Le condanne dell’occupazione israeliana non sono sufficienti

Amira Hass

6 settembre 2017, Haaretz

Europei, le vostre denunce non sono considerate da Israele una priorità. Dovete adottare sanzioni che provochino danni.

Olanda, Belgio e Francia: non è sufficiente condannare solo a parole la politica di distruzione da parte di Israele, che danneggia impianti e edifici finanziati con il denaro dei vostri contribuenti. Va bene che siate arrabbiati, ma il ritmo con cui si accumula la vostra rabbia rimane ampiamente in ritardo rispetto alla velocità ed al ritmo pericoloso dei bulldozer dell’Amministrazione Civile (il governo militare dei territori palestinesi occupati, ndt.) in Cisgiordania e delle forze di difesa delle colonie.

Le condanne non vengono viste come una priorità. Dovete intraprendere azioni concrete. Sì, aperte e dichiarate sanzioni che hanno la possibilità di diventare più dure. Sanzioni che provochino danni. Potrebbe essere l’ultima opportunità per scuotere dalla sua indifferenza e criminale compiacenza l’israeliano medio, compresi uomini d’affari, turisti, studiosi, agricoltori e tifosi del calcio estero.

Smettete di aver paura del ricatto emotivo israeliano. Israele fa leva sulla memoria delle nostre famiglie assassinate in Europa per accelerare l’espulsione dei palestinesi dalla maggior parte del territorio della Cisgiordania alle enclave dell’Autorità Nazionale Palestinese. E’ questa l’intenzione che sta dietro a tutte le demolizioni, le confische e i divieti di costruzione, di pascolo e di irrigazione dei campi. Chiunque pianifica ed attua queste piccole, graduali espulsioni sta già pensando alla grande espulsione, verso la Giordania. E che cosa farete allora? Emetterete condanne ed invierete cisterne d’ acqua e tende a chi è stato espulso?

Il 24 agosto il ministro degli Esteri Didier Reynders ed il vice primo ministro e ministro della Cooperazione allo Sviluppo Alexander De Croo belgi hanno reso pubblica una condanna ufficiale della confisca delle roulotte che dovevano essere utilizzate per la scuola dal primo al quarto grado nel villaggio palestinese di Jubbet Adh-Dhib, e della confisca di pannelli solari per la scuola nell’accampamento beduino di Abu Nuwwar.

I belgi hanno sottolineato di essere tra coloro che hanno finanziato quelle strutture. “Il Belgio continuerà a lavorare insieme ai suoi partner, come in passato, per chiedere alle autorità israeliane di interrompere queste demolizioni”, recita il comunicato del ministero degli Esteri.

Uno dei partner è l’Olanda, il cui parlamento ha dedicato del tempo per discutere delle demolizioni israeliane, più di quanto abbia fatto la Knesset (il parlamento israeliano, ndtr.). Questo è ciò che i ministri del governo olandese hanno riferito il mese scorso ai membri del parlamento, relativamente alla confisca dei pannelli solari a Jubbet Adh-Dhib in giugno: il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso in una lettera di restituire i pannelli solari all’Olanda. (Il portavoce dell’ufficio del primo ministro non ha né confermato né smentito l’informazione).

Dopo la confisca, il villaggio è stato condannato ad avere solo due ore di elettricità al giorno, prodotta da un generatore. Negli ultimi 20 anni il villaggio ha sottoposto almeno quattro richieste all’Amministrazione Civile per essere collegato alla rete elettrica e tutte sono state respinte. L’esperienza insegna che Israele non concede, o difficilmente lo fa, permessi di costruzione nell’area C (che copre circa il 60% della Cisgiordania, ed è sotto totale controllo israeliano). Il tentativo olandese di ottenere un permesso dall’Amministrazione Civile per un progetto, una prova del nove, non ha condotto a risultati positivi. In quanto forza occupante, ad Israele è vietato distruggere e confiscare le proprietà, tranne che in caso di necessità in tempo di guerra.

Anche la Francia ha annunciato orgogliosamente di essere stata partner nella costruzione umanitaria nell’area C e ad Abu Nuwwar. Anche la Francia ha condannato le ultime demolizioni ed ha chiesto che venissero restituite le strutture confiscate. In sei mesi Israele ha demolito 259 strutture palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est, afferma il comunicato di condanna francese. Nello stesso periodo il governo israeliano ha approvato la costruzione di oltre 10.000 unità abitative nelle colonie – tre volte di più che in tutto l’anno scorso.

Quindi la distruzione delle comunità palestinesi, l’evacuazione della famiglia Shamasneh dalla sua casa a Gerusalemme e i piani del ministro della Difesa Avigdor Lieberman di demolire Sussia e Khan al-Akhmar sono l’altra faccia della medaglia della costruzione delle colonie.

E’ così che Israele attua un’espulsione graduale. In assenza di sanzioni, può tirare un profondo respiro di sollievo e la sua fiducia nella propria capacità di attuare il suo piano è salda. Chi meglio di voi, e soprattutto della vostra vicina Germania, sa a cosa conducono i piani di espulsione limitata, e quale mentalità criminale producono nella società che li progetta?
(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La polemica su Shaked e sul sionismo

Nota redazionale: le dichiarazioni della ministra della Giustizia Ayelet Shaked hanno innescato una dura polemica sul giornale israeliano di centro-sinistra “Haaretz” tra le posizioni espresse dallo storico israeliano Daniel Blatman, da Gideon Levy, una delle firme più note del quotidiano, e dalla sua collega Ravit Hecht.

Riteniamo interessante per il lettore riportare lo scambio di opinioni tra gli editorialisti non solo per la questione specifica del giudizio sulle esternazioni di Shaked, quanto soprattutto perché evidenziano una visione radicalmente diversa del sionismo e della sua natura, sintetizzata in questi articoli di fondo e rappresentativa della divisione all’interno della sinistra israeliana. Blatman ritiene che la visione di Shaked rappresenti una novità nel campo sionista, Levy che si tratti di una manifestazione esplicita di quello che il sionismo è sempre stato come ideologia razzista basata su criteri etnico-religiosi, Hecht invece ritiene che si tratti di una sua degenerazione ideologica e politica propugnata dall’estrema destra israeliana. Infine Levy ribadisce la sua opinione, sostenendo che tra le posizioni di Hecht e di Shaked c’è una differenza di forma ma non di sostanza.

  1. Il nuovo sionismo nazionalista

La visione del mondo della ministra della Giustizia Shaked ricorda la xenofobia razzista degli Stati del sud degli USA dagli anni ’30 in poi

 Daniel Blatman, 1 settembre 2017 , Haaretz

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked si pone sempre più come leader del nuovo sionismo. Ciò non è solo la conseguenza della rivoluzione costituzionale che sta conducendo, cercando di cambiare l’immagine della Corte Suprema, o della serie di proposte di legge che sta promuovendo, compresa la legge sullo Stato-Nazione. Queste sono solo manifestazioni concrete di una coerente e consolidata visione del mondo, incentrata sull’attuazione di una trasformazione ad ampio raggio delle fondamenta ideologiche su cui è stato fondato lo Stato di Israele.

