Trump: non trasferirò l’ambasciata USA a Gerusalemme prima di fare un tentativo di pace

Amir Tibon, 8 ottobre 2017 ,Haaretz

Per la prima volta Trump ammette che gli sforzi per raggiungere la pace sono il motivo per cui non ha mantenuto la sua promessa elettorale di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv.

WASHINGTON – Il Presidente USA Donald Trump ha detto in un’intervista trasmessa sabato che sta ritirando il suo piano di trasferire l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme, poiché vuole anzitutto dare una possibilità ai suoi piani per raggiungere un accordo di pace in Medio Oriente.

Anche se una simile spiegazione era già stata precedentemente fornita da dirigenti dell’amministrazione Trump, è la prima volta che lo stesso Trump ammette che è questa la ragione per cui finora non ha mantenuto la sua promessa elettorale relativamente all’ambasciata.

Trump ha parlato con Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas ed importante sostenitore evangelico di Israele, che tra l’altro è anche il padre della segretaria dell’ufficio stampa della Casa Bianca, Sarah Huckabee-Sanders. Rispondendo ad una domanda di Huckabee riguardo alla sua promessa di spostare l’ambasciata, Trump ha affermato che la sua amministrazione “prenderà una decisione in un futuro non tanto lontano.”

Poi ha spiegato, tuttavia, che la sua amministrazione sta attualmente lavorando ad un piano per proporre un accordo di pace con i palestinesi e che “Intendo fare un tentativo prima di poter pensare al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.”

Nel corso delle elezioni del 2016 Trump ha promesso più volte di spostare l’ambasciata, ma dopo essersi insediato al potere nel gennaio di quest’anno ha sistematicamente evitato il problema di quando tale promessa sarebbe stata mantenuta. A giugno ha firmato una deroga che rinviava lo spostamento dell’ambasciata di sei mesi, come ha fatto ogni presidente prima di lui fin da quando il Congresso ha approvato il Jerusalem Embassy Act nel 1995.

La risposta completa di Trump alla domanda di Huckabee è stata che la sua amministrazione “sta lavorando ad un piano che tutti dicono che non funzionerà mai, perché per moltissimi anni non ha mai funzionato – dicono che è la faccenda più ardua di tutte, la pace tra Israele ed i palestinesi, noi dunque stiamo lavorando a questo e se non funziona, cosa possibile, ad essere del tutto sincero – qualcuno dice che è impossibile, ma io non penso che sia impossibile, penso sia qualcosa che può accadere e non voglio fare previsioni, ma voglio darle una chance prima di poter anche solo pensare di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme.”

Il ministro (israeliano) Zeev Elkin [del partito di destra al potere, il Likud, ndt.] ha detto che “gli dispiace molto che il Presidente Trump scelga di rinviare l’adempimento della sua promessa elettorale di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme in base all’illusione che sia possibile promuovere un reale processo di pace con l’attuale leadership palestinese.”

Elkin, ministro della Protezione dell’Ambiente, che ha anche la delega per le questioni di Gerusalemme, ha aggiunto che “chiunque veda le costanti istigazioni dell’Autorità Nazionale Palestinese; il rifiuto da parte di Abu Mazen (il Presidente palestinese Mahmoud Abbas) di smettere di pagare i salari ai terroristi; l’elezione a sindaco di Hebron, la più grande città dell’ANP, di un terrorista con le mani sporche di sangue; e più recentemente, l’abbraccio con i terroristi di Hamas in un accordo di riconciliazione, può vedere chiaramente che l’ultima cosa che ci si può aspettare da Abu Mazen e dal suo popolo è promuovere la pace.”

La prossima volta che Trump dovrà affrontare il problema se firmare o no il rinvio di sei mesi sarà a dicembre. David Friedman, l’ambasciatore USA in Israele che è un accanito sostenitore delle colonie ed oppositore dello Stato palestinese, ha affermato molte volte negli ultimi mesi che il trasferimento dell’ambasciata è “questione di quando, non di se.” Il vicepresidente degli USA Mike Pence ha fatto affermazioni simili nei mesi seguenti all’insediamento di Trump. Il presidente dal canto suo, tuttavia, non ha fatto promesse così dirette nei mesi recenti.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




30.000 israeliane e palestinesi partecipano alla marcia di “Women Wage Peace” a Gerusalemme

Nota Redazionale

Questo articolo di cronaca parla di una marcia della pace di donne, in prevalenza ebree israeliane, a cui hanno partecipato alcune donne  palestinesi con cittadinanza israeliana e che ha coinvolto in modo trasversale anche donne di destra e colone. Fino ad ora non è emersa una  piattaforma programmatica di questa associazione nata dopo l’ultimo attacco di Israele a Gaza, se non quella della rivendicazione della pace e che le due parti si mettano d’accordo. Abbiamo scelto di pubblicare questo articolo per puro scopo di documentazione, non condividendo  la genericità della rivendicazione e soprattutto un’impostazione che tende a mettere sullo stesso piano le responsabilità israeliane e palestinesi per il mancato raggiungimento di un accordo. Se questo nelle intenzioni delle organizzatrici doveva servire a far partecipare il maggior numero possibile di donne, anche di orientamento politico opposto, così si nasconde la realtà delle cose, in cui c’è una potenza occupante che espropria e colonizza le terre palestinesi, affama e bombarda Gaza ed espelle i palestinesi da Gerusalemme est e i beduini, che pure hanno la cittadinanza israeliana, dal Negev.

Nir Hasson

8 ottobre 2017, Haaretz

Faccio appello ad Abbas e Netanyahu – basta! Smettetela. Smettetela! Noi vogliamo la pace’, dice una ex deputata arabo-israeliana il cui figlio è stato ucciso nell’attacco terrorista sul Monte del tempio.

Domenica sera circa 30.000 persone hanno partecipato alla marcia di “Women Wage Peace” (“Le Donne fanno la Pace”, ndt.) al parco dell’Indipendenza di Gerusalemme.

La manifestazione è stata il culmine di una “marcia per la pace” iniziata due settimane fa a Sderot nel Negev, che ha attraversato i territori ed Israele ed ha visto la partecipazione di migliaia di donne israeliane e palestinesi, che invocavano un accordo di pace. Vi ha preso parte anche Adina Bar-Shalom, fondatrice di un collegio femminile ultraortodosso e figlia dell’ex rabbino capo sefardita Ovadia Yosef [rabbino e politico, fondatore del partito ultraortodosso sefardita “Shah”, noto per dichiarazioni molto virulente contro i palestinesi, ndt.].

Tra gli interventi vi è stato quello dell’ex deputata della Knesset Shakib Shanan [si tratta di una ex-parlamentare del partito laburista di origine drusa, una comunità alleata con gli ebrei israeliani, ndt.], il cui figlio Kamil è stato ucciso in un attentato terrorista al Monte del Tempio tre mesi fa. “Benché il mio cuore sanguini, sono qui questa sera con voi. Con l’orgoglio e la speranza che solo la pace e l’amore debbano unirci. Abbiamo tanto sofferto, famiglie palestinesi e famiglie israeliane hanno perso i loro cari e sono rimaste con una ferita che non si rimargina. Sono venuta qui per dire ‘vogliamo vivere!’. Ci permettiamo di dirlo forte –amiamo la pace. A nome di questa enorme folla qui e di centinaia di migliaia di israeliani faccio appello ad Abu Mazen (il Presidente palestinese Mahmoud Abbas) e (al primo ministro) Benjamin Netanyahu – basta! Smettetela. Smettetela! Vogliamo la pace. Ascoltate il nostro grido, proviene dai nostri cuori. Ascoltate il grido della verità e della giustizia, vogliamo la pace, da questo luogo nasce la speranza.”

“Women Wage Peace”

Il movimento “Women Wage Peace” è stato fondato tre anni fa dopo la guerra di Gaza ed oggi conta 24.000 aderenti.

Per poter avere un’influenza su chi ha il potere di decidere, le fondatrici del movimento hanno compreso che c’era bisogno di una massa critica di sostenitrici. Per ottenerla, sapevano di dover fare appello a donne che erano al di fuori della loro base naturale: israeliane di destra, israeliane religiose, addirittura colone. Per indirizzarsi ad un pubblico così ampio e differenziato, si sono rese conto che dovevano evitare le contrapposizioni e concentrarsi su questioni su cui quasi tutte le donne potessero concordare.

Il messaggio dell’organizzazione è questo: non ci fermeremo finché non ci sarà un accordo di pace. Ma come sarà precisamente questo accordo – includerà, per esempio, uno Stato palestinese indipendente e l’evacuazione delle colonie, oppure, in alternativa, uno Stato bi-nazionale ebreo-arabo? – è una questione che devono decidere i leader israeliani eletti, secondo la dichiarazione di intenti di “Women Wage Peace”.

