stesse non potevano comparire dinanzi alla commissione perché i loro soldi erano già stati dichiarati “confiscati”. Sfard e un altro avvocato di Yesh Din, Sophia Brodsky, hanno chiesto a un rappresentante del pubblico ministero, l’avvocato Roy Shweika, di trovare una via d’uscita. Questi ha rifiutato. Hanno chiesto un chiarimento al tribunale, che aveva erroneamente pensato che il verdetto avesse suggerito una soluzione anche per i ricorrenti. Lo scorso novembre, il giudice Sohlberg ha stabilito che, per quanto lo riguardava, le sorelle potevano presentare una nuova petizione. In altre parole, altre spese legali da pagare, e altro impegno. Più tempo e risorse mentali e materiali sprecate.

Gli avvocati quindi hanno scritto all’attuale capo del Comando Centrale, il generale maggiore Roni Numa, e al consigliere legale, tenente generale Eyal Toledano, nella speranza che forse avrebbero accettato di essere più flessibili, revocare l’ordine di confisca e consentire alle sorelle di presentare la loro obiezione alla commissione che era stata istituita grazie alla loro petizione. Ma il soldato anonimo dell’ufficio del difensore civico nell’ufficio del consulente legale, che ha risposto il mese scorso, si è attenuto ad una spiegazione che si morde la coda: le informazioni che hanno portato alla confisca (senza il diritto di appello) erano solide e affidabili, la commissione discute solo ricorsi sui sequestri prima della confisca. “Il caso del vostro cliente non è compatibile con l’autorità della commissione.” Richiesta negata.

L’Unità Portavoce dell’esercito israeliano, rispondendo a una richiesta di chiarificazioni, ha detto ad Haaretz: “Nel 2014, i soldi confiscati ai palestinesi citati nell’articolo, secondo informazioni attendibili, erano denaro del terrorismo proveniente dall’organizzazione di Hamas”. Tra l’altro, Hamas non è mai stato menzionato nelle notifiche ufficiali che le due hanno ricevuto.

Vedere il mare

“Sappiamo che il cambiamento è possibile”, afferma la “Guida per la sensibilizzazione (pubblica) e la difesa dei soggetti disabili: concetti e relativa applicazione”, pubblicata dal Centro di studi sullo sviluppo della Birzeit University. Yasmin Eshtayyeh è uno degli autori della guida. Il centro unisce lo sviluppo del pensiero teorico all’attività pubblica e sociale. Yasmin vi ha lavorato come consulente in un progetto che è durato circa un anno e mezzo, sull’atteggiamento della società nei confronti delle persone con disabilità. La guida menziona, come prova della possibilità di cambiare, le attività delle associazioni palestinesi di persone disabili e una legge palestinese del 1999 che chiarisce i loro diritti. Nell’aprile 2015, ha preso parte a un evento pubblico in cui ha parlato di come le persone possano aiutare il cambiamento col loro crederci. L’occasione era l’annuale cerimonia del Memorial Day tenuta dall’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace (Combattenti per la Pace), a cui era stata invitata come figlia in lutto: un colono di Itamar, Yehoshua Elitzur, aveva assassinato suo padre Sael il 27 settembre 2004.

Nel suo discorso ha dichiarato: “La rabbia e l’odio che mi accompagnavano avrebbero probabilmente continuato a perseguitarmi se non avessi incontrato altri ebrei”. Pochi giorni dopo l’omicidio di suo padre, gli attivisti del ‘Villages Group’ (associazione di israeliani e palestinesi finalizzata a sviluppare reciproci rapporti umani, ndtr.) in Israele si sono recati nel suo villaggio per esprimere le loro condoglianze e la loro rabbia. Eshtayyeh ha detto al pubblico alla cerimonia che in un primo momento si era rifiutata di stringere la mano a una delle attiviste, “perché era ebrea.” Gradualmente, ha ceduto e ha conosciuto altri membri del gruppo di attivisti. Loro e altri ebrei israeliani l’hanno portata a credere nei cambiamenti che possono promuovere le persone. Al villaggio uno degli attivisti ha dato lezioni di musica. Eshtayyeh è stata invitata come interprete. Si è innamorata dell’arpa, che le ha permesso di “vedere il mare, dove non sono mai andata”, e ha cominciato a imparare a suonare lo strumento.

Dopo la cerimonia si è unita al Parents Circle-Families Forum (il forum delle famiglie in lutto) e da allora ne è membro attivo.

Suo padre ha lavorato per 18 anni in una società con sede a Rishon Letzion che distribuisce bombole di gas da cucina. Fu licenziato da quel lavoro durante la seconda intifada. All’età di 46 anni, ha iniziato a lavorare come conducente di un taxi collettivo. Ai tempi dei blocchi stradali e delle strade chiuse ai palestinesi, ciò significava viaggiare su strade sterrate e superare le lunghe code ai posti di blocco per portare la gente al lavoro, a scuola, al mercato e alle cliniche mediche.