Il sionismo di Shaked non è solo un’ulteriore variazione ebraica dell’idea liberale nazionalista europea della seconda metà del XX secolo, della scuola di Theodor Herzl, Chaim Weizmann, Ze’ev Jabotinsky ed altri. Il nuovo sionismo di Shaked è una sintesi rivoluzionaria dell’etica colonialista del movimento laburista e delle componenti ebree etnocentriche-razziste, che insieme portarono ad un’importante revisione delle definizioni fondamentali dello Stato ebraico. Shaked sta essenzialmente cercando di sostituire l’idea sionista – la quale, al di là delle dispute che si sono create tra le sue varie componenti, era incentrata sulla sovranità ebraica come necessità esistenziale di un popolo perseguitato – con una basilare consapevolezza che definisce lo Stato di Israele come uno Stato uni-etnico, che attuerà la visione ebraica antiliberale del colonialismo. Le sue dichiarazioni di questa settimana alla conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani [Israel Bar Association] a Tel Aviv sono state un’altra tappa della messa a punto di questa ideologia.

Shaked ha già pubblicato recentemente i principi della sua visione del mondo in un articolo della rivista “Hashiloach”, e questo è anche il concetto centrale della proposta di legge sullo Stato-Nazione che sta promuovendo.

Lo Stato ebraico perciò è lo Stato del popolo ebreo. E’ diritto naturale del popolo ebreo vivere come ogni altra nazione,” scrive. “Uno Stato ebraico è uno Stato la cui storia è intrecciata e intessuta nella storia del popolo ebreo, la cui lingua è l’ebraico e le cui principali festività rappresentano la sua rinascita nazionale. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale l’insediamento di ebrei nei suoi campi, città e villaggi è una preoccupazione di primaria importanza. Uno Stato ebraico è uno Stato che favorisce la cultura ebraica, l’educazione ebraica e l’amore per il popolo ebreo. Uno Stato ebraico è la realizzazione di generazioni di aspirazioni per il riscatto ebreo. Uno Stato ebraico è uno Stato i cui valori derivano dalla sua tradizione religiosa, in cui la bibbia è il libro fondamentale ed i profeti di Israele il fondamento morale. Uno Stato ebraico è uno Stato in cui la legge ebraica riveste un ruolo importante. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale i valori della Torah di Israele, i valori della tradizione ebraica ed i valori della legge ebraica sono tra i suoi valori fondamentali.”

Nonostante Shaked si sforzi di presentare la sua visione del mondo come fondata sui principi classici neoconservatori e tenda ad usare citazioni di Milton Friedman [economista e teorico ultraliberista, ndt.], la sua visione del mondo proviene da zone molto più oscure. Più che il conservatorismo americano della fine del XX secolo, la sua visione del mondo ricorda la xenofobia razzista del sud degli Stati Uniti dagli anni ’30 in poi, e la destra razzista ostile all’immigrazione, che prospera oggi nei Paesi creati dal colonialismo europeo. La sua dichiarazione secondo cui “il sionismo non deve continuare, e non continuerà, a chinare la testa di fronte ad un sistema di diritti individuali interpretati in termini universalistici”, lo testimonia chiaramente.

Negli anni ’30, quelli della grande depressione e della nascita dei regimi totalitari in Europa, l’idea universalistica di diritti individuali affrontò una grave crisi negli Stati Uniti. Il rischio di guerra e di tensioni interrazziali creò difficoltà per gli attivisti dei diritti umani, soprattutto visti gli appelli a ridefinire l’essenza dell’ “americanismo” e lo status delle minoranze del Paese, definito attraverso la razza, il colore della pelle, la religione o la provenienza etnica. L’attacco ai diritti di queste minoranze si intensificò anche a causa della crescente popolarità del fascismo europeo, che propugnava la definizione di Stato come una comunità selettiva e collettiva, che escludeva chiunque non appartenesse alla collettività. Questo valeva specialmente negli Stati del sud dell’America e si manifestava attraverso le leggi a favore della segregazione razziale della regione.

La visione di Shaked dello Stato ebraico è parallela a ciò che i sudisti negli anni ’30 chiamavano “preservare lo stile di vita americano”. Per preservare questo concetto, non solo si potevano emanare leggi che lo sostenessero e lo difendessero dal doversi inchinare ai diritti umani; si poteva anche difenderlo con la violenza. Centinaia di casi di linciaggi e violenze contro i neri sono la prova più lampante di quanto fossero profondamente radicate queste concezioni. Israele non è così distante da fenomeni simili di violenza aggressiva non statale, per esempio contro i richiedenti asilo o contro i palestinesi. Ma ciò che caratterizzava in ultima istanza il sud americano era il suo sistema legale di segregazione razziale unico. A questo punta Shaked.

Tuttavia bisogna ricordare che la separazione geografica non è mai stata il principale obiettivo dei bianchi nel sud americano. Certamente essi accettavano la realtà, forse anche la necessità, che i bianchi e i neri vivessero gli uni accanto agli altri, interagendo tra loro e mantenendo relazioni basate su interessi economici o esigenze occupazionali. Tutto era soggetto ai dettami della gerarchia razziale, o ciò che un ricercatore ha definito “l’era del capitalismo razzista.”

A questo conduce la visione sionista di Shaked. Invece della supremazia bianca, avremo la supremazia ebraica, insieme ad una visione etnocentrica-razzista che consentirà alcune prassi economiche vitali. Dopotutto, lo Stato ebraico di Shaked non intende separarsi dai palestinesi e certamente non vuole renderli cittadini. Proprio come nel sud americano la segregazione e la discriminazione politica contro i neri ha creato un ordine sociale e politico brutale e razzista, così sarà nel nuovo Stato nazional-sionista di Shaked, che non accetterà di inchinarsi alle definizioni universali dei diritti individuali e continuerà ad opprimere brutalmente le minoranze, la cui unica difesa contro la tirannia ideologica che lei propugna sono proprio quelle definizioni universali.

All’interno di questa visione dobbiamo inserire anche la paura dei rifugiati e il desiderio di espellerli dal Paese ad ogni costo. L’atteggiamento razzista nei loro confronti è un fenomeno familiare nelle società con un passato ed una tradizione coloniali, di cui Israele fa parte. Dietro all’approccio che considera i rifugiati una minaccia c’è la necessità di preservare la superiorità etnica della maggioranza coloniale, la cui presa sul territorio in cui vive non ha ancora superato l’esame della legittimazione storica a lungo termine. Ecco perché la necessità di controllare rigidamente le frontiere – quelle territoriali, ma soprattutto quelle etniche e razziali – è così cruciale. I migranti e i rifugiati spezzano questi confini; sono diversi per colore, per religione e stile di vita e quindi non solo recano danno all’egemonia etnica, ma potrebbero anche annacquare le caratteristiche umane della maggioranza della società e trasformarla in un’entità etnica e culturale differente da quella originaria.