Il gruppo deve molto del suo successo – si tratta del movimento per la pace maggiormente in crescita in Israele negli anni recenti – alla sua strategia di concentrare la pressione su ciò che vuole ottenere, piuttosto che su ciò a cui è contrario. Evitando la discussioni sulle questioni di fondo del conflitto israelo-palestinese, ha avuto successo laddove movimenti simili hanno fallito, inserendosi in segmenti della popolazione un tempo considerati essere una causa persa.

Judy Maltz ha contribuito a questo report.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nonostante l’opposizione di Netanyahu, la riconciliazione dei palestinesi è nell’interesse di Israele

Amira Hass

4 ottobre 2017,Haaretz

Israele ha molte ragioni per opporsi ai colloqui tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese, ma il disastro umanitario ed ambientale di Gaza gli fornisce ragioni per appoggiarli.

Martedì Israele non ha cercato di impedire che importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese entrassero nella Striscia di Gaza, viaggiando su auto che portavano targhe palestinesi. Se fossimo stati cinici avremmo detto che Israele ha deciso di non impedire questa mossa – che compromette la sua strategia a lungo termine, che risale al 1991, di isolare la popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania – perché è un film già visto.

In altre parole, il profondo disaccordo tra i due partiti rivali al potere, Fatah e Hamas – soprattutto sulle armi e sui servizi di sicurezza – farà il lavoro per lui, e in fin dei conti impedisce che la frattura interna palestinese venga sanata. Quindi, perché Israele dovrebbe recitare la parte del cattivo?

In realtà il primo ministro Benjamin Netanyahu ha espresso pubblicamente opposizione alla riconciliazione solo dopo che il posto di controllo di Erez era stato aperto alla numerosa delegazione proveniente dalla Cisgiordania. Allo stesso modo il ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele è casa nostra”, ndt.] ha evitato di ordinare all’amministrazione di contatto [tra Israele e l’ANP, ndt.] dell’esercito di fare quello che fa così bene – rimandare il rilascio dei permessi di uscita dalla Cisgiordania.

Ma si può sempre sperare che qualcuno in Israele comunque capisca che la priorità assoluta ora sia evitare che Gaza precipiti in un disastro ambientale ed umanitario ancora peggiore di quello in cui già si trova. E ciò è possibile solo alle seguenti condizioni: Israele deve porre fine alle restrizioni sull’importazione di materiali da costruzione e di materie prime; il meccanismo per la ricostruzione delle infrastrutture, che richiede un complesso coordinamento con le forze di sicurezza israeliane e con gli Stati donatori, deve essere semplificato e snellito; le lotte interne palestinesi sulla riscossione delle imposte e sulle fatture dell’elettricità devono finire.

Tutto ciò è possibile solo se i palestinesi hanno un governo unico, e solo se questo governo è accettato – e non solo in parte o nel solito modo riluttante – da Israele, dagli Stati donatori e dalle organizzazioni dell’aiuto internazionale, innanzitutto dalle Nazioni Unite. E questo governo può essere solo l’Autorità Nazionale Palestinese.

Nonostante lo neghi, su Israele ricade la principale responsabilità per la disastrosa situazione di Gaza. Ma adesso non importa. Adesso è necessario andare oltre i soliti cliché sul “finanziamento del terrorismo” e sul presidente palestinese Mahmoud Abbas che “si unisce a un’organizzazione terroristica assassina,” come ha detto martedì il ministro dell’Educazione Naftali Bennet [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.]. Adesso è necessario agire.

Non c’è più tempo, la fornitura di energia a Gaza deve essere immediatamente aumentata, e in misura superiore a quella che era prima dei tagli della fornitura da parte di Israele su richiesta di Abbas. Israele deve fornire a Gaza altre decine di milioni di metri cubi d’acqua.

Non è solo nell’interesse dei palestinesi. Anche Israele ha interesse che le acque reflue di Gaza vengano trattate invece di essere scaricate in mare, che l’acquifero di Gaza non collassi e che i suoi residenti abbiano cure mediche adeguate. Anche Israele ha interesse nella prevenzione di epidemie a Gaza.

Per Hamas, come movimento politico che vede se stesso come il vero rappresentante di tutti i palestinesi (a Gaza, in Cisgiordania e nella diaspora), cedere il controllo di Gaza è nei suoi stessi interessi, anche se perdesse i centri di potere e il controllo che si era abituato ad avere nell’ultimo decennio. I dirigenti di Hamas Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh sono entrambi nati a Gaza e ci vivono ancora, per cui hanno fatto esperienza diretta del suo disastro umano ed ambientale. Sanno che la loro organizzazione non può continuare a condurre i propri esperimenti di gestione a spese del benessere del suo popolo.

Le iniziative punitive che Israele ed i Paesi occidentali hanno preso contro il governo eletto di Hamas immediatamente dopo la sua costituzione 11 anni fa consentono all’organizzazione di cedere le chiavi del potere senza ammettere pubblicamente la sconfitta. In Cisgiordania e nella diaspora – anche se, per ovvie ragioni, non a Gaza – in effetti i palestinesi ammirano la sua scelta di armarsi e di affrontare militarmente Israele. Questo potrebbe essere sufficiente perché Israele si opponga alla riconciliazione, se la minacciosa previsione dell’ONU secondo cui Gaza entro il 2020 sarà inabitabile non incombesse sulle nostre teste.

Perché l’ANP e il suo partito di governo Fatah vogliono prendersi l’ingrato compito di governare la crisi di Gaza? Finora sembra abbiano dei problemi a dimostrare che lo stiano facendo per senso di responsabilità nazionale piuttosto che per ragioni personali o di fazione. Alcuni abitanti di Gaza hanno detto che la delegazione di Ramallah [sede del governo dell’ANP, ndt.] è entrata come se si trattasse di vittoriosi conquistatori.

Abbas ha già cercato di rovinare l’atmosfera con i suoi modi riluttanti e le precondizioni che ha posto ad Hamas in un’intervista televisiva lunedì, compreso il disarmo e la fine del coinvolgimento del Qatar a Gaza. I gazawi credono che avrebbe potuto fare le cose in modo diverso, lasciando le condizioni a dopo l’inizio dei negoziati. Abbas sta facendo dubitare la gente che Fatah, o almeno lui stesso, voglia veramente consentire la riconciliazione e togliere le sanzioni che ha imposto a Gaza.

Evitare che Gaza precipiti in un disastro peggiore è una ragione per cui l’ANP ha intenzione di riconciliarsi. Un’altra possibile spiegazione è un rinnovato tentativo diplomatico di ottenere che lo “Stato di Palestina” venga accolto come membro a pieno titolo dell’ONU.

Facendo richieste alla comunità internazionale, comprese richieste di fare pressione su Israele, Abbas e i suoi successori devono dimostrare di rappresentare tutto il popolo dei territori occupati nel 1967. Rinunciare a Gaza, anche se è più conveniente dal punto di vista finanziario, indebolisce la sua posizione di apertura diplomatica.

Il palese coinvolgimento dell’Egitto nel processo di riconciliazione fornisce il vento in poppa all’ANP e invia un segnale ad Israele: come in passato, e a dispetto dei desideri di Israele, l’Egitto non ha intenzione di lasciare che Gaza venga annessa ad esso o staccata dal resto della popolazione palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Le riserve di acqua naturale di Israele si stanno prosciugando

*Nota redazionale: riteniamo interessante per il lettore tradurre questo breve articolo sulla situazione idrica in Israele, nonostante non riguardi direttamente i palestinesi, se non quelli con nazionalità israeliana. Infatti questa scarsità di risorse idriche mette in luce lo sfruttamento indiscriminato del territorio da parte di un sistema economico, principalmente agricolo, che ha utilizzato le risorse idriche per sviluppare una produzione per il mercato con un fortissimo impatto ambientale. Questa situazione smaschera anche la presunta capacità del sistema israeliano di utilizzare al meglio l’acqua a disposizione e la pretesa di Israele di essere un modello da questo punto di vista. Ma soprattutto preannuncia ulteriori problemi per i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. I primi sono già stati vittime per due estati di seguito dell’appropriazione delle acque dei territori occupati da parte dei coloni e dello Stato di Israele, di cui abbiamo dato conto in alcuni articoli che si possono trovare sul sito. Rischiano quindi di vedersi privare ulteriormente delle proprie stesse risorse idriche a favore dei coloni e dei cittadini israeliani. Quelli di Gaza, in cui più del 90% dell’acqua non risponde ai criteri di potabilità stabiliti dall’OMS, importano da Israele una parte del proprio fabbisogno idrico, che rischia di venire decurtato per soddisfare le necessità della popolazione israeliana.

Mentre gli impianti di desalinizzazione forniscono due terzi dell’uso domestico di acqua, le sorgenti di acqua naturale sono essenziali per coprire le altre necessità. Proposti gravi tagli.