Alla cerimonia commemorativa ha detto: “Mio padre era l’unico a provvedere per noi. E il peggior incubo della nostra vita accadde il 27 settembre 2004. Mio padre andò a lavorare come faceva ogni giorno, e quando imboccò una tangenziale costruita dai coloni, in modo che potessero viaggiare senza sfiorare i palestinesi, un colono lo attaccò e gli sparò al cuore. L’assassino è un tedesco che si è convertito al giudaismo e vive in un avamposto di coloni vicino a Itamar.

L’assassino, che fu condannato per omicidio colposo, fu per qualche ragione messo agli arresti domiciliari dopo l’omicidio e di nuovo dopo la condanna. Prima che la sentenza fosse pronunciata, scomparve. Il corrispondente di Haaretz Shay Fogelman lo ha cercato, in un viaggio labirintico che combinava il lavoro investigativo con la storia, a cui ha dedicato cinque anni della sua vita e che si è trasformata in un film che sarebbe stato proiettato pochi mesi dopo. Nel frattempo, Yehoshua Elitzur è stato rintracciato in Brasile, da cui è stato estradato in Israele a metà gennaio di quest’anno. Ora è in prigione, in attesa della condanna.

La caccia a Elitzur ha portato Fogelman vicino alla famiglia Eshtayyeh. Yasmin lo ricorda con particolare affetto. È stato testimone dell’assurda situazione in cui si trovano molte famiglie palestinesi i cui cari siano stati uccisi da soldati o civili israeliani: il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito li considerano “pericolosi”. La conseguenza è che quasi ogni anno i soldati vengono mandati a irrompere nella casa della famiglia di Yasmin nel cuore della notte a fare perquisizioni. “Va bene che perquisiscano, ma lasciano sempre dietro di sé cose rotte e un gran casino”, dice.

Due anni fa, Eshtayyeh e suo fratello minore, Mohammed, anche lui cieco dalla nascita, sono andati allo Sheba Medical Center di Tel Hashomer per una visita oculistica speciale. I due potrebbero essere idonei all’impianto di un dispositivo che consenta loro di vedere. La madre, che ha 57 anni, li ha accompagnati. Al checkpoint le è stato detto: “Accesso negato”. I due hanno aspettato che degli amici del forum delle famiglie delle vittime venissero a accompagnarli. Da quando ha intensificato la sua attività nel forum, anche Yasmin è stata aggiunta alla lista dei palestinesi cui viene negato l’ingresso in Israele, dopo molti anni in cui ha sempre ottenuto i permessi.

Nonostante i suoi titoli accademici e il successo in progetti a tempo definito, Eshtayyeh non riesce a trovare un lavoro fisso – il suo più grande desiderio. L’implementazione della legge palestinese per l’integrazione dei disabili nella società è in ritardo, afferma, e le persone con disabilità continuano a sentirsi discriminate. Anche quelli che ci vedono e non hanno bisogno di usare una sedia a rotelle spesso hanno bisogno di appoggi per trovare un lavoro. La discriminazione contro le donne con disabilità è ancora più acuta e le diffidenze della società sono ancora più forti: una donna cieca ha poche possibilità di crescere una famiglia.

Eppure, raccontami dei giorni felici della tua vita, le ho chiesto qualche settimana fa mentre eravamo sedute sulla veranda della loro casa. Un grande sorriso ha illuminato la sua faccia: “I due giorni più felici della mia vita sono state le feste che la mamma ha organizzato per me in onore della mia prima laurea, in lingua e letteratura inglese, e poi per la mia seconda laurea, in traduzione”, ha detto. C’erano tutti e di tutto. Le danze popolari di Debka, i fuochi d’artificio, i vestiti delle feste, una pettinatura speciale sotto il fazzoletto e decine di persone della famiglia e del villaggio venute a condividere la sua gioia e il suo orgoglio.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




A Gaza Israele va oltre la sua consueta ferocia

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

Gli israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro dimostranti disarmati.

Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I dati presentati dall’esercito mostrano che in Israele, Cisgiordania e Gaza vivono più arabi che ebrei

Yotam Berger

26 marzo 2018, Haaretz

Ai parlamentari sono stati presentati numeri che mostrano che 5 milioni di palestinesi vivono a Gaza e in Cisgiordania, 1.8 milioni di arabi vivono in Israele e centinaia di migliaia a Gerusalemme Est. 6.5 milioni di ebrei vivono in Israele.