Si tratta di un concetto nuovo dello Stato di Israele. Il concetto di Shaked di superiorità etnica ebrea poggia non solo su un’ideologia rigidamente chiusa, ma sulle politiche della paura. L’arena politica israeliana è oggi controllata da partiti che propugnano una politica della paura e Shaked vi ricopre un ruolo importante. Il messaggio principale di questa politica della paura è la necessità di mantenere l’identità ebraica dello Stato contro il mondo minaccioso che potrebbe sopraffarla ed eliminarla. Le componenti arabe, islamiche ed africane che circondano lo Stato ebraico da ogni lato potrebbero spazzarla via se essa non si rafforzerà per impedire una simile tremenda invasione.

Proprio come l’estrema destra in Australia o negli Stati Uniti cerca di erigere un muro di leggi, supportato da una potente flotta o da veri e propri muri lungo i confini a protezione della patria (quella coloniale, ricordiamoci) da ogni parte dalle infiltrazioni dal Messico o dall’Afghanistan, allo stesso modo Shaked ed i suoi colleghi stanno promuovendo una legislazione supportata da barriere, checkpoint e da un potente esercito che blinda i confini israeliani dalle orde minacciose delle masse nere. Questa combinazione di superiorità etnico-razziale, legislazione apposita e castrazione del sistema giudiziario in modo che non possa proteggere ciò che Shaked disprezza tanto – le definizioni universalistiche dei diritti universali – sta dando luogo al nuovo nazional-sionismo, il successore del sionismo storico.

Il professor Blatman è uno storico dell’università ebraica di Gerusalemme.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

  1. La ministra israeliana della verità

    La ministra israeliana della Giustizia ha detto chiara e forte la verità: il sionismo si contrappone ai diritti umani, e quindi è proprio un movimento ultranazionalista, colonialista e forse razzista

 Gideon Levy, 1 settembre 2017,Haaretz

Grazie, Ayelet Shaked, per aver detto la verità. Grazie per aver parlato onestamente. La ministra della Giustizia ha dimostrato ancora una volta che l’estrema destra israeliana è meglio degli impostori del centrosinistra: parla con sincerità.

Se nel 1975 Chaim Herzog [all’epoca ambasciatore israeliano all’ONU, ndt.] stracciò platealmente una copia della Risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale dell’ONU che metteva sullo stesso piano sionismo e razzismo, la ministra della Giustizia ha ora ammesso la veridicità di quella risoluzione (che venne in seguito revocata). Shaked ha detto, forte e chiaro: il sionismo è in contrasto con i diritti umani e quindi è in realtà un movimento ultranazionalista, colonialista e forse anche razzista, come i fautori della giustizia sostengono in tutto il mondo.

Shaked predilige il sionismo rispetto ai diritti umani, la suprema giustizia universale. Crede che noi abbiamo un diverso tipo di giustizia, superiore a quella universale. Il sionismo al di sopra di tutto. E’ già stato detto prima, in altre lingue e da altri movimenti nazionalisti.

Se Shaked non avesse contrapposto tra loro questi due principi, avremmo continuato a credere ciò che ci è stato inculcato fin dall’infanzia: il sionismo è un movimento giusto e moralmente ineccepibile. Santifica l’uguaglianza e la giustizia: basta vedere la nostra dichiarazione d’indipendenza. Abbiamo imparato a memoria: “l’unica democrazia del Medio Oriente”, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, “tutti sono uguali nello Stato ebraico”; abbiamo appreso della giustizia della Corte Suprema araba e del ministro del governo druso. Che cosa possiamo volere di più? E’ tutto così giusto, così equo, potremmo esclamare.

Se tutto ciò fosse vero, Shaked non avrebbe motivo di ergersi a difesa del sionismo nei confronti dei diritti umani. Per lei e per la destra, la discussione sui diritti umani e civili è antisionista, addirittura antisemita. Mira a indebolire e a distruggere lo Stato ebraico.

Quindi Shaked crede, come tanti in tutto il mondo, che Israele sia edificato su fondamenta di ingiustizia e che perciò debba essere difeso dal discorso ostile sulla giustizia. In quale altro modo si potrebbe spiegare il rifiuto di discutere sui diritti? I diritti individuali sono importanti, lei dice, ma non quando sono slegati dall’ “impresa sionista”. E nuovamente: l’impresa sionista è in realtà in contraddizione con i diritti umani.

Quali sono oggi le sfide sioniste? “Giudaizzare” il Negev e la Galilea, eliminare gli “infiltrati”, coltivare il carattere ebraico di Israele e preservare la sua maggioranza ebraica. L’occupazione, le colonie, il culto della sicurezza, l’esercito – che è essenzialmente un esercito d’occupazione – questo è il sionismo nel 2017 circa. Tutti i suoi elementi sono il contrario della giustizia. Dopo che ci è stato detto che sionismo e giustizia sono fratelli gemelli, che nessun movimento nazionale è più giusto del sionismo, arriva Shaked e dice: è proprio il contrario. Il sionismo non è giusto, è contrario alla giustizia, ma noi dobbiamo stringerci ad esso e preferirlo alla giustizia, perché è la nostra identità, la nostra storia e la nostra missione nazionale. Nessun militante del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni potrebbe dirlo più nettamente. Ma nessuna Nazione ha il diritto di rifiutare i principi universali e di inventarsi i propri principi, che chiamano giorno la notte, definiscono l’occupazione giusta e la discriminazione uguaglianza.

Il sionismo è la religione fondamentalista di Israele e, come in ogni religione, è proibito negarla. In Israele, “non sionista” o “antisionista” non sono insulti, sono ordini sociali di espulsione. Non c’è niente del genere in nessuna società libera. Ma adesso che Shaked ha messo a nudo il sionismo, ha messo la mano sul fuoco ed ha ammesso la verità, possiamo finalmente pensare al sionismo in modo più libero. Possiamo ammettere che il diritto degli ebrei ad uno Stato è in contraddizione con il diritto dei palestinesi alla propria terra, e che il sionismo di destra ha dato origine ad un terribile errore nazionale che non è mai stato sanato; che ci sono modi per risolvere e riparare a questa contraddizione, ma gli israeliani sionisti non saranno d’accordo.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che sono d’accordo con le affermazioni di Shaked e quelli che non lo sono. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked

Il mio collega Gideon Levy preferisce gli estremisti di destra alla sinistra perché dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente opinioni pericolose ma popolari tra la gente

 Ravit Hecht – 1 settembre 2017, Haaretz

 

Nel suo pezzo di ieri [in realtà del 1 settembre, ndt.], Gideon Levy ha ringraziato la ministra della Giustizia Ayelet Shaked per aver detto la verità; Shaked ha detto che il sionismo non si inchinerà più alla Corte Suprema. La ministra sta quindi continuando con la sua campagna di provocazione contro la Corte, una campagna che sta prosperando in tutta la destra.