 Zafrir Rinat

2 ottobre 2017, Haaretz

L’autorità per le acque sta proponendo i tagli più drastici all’uso dell’acqua dell’ultimo decennio, perché alla fine di settembre solo una delle tre principali sorgenti di acqua naturale di Israele era ancora utilizzabile. Le altre due erano al di sotto della linea rossa, il che significa che il pompaggio deve finire.

La decisione è stata anche motivata dalle previsioni di piogge al di sotto della media nel prossimo anno.

Sia il lago Kinneret che l’acquifero montano occidentale erano al di sotto della linea rossa a settembre, che è considerato la fine dell’anno idrologico. L’acquifero costiero era ancora utilizzabile, ma anche questo ha solo una piccola quantità d’acqua da sfruttare, che si trova nella sua parte meridionale.

Quando una sorgente d’acqua scende al di sotto della linea rossa, la qualità dell’acqua viene danneggiata perché l’acqua salmastra si può infiltrare dal mare o da acquiferi circostanti.

Secondo il rapporto annuale emesso dal servizio idrologico statale, nel complesso le fonti di acqua naturale di Israele sono sotto di un milione di metri cubici rispetto ai livelli ottimali, cioè il livello al quale la qualità dell’acqua è maggiormente garantita. Il lago Kinneret è sceso al di sotto della linea rossa mesi fa.

L’acquifero costiero è 618 milioni di metri cubi al di sopra della linea rossa, ma di questi solo 63 milioni di metri cubi nella parte meridionale sono attualmente utilizzabili, perché il resto è già stato contaminato. Questa quantità è circa la metà della produzione annuale di un impianto di desalinizzazione e meno di un decimo del consumo domestico annuale di Israele.

Benché in teoria se ne potrebbe pompare ancora dall’acquifero, ciò danneggerebbe ulteriormente la qualità dell’acqua.

Normalmente gli impianti di desalinizzazione riforniscono due terzi dell’uso domestico di acqua. Ma, poiché le sorgenti di acqua naturale sono essenziali per coprire il resto dei consumi, l’autorità per l’acqua è molto preoccupata per la sua riduzione. Questa preoccupazione è aggravata da previsioni di piogge inferiori alla media nel prossimo inverno, forse anche in modo significativo inferiori alla media.

La scorsa settimana il comitato esecutivo dell’autorità per le acque si è riunito per redigere raccomandazioni sull’uso dell’acqua per il prossimo anno. Le sue decisioni, che verranno inviate per l’approvazione al consiglio direttivo statale, sono di ridurre drasticamente di 130 milioni di metri cubi le destinazioni di acqua dello scorso anno.

Di questi, 80 milioni di metri cubi saranno sottratti ai coltivatori, il che rappresenta una riduzione di decine di punti percentuali. Il resto dovrebbe venire dall’irrigazione comunale di parchi e giardini.

I coltivatori sono furiosi per la proposta. L’associazione di produttori di frutta israeliani, per esempio, ha affermato che il taglio obbligherebbe li a sradicare i loro frutteti.

Ma gli esperti hanno detto al comitato esecutivo che il pompaggio dal lago Kinneret dovrà essere quasi del tutto interrotto – ed anche così si prevede che il lago scenda al suo livello più basso della storia. Hanno anche detto che la maggioranza delle trivellazioni nella Galilea occidentale dovrebbero essere interrotte se si devono evitare danni alle sorgenti di acqua naturale.

L’autorità per le acque sta proponendo i tagli più drastici all’uso dell’acqua dell’ultimo decennio, perché alla fine di settembre solo una delle tre principali sorgenti di acqua naturale di Israele era ancora utilizzabile. Le altre due erano al di sotto della linea rossa, il che significa che il pompaggio deve finire.

La decisione è stata anche motivata dalle previsioni di piogge al di sotto della media nel prossimo anno.

Sia il lago Kinneret che l’acquifero montano occidentale erano al di sotto della linea rossa a settembre, che è considerato la fine dell’anno idrologico. L’acquifero costiero era ancora utilizzabile, ma anche questo ha solo una piccola quantità d’acqua da sfruttare, che si trova nella sua parte meridionale.

Quando una sorgente d’acqua scende al di sotto della linea rossa, la qualità dell’acqua viene danneggiata perché l’acqua salmastra si può infiltrare dal mare o da acquiferi circostanti.

Secondo il rapporto annuale emesso dal servizio idrologico statale, nel complesso le fonti di acqua naturale di Israele sono sotto di un milione di metri cubici rispetto ai livelli ottimali, cioè il livello al quale la qualità dell’acqua è maggiormente garantita. Il lago Kinneret è sceso al di sotto della linea rossa mesi fa.

L’acquifero costiero è 618 milioni di metri cubi al di sopra della linea rossa, ma di questi solo 63 milioni di metri cubi nella parte meridionale sono attualmente utilizzabili, perché il resto è già stato contaminato. Questa quantità è circa la metà della produzione annuale di un impianto di desalinizzazione e meno di un decimo del consumo domestico annuale di Israele.

Benché in teoria se ne potrebbe pompare ancora dall’acquifero, ciò danneggerebbe ulteriormente la qualità dell’acqua.

Normalmente gli impianti di desalinizzazione riforniscono due terzi dell’uso domestico di acqua. Ma, poiché le sorgenti di acqua naturale sono essenziali per coprire il resto dei consumi, l’autorità per l’acqua è molto preoccupata per la sua riduzione. Questa preoccupazione è aggravata da previsioni di piogge inferiori alla media nel prossimo inverno, forse anche in modo significativo inferiori alla media.

La scorsa settimana il comitato esecutivo dell’autorità per le acque si è riunito per redigere raccomandazioni sull’uso dell’acqua per il prossimo anno. Le sue decisioni, che verranno inviate per l’approvazione al consiglio direttivo statale, sono di ridurre drasticamente di 130 milioni di metri cubi le destinazioni di acqua dello scorso anno.

Di questi, 80 milioni di metri cubi saranno sottratti ai coltivatori, il che rappresenta una riduzione di decine di punti percentuali. Il resto dovrebbe venire dall’irrigazione comunale di parchi e giardini.

I coltivatori sono furiosi per la proposta. L’associazione di produttori di frutta israeliani, per esempio, ha affermato che il taglio obbligherebbe li a sradicare i loro frutteti.

Ma gli esperti hanno detto al comitato esecutivo che il pompaggio dal lago Kinneret dovrà essere quasi del tutto interrotto – ed anche così si prevede che il lago scenda al suo livello più basso della storia. Hanno anche detto che la maggioranza delle trivellazioni nella Galilea occidentale dovrebbero essere interrotte se si devono evitare danni alle sorgenti di acqua naturale.

(traduzione di Amedeo Rossi)





L’ONU invia una lettera di avvertimento a 150 imprese perché fanno affari nelle colonie israeliane

Barak Ravid,

28 settembre 2017, Haaretz

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcune delle aziende hanno risposto al commissario ONU per i diritti umani dicendo di non aver intenzione di rinnovare i loro contratti in Israele.

Importanti funzionari israeliani e diplomatici stranieri coinvolti nella questione hanno detto ad Haaretz che da due settimane il commissario ONU per i diritti umani ha iniziato ad inviare lettere a 150 imprese in Israele e in tutto il resto del mondo, mettendole in guardia sul fatto che stanno per essere incluse in un elenco di aziende che fanno affari nelle colonie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

La fonte ufficiale israeliana, che ha chiesto di rimanere anonima data la delicatezza della questione, ha sottolineato che le lettere, inviate da Zeid Ra’ad Al Hussein, affermano che queste aziende stanno facendo affari nei “territori palestinesi occupati” e quindi potrebbero trovarsi sulla lista nera dell’ONU delle imprese che violano “le leggi internazionali e le decisioni dell’ONU”. Le lettere, copie delle quali sono arrivate anche al governo israeliano, chiedono che queste imprese inviino alla commissione spiegazioni sulle loro attività economiche nelle colonie.

Un diplomatico occidentale, che ha chiesto l’anonimato, ha sottolineato che, delle 150 aziende, circa 30 sono statunitensi e un certo numero hanno sede in Paesi come la Germania, la Corea del Sud e la Norvegia. L’altra metà sono imprese israeliane.

Il “Washington Post” in agosto ha informato che tra le imprese americane che hanno ricevuto la lettera ci sono Caterpillar, Priceline.com, TripAdvisor e Airbnb. Secondo lo stesso articolo, l’amministrazione Trump sta tentando di lavorare con la commissione ONU sui diritti umani per evitare che la lista venga pubblicata. Due settimane fa il Canale 2 israeliano ha informato che la lista include alcune delle maggiori compagnie israeliane, come Teva, Bank Hapoalim, Bank Leumi, Bezeq, Elbit, Coca-Cola Israel, Africa-Israel, IDB, Egged, Mekorot e Netafim.