Lunedì, durante un dibattito alla Knesset, l’esercito israeliano ha presentato alcuni dati che mostrano come siano più arabi che ebrei a vivere tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Secondo il vice-comandante dell’Amministrazione Civile [l’organismo militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndt.], colonnello Haim Mendes, cinque milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo numero non include le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, o l’1.8 milioni di arabi israeliani. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica israeliano, a settembre 2017 erano 6.5 milioni gli ebrei che vivono in Israele.

I dati presentati da Mendes durante la sessione della commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset si basano su statistiche redatte dall’Ufficio palestinese di statistica. In passato l’affidabilità dei dati è stata messa in dubbio, e i servizi di sicurezza israeliani spesso evitano di farvi affidamento.

I parlamentari di destra che hanno presenziato alla sessione affermano che i dati sono falsi e dicono che Mendes non ha presentato una documentazione a supporto. Il comitato ha dunque chiesto all’Amministrazione Civile di produrre tale documentazione.

I dati presentati da Mendes mostrano un significativo incremento nel numero di palestinesi che vivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel maggio 2012, un documento ufficiale redatto dall’Amministrazione Civile ha affermato che 2.7 milioni di palestinesi vivevano in Cisgiordania – un incremento del 29% rispetto al 2000.

Il parlamentare Moti Yogev (Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), che sta a capo della sottocommissione per la Giudea e la Samaria [definizione israeliana della Cisgiordania, ndt.], durante la discussione ha affermato che Mendes ha gonfiato i numeri, poiché, secondo Yogev, nel 2017 “sono state rilevate circa 80.000 nuove nascite e 8.000 decessi – un’aspettativa di vita che non esiste in nessun’altra parte del mondo”.

Le divergenze sull’argomento riflettono una disputa accesa sul numero dei palestinesi che vivono nei territori [palestinesi occupati, ndt.]. Un centro di ricerca noto come “American-Israel Demographic Research Group” [Gruppo Israelo-Americano di Ricerca Demografica] ha provato in passato a dimostrare che i palestinesi sono riusciti ad aggiungere, grazie a una significativa falsificazione dei dati, circa 1 milione di persone in più rispetto al loro numero del 2012. Secondo loro, quell’anno viveva in Cisgiordania 1.5 milione di palestinesi, un numero nettamente inferiore a quello presentato dall’Amministrazione Civile.

Anche se le affermazioni del gruppo non sono supportate dagli esperti in demografia né in Israele né all’estero, erano molto diffuse ed accettate tra i portavoce e i politici della destra. Secondo loro, il tempo e la demografia volgono in favore di Israele piuttosto che dei palestinesi, e concludono che, se il numero dei palestinesi in Cisgiordania è relativamente basso e la minaccia demografica non esiste, non c’è bisogno di intraprendere negoziati riguardo alla fondazione di uno Stato palestinese, ed è giunto il momento di discutere come annettere i territori e gli abitanti.

Il parlamentare Ayman Odeh, capo della Joint List [Lista Unita, la coalizione dei vari partiti arabo israeliani che si sono presentati insieme alle ultime elezioni, ndt.], ha ha risposto twittando che “tra il fiume Giordano e il Mediterraneo c’è un numero eguale di palestinesi ed ebrei, e non c’è nulla di nuovo in questo. Ecco perché il bivio a cui ci troviamo è chiaro: due Stati in base al 1967 [cioè ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare israeliana, ndt.], oppure uno Stato che sia di apartheid, o ancora uno Stato democratico in cui tutti abbiano il diritto al voto. Non ci sono altre opzioni, e almeno questa semplice verità deve essere sottolineata chiaramente”.

(Traduzione di Veronica Garbarini)

 




È l’economia, bellezza: la trattativa riservata di Israele con i palestinesi

Noa Landau

24 marzo 2018, Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha sviluppato legami diplomatici più profondi con Ramallah di quanto non voglia rivelare.

La tensione dei giorni di rabbia che seguirono il riconoscimento da parte dell’America di Gerusalemme come capitale di Israele rimane palpabile. I palestinesi hanno tagliato del tutto i rapporti con l’amministrazione Trump. Un accordo di pace sembra più lontano che mai. E un anziano ministro israeliano è entrato a passo di marcia nella Muqata [il quartier generale dell’ANP ndt] a Ramallah e, con un grande sorriso sul volto, ha dichiarato in arabo “Rahat a-Quds!” (“Avete perso Gerusalemme!”)

In un altro luogo e in un altro tempo, questo sicuramente sarebbe stato un casus belli, ma in questa storia, che è accaduta alla fine del mese scorso, i presenti hanno risposto divertiti e tolleranti e hanno stretto la mano al loro ospite – il ministro delle finanze e membro del gabinetto di sicurezza Moshe Kahlon.