Dal testo di Levy emana un aroma di amore vero per la sua onesta ed audace principessa. Il suo editoriale trasmette un messaggio di ammirazione tra  radicali che dicono le cose come stanno nella loro corsa a fare danni.

E danni sono stati fatti. Che rivoluzione. Apocalypse now. La corte aggressivamente intimidita, e presto i media saranno finalmente addomesticati e messi a tacere. Il razzismo sta avendo un’impennata con l’incoraggiamento dei dirigenti e la corruzione dilaga, senza bisogno di travestirsi, per la semplice ragione che nessuno se ne vergogna più.

Tutto ciò si aggiunge alla calamità dell’occupazione – effettivamente una grande calamità –, che è l’unica cosa che Levy vede. Per quanto lo riguarda, senza risolvere questo disastro, ogni altra cosa potrebbe essere e sarà distrutta. Ciò include, per esempio, il suo diritto fondamentale di dire la sua opinione su Israele, o semplicemente di vivere qui senza essere spedito in un campo di rieducazione se rifiuta di giurare fedeltà al capo della coalizione David Bitan [della destra del Likud, ndt.].

Il danno dell’alleanza di Levy con gente come Shaked è la sua opinione secondo cui quello che Shaked, il ministro del Turismo Yariv Levin e quelli come loro stanno proponendo è il sionismo. Non lo è. E’ una sadica distorsione che interpreta la giustificata difesa degli ebrei attraverso la fondazione di una patria come una selvaggia aggressione verso l’esterno (contro i palestinesi) e verso l’interno (contro chi critica il governo). Chaim Herzog [all’epoca dell’episodio citato ambasciatore di Israele all’ONU, ndt.] aveva ragione a stracciare la risoluzione ONU che sosteneva che il sionismo era una forma di razzismo, perché il sionismo è stato una risposta al razzismo, alla persecuzione degli ebrei ovunque nel mondo e alla reale minaccia alla loro esistenza.

Senza sminuire la tragedia del popolo palestinese nel 1948, senza discolpare il partito Mapai, il predecessore del partito Laburista, per i suoi errori storici, e senza nulla togliere al ruolo del Likud nel fomentare le colonie e nell’accentuare la divisione tra israeliani, la disastrosa destra che è cresciuta negli ultimi anni è una questione completamente diversa. Non è un’evoluzione inevitabile del sionismo o una sua veritiera manifestazione, come sostiene Levy, ma un’espressione di pulsioni malefiche e pericolose – parte di un contesto globale avvelenato – che dirigenti normali ed accettabili hanno l’obbligo di frenare.

Levy preferisce la leadership di Shaked, di Miki Zohar [dirigente della destra del Likud, ndt.] e di Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra “Casa ebraica”, ndt.] ai dirigenti del Likud liberali, sicuramente agli abominevoli dirigenti del Mapai, perché essi dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente sentimenti popolari tra la gente. Non per fare un paragone diretto, ma anche Hitler diceva la verità, esprimendo i desideri segreti di molti, tedeschi e non solo. Né si faceva molti scrupoli nel metterli in pratica. Nei testi di storia era meglio lui dei dirigenti del suo tempo che dimostravano moderazione?

E’difficile ignorare il tango perfetto danzato da Shaked e Levy. Lei vuole un Israele più grande come parte della fantasia di una dominazione ebraica sancita dalla Bibbia, e lui vuole uno Stato binazionale come parte di un’esotica incursione nel campo del radicalismo selvaggio. Lei vede gli ebrei come una razza dominatrice con privilegi e gli arabi come una spina nel nostro fianco, mentre lui vede gli ebrei come i cattivi e gli arabi come carini Tamagogi senza responsabilità storiche per la loro difficile situazione.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che concordano con le affermazioni di Shaked, e quelli che discordano. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione,” sintetizza Levy .

Ci sono ancora alcuni fautori della giustizia in Israele che credono nel principio fondamentale del sionismo del diritto degli ebrei ad avere una patria in Israele e al contempo aborrono nel profondo l’affermazione di Shaked. Né lei né Gideon Levy li faranno scomparire.

(traduzione di Amedeo Rossi)

Il tango sionista

Perché l’onesto razzismo del ministro della Giustizia Ayelet Shaked è preferibile alle false opinioni della sinistra israeliana.

 Gideon Levy – 3 settembre 2017, Haaretz

Ravit Hecht , nel suo editoriale “Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked”, mi attribuisce un “aroma di amore vero” per la mia “onesta ed audace principessa”, la ministra della Giustizia Shaked. Hecht sa che i miei gusti in fatto di donne sono leggermente diversi, e che, nonostante quello che lei scrive, non so ballare il tango. Ma il mio apprezzamento per Shaked e per gente come lei è che non deludono: riconoscono apertamente il loro nazionalismo ed il loro razzismo. 

Non nascondono le loro opinioni secondo cui i palestinesi sono un popolo inferiore, abitanti indigeni che non si guadagneranno mai i diritti che gli ebrei hanno sulla terra di Israele-Palestina; che nessuno Stato palestinese vi sarà mai fondato; che Israele alla fine si annetterà tutti i territori occupati, come ha già fatto nella pratica; che gli ebrei sono il popolo eletto; che il sionismo è in contraddizione con i diritti umani ed è superiore a essi; che la spoliazione è redenzione; che i diritti biblici di proprietà sono eterni; che non esiste un popolo palestinese e non vi è un’occupazione; che l’attuale situazione durerà  per sempre.

Molte di queste opinioni sono diffuse anche tra la sinistra sionista, il campo ideologico di Hecht. L’unica differenza è che la sinistra sionista non le ha mai ammesse. Sviluppa le proprie opinioni nella luccicante carta da regalo dei colloqui di pace, della separazione e nel vuoto discorso dei due Stati, parole che non ha realmente inteso dire e che ha fatto ben poco per realizzare.

Questa è la ragione per cui preferisco Shaked. Con lei, quello che vedi è quello che hai – razzismo. Nelle sue azioni e nei suoi fatti, la sinistra sionista ha fatto di tutto per mettere in pratica le opinioni di Shaked, solo con parole ben educate e senza ammetterlo. La sinistra sionista è in imbarazzo per le cose di cui Shaked e i suoi colleghi non si vergognano. Ciò non rende la sinistra più morale o giusta. Nelle sue azioni è semplicemente stata quasi come Shaked.