Importanti funzionari israeliani affermano che il timore israeliano di disinvestimenti o riduzione degli affari dovuti alla lista nera sta già diventando una realtà. Sostengono che l’ufficio del ministero dell’Economia per gli affari strategici ha già ricevuto informazioni che numerose imprese che hanno ricevuto le lettere hanno risposto al commissario per i diritti umani dicendo di non aver intenzione di rinnovare contratti o di firmarne di nuovi in Israele.

Queste aziende non possono semplicemente fare una distinzione tra Israele e le colonie e stanno ponendo fine a tutte le loro attività,” ha affermato l’importante funzionario israeliano. “Compagnie straniere non investiranno in qualcosa che puzza di problemi politici – ciò potrebbe determinare una valanga.”

Un comitato interministeriale che comprende i ministeri degli Affari Esteri, degli Affari Strategici, della Giustizia e dell’Economia sta ancora lavorando per cercare di evitare la pubblicazione della lista. Tuttavia la valutazione tra la maggioranza di quanti sono coinvolti nei tentativi del governo è che sia inevitabile e che probabilmente la lista verrà resa pubblica entro la fine di dicembre.

Come parte del tentativo di minimizzare il danno potenziale, Israele sta tentando di contattare e dialogare con le imprese straniere citate nella lista, sottolineando che essa non è vincolante ed è senza importanza. Ha anche detto loro che sta contattando governi stranieri per informarli che utilizzare la lista equivale a collaborare con un boicottaggio di Israele.

Nel marzo 2017 la commissione per i diritti umani di Ginevra ha votato per una risoluzione promossa dall’Autorità Nazionale Palestinese e dai Paesi arabi in base alla quale la commissione avrebbe stilato un elenco di imprese israeliane e internazionali che fanno affari direttamente o indirettamente in Cisgiordania, a Gerusalemme est o sulle Alture del Golan. La decisione è stata approvata nonostante le massicce pressioni degli USA per ammorbidire il testo della risoluzione.

E’ fallito anche un tentativo da parte dell’UE di raggiungere un accordo con i palestinesi per ritirare il punto della risoluzione che prevede la stesura di una lista nera, in cambio dell’appoggio delle Nazioni europee al resto delle sue clausole.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il BDS è l’unico nostro strumento contro l’occupazione e l’apartheid israeliani

Ruchama Marton

26 settembre, 2017 | Haaretz

Pensare che Israele possa rimediare a un regime coloniale e di apartheid senza un aiuto esterno è un’illusione pericolosa fondata sull’ orgoglio machista israeliano.

Nel suo articolo su Haaretz, Uri Avnery risponde a quello che ho detto alla mia festa di compleanno degli 80 anni. “Alcuni dei miei amici pensano che la lotta sia persa, che non sia più possibile cambiare Israele ‘dal di dentro’, che solamente una pressione dall’esterno può aiutare e che la pressione esterna in grado di fare questo è il movimento del boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Uno di questi amici è la dottoressa Ruchama Marton”, egli scrive.

Avnery afferma: “Prima di tutto respingo decisamente l’idea che non c’è nulla che noi possiamo fare per salvare lo Stato, e che noi dobbiamo confidare negli stranieri perché facciano il lavoro per noi. Israele è il nostro Stato. Abbiamo la responsabilità di questo”.

Ecco la mia risposta

Non ho mai detto in qualunque momento o posto che io, o noi, la sinistra non sionista definita radicale, vogliamo o ci aspettiamo che qualcuno nel mondo faccia il nostro lavoro per noi. Non soltanto non è etico, è anche stupido e non praticatibile. Dalla guerra civile in Spagna, una guerra che è stata persa, al Sud Africa, una guerra che ha vinto, e a tutte le altre lotte, i nativi hanno sempre lottato e sono stati uccisi insieme ai loro sostenitori in giro per il mondo, mai separatamente. Sotto questo profilo, la sinistra radicale in Israele è in ottima compagnia. Avnery non ha alcun diritto di dire di me o di noi che aspettiamo qualcuno da fuori Israele che lotti per noi. Questo è sicuramente sbagliato.

La lotta corretta, secondo me, è la lotta anti colonialista e anti apartheid. Chiunque si illuda di poter vincere questa battaglia senza l’aiuto esterno cade in un errore, in un’illusione pericolosa fondata sull’orgoglio machista sionista israeliano. Io e solo io.

Oggi la questione della pace non è rilevante. È piuttosto un argomento di convenienza, troppo bello e al momento non praticabile. Schierarsi per la pace non è una posizione politica ma è un’adesione di facciata. Avnery conosce qualcuno di destra o di sinistra che si oppone alla pace? La questione attuale è quella dell’occupazione e dell’apartheid.

La lotta anti coloniale ha una tradizione rispettabile e quella contro l’apartheid ha una strategia che ha funzionato. È vero che quelli che hanno lottato per un cambiamento politico reale e non solo per salvare il Paese, hanno avuto bisogno di rinunciare ai privilegi a loro garantiti dal regime di apartheid.

Il diritto alla politica è il diritto più importante. Senza questo è come “Lasciate in pace gli animali”. Lottare per un ambulatorio nei territori occupati è come lottare per una mangiatoia per un cavallo. Il regime totalitario riduce il cittadino “ad avere diritti”, il diritto al cibo, alla casa, all’istruzione e alla salute. Quando il diritto alla politica è negato, la persona è ridotta allo stato di animale. Chiunque non abbia voglia di combattere per il diritto alla politica, lotta solo per il proprio corpo. Vale la pena chiedersi – siamo solo l’aspirina dell’occupante?Un cerotto dell’apartheid?

Voglio dare ai giovani che desiderano lottare gli strumenti per pensare criticamente. In altre parole, non stare al gioco del governo e al suo progetto. Dobbiamo imparare a dire che non accettiamo più le leggi del governo. Ciò significa assumere dei rischi e rinunciare ai nostri privilegi, che stanno dentro le regole dettate dal regime. Come ha detto Ralph Waldo Emerson: “Gli uomini validi non devono obbedire troppo bene alle leggi.”

Fintantochè gli ebrei israeliani che non sostengono il BDS pensano che sia possibile cambiare dall’interno, essi sono come la parabola della lepre che voleva cambiare dall’interno il leone. Così il leone l’ha mangiata. La lepre è entrata nel leone ma la sua storia è finita. Oggi cambiare dall’interno è un’illusione, la sinistra radicale non può pensare e agire in questo modo.

La sinistra sionista ha paura del radicalismo perché ha paura di rimanere sola, senza una tribù. Il problema è che esiste un’altra tribù, una più grande, e che si trova all’esterno. Per esempio, la tribù internazionale del BDS in crescita. È il nostro alleato perché non abbiamo alleati all’interno della nostra tribù nativa. Dobbiamo essere consapevoli che, dall’interno siamo troppo pochi e troppo deboli. Senza i nostri alleati di fuori non possiamo fare molto. I traditori di oggi saranno gli eroi di domani.

Avenery dice: “Penso che boicottare proprio Israele sia uno sbaglio. Porterebbe l’intera opinione pubblica israeliana nelle braccia dei coloni, mentre il nostro compito sarebbe di isolare i coloni nei territori occupati e di separarli dall’opinione pubblica israeliana. Il nostro compito qui è di raggruppare, riorganizzare e raddoppiare i nostri sforzi per sconfiggere l’attuale governo e portare l’area pacifista al potere”

Io gli rispondo: Stai argomentando in base ad un presupposto senza fondamento circa il futuro, basato solamente sulla paura di rimanere solo, perché l’opinione pubblica israeliana nella sua interezza si unirà ai coloni. La maggior parte lo ha già fatto. Il BDS è l’unica arma nonviolenta che può indurre la società israeliana ebraica a prendere consapevolezza del dominio e della sofferenza dell’occupazione quando venga costretta a pagarne il prezzo.

Se l’occupazione e l’apartheid portano a una sofferenza economica, culturale e diplomatica a causa di un boicottaggio internazionale, è molto probabile che possa avvenire un cambiamento nella visione israeliana che è basata da un lato sull’enorme beneficio che deriva al Paese e ai suoi cittadini ebrei dall’occupazione e dalla separazione, dall’altro sulla vigliaccheria di quella che viene definita la sinistra israeliana, o campo pacifista.

Dr.Ruchama Marton è la fondatrice e presidentessa di Physicians for Human Rights – Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele]. Le sue opinioni non rappresentano quelle dell’associazione.

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul sito Haokets.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La Russia cerca la riconciliazione tra Hamas e Fatah per salvare Assad e indebolire l’Iran

Zvi Bar’el– 13 settembre 2017, Haaretz

Unico attore in grado di lavorare per un miracolo diplomatico, il coinvolgimento regionale di Mosca è degno di nota e prova che la riconciliazione palestinese è in cima ai suoi programmi.

 Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha avuto un fine settimana impegnativo. Durante una visita di tre giorni in Medio Oriente ha incontrato re Salman dell’Arabia Saudita e re Abdullah di Giordania, ha parlato per telefono con il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi e ha cercato di sanare la frattura tra gli Stati del Golfo e il Qatar, di raggiungere una posizione unitaria sulla crisi siriana e di porre fine alle divisioni tra Fatah e Hamas.

Durante una conferenza stampa con il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir, Lavrov ha rivelato che la Russia sta avendo colloqui con i Paesi arabi che hanno rapporti con Hamas per riuscire a tornare all’accordo di riconciliazione che hanno firmato Hamas e Fatah, compresa la formazione di un governo palestinese di unità. Due giorni dopo Hamas ha detto di essere disposto a smantellare il consiglio amministrativo [il governo di fatto di Gaza da quando Hamas ha espulso i dirigenti di Fatah e preso il potere, ndt.], che ha creato nella Striscia di Gaza come governo alternativo, e a raggiungere un accordo per formare un governo palestinese unitario.
Sarebbe prematuro aspettare con il fiato sospeso che questa dichiarazione venga messa in pratica. Ma il nuovo coinvolgimento della Russia è degno di nota. Contrariamente agli accordi che Hamas ha raggiunto il mese scorso con l’Egitto, in base ai quali il consiglio amministrativo di Gaza sarebbe stato guidato da Mohammed Dahlan – un membro di Fatah e rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas –  e che comprenderebbe  sia membri di Hamas che di Fatah, Hamas sta di nuovo parlando di un governo di unità.
Questo annuncio significa che sta annullando i suoi accordi con l’Egitto? Secondo fonti di Hamas, ci sono due processi paralleli.
Per il momento il consiglio amministrativo continuerà a negoziare con l’Egitto, con Dahlan come mediatore, nel tentativo di ottenere la riapertura permanente del valico tra Egitto e Gaza, forse tra un mese. Le spese giornaliere del consiglio saranno finanziate dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno già destinato 15 milioni di dollari a questo scopo e hanno promesso la stessa somma nei prossimi mesi.
Allo stesso tempo Hamas riprenderà i colloqui con l’Autorità Nazionale Palestinese su come spartirsi i posti di governo e prepararsi a nuove elezioni presidenziali e legislative palestinesi.
Il coinvolgimento della Russia sia nel conflitto interno palestinese che in quello tra palestinesi ed israeliani non è slegato dalla sua strategia regionale, soprattutto dalla gestione della crisi siriana, che ora si trova esclusivamente nelle mani della Russia. Giordania, Arabia saudita, Egitto, Turchia e Israele, tutti comprendono che l’unica grande potenza in grado di lavorare ad un miracolo in Siria è la Russia. Quindi ognuno di loro ora sta cercando di garantirsi da Mosca che i propri interessi vengano salvaguardati.
Aiutare Assad
La Giordania, come Israele, non è d’accordo con la Russia sullo status dell’Iran in Siria. Attualmente l’esercito siriano non è presente nel sud del Paese, ma la Giordania teme che questa situazione cambi. Quindi ha sollecitato, ed apparentemente si è garantita, una promessa da parte di Lavrov che se l’esercito siriano ritornerà nelle zone vicine al confine giordano, non consentirà alle forze filo-iraniane, comprese le milizie straniere sciite ed Hezbollah, di schierarsi lungo queste zone sul confine.
In cambio la Siria ha chiesto alla Giordania di mantenere stretti rapporti con il regime di Assad, di aprire i passaggi di frontiera tra i due Paesi e, in seguito, di riprendere relazioni diplomatiche con il regime.
La Russia, che ha realizzato un’inversione di marcia nella situazione militare del regime e nell’estensione del territorio che esso controlla, sta ora investendo la maggior parte dei propri sforzi in mosse diplomatiche che intendono attribuire una legittimazione araba ed internazionale al presidente siriano Bashar Assad. Da qui l’importanza della visita di Lavrov in Medio Oriente.
La verifica di questi tentativi ci sarà questo fine settimana ad Astana, la capitale kazaka, quando funzionari del governo siriano e rappresentanti dell’opposizione hanno in programma di tenere il loro sesto incontro. Se questa tornata di colloqui dovesse avere successo, sarà possibile stabilire una data per una conferenza a Ginevra per discutere un trattato di pace.
Ma nel suo tentativo di costruire un sostegno arabo alle sue iniziative in Siria, la Russia deve superare due seri ostacoli. Il primo è la divisione tra gli Stati del Golfo e l’Egitto da una parte e il Qatar dall’altra, il secondo è lo stallo diplomatico tra l’Arabia Saudita e l’Iran.
Dato che i tentativi americani di riconciliare l’Arabia saudita e il Qatar, in cui il presidente USA Donald Trump ha giocato un ruolo attivo, sono falliti e l’amministrazione USA sembra essere in ibernazione riguardo al conflitto israelo-palestinese, la Russia ha colto questi due conflitti come leva per portare avanti i propri interessi. Ed è per questo che Hamas è diventato importante, benché non sia considerato un attore strategico che possa influenzare la politica regionale. Poiché Hamas è una pedina nella partita a scacchi tra Riyad e Teheran, è diventato essenziale coinvolgerlo per gli scopi di un gioco più grande.
Hamas, Iran ed Egitto
Lo scorso anno Hamas ha intensificato le sue aperture nei confronti dell’Iran, che in cambio ha promesso aiuto all’organizzazione. Secondo informazioni dei media arabi, l’Iran ha fornito al ramo libanese di Hamas circa 20 milioni di dollari ed ha anche ripreso l’addestramento militare dei miliziani di Hamas da parte di Hezbollah.
Funzionari di Hamas sia a Gaza che all’estero ogni tanto hanno emesso comunicati in cui hanno sostenuto che i rapporti con l’Iran dovrebbero essere presto ripresi o che l’Iran ha offerto ulteriore aiuto. Ma queste affermazioni contraddicono gli sforzi diplomatici di Hamas, che intendono ristabilire le relazioni con l’Egitto. Questa discrepanza attesta dell’accesa disputa tra l’ala militare di Hamas, che sta spingendo per riprendere i legami con l’Iran, e la sua ala politica, guidata da  Ismail Haniyeh e da Yahya Sinwar, che sta promuovendo i rapporti con l’Egitto e con il mondo arabo.
Anche l’Iran sta soffrendo una disputa interna sull’aiuto ad Hamas, tra i conservatori radicali e le Guardie della Rivoluzione. Mentre queste ultime stanno spingendo per riprendere questo aiuto, i radicali sono contrari sulla base del fatto che, dato che Hamas ha tradito la Siria, non merita aiuto.
Ecco perché la Russia attribuisce una tale importanza alla riconciliazione palestinese, che bloccherebbe un rinnovato avvicinamento tra Hamas e l’Iran e in tal modo soddisferebbe i desideri di Arabia saudita, EAU ed Egitto. Se la Russia potrà realizzare una simile riconciliazione, raggiungerà una doppia vittoria.
In primo luogo sarà vista come l’unico Paese in grado di risolvere conflitti nella regione, dato soprattutto il suo recente “successo” in Siria. In secondo luogo, avrà portato un importante contributo esplicito per bloccare l’influenza iraniana – e benché la Russia e l’Iran abbiano un interesse comune nel preservare il regime di Assad, la Russia non è entusiasta dell’influenza iraniana nella regione.
La successiva domanda è come Israele dovrebbe rispondere ai tentativi della Russia. Israele si è tradizionalmente opposto alla riconciliazione tra Hamas e Fatah, principalmente perché la divisione gli permette di sostenere che Abbas non rappresenta tutti i palestinesi, e quindi non può essere un partner per la pace (oltre alle sue altre solite scuse, come accusarlo di incitare ed appoggiare il terrorismo). La separazione tra Gaza e la Cisgiordania consente inoltre ad Israele di condurre una politica di oppressione in entrambi i territori.
Ma se la Russia decide che una riconciliazione palestinese è fondamentale per i suoi interessi regionali, Israele avrà dei problemi nel mantenere questa opposizione, soprattutto dal momento che ha bisogno delle garanzie russe contro il consolidamento dell’Iran in Siria. E’ per questo che Israele ha mantenuto il silenzio stampa sulle iniziative della Russia – un silenzio accompagnato dagli auspici che ancora una volta i palestinesi guastino tutto da soli ed evitino ad Israele la necessità di prendere una decisione.
(traduzione di Amedeo Rossi)



Partito israeliano approva un piano di annessione per obbligare i palestinesi ad andarsene

Yotam Berger – 13 settembre 2017, Haaretz

Con l’approvazione di Netanyahu, il congresso di un partito di destra discute il proprio piano per annettere i territori palestinesi e proporre un ultimatum di resa o espulsione.

Martedì il congresso della fazione “Unione Nazionale”, che ha eletto dei parlamentari nel partito Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], presente nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato un piano per annettere in pratica i territori, favorendo nel contempo la partenza degli abitanti palestinesi o consentendo loro di rimanere, ma senza diritto di voto.