Non era la prima visita di Kahlon a Ramallah, né il suo primo incontro con alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il suo gesto è stato accettato con leggerezza perché hanno familiarità con lo stile diretto ma accattivante di Kahlon. Da quando è diventato ministro delle finanze, questo ex membro del Likud – che ora guida un partito, Kulanu, che non ha una chiara agenda diplomatica – è riuscito a sviluppare un canale riservato con la leadership palestinese. In primo luogo è stato per la cooperazione economica e il coordinamento sotto l’egida del sistema della sicurezza, mentre in seguito sono state affrontate altre questioni, mosse dall’abbraccio dell’orso americano. In sostanza, poiché i palestinesi hanno dichiarato che non siederanno al tavolo dei negoziati se Washington resta il mediatore, Kahlon è attualmente l’unico canale diplomatico attivo.

Alcuni funzionari palestinesi si riferiscono a lui con ironia come ministro del campo profughi, perché durante uno dei suoi incontri ha raccontato della difficile infanzia nei quartieri popolari di Givat Olga. Le sue conversazioni sono inframmezzate dall’arabo che ha imparato dai genitori tripolitani. Questo dettaglio ha attirato l’attenzione delle agenzie di stampa straniere, che lo hanno etichettato come “l’oratore arabo che potrebbe guidare Israele”. Solo Kahlon comprende veramente l’arabo: così hanno raccontato ad Haaretz persone al corrente di questi incontri, con una frecciata chiaramente rivolta al ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma si affrettano ad aggiungere che l’arabo di Kahlon è molto semplice e le sue conversazioni con i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese sono condotte con l’aiuto di interpreti o in inglese.

Sebbene questi incontri non siano mai stati veramente segreti, anche se tutti i dettagli non sono noti, il presidente di Kulanu si sforza molto di nascondere questo aspetto del suo lavoro. Su tutti i suoi vivaci social network, tra le centinaia di annunci sui nuovi benefici finanziari e le immagini della anziana madre (che vive ancora a Givat Olga), troverete solo una manciata di riferimenti agli affari diplomatici o di sicurezza in generale e ai suoi legami con Ramallah in particolare. Non è una coincidenza, ovviamente. Kahlon è orgoglioso del suo lavoro in quest’area, ma ha anche paura di erodere la propria immagine di destra.

Misure restrittive’

I contatti sono iniziati quando ha assunto il Ministero delle Finanze nel 2015, con una telefonata dal suo omologo palestinese Shukri Bishara, che ha portato a un incontro a cui ha preso parte anche il Ministro per gli affari civili dell’ANP Hussein al-Sheikh. Questo non era un gesto insolito né una dimostrazione di buona volontà. Con il Protocollo di Parigi che regola le relazioni economiche tra Israele e ANP – che è stato perfino aggiornato nel 2012 dal primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha dichiarato che era finalizzato a “sostenere la società palestinese e a rafforzare la sua economia” – Israele è obbligato a coordinare varie attività economiche con l’ANP, compreso il trasferimento delle imposte raccolte da Israele per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Nel corso degli anni, i governi israeliani hanno tenuto in ostaggio questi fondi palestinesi, ritardando o congelando il loro trasferimento come forma di pressione o di punizione. Stando così le cose, anche una decisione che regoli il trasferimento di fondi diventa una decisione diplomatica significativa, com’è la decisione del livello dei funzionari che partecipano alle riunioni. I colleghi di Kahlon dicono che anche il precedente ministro delle finanze, Yair Lapid, aveva incontrato Bishara nelle stesse circostanze, ma la relazione non fu mai così e non si riuscì ad affrontare [il problema] dei debiti.

Nel 2017 Kahlon ha iniziato a incontrare anche il primo ministro palestinese Rami Hamdallah, con il beneplacito e la benedizione di Netanyahu. I due si sono incontrati tre volte a Ramallah e si prevede che terranno un altro incontro a Gerusalemme. I due, insieme ai propri collaboratori, si connettono anche telefonicamente. A questi incontri parteciperà il Coordinatore delle attività del governo nei Territori, il generale Yoav Mordechai, che è responsabile anche dei meccanismi del coordinamento finanziario e della sicurezza. A volte ha partecipato anche il capo dell’intelligence palestinese Majid Faraj.

In assenza di un autentico processo diplomatico, le Forze di Difesa israeliane si sono da tempo concepite come l’adulto responsabile, mantenendo aperti i canali di dialogo con la Cisgiordania e Gaza nella maggior parte dei settori vitali. Ciò è sempre rappresentato come uno sforzo per mantenere il controllo sulla sicurezza. L’esercito ritiene che le misure di costruzione della fiducia siano un modo significativo per prevenire proteste violente. “Misure restrittive”, le chiamano gli alti funzionari della sicurezza.