L’occupazione non è stata meno crudele sotto i governi della sinistra israeliana, che è stata il padre fondatore dell’impresa di colonizzazione. Questi prìncipi della pace, Shimon Peres e Yitzhak Rabin, hanno fondato più colonie di Shaked e provocato la morte di più arabi. La sinistra ha entusiasticamente difeso ogni operazione militare che Israele ha condotto e ogni azione brutale commessa dall’esercito israeliano. Non è semplicemente rimasta in silenzio di fronte a queste azioni, le ha appoggiate. Sempre.

Le operazioni “Piombo fuso “ e “Margine protettivo” contro Gaza (nel 2008-09 e nel 2014, rispettivamente) hanno implicato migliaia di morti senza senso, e la maggioranza della sinistra sionista le ha appoggiate. La maggioranza di quelli di sinistra ha appoggiato l’assedio di Gaza, le esecuzioni ai posti di blocco, i rapimenti notturni, le detenzioni amministrative, gli abusi, la spoliazione e l’oppressione – durante questi fatti la sinistra è rimasta totalmente silenziosa.

Ma la verità è che non si tratta di Shaked e non si tratta della sinistra. E’ il sionismo. Danni sono stati fatti, come ha scritto la stessa Hecht. Ma invece di cercare di riparare le fondamenta instabili, tutto Israele – e non solo la destra – ha fatto il possibile per indebolirle ancor di più.

Sì, questo riguarda la guerra d’indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i palestinesi ed i Paesi arabi da cui è nato Israele, ndt.], di cui bisogna discutere anche se è imbarazzante. Lo spirito del 1948 non ha mai smesso di soffiare qui e, a questo proposito, Shaked e Hecht sono dalla stessa parte. Secondo il loro punto di vista c’è solo un popolo qui che deve essere preso in considerazione, solo una vittima, e ha il diritto di fare tutto il danno che vuole all’altro popolo. Questa è l’evoluzione sostanziale del sionismo.

Ciò avrebbe potuto e dovuto essere modificato, senza venir meno al diritto degli ebrei ad avere uno Stato. Ma la sinistra sionista non lo ha mai fatto. Non ha mai riconosciuto la Nakba [l’espulsione dei palestinesi nel 1947-48 dal territorio che sarebbe diventato Israele, ndt.] patita dai palestinesi, e non ha mai fatto niente per espiare i propri crimini. Ciò non è mai avvenuto perché la sinistra sionista crede esattamente in quello in cui crede Shaked.

E’ vero, ci sono molte altri problemi per cui la destra provoca disastri nazionali che la sinistra non avrebbe mai creato. Ma dall’altra parte della frontiera vive un popolo che negli ultimi 50 anni – in realtà negli ultimi 100 – ha sofferto ed è stato oppresso. Non passa un giorno senza che crimini orrendi vengano commessi contro di lui. Non possiamo dire: “Abbiate pazienza. Al momento siamo impegnati con lo status della Corte Suprema.”

E sul problema veramente fondamentale che oscura tutti gli altri, Shaked e Hecht stanno danzando un tango perfetto insieme, con un aroma di vero amore che emana da entrambe – un tango sionista.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il ministro della Giustizia critica l’Alta Corte israeliana, dice che ignora il sionismo e la difesa della maggioranza ebraica

Revital Hovel

29 agosto 2017, Haaretz

Ayelet Shaked sostiene che il sistema giuridico israeliano assegna un’importanza eccessiva ai diritti individuali, definendo la legge sullo Stato-Nazione una “rivoluzione morale e politica”.

Martedì il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha criticato la Corte Suprema, affermando che il sistema giudiziario non prende sufficientemente in considerazione il sionismo e la maggioranza ebraica del Paese.

Parlando durante una conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani a Tel Aviv, Shaked ha detto che il sionismo e “le sfide nazionali sono diventati una zona d’ombra legale” che non hanno un peso determinante rispetto alle questioni dei diritti individuali. Ha aggiunto che le decisioni della corte non prendono in considerazione la questione demografica e che la maggioranza ebraica “ha un valore che dovrebbe essere tenuto in conto.”

Le osservazioni di Shaked sono arrivate il giorno dopo che la Corte Suprema, nelle vesti di Alta Corte di Giustizia, ha deciso che i richiedenti asilo possono essere deportati in Rwanda e in Uganda, ma non possono essere incarcerati per più di due mesi se rifiutano di andarsene.

Il sionismo non può continuare, e lo affermo in questa sede, non continuerà ad inchinarsi al sistema dei diritti individuali interpretati in un modo universalistico che li separa dalla storia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndt.] e dalla storia della legislazione che tutti noi conosciamo,“ ha detto Shaked al suo pubblico, che includeva il procuratore generale Avichai Mendelblit, la presidentessa della Corte Suprema Miriam Maor, il procuratore di Stato Shai Nitzan e l’avvocato generale militare, generale Sharon Afek.

Il discorso di Shaked è stato momentaneamente interrotto quando alcuni avvocati tra il pubblico hanno urlato che quello israeliano è uno Stato dell’apartheid.

Il ministro ha detto anche che la legge sullo Stato-Nazione presentata ora dal governo sarà una “rivoluzione morale e politica”. La controversa legge sostiene che Israele è “la patria del popolo ebraico” e che il diritto a realizzare l’autodeterminazione nello Stato è solo suo [del popolo ebraico].

Shaked ha detto che le sentenze della corte riflettono un atteggiamento secondo il quale “la questione della maggioranza ebraica non è comunque rilevante.” Riguardo alla decisione dell’Alta Corte ha aggiunto: “Non è importante quando stiamo parlando di infiltrati dall’Africa che si sono stabiliti nel sud di Tel Aviv ed hanno formato una città nella città, espellendo gli abitanti dai quartieri e la risposta del sistema giudiziario in Israele è di bocciare in continuazione la legge che intende affrontare la questione.”

Riguardo alla maggioranza ebraica, Shaked ha anche citato l’aumento della popolazione ebraica in Galilea.

Shaked ha detto di considerare importante il sistema dei diritti individuali ma “non quando è slegato dal contesto, dai nostri compiti nazionali, dalla nostra identità, dalla nostra storia, dalle nostre sfide sioniste.”

Ha aggiunto che “a partire dalla rivoluzione dei diritti abbiamo smesso di vedere noi stessi come una comunità.”

Riguardo alla legge sullo Stato-Nazione, Shaked ha detto che quelli che vi si oppongono “credono che una Legge fondamentale che dia la preminenza ai nostri valori nazionali e sionisti ci renderà meno democratici. Io, al contrario, vedo i diritti individuali che la Knesset ha riconosciuto come una verità assoluta, così come anche i nostri valori nazionali e sionisti.”

Ha aggiunto: “Solo una rivoluzione morale e politica, sulla linea di quella che abbiamo sperimentato negli anni ’90, che riconfermerà i principali risultati del sionismo fin dalla sua concezione, cambierà questa tendenza problematica.” Il ministro ha affermato che questa tendenza ha portato ad una “interpretazione giuridica che ha trasformato la nostra unicità nazionale in un simbolo e un vascello vuoti.”