L’approvazione del piano, denominato dai suoi sostenitori il “Piano per la decisione”, è stata attivamente promossa dal deputato di Habayit Hayehudi Bezalel Smotrich. Esso intende “modificare il discorso e presentare una vera alternativa ad ogni piano basato sulla divisione della terra,” secondo una dichiarazione di “Unione Nazionale”.

Dopo un centinaio di anni di gestione del conflitto, è giunto il momento di prendere una decisione,” ha detto Smotrich all’assemblea. “I principi (della Sinistra) nell’arco di pochi anni sono stati accettati da una parte crescente della dirigenza israeliana. Prima a sinistra, e poi, sfortunatamente, anche a destra, che nella sua grande maggioranza ha perso la propria fede nella giustezza del nostro percorso ed è stata trascinata verso la soluzione dei due Stati.

La prospettiva del ‘Piano per la decisione’ non è nuova,” ha detto Smotrich. “Queste sono le fondamenta su cui è stato costruito il sionismo. Non accettiamo che qui ci siano due narrazioni che sono uguali. C’è una parte che è giusta e un’altra che sta minando il diritto di Israele ad esistere come Stato ebraico.”

Smotrich ha aggiunto: “Dobbiamo inculcare nella consapevolezza degli arabi e del mondo intero che non ci sono possibilità di costituire uno Stato arabo sulla Terra di Israele.”

Il piano è stato approvato all’unanimità dai delegati presenti, che includevano i parlamentari di Habayit Hayehudi Smotrich e Moti Yogev e il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel. Il segretario del partito Naftali Bennett, tuttavia, non è stato presente al congresso, né ha inviato un messaggio registrato, mentre lo ha fatto il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Il piano di Smotrich presenta una specie di ultimatum di resa o espulsione ai palestinesi in cui “verranno offerte due alternative agli arabi della Terra di Israele:

1. Chiunque sia pronto e disposto a rinunciare alla realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali potrà rimanere qui e vivere come singolo individuo nello Stato ebraico.

2. Chiunque non sia pronto e disposto a rinunciare alla realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali riceverà da noi assistenza per emigrare in uno degli Stati arabi.”

C’è anche una terza possibilità.

Chiunque insista a scegliere la terza ‘opzione’ – continuare a far ricorso alla violenza contro l’esercito israeliano, lo Stato di Israele e la popolazione ebraica, sarà risolutamente preso in consegna dalle forze di sicurezza con maggiore decisione di ora e in condizioni più sicure per noi.”

Il piano invoca inoltre una “decisione per la colonizzazione.”

Smotrich propone di offrire “autogoverno” agli arabi nei territori occupati, che “verrebbero divisi in tre governi municipali regionali che saranno nominati con elezioni democratiche,” su base distrettuale.

Secondo il piano, “questi governi si adattano alla struttura culturale e della famiglia estesa della società araba.” L’obiettivo è “di smantellare la collettività nazionale palestinese.” Viene sottolineato che “gli arabi di Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania occupata, ndt.] saranno in grado di condurre la loro vita quotidiana, ma in un primo tempo non potranno votare per il parlamento israeliano.”

Come lo stesso Smotrich ha scritto nel passato in merito al piano, “la grande sfida in questo contesto sarà la sfida democratica: la necessità di persuadere il mondo che tra tutte le diverse alternative, quella dei diritti democratici senza il diritto di voto al parlamento è la meno peggio. Certamente è una sfida, ma possiamo affrontarla.”

Razzisti? Noi?

I membri di “Unione Nazionale” sembrano offendersi quando gli viene chiesto di spiegare perché il loro piano non è razzista. “Dio ce ne guardi,” dice il segretario del partito Ofir Sofer. “E’ chiaro che ci sono delle difficoltà nel discuterlo utilizzando i concetti che abbiamo oggi. Ma non è razzismo,” afferma.

  Sofer aggiunge che, benché il piano utilizzi il termine “gli arabi della Terra di Israele,” non significa che gli arabo-israeliani perderebbero la loro cittadinanza.

Il piano propone la cittadinanza,” aggiunge. “La propone a lungo termine. (Anche oggi) gli arabo-israeliani non fanno il servizio militare e gli arabi di Gerusalemme est non votano per la Knesset. Per questo penso che non si tratti di razzismo. Non puoi creare due situazioni contraddittorie – la colonizzazione e l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma non voterei mai per un piano razzista.”

Sofer contesta anche l’uso del termine “espulsione”. “Quando abbiamo parlato di espulsione?” chiede. “Stiamo parlando di incoraggiare l’emigrazione. E’ successo per gli eritrei, ecc. Qui ci stiamo riferendo esattamente ai militanti del terrorismo, a quelli che appoggiano il terrorismo. Lei è a favore di incoraggiare l’emigrazione degli eritrei e non dei terroristi?”

Per quanto riguarda una spiegazione su cosa significherà “preso in consegna dalle forze di sicurezza“ con cui il piano mette in guardia quelli che rifiutano di andarsene e conservano aspirazioni nazionali, sia il piano che Sofer sono vaghi.

Il programma di Smotrich può suonare effimero, ma ha ricevuto il riconoscimento da parte di Netanyahu, che ha inviato un messaggio videoregistrato al congresso.

Sono contento di sentire che avete dedicato le discussioni del congresso al tema del futuro della Terra di Israele. Fino a non molti anni fa, questo Paese era spopolato ed abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni in esilio, la Terra di Israele sta fiorendo,” ha detto Netanyahu nel saluto registrato.

Il primo ministro ha aggiunto: “In meno di 70 anni siamo riusciti a costruire un Paese prospero, leader mondiale in economia, tecnologia, sicurezza, agricoltura, sicurezza informatica, salute e in molti altri campi. Stiamo costruendo il Paese e ci stiamo insediando sulle montagne, nelle valli, in Galilea, nel Negev e anche in Giudea e Samaria, perché questo è il nostro Paese. Ci è stato concesso il privilegio di vivere sulla terra, ed abbiamo l’obbligo di conservarla con cura.”

Il saluto del premier ha ricevuto applausi piuttosto scarsi. La spiegazione più comune di questo tra gli attivisti di “Unione Nazionale” è la loro convinzione che Netanyahu non creda realmente al piano, ma stia semplicemente tentando di superare a destra Bennett, di Habayit Hayehudi. “Sta facendo l’occhiolino alla Destra,” dice un delegato. “Capisce che i voti sono a destra,” dice un altro.

Per il ministro dell’Agricoltura Ariel, non è sufficiente che Netanyahu stia prestando attenzione.

Il ‘Piano per la decisione’ è importante, soprattutto dal punto di vista della consapevolezza,” dice Ariel. “Non basta che ci sia mezzo milione di ebrei in Giudea e Samaria, e con l’aiuto di dio ce ne sarà un milione. Dobbiamo raggiungere la consapevolezza, riconoscere la giustezza (del potere e della colonizzazione israeliani in Cisgiordania). Dire: ‘Onorevole primo ministro, signor Netanyahu, non ci sono e non ci saranno mai due Stati tra il Giordano e il mare.’ Gliel’ho detto varie volte: ‘Tu sai che non ci saranno mai due Stati.’ Ma le discussioni giorno e notte sui due Stati indeboliscono ed erodono la consapevolezza della giustizia del nostro cammino, che la Terra di Israele è nostra.”

L’assenza di Bennett dal congresso non è stata casuale; quelli che lo conoscono dicono che il ministro dell’Educazione non è molto entusiasta delle proposte di Smotrich. Pochi anni fa Bennett ha presentato il suo “Piano di pacificazione”, che includeva l’annessione di alcune parti dei territori, ma nessun meccanismo di trasferimento della popolazione.

Benché Habayit Hayehudi e “Unione Nazionale” siano strettamente legati e abbiano corso insieme per la Knesset, i seguaci di Bennett dicono che egli sa che non riuscirà mai a raggiungere i vertici politici a cui aspira – in altre parole, la carica di primo ministro – in una lista unitaria con “Unione Nazionale”. Pensa che una lista che include convinzioni politiche come quelle di Smotrich non potrà mai essere un partito di governo. La loro alleanza è stata strategica, ma se egli avrà l’opportunità di candidarsi con un partito che possa attrarre più voti centristi, sarà felice di separarsi [da “Unione Nazionale”].

Ariel ne è ben consapevole. Per questo, nel suo discorso, ha chiesto a Bennett di mantenere l’alleanza. “Faccio un appello al mio collega ed amico, il ministro Bennett – l’unità è un valore. E quando si tratta di questioni politiche, può portare a risultati molto maggiori di altre cose. Per questo noi dell’’Unione Nazionale’ stiamo lottando per l’unità del nostro campo.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’arresto del militante della Cisgiordania Issa Amro rivela il comune interesse dell’ANP e di Israele nel dissuadere azioni di disobbedienza civile

Amira Hass, 11 settembre 2017,Haaretz

Si dice che il coordinamento della sicurezza palestinese con Israele sia stato drasticamente ridotto su ordine del Presidente Mahmoud Abbas. Allora perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato Issa Amro, una delle costanti spine nel fianco del potere occupante israeliano ad Hebron?