Di tanto in tanto l’esercito coinvolge anche i politici, e Kahlon era un candidato perfetto. Il suo nuovo partito era sufficientemente libero dai tradizionali lacci politici, ha manifestato il desiderio di essere coinvolto e possiede un certo fascino personale. E poi, non aveva esperienza diplomatica. Gli incontri iniziati nel quadro degli Accordi di Oslo sono proseguiti, sotto la direzione di Mordechai, su altre questioni, principalmente l’accordo per risolvere il debito dell’Autorità Nazionale Palestinese verso l’Israel Electric Corp. e per regolare il settore energetico dell’Autorità Nazionale Palestinese, accordo che Kahlon ha firmato nel settembre 2016 e che includeva complesse garanzie e disposizioni.

Il primo incontro fra Kahlon e Hamdallah è avvenuto nel mese di giugno 2017 a Ramallah, quando hanno condiviso il pasto iftar che rompe il digiuno del Ramadan. Erano passati più di 10 anni da quando un funzionario israeliano di così alto livello aveva visitato il territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da allora le discussioni tra i loro staff hanno toccato questioni come facilitare le condizioni per le costruzioni palestinesi nell’area C della Cisgiordania, che è sotto il completo controllo israeliano, o gli insediamenti, la situazione a Gaza, la riconciliazione tra le fazioni palestinesi e il terrorismo.

Ma i temi principali sono stati quelli economici, questioni come aumentare il numero di palestinesi che possono lavorare in Israele; affrontare la crisi idrica e fognaria; il potenziamento della copertura per i cellulari; l’installazione di un sistema informatico comune che bloccherebbe l’evasione fiscale ai terminali commerciali; la regolamentazione delle pensioni per i lavoratori palestinesi in Israele; l’ipotesi di una zona industriale congiunta nell’insediamento di Betar Illit che impiegherebbe 2.000 lavoratori ultraortodossi e palestinesi; un terminale di carburante; i risarcimenti da Israele alle banche che forniscono servizi all’ANP, in base alle leggi internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco, e un fondo comune che sarà finanziato con le tasse di gestione che Israele raccoglie sulle imposte della ANP, che saranno utilizzate per incoraggiare iniziative congiunte ad alta tecnologia. (“Diciamo che un’azienda di Ra’anana che voglia lavorare con una compagnia di Ramallah otterrà dei finanziamenti”, dicono le fonti).

Fonti a conoscenza del contenuto degli incontri hanno detto ad Haaretz che, durante una delle discussioni sull’eliminazione dei debiti di riscossione, è scoppiato un litigio sull’ammontare totale. I palestinesi non avevano fatture da presentare, quindi le due parti si sono accordate sullo stesso importo dell’anno prima. Durante la discussione Kahlon gli ha detto: “Mi hanno riferito che non ci sono soldi per medicine o insegnanti. Vengo da una casa dove non si toglie il cibo di bocca ai bambini, e non importa se sono ebrei o palestinesi “. Questo commento ha facilitato il resto della conversazione.

Ma alcuni funzionari palestinesi sono meno entusiasti. Dicono che il rapporto con Kahlon è totalmente professionale e deriva dalla necessità di gestire gli accordi economici con Israele. Gli alti funzionari dell’ANP sottolineano che non hanno inclinazioni fra chi gestisce i contatti con loro, purché non sia un colono. Dicono che i palestinesi “comuni” preferirebbero tagliare tutti i contatti con Israele, ma non capiscono che l’ANP non può farlo perché ha degli obblighi.

Poco dopo che Donald Trump ha prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, il suo inviato speciale in Medio Oriente, Jason Greenblatt, si è inserito in questa relazione complessa e in via di sviluppo. Cominciò a incontrare Mordechai e in seguito capì il ruolo che stava giocando Kahlon. Il perseguimento della “pace economica” era qualcosa che Greenblatt aveva sempre sostenuto, ma la sua importanza crebbe quando divenne l’unica opzione sul tavolo a causa della brusca interruzione voluta dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Greenblatt e il segretario al tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin hanno incontrato Kahlon alcune volte e hanno iniziato a insistere per aumentare la cooperazione e ottenere risultati. Le poche immagini disponibili di questi incontri si trovano sull’account Twitter di Greenblatt, che in qualche misura ha spesso portato entrambe le parti fuori dall’armadio dove avrebbero preferito rimanere nascosti.