Rispondendo alle affermazioni di Shaked, il leader dell’opposizione nella Knesset, il parlamentare dell’ “Unione sionista” Isaac Herzog ha detto: “Di fronte ad un governo che sta ignorando gli orfani, i disabili, gli stranieri e le vedove, abbiamo bisogno di un forte sistema giudiziario che non si mostri di parte. I partiti della coalizione [di governo] dovrebbero togliersi dalla testa la rivoluzione di Shaked, per il bene del popolo nel suo complesso.”

La dirigente della corrente “Hatnuah” dell’ “Unione sionista”, Tzipi Livni, ha detto: “Il sionismo non si sta inchinando ai diritti umani. Sta tenendo orgogliosamente la testa alta, perché la protezione (dei diritti umani) è anche l’essenza dell’ebraismo e parte dei valori di Israele in quanto Stato ebraico e democratico.”

In risposta alla decisione di lunedì sui richiedenti asilo, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro dell’Interno Arye Dery, insieme a Shaked, hanno chiesto norme che consentano la deportazione dei richiedenti asilo contro la loro volontà. Il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan ha criticato la sentenza della Corte Suprema, affermando che rende nulla la sua decisione, quando era ministro dell’Interno, “di mettere in pratica la politica di espulsione verso un Paese terzo e priva lo Stato di un efficace strumento per espellere infiltrati.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’Europa non deve comprare ciò che Israele vende per combattere il terrorismo

Jeff Halper, 20 agosto 2017 , Haaretz

Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in lavoro a domicilio ed ora vende al mondo intero il concetto di stato di polizia.

Ogni volta che avviene un attacco terroristico, come quello della scorsa settimana a Barcellona, i politici e gli “esperti” di sicurezza israeliani appaiono in televisione per criticare l’ingenuità degli europei. Se solo comprendessero il terrorismo come facciamo noi e prendessero le misure preventive che prendiamo noi, dicono, subirebbero molti meno attacchi. I più spregevoli in proposito sono stati i commenti del ministro israeliano dell’Intelligence Yisrael Katz dopo le bombe di Bruxelles nel marzo 2016, in cui morirono 34 persone.

Invece di porgere le condoglianze a nome del governo israeliano, ha inveito contro i belgi nel più arrogante dei modi. “Se in Belgio continuano a mangiare cioccolato, a godersi la vita e ad atteggiarsi a grandi liberali e democratici, senza tener conto del fatto che alcuni dei musulmani che vivono là organizzano azioni terroristiche,” ha sentenziato, “non saranno in grado di combatterli.”

I belgi hanno reagito con rabbia e ribadito la posizione della maggior parte dei governi europei: mentre continueremo ad essere vigili ed a prendere le necessarie precauzioni, non intendiamo sacrificare le nostre libertà e la nostra apertura politica per diventare delle copie di Israele. Poiché essi comprendono che il governo Netanyahu sta spacciando qualcosa di molto più insidioso delle mere precauzioni – ancor più delle armi, dei sistemi di sorveglianza e sicurezza e dei modelli di controllo della popolazione, che sono il pane delle esportazioni israeliane. Ciò che Israele raccomanda agli europei – e agli americani, canadesi, indiani, messicani, australiani ed a chiunque altro li ascolterà – è nulla di meno che un concetto del tutto nuovo di Stato, lo Stato sicuritario.

Che cos’è uno Stato sicuritario? Essenzialmente, è uno Stato che pone la sicurezza al di sopra di ogni altra cosa, sicuramente al di sopra della democrazia, del dovuto rispetto della legge e dei diritti umani, tutte cose che considera “lussi liberali” in un mondo sopraffatto dal terrorismo. Israele si presenta niente di meno che come il modello per i Paesi del futuro. Voi europei ed altri non dovreste criticarci, dicono Katz e Netanyahu, dovreste imitarci. Guardate che cosa abbiamo fatto. Abbiamo creato una democrazia vivace dal Mediterraneo al fiume Giordano, che dispensa ai suoi cittadini una florida economia e la sicurezza personale – anche se la metà della popolazione di quel Paese sono dei terroristi (cioè palestinesi senza cittadinanza che vivono in enclave isolate del Paese). Se noi possiamo ottenere questo, potete immaginare che cosa possiamo offrire a chi di voi è minacciato dagli attacchi terroristici?

Con un brillante ribaltamento dell’immagine, Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in un’industria a domicilio. Etichettandola come “terrorismo”, non solo ha delegittimato la lotta palestinese, ma ha trasformato i territori occupati in un laboratorio di contro insorgenza e controllo della popolazione, gli elementi di avanguardia sia delle guerre estere che della repressione interna. Ha trasformato le tattiche di controllo e gli strumenti bellici dei sistemi di sorveglianza ad esse corrispondenti in prodotti commercializzabili. Non c’è da stupirsi, come ci ricorda costantemente Netanyahu, che “il mondo” ami Israele. Dalla Cina all’Arabia Saudita, dall’India al Messico, dall’Eritrea al Kazakhstan, Israele fornisce gli strumenti con cui i regimi repressivi controllano i loro popoli in agitazione.

La vasta portata militare di Israele è ben documentata. Si dispiega in oltre 130 Paesi ed ha apportato sei miliardi e mezzo di esportazioni nel 2016. Meno note ma più dannose per i diritti civili sono le esportazioni di Israele nel settore della sicurezza. Tre esempi:

1. Israele spinge le agenzie di sicurezza e le forze di polizia straniere a fare pressione per [l’adozione di] prassi da Stato sicuritario nei loro stessi Paesi. Irride alla mancanza di volontà delle democrazie occidentali di impiegare i profili etnici e razziali, come fanno la sicurezza e la polizia israeliane all’aeroporto internazionale Ben Gurion ed in tutto il Paese. In contesti specifici come gli aeroporti, i profili possono certamente essere efficaci – il Ben Gurion è senza dubbio uno degli aeroporti più sicuri al mondo – ma questo avviene al prezzo di umiliare e far perdere tempo alle persone prese di mira. Comunque, quando vengono estesi al resto della società, perdono quell’efficacia e quasi invariabilmente si trasformano in un metodo legalizzato di intimidazione nei confronti di chiunque un governo voglia controllare.