Attraverso il suo arresto l’ANP ha palesato i suoi interessi comuni con Israele ed ha dimostrato ancora una volta che la sua stessa esistenza è diventata la sua ragion d’essere. Ha inoltre rivelato stupidità politica e disprezzo per la lotta popolare palestinese contro chi ruba la terra ed espelle la popolazione.

La scorsa settimana un tribunale palestinese a Hebron ha prorogato la sua detenzione di quattro giorni, prima di rilasciarlo domenica su cauzione. Amro è accusato di turbare la quiete pubblica, in in base alla controversa nuova ‘legge elettronica’ approvata recentemente dal governo di Ramallah. E’ accusato anche di aver provocato disordini interni e di aver offeso i più alti vertici dell’ANP.

Amro è co-fondatore di ‘Giovani contro le colonie’. Il gruppo documenta il folle comportamento dei coloni di Hebron e dei soldati che li difendono. Ha anche dato vita ad iniziative sociali per rafforzare la presenza palestinese nella Città Vecchia [di Hebron].

‘Giovani contro le colonie’ costituisce un modello di disubbidienza civile e mette un bastone tra le ruote ai piani israeliani di espulsione [dei palestinesi]. E’ un piccolo gruppo con grandi idee, divisioni, fallimenti e successi. Ha anche fatto crescere la consapevolezza tra gli ebrei della diaspora riguardo alla folle forma di apartheid che l’esercito, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndt.] ed i coloni di Hebron hanno creato.

Non per niente Israele arresta gli oppositori contro l’occupazione a Hebron e disperde con la forza le loro marce di protesta (che a volte coinvolgono attivisti israeliani). Non per niente un anno fa il procuratore militare israeliano ha costruito accuse contro Amro sulla base di vecchi reati (risalenti a prima del 2013), come manifestazioni, contestazioni ai soldati, spintoni al coordinatore della sicurezza militare della colonia di Kiryat Arba e incidenti simili, che solo una giunta militare potrebbe trasformare in un’incriminazione.

Poiché i presunti crimini sono stati commessi tanto tempo fa, il tribunale non ha potuto disporre l’arresto di Amro fino al termine delle procedure. A volte l’imbarazzo lega le mani anche alla giunta.

L’incriminazione israeliana nei confronti di Amro è finalizzata soprattutto a dissuadere altri giovani palestinesi dall’ unirsi alla disobbedienza civile a Hebron, dall’ osare resistere ai coloni ed alla loro costante violenza razzista e dall’ incrementare la loro presenza nella vecchia e tormentata Hebron.

L’esercito israeliano, i coloni e la polizia preferiscono i giovani palestinesi disperati ed isolati che, senza un piano, una strategia o una prospettiva, vanno ai checkpoint a suicidarsi per mano di un soldato o di un colono.

Il vero pericolo per l’esercito a difesa dei coloni sono i militanti che possono aprire un varco alla speranza, che possono pianificare diversi passi avanti e mirare ad una partecipazione di massa.

Il lavoro sporco, a quanto sembra, viene fatto anche da altri. I servizi di sicurezza palestinesi hanno arrestato Amro lo scorso lunedì mattina. Il giorno prima aveva pubblicato due moderati post su Facebook, invocando il rispetto dei principi di libertà di espressione e opinione. L’espressione più forte nel suo post affermava che i servizi di sicurezza palestinesi arrestano la gente sulla base di ordini dall’alto. Si riferiva all’arresto di uno dei dirigenti della stazione radio Minbar Al Hurriya [una delle radio più seguite a Gaza, ndt.], alcuni giorni dopo che l’esercito israeliano l’aveva chiusa.

Il direttore, Ayman al-Qawasmi aveva invitato Abbas ed il primo ministro palestinese Rami Hamdallah a dimettersi in quanto incapaci di difendere le istituzioni palestinesi. Qawasmi è stato rilasciato mercoledì scorso. Come già detto, domenica il tribunale palestinese ha rilasciato Amro su cauzione di 5.000 shekels (1.190 €).

Giovedì, diplomatici, rappresentanti di Amnesty International e giornalisti esteri si sono presentati alla prima udienza della causa di Amro – lo stesso gruppo che assiste alle udienze contro di lui nei tribunali militari israeliani. Tuttavia la causa presso il tribunale di Hebron si è tenuta a porte chiuse, per cui hanno dovuto restare fuori.

Nonostante il tribunale palestinese sia tornato sulle sue decisioni, il danno è stato fatto. L’ANP ha già fatto un regalo ai sostenitori israeliani delle espulsioni. Dal punto di vista dell’ANP, l’arresto di Amro è stato una follia perché, più di ogni altro atto antidemocratico, era chiaro che avrebbe attirato l’attenzione generale e gettato su di esso una luce negativa. Fosse anche solo per ragioni di convenienza, l’ANP avrebbe dovuto ricordarsi che stava arrestando un militante molto noto, la cui attività gode di grande rispetto all’estero.

Se l’ANP avesse tenuto in qualche conto la lotta popolare, avrebbe capito sin dall’inizio che un simile arresto l’avrebbe danneggiata. Ma alla fin fine l’ANP rifiuta le lotte popolari come strumento di cambiamento. Se ne serve solo come un ornamento per recuperare la reputazione di Fatah e dell’ANP come soggetti esclusivi della lotta per l’indipendenza.

Le autorità che lo hanno arrestato, dal vertice alla base, hanno pensato solo a sé stesse; alla loro sopravvivenza come apparato di comando; ai loro stipendi; alle loro promozioni. Le critiche esplicite deturpano la parvenza dell’apparato come rappresentante patriottico del popolo. Le critiche sono a volte indirizzate alla mancanza di libertà di espressione, a volte alla sospensione o ai brogli delle elezioni e a volte ai vantaggi economici di una ristretta classe al potere.

Quelle voci devono essere messe a tacere per il bene del sistema, che dipende direttamente dal mantenimento degli accordi eternamente temporanei con Israele. Perciò la lotta popolare ed i suoi militanti devono essere controllati e contenuti, in modo che non creino situazioni che minaccino accordi scaduti da molto tempo e che servono solo alla perpetuazione dell’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




“Proud Boys” e “Liste nere”: gli attivisti BDS negli USA devono affrontare nuove minacce

Nada Elia

Mercoledì 13 settembre 2017 , Middle East Eye

Attivisti nelle università degli USA stanno affrontando nuove minacce da violente organizzazioni suprematiste bianche.

Giusto in tempo per il nuovo anno scolastico, la scorsa settimana l’università di Stanford ha pubblicato un documento che afferma che gli studenti ebrei dei college in California non hanno vissuto situazioni di antisemitismo e si sentono a proprio agio con la loro religione.

Contrariamente a impressioni ampiamente condivise, abbiamo trovato un’immagine della vita nei campus che non è né minacciosa né allarmistica. In generale gli studenti hanno affermato di sentirsi a proprio agio nei loro campus e, più in particolare, a proprio agio come ebrei nei campus che frequentano,” riporta la sintesi del rapporto, aggiungendo che gli studenti intervistati studiano all’università statale di San Francisco, a Berkeley, all’Irvine, all’UCLA e alla Stanford.

Nonostante i risultati del rapporto, organizzazioni ultraconservatrici hanno fatto scritte sui muri dei campus, dalla Georgetown University alla Washington State University fino all’università delle Hawaii, in genere pochi giorni, a volte poche ore, prima che le scuole aprissero le loro porte agli studenti. E, anche se questo inquietante fenomeno non è nuovo, quest’anno potrebbe acquisire maggiore forza, con la crescita a livello nazionale della cosiddetta “alt-right” [estrema destra, ndt.].

Una delle nuove minacce nei campus è “Proud Boys” [“Ragazzi Orgogliosi”], un gruppo di destra di maschi “sciovinisti occidentali” fondato nel 2016, le cui tattiche rivelano un progetto sia antisemita che anti-palestinese ed anti BDS. I “Proud Boys” sono per lo più ex-militari, armati, e alcune sezioni includono membri di colore, il che complica le accuse di “suprematismo bianco”.

Sostengono di promuovere la supremazia dell’ “Occidente”, e un’insegna sulla loro pagina Facebook proclama “I ‘Proud Boys’ non sono alt-right”, anche se spiegano di essere (tra varie altre questioni) a favore delle armi, di Trump, della polizia, contro l’Islam e antifemministi.