Il secondo incontro Kahlon-Hamdallah, svoltosi in ottobre, è stato tenuto segreto fino a quando non è stato rivelato dalla Radio dell’esercito. I due, con l’incoraggiamento americano, hanno discusso di aumentare le ore di apertura dell’Allenby Bridge e degli altri valichi della Cisgiordania da e verso la Giordania.. Più o meno nello stesso periodo, una delegazione guidata dal direttore generale del ministero delle Finanze, Shai Babad, ha visitato la nuova città palestinese di Rawabi per far avanzare la pavimentazione di una strada di accesso alla città. Il ministro dell’Economia e dell’Industria Eli Cohen, anch’egli [membro] di Kulanu, ha visitato la Cisgiordania per mandare avanti la creazione di una zona industriale congiunta. Successivamente, Cohen si è anche incontrato a Parigi con il suo omologo palestinese, Abeer Odeh.

A gennaio Kahlon è apparso con rappresentanti americani e palestinesi in un servizio fotografico per l’inaugurazione di una nuova postazione di controllo con scansione presso il ponte Allenby, acquistata con gli aiuti europei. Alla cerimonia, Kahlon ha detto: “Sono arrivato al ministero delle finanze dopo che c’era stato un lungo blocco nelle relazioni tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità e portare avanti una serie di progetti comuni. Il progetto che stiamo inaugurando qui è un esempio di come una piccola cosa può operare un grande cambiamento. Abbiamo molti progetti per continuare la cooperazione economica con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Le fonti israeliane, tuttavia, minimizzavano il significato del progetto Allenby. “Non ci sarà più passaggio lì, ma gli americani volevano un risultato subito”, ha detto uno.

Durante il suo terzo incontro con Hamdallah, dopo il riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele, Kahlon era già diventato un canale significativo nelle comunicazioni tra l’amministrazione e i palestinesi. “Tornate a negoziare con gli americani, sono l’unico mediatore onesto nella regione”, avrebbe all’epoca detto Kahlon.

Sia Netanyahu che Abbas sono consapevoli di ciò che accade in questi incontri; a volte viene riferito anche agli altri membri del gabinetto di sicurezza. Avere là Kahlon, davanti e di fronte, fa bene a tutti. Quando c’è qualcosa di cui vantarsi, Netanyahu, che per anni ha promosso l’idea di “pace economica”, può farsi bello con l’amministrazione americana. Quando c’è una critica da destra, può dare la colpa a Kahlon.

Ma come sta progettando Kahlon di mantenere questo suo nuovo ruolo? Non è emerso alcun progetto diplomatico, nemmeno parziale. L’uomo che in passato ha detto a un intervistatore che la pace con i palestinesi potrebbe anche iniziare con “concorsi di cucina”, come per la diplomazia del ping-pong del presidente statunitense Richard Nixon, sta acquistando una significativa esperienza diplomatica, ma sta mantenendo le sue conclusioni per se stesso.

Né gli uffici di Kahlon né quelli di Hamdallah hanno reagito a questo articolo.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Per Israele Bolton è Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, per chiunque altro è il dottor Stranamore dentro “Apocalypse Now”

Chemi Shalev

23 marzo 2018, Haaretz

Per il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump non c’è una guerra che non gli piaccia, un nemico che non voglia distruggere o un accordo diplomatico che valga la carta su cui è scritto.

Il licenziamento di H.R. McMaster e la nomina di John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sono stati accolti con gioia a Gerusalemme, con terrore nelle altre capitali. Israele spera che Bolton metta a posto i suoi nemici, mentre il mondo oggi ha maggiori timori di imminenti tensioni e guerre. Israele vede Bolton come Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, arrivato per sparare ai cattivi, ma per la maggior parte del mondo è il dottor Stranamore [personaggio dello scienziato pazzo e criminale nell’omonimo film di Kubrik, ndt.], con un pizzico di “Apocalypse Now” [omonimo film di Coppola, ambientato durante la guerra del Vietnam, ndt.]. Se non altro l’esplosione di festeggiamenti in onore della nomina di Bolton nella coalizione di Netanyahu evidenzia la collocazione di Israele all’estrema destra dello spettro politico mondiale.

Bolton ha legami di lungo tempo e profondi con molti politici e funzionari israeliani. È un “vero amico”, come ha detto la ministra della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica”, ndt.], uno che appoggerà incondizionatamente i sogni e le illusioni del suo campo, a differenza di scocciatori come Barack Obama e gli europei, che di tanto in tanto osano suggerire che è tempo di ricredersi. Netanyahu può essere soddisfatto, ma dovrebbe essere più cauto: la nomina di Bolton gli renderà più difficile limitare le richieste degli alleati della sua coalizione con la scusa che gli USA vi si oppongono. La nomina di Bolton rafforza il blocco di destra – messianico – evangelico in entrambi i Paesi, a cui Netanyahu racconta ancora a se stesso di non appartenere.