2. La polizia nazionale israeliana svolge decine di programmi e conferenze di formazione delle forze di polizia di tutto il mondo, in cui pone l’accento non sulle tattiche di polizia interne, ma piuttosto sulla “contro insorgenza interna” e la pacificazione delle popolazioni che creano problemi. Il Centro ‘International Law Enforcement Exchange’ della Georgia negli Stati Uniti sostiene che 24.000 poliziotti americani sono stati formati dalla controparte israeliana. A differenza di altri Paesi occidentali, che pongono un netto discrimine tra i loro militari che conducono operazioni all’estero e le proprie agenzie di polizia e di sicurezza interna incaricate di garantire la sicurezza, ma anche i diritti civili dei loro cittadini, Israele non ha simili limiti interni. L’esercito e la polizia costituiscono un’unità interconnessa, con forze paramilitari – lo Shin Bet (servizi di sicurezza interna, ndtr.), la polizia di frontiera, il comando patriottico, Yasam (unità speciale antisommossa della polizia israeliana, ndtr.) ed altre – che li mettono ulteriormente in comunicazione tra loro. Quindi in Israele la distinzione tra cittadini con diritti civili e non cittadini “sospetti” e presi di mira si perde, e si tratta di una distinzione che la politica israeliana tenta di cancellare anche nella sua attività di formazione della polizia straniera.

3. Israele è un leader mondiale nella messa in sicurezza delle città, dei grandi eventi e delle aree “non governabili”. C’è un legame diretto tra la chiusura dei quartieri, villaggi e campi profughi palestinesi e la vendita di queste tattiche alla polizia locale per creare “zone di sicurezza” sterilizzate e “difese perimetrali” intorno a centri finanziari, distretti governativi, ambasciate, sedi in cui il G-8 e la NATO tengono i loro incontri al vertice, piattaforme petrolifere e depositi di carburante, centri di conferenze in ambienti “insicuri” del Terzo Mondo, località turistiche, centri commerciali, porti ed aeroporti, siti di grandi eventi e le case e gli itinerari di viaggio dei ricchi. Israele è altrettanto coinvolto nella questione del muro di confine di Trump, che è soprannominato il “confine Palestina-Messico.”

Ci sono l’impresa israeliana Magna BSP, fornitrice dei sistemi di sorveglianza che circondano Gaza, che è entrata in partenariato con imprese statunitensi per inserirsi nel lucroso mercato della “sicurezza di confine” ; la NICE Systems, i cui tecnici sono laureati dell’unità di sorveglianza 8200 dell’esercito israeliano. La ‘Privacy International’ ha indagato su come i governi autocratici di Tajikistan, Kyrgyzstan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakhstan siano riusciti a monitorare attivisti per i diritti umani, giornalisti ed altri cittadini all’interno e fuori dai loro Paesi, rivelando i più intimi dettagli delle loro vite private. “I principali operatori”, ha concluso Human Rights Watch, “sono multinazionali con uffici in Israele – NICE Systems e Verint.”

Nella sua versione definitiva lo Stato sicuritario auspicato da Netanyahu e Katz è essenzialmente un modello di Stato di polizia in cui la popolazione è facilmente manipolata dall’ossessione della sicurezza. Il modello israeliano è particolarmente odioso perché funziona: ne è testimone la pacificazione dei palestinesi. Sembra senza dubbio un buon argomento pubblicitario. Il problema è che trasforma la gente stessa del Paese in palestinesi senza diritti. Sembrerebbe che lo Stato sicuritario possa conciliarsi con la democrazia – dopo tutto, Israele si spaccia come “l’unica democrazia nel Medio Oriente.” Ma solo i pochi privilegiati nel mondo potranno godere delle tutele democratiche dello Stato sicuritario, come fanno gli ebrei israeliani. Le masse, coloro che resistono alla repressione e all’esclusione da parte del sistema capitalistico, coloro che lottano per una vera democrazia, sono condannati ad essere palestinesi globali. L’ ‘israelizzazione’ di governi, eserciti e forze di sicurezza significa la ‘palestinizzazione’ della maggioranza di noi.

Jeff Halper è un antropologo israeliano, direttore del Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD) ed autore del libro “Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale” (Londra, Pluto Books, 2015).[di prossima edizione italiana, ndt]

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La sorveglianza di Gerusalemme rivela una “nuova generazione” di coloni ebrei radicali

Yotam Berger – 27 agosto 2017, Haaretz

Una fonte dello Shin Bet dice che il punto di svolta è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, e il comportamento prudente dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora, attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati.

Fino a poco tempo fa l’avamposto di Baladim, nei pressi della colonia di Kochav Hashahar in Cisgiordania, preoccupava molto il servizio di sicurezza Shin Bet. Considerava Baladim il centro del terrorismo ebraico in Cisgiordania e attribuiva attacchi contro molti palestinesi, attivisti di sinistra e soldati alle poche decine di giovani che vi si stabilivano in modo saltuariamente.

Da quando è stato evacuato due mesi fa, Baladim è rimasto praticamente vuoto; la cosiddetta “gioventù della collina” [“Hilltop Youth”, gruppi di giovani estremisti ebrei molto violenti, ndt.] non era tornata. Ma lo Shin Bet afferma che questa quiete è ingannevole: negli ultimi mesi la frangia di estremisti si è in realtà rafforzata. Lo Shin Bet la definisce “la seconda generazione dell’infrastruttura della rivolta.”

La prima generazione è stata responsabile, tra le altre azioni, dell’uccisione della famiglia Dawabsheh nel villaggio palestinese di Duma nel 2015 [in cui morirono bruciati vivi un bambino di 18 mesi e i suoi genitori, ndt.] e di aver incendiato la chiesa dei Pani e dei Pesci lo stesso anno. Ora lo Shin Bet teme una nuova ondata di terrorismo ebraico.

Ma persone al corrente sia del lavoro dello Shin Bet che dei “giovani delle colline” considera esagerati i termini “infrastruttura” e “organizzazione terroristica”. Questa “seconda generazione” è solo un gruppo amorfo, sostengono, ed i suoi membri – poche decine di persone dai 16 ai 25 anni – non funzionano come un’organizzazione coordinata e gerarchica.

Sia lo Shin Bet che molti dei giovani delle colline descrivono Meir Ettinger, un nipote del rabbino Meir Kahane [estremista ebreo americano razzista e fondatore del partito “Kach, ndt.] come il leader della prima generazione. Lo stesso nome “la rivolta” viene da un documento che egli scrisse delineando piani per rovesciare il governo. Ma persone in contatto con i giovani delle colline dicono che la decisione dello Shin Bet di fare di Ettinger il bersaglio ebreo più ricercato era essenzialmente una profezia che si autoavverava.

Se avesse potuto avrebbe mandato fiori allo Shin Bet,” dice uno. “Sono loro che hanno fatto di lui una rockstar.”

Lo Shin Bet è orgoglioso di aver smantellato la “prima generazione”, cosa che ha fatto in parte ponendone alcuni membri in detenzione amministrativa, o prigione senza imputazione, e colpendo altri con divieti di ingresso in Cisgiordania. Pur ammettendo che alcune di queste persone non avevano rapporti con gravi crimini come gli assassinii di Duma, lo Shin Bet afferma che queste misure discutibili erano necessarie per smantellare la rete terroristica.