Ci sono molte contraddizioni interne all’organizzazione. Per esempio, anche se dichiarano di essere a favore dei gay, durante una protesta all’università di New York nella quale stava parlando Gavin McInnes, il fondatore dei “Proud Boys”, un loro membro è stato sentito dire che dovevano lottare contro “i froci vestiti di nero”.

I “Proud Boys” hanno programmato riunioni e campagne di reclutamento nei campus in tutto il Paese, e le loro conversazioni sui social media rivelano anche un profondo antisemitismo.

Mentre si stanno delineando le linee della battaglia, con molti docenti e dipendenti delle università che si uniscono alla nuova rete “Campus antifascisti” e che si impegnano a non accettare questi gruppi nei propri campus, i “Proud Boys” potrebbero incrementare la violenza, soprattutto in quanto l’ultimo passo dell’iniziazione per l’ammissione al loro gruppo comprende “una grande lotta per la causa.”

Devi picchiare, spaccare la faccia di un antifa [gruppi antifascisti che lottano anche con la violenza contro gli estremisti di destra nelle università e in piazza, ndt.], e magari essere arrestato,” dice McInnis, co-fondatore di “Proud Boys” e di “Vice” [“Vizio”, giornale “libertario” e sito in rete fondato in Canada, ndt.].

Lista nera’ BDS

L’altro nuovo fronte di battaglia dei campus, che finora si è limitato solo a New York, ma con piani dichiarati di prendere di mira persone a livello nazionale, è il nuovo gruppo “BDS fuorilegge”.

Chiamano esplicitamente se stessi una “lista nera”. Nelle scorse settimane studenti, docenti universitari, giornalisti, membri di gruppi no profit e lavoratori della cultura hanno ricevuto questa mail (fornita a MEE da un destinatario):

(Nome) Sappi che sei stato identificato come un sostenitore del BDS.

Secondo le nuove norme dello Stato di New York, singole persone e organizzazioni che si impegnano o promuovono le attività del BDS contro alleati degli USA non riceveranno più finanziamenti pubblici o appoggio.

Inoltre lo Stato e i suoi enti non faranno più affari o ingaggeranno queste organizzazioni e singole persone in quanto sono state considerate problematiche ed anti-americane.

Sei segnato.

Sei stato identificato.

 Hai un ristretto margine di opportunità per smetterla e rinunciare o affrontare le conseguenze delle tue azioni con un procedimento giudiziario. Nel caso tu abbia abbandonato il tuo modo sbagliato di agire del passato, contattaci all’indirizzo admin@outlawbds.com, in modo che il tuo profilo venga eliminato dalla lista nera.

 Per il tuo profilo visitaci qui:

www.outlawbds.com

Poiché le minacce contro i militanti del BDS sono aumentate nel corso degli ultimi anni, avvocati attivisti hanno fondato “Palestine Legal”, un’organizzazione con sede a Chicago che si dedica a difendere i diritti civili e costituzionali di persone che negli USA si pronunciano a favore della libertà dei palestinesi.

Parecchi sostenitori del BDS che hanno ricevuto questa mail hanno contattato l’organizzazione, che ha emesso un comunicato in cui afferma che ogni tentativo di “mettere in una lista nera” i sostenitori del boicottaggio è anticostituzionale e serve esclusivamente per intimidire e minacciare gli attivisti.

In quanto docente consigliera di “Studenti per la Giustizia in Palestina”, membro di “Docenti per la Giustizia in Palestina” all’università ‘Davis’ e organizzatrice del boicottaggio accademico coinvolta in campagne nazionali, ho notato l’effetto agghiacciante che le liste nere sioniste e le campagne di diffamazione hanno avuto su attivisti coinvolti nel movimento per la giustizia in Palestina, soprattutto nei campus in cui gli amministratori puniscono sistematicamente gli studenti che osano chiedere uguaglianza e giustizia per il popolo palestinese,” ha detto a MEE Sunaina Maira, docente di Studi Asiatici e Americani all’università della California “Davis” e membro della campagna USA per il boicottaggio accademico e culturale di Israele.

Le tattiche che i gruppi di attivisti ‘alt-right’ e nazionalisti bianchi stanno utilizzando per attaccare docenti e indebolire la libertà accademica sono state a lungo utilizzate dai sionisti in tutti gli USA per creare quello che Steven Salaita ha chiamato l’ ‘eccezione palestinese’ alla libertà di parola,” ha affermato.

In particolare studenti palestinesi/arabi e musulmani lottano contro la cancellazione della loro identità e contro l’ignoranza della loro storia nelle classi e devono anche fare i conti con il razzismo anti-palestinese/anti-arabo e con l’islamofobia, che nell’attuale periodo storico si è solo intensificata.”

Amministrazioni universitarie sono state anche decisamente implacabili nei confronti di organizzazioni studentesche filo- palestinesi e filo-BDS, come dimostrato dalle misure disciplinari contro di loro.

Per esempio lo scorso anno la Fordham University non ha approvato la formazione di una sezione di SJP [Students per la Justice in Palestine, Studenti per la Giustizia in Palestina, ndt.], e, più di recente, la sezione di SJP all’ UC [Università della California] Irvine è stata messa sotto osservazione per due anni, benché l’ Irvine sia uno dei campus presi in considerazione dallo studio di Stanford, che dimostra che gli studenti ebrei si sentono a proprio agio, sicuri e non minacciati nei campus che frequentano.

Tattica intimidatoria’

Tuttavia alcuni sostenitori del BDS stanno mettendo in ridicolo la minaccia della “lista nera”, in quanto molti hanno postato sulle reti sociali che vogliono essere inclusi in quella bella lista, fornendo dettagli sulla loro adesione e sulla loro militanza. E molte persone inserite nella lista nera stanno anche ignorando la minaccia.

Come illustrato da ‘Palestine Legal’, il messaggio mail di ‘BDS Fuorilegge’ è una tattica intimidatoria senza valore,” ha detto a MEE Remi Kanazi, una poetessa e attivista del BDS di New York che è stata inserita nella lista sul sito “BDS Fuorilegge”.

E’ un altro tentativo, anche se grossolano, di mettere a tacere i palestinesi e gli attivisti del BDS attraverso metodi coercitivi,” afferma. “Ma attualmente il BDS sta solo conquistando terreno. Magari non abbiamo una macchina propagandistica multimilionaria e rappresentanti dello Stato che ci sostengono, ma abbiamo la verità e la storia dalla nostra parte.

Dal movimento ‘Black Lives’ [‘Black Lives Matter’, le vite dei neri valgono, gruppo che lotta contro l’uccisione dei neri da parte della polizia negli USA, ndt.] a gruppi studenteschi e associazioni accademiche in tutto il Paese, la gente si sta facendo avanti, spesso con grave rischio di essere attaccata, per manifestare un appoggio basato sui principi a favore della liberazione dei palestinesi, e questa base non farà che rafforzarsi andando avanti,” ha detto Kanazi.

Con lo scopo ultimo di porre fine alle violazioni dei diritti umani del popolo palestinese, il BDS ha sempre affermato di essere innanzitutto un movimento antirazzista. In quanto tale si oppone e denuncia ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. In effetti una percentuale significativa dei membri delle sezioni di “Studenti per la Giustizia in Palestina” a livello nazionale è ebrea, come lo sono molti attivisti all’interno di vari gruppi filo-palestinesi per la giustizia, dalla “Campagna USA per i diritti dei palestinesi” alla “Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele” fino a “Voci ebraiche per la Pace”, ed altri ancora.

Per quanto ho osservato all’università delle Hawaii, i “Proud Boys” hanno una struttura che presuppone di fare dichiarazioni pubbliche su razzismo ed antisemitismo che sono contraddittorie e confuse,” dice a MEE Cynthia Franklin, docente dell’università delle Hawaii, co-fondatrice di “Jewish Voice for Peace Hawaii” [“Voci ebraiche per la pace- Hawaii”] e membro del collettivo organizzatore della campagna per il boicottaggio accademico e culturale di Israele.

Questa incoerenza e questa idiozia da setta non significa che non vadano presi sul serio,” afferma.

Il loro programma è coerentemente –e violentemente – antisemita, anti-indigeni, razzista e patriarcale,” sostiene Franklin. “Insieme ad altre influenze stanno creando un’insicurezza nel mio campus, dove stanno comparendo delle svastiche. Questo è inquietante e preoccupante, e secondo me, in quanto ebrea che è anche antisionista, richiede nuove strategie organizzative contro l’antisemitismo così come contro il sionismo.”

Quindi, poiché le tensioni politiche nazionali si fanno strada nei campus di tutto il Paese, quest’anno gli studenti e i docenti dovranno indubbiamente acquisire molto più di un sapere puramente accademico.

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica palestinese della diaspora, che attualmente lavora sul suo secondo libro”Chi chiami ‘minaccia demografica’? Note dall’Intifada globale.” Docente (in pensione) di Studi di Genere e Globali, è membro del collettivo dirigente della campagna USA per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (USACBI).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)