Per Bolton non c’è una guerra che non gli piaccia, un rivale che non voglia distruggere, un nemico che non voglia ridurre in mille pezzi e un conflitto internazionale che non creda si possa risolvere con le armi. Disprezza la diplomazia, denigra le organizzazioni multilaterali, vuole tornare ai giorni, se mai sono esistiti, in cui l’America diceva al mondo che cosa fare e tutti le davano retta. Bolton voleva attaccare la Corea del Nord, bombardare, bombardare e ancora bombardare l’Iran, seppellire le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Non ha mai ritrattato il suo appoggio alla fallimentare guerra all’Iraq, e probabilmente sogna di trovare il nascondiglio in cui Saddam Hussein ha occultato le sue inesistenti armi di distruzione di massa.

Il passaggio da McMaster a Bolton sostituisce i freni della Casa Bianca con un acceleratore premuto a fondo; acuisce l’immagine bellicosa e aggressiva dell’amministrazione Trump in tutto il mondo. La nomina consolida la trasformazione, che Trump ha iniziato con la sostituzione del segretario di Stato Rex Tillerson con il più aggressivo [ex] direttore della CIA Mike Pompeo, da una politica estera americana rude ma tradizionale a un approccio radicale basato su politiche umorali, l’uso della forza e il totale disprezzo nei confronti dell’opinione pubblica internazionale. Il Pentagono rimane nelle mani del più cauto James Mattis, che probabilmente si unirà al generale e capo di stato maggiore John Kelly per formare un fronte comune, ma sarà Bolton che d’ora in poi indicherà la linea della Casa Bianca. Non è assurdo supporre che le ore siano contate anche per la partenza di Mattis e Kelly.

Trump, che trae profitto dai conflitti, probabilmente si rallegra delle reazioni contrarie alla nomina di Bolton. Deve aver superato la sua avversione per i famosi baffi del suo nuovo consigliere. Ma Bolton deve anche il suo nuovo incarico a due miliardari di estrema destra a cui il presidente dà retta. Il primo è il riservato commerciante di algoritmi Robert Mercer, che ha finanziato il Bolton’s PAC [comitato di Bolton, istituto per la sicurezza nazionale USAda lui fondato, ndt.] e i rapporti di questo con l’ora discussa [impresa di analisi informatica, ndt.] Cambridge Analytica. Bolton è il secondo consigliere per la sicurezza nazionale che Mercer ha sponsorizzato: il primo è stato Michael Flynn, che poi è stato coinvolto nell’inchiesta sul Russiagate [scandalo sulle interferenze russe nelle elezioni vinte da Trump, ndt.] di Robert Mueller [procuratore speciale che si occupa del caso, ndt.] ed ha ammesso di aver mentito all’FBI.

L’altro magnate che si congratula con se stesso è Sheldon Adelson, che ha preso Bolton sotto la sua ala e che da molto tempo finanzia lautamente le sue attività. L’ex-ambasciatore USA all’ONU, che ha abbandonato il suo incarico un decennio fa dopo che le sue opinioni sono state giudicate troppo estremiste per essere confermato dal Senato, deve essere stato una delle poche persone al mondo ad aver approvato la proposta di Adelson di far scoppiare una bomba nucleare nel deserto iraniano, solo a scopo dimostrativo. Si dice che Adelson sia rimasto scontento di Tillerson e di McMaster e che abbia fatto presente a Trump le sue opinioni. Il suo braccio destro alla “Coalizione Repubblicana Ebraica” [gruppo lobbystico che mette in contatto la comunità ebraica con i parlamentari repubblicani, ndt.], Elliott Broidy – il finanziere californiano noto in Israele per il fallimento del suo fondo “Markstone”, che ha privato molti israeliani dei loro fondi pensione – è stato ora denunciato per aver preso 2.7 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti per promuovere i loro interessi a Washington. Broidy ha invitato Trump a mollare Tillerson; McMaster era il suo ostacolo alla Casa Bianca. Ora entrambi se ne sono andati.

La “Sheldonizzazione” dell’amministrazione Trump in generale e la nomina di Bolton in particolare riducono le già scarse possibilità che Trump non voglia abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano, intensificando inevitabilmente le tensioni regionali e creando forse le condizioni per una guerra. La presenza di Bolton alla Casa Bianca cancella anche ogni possibilità di riportare i palestinesi al tavolo dei negoziati, non solo per le opinioni del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, ma anche a causa della legge Taylor ora approvata, che è apparentemente intesa a bloccare i sussidi dell’Autorità Nazionale Palestinese ai terroristi in carcere, ma che in realtà avrà come conseguenza una notevole riduzione dell’aiuto USA ai palestinesi.