Ma la nascita di una seconda generazione mette in questione l’efficacia di queste tattiche. Il punto di svolta, afferma una fonte dello Shin Bet, è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona in febbraio, e specialmente il comportamento cauto dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati. Lo Shin Bet sostiene che i coloni estremisti veterani hanno iniziato a tornare in Cisgiordania ed altri nuovi si sono uniti alle loro fila.

Il servizio di sicurezza afferma che questo in realtà dimostra l’efficacia delle sue misure amministrative: l’incremento [degli attacchi] è iniziato quando i divieti di ingresso in Cisgiordania sono scaduti. Riguardo alla nuova generazione, non ha subito queste misure, per cui i suoi membri “non provano il timore e l’effetto dissuasivo di molti attivisti veterani,” sostiene il servizio di sicurezza.

Secondo lo Shin Bet la “seconda generazione” consiste in qualche decina di persone. Dall’inizio dell’anno l’esercito israeliano ha emanato 47 ordini amministrativi contro di loro, di cui 28 sono ancora effettivi. Cinque sospetti sono attualmente in arresto, soprattutto per aver violato tali ordini – per esempio, per aver preso contatto con qualcuno che gli ordini vietavano di contattare – e poi hanno rifiutato la libertà condizionata. L’unico detenuto amministrativo, Elia Nativ, è stato rilasciato lo scorso fine settimana.

Il diciannovenne Nativ, della colonia di Yitzahr, è stato arrestato a giugno perché sospettato di coinvolgimento nell’incendio di due villaggi palestinesi e nel tentativo di danneggiare automobili diplomatiche a Gerusalemme nei pressi del consolato spagnolo e una struttura dell’ONU. Ma quando un giudice ha ordinato di liberarlo subito dopo per insufficienza di prove, lo Shin Bet lo ha posto in detenzione amministrativa per due mesi.

In un’intervista con Haaretz, il padre di Nativ, Yitzhak, ha smentito voci di una “seconda generazione della rivolta,” affermando di non pensare che suo figlio “abbia mai parlato con Ettinger.”

Persino il giudice li ha liberati,” nota. “Un’organizzazione terroristica è un’organizzazione che commette attacchi, che intende uccidere persone. Non è qualche ragazzino che lancia qualcosa. Che lo Shin Bet sia addirittura coinvolto in questa faccenda mi sembra allucinante.”

Una retata notturna a Gerusalemme pesca nove sospetti

Nativ è stato arrestato con altri otto durante una retata notturna in un appartamento di Gerusalemme di proprietà di un attivista dell’estrema destra che era all’estero. L’appartamento era abitato saltuariamente da circa 10 persone considerate membri della seconda generazione. Ma di questi arrestati solo Nativ e Hanoch Rabin – che lo Shin Bet considera in realtà parte della prima generazione – erano sospettati di reati contro la proprietà. E Rabin, che in precedenza aveva abitato in vari avamposti illegali in Cisgiordania, è stato rilasciato pochi giorni dopo.

Gli altri sono stati sospettati solo di aver violato ordini amministrativi, e molti sono stati rapidamente rilasciati. Ma uno, Yisrael Meir Samany di Gerusalemme, è stato di nuovo arrestato pochi giorni dopo insieme ad altre due persone, mentre portavano attrezzi che secondo lo Shin Bet pensavano di usare per danneggiare proprietà palestinesi. Un ragazzo di 16 anni che è stato arrestato con Samany è stato rilasciato, ma di nuovo arrestato qualche giorno dopo per aver violato un ordine amministrativo.

Lo Shin Bet afferma che la seconda generazione ha legami con la prima. In base alla sorveglianza dell’appartamento di Gerusalemme prima della incursione notturna, Rabin non era l’unico attivista della prima generazione che vi passava del tempo.

Un altro arrestato quella notte è stato Moshe Shahor, diciannovenne di Ramle, un altro attivista coinvolto in avamposti illegali. Suo nonno, Dov Lior, è rabbino nella colonia di Kiryat Arba [nei pressi di Hebron, una delle colonie più estremiste dei Territori Occupati, ndt.]. Shahor è stato arrestato per la violazione di un ordine amministrativo ma ha rifiutato la libertà condizionata, per cui è rimasto in carcere.

In seguito Shahor ha scritto una lettera al capo del fronte interno dell’esercito israeliano che ha firmato l’ordine amministrativo contro di lui, che è circolata tra gli attivisti dell’estrema destra.

Neanche lei pensa che il caso di un adolescente che incontra un amico per mangiare una pizza per qualche minuto sia davvero un fatto in grado di mettere in pericolo la sicurezza della regione,” ha scritto. “Al contrario, ciò dimostra chiaramente che quest’ordine intendeva liquidare i giovani delle colline…Il giudice ha proposto che io sia liberato dopo essermi impegnato a rispettare l’ordine amministrativo e a non parlare con quelli con cui mi aveva proibito di parlare. Ma ho deciso che ne avevo abbastanza. Questa volta non voglio firmare.”

Un altro attivista veterano degli avamposti che ha rifiutato la libertà condizionata è David Chai Hasdai, 22 anni. “Per tre anni mi hanno dato ordini che mi hanno allontanato dai miei amici,” ha detto in tribunale, secondo amici che erano presenti. “Non voglio obbedire a questo ordine.”

Altre persone arrestate in quella retata erano di una generazione più giovane, compresi alcuni minorenni. Sono tutti religiosi. Molti, se non tutti, sono di colonie della Cisgiordania. La maggior parte, anche se non tutti, provengono da famiglie stabili.

L’avvocato Chaim Blaycher dell’organizzazione Honenu, che difende molti giovani delle colline, afferma che per la maggior parte sono “davvero bravi ragazzi”, che hanno più bisogno di assistenti sociali che del carcere – un’affermazione ripetuta da altri adulti che li conoscono. Un parente di uno degli adolescenti arrestati afferma che molti ad un certo punto hanno lasciato la scuola per impegnarsi in lavori agricoli o nell’allevamento in avamposti della Cisgiordania.

L’avvocato Itamar Ben-Gvir, un attivista veterano del partito di Kahane che difende anche lui molti giovani delle colline, smentisce allo stesso modo voci di una “rivolta” organizzata con la prima e la seconda generazione, affermando che ciò “nasce o dalla mancanza di comprensione della situazione nella zona o dal fatto che lo Shin Bet vuole finire in prima pagina.”

Blaycher sostiene inoltre che nessuno si sognerebbe di coinvolgere lo Shin Bet per un adolescente laico accusato di danneggiare automobili. Ben-Gvir condivide. Benché gli atti vandalici non siano stati chiariti, dice, “lo stesso Shin Bet ammette che questo gruppo, che chiama la ‘seconda generazione’, non ha attaccato esseri umani,” e gli atti vandalici non riguardano il lavoro dello Shin Bet. “Se la loro visione del mondo fosse diversa, lo Shin Bet non sarebbe coinvolto in