Ma l’esultanza scoppiata nella destra israeliana va ben oltre lo scontro armato con l’Iran o il fatto di mettere la parola fine sulla bara del processo di pace. Riflette la rinnovata speranza, che ha conosciuto alti e bassi durante i primi 15 mesi di Trump al potere, che i tempi siano ora più maturi che mai prima d’ora per passi audaci ed irreversibili, compresa l’annessione [dei territori palestinesi occupati, ndt.]. Ma, mentre gli entusiasti di Bolton in Israele e negli USA stanno ascoltando estasiati le trombe che annunciano l’arrivo del Messia, il resto del mondo sta udendo sirene che danno l’allarme che non si tratta di un’esercitazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La giovane palestinese Ahed Tamimi raggiunge un patteggiamento per restare otto mesi in un carcere israeliano

Yotam Berger

21 marzo 2018, Haaretz

Anche la cugina e la madre di Tamimi ottengono un patteggiamento – l’avvocato afferma che l’accordo è una prova che l’esercito ha voluto ‘ un regolamento di conti’.

Mercoledì la giovane palestinese Ahed Tamimi ha raggiunto un patteggiamento con la procura militare, in base al quale verrà condannata a otto mesi di prigione. Il tribunale militare che si occupava del suo caso ha approvato il patteggiamento mercoledì, trasformandolo in sentenza ufficiale.

Come parte dell’accordo, la diciassettenne si è dichiarata colpevole di quattro aggressioni, compresi gli schiaffi, ripresi in un video, a un soldato israeliano. Oltre alla condanna ad otto mesi di prigione, dovrà pagare una multa di 5.000 shekels (1.437 dollari).

La procura ha raggiunto il patteggiamento anche con Nur e Nariman Tamimi, cugina e madre di Ahed Tamimi, entrambe coinvolte nell’attacco al soldato ripreso dal video. L’accordo, anch’esso approvato dal tribunale, condanna Nur Tamimi a passare 16 giorni in prigione e ad una multa di 2.000 shekels (575 dollari). La condanna di Nariman Tamimi è di otto mesi di prigione ed una multa di 6.000 shekels (1.725 dollari).

Il caso di Ahed Tamimi è stato discusso a porte chiuse. Il tribunale militare ha respinto una richiesta, da lei presentata questa settimana, di tenere il procedimento in pubblico.

Precedentemente l’avvocato di Tamimi, Gaby Lasky, ha confermato che era stata raggiunta un’ammissione di colpevolezza. “Il fatto che il patteggiamento preveda la riduzione di tutti i capi di imputazione che hanno reso possibile tenerla in prigione fino alla fine del procedimento è la prova che l’arresto di Tamimi in piena notte e il processo contro di lei erano atti finalizzati ad un regolamento di conti”, ha detto Lasky.

Prima che la sentenza fosse confermata dal tribunale, alcune fonti hanno riferito a Haaretz che, in base al patteggiamento, Tamimi sarebbe stata dichiarata colpevole dell’aggressione di dicembre ripresa dal video, di incitamento alla violenza per aver postato il video, e di due altre aggressioni a soldati. Ulteriori accuse per aggressione e lancio di pietre sarebbero state ritirate.

Secondo una delle fonti, nel caso di Ahed Tamimi la punizione non viene considerata né particolarmente mite né particolarmente severa. L’esercito israeliano ha sentito la necessità di porre fine alla questione legale, ha detto la fonte, in quanto essa ha danneggiato la reputazione dell’esercito sui media e a livello internazionale, il che potrebbe essere il motivo per cui il patteggiamento è stato fortemente voluto.

Inizialmente, in gennaio, l’imputazione di Tamimi comprendeva 12 capi d’accusa, a partire dal 2016. Includeva cinque aggressioni contro le forze di sicurezza, compreso il lancio di pietre. E’ stata accusata di aggressione, di minacce e di intralcio ad un soldato nell’esercizio delle sue funzioni, di incitamento e lancio di oggetti contro persone o proprietà.

La madre di Tamimi, Nariman, è stata anche accusata di istigazione sui social media – ha filmato l’incidente degli schiaffi – e di aggressione. La cugina di Tamimi, Nur, è stata accusata di aggressione aggravata.

Nur Tamimi ha detto che lei e Ahed hanno preso a schiaffi i soldati in parte perché loro avevano invaso il cortile di Ahed il 15 dicembre, il giorno in cui sono state filmate – ma la ragione principale è stata che avevano appena letto su Facebook che un cugino, Mohammed Tamimi, aveva riportato una ferita alla testa apparentemente letale provocata da un proiettile [sparato da] un soldato israeliano. In realtà lui è sopravvissuto allo sparo.

Bassem Tamimi, padre di Ahed, ha detto che sua moglie e sua figlia non hanno fatto niente di male e che stanno“ lottando per la libertà e la giustizia.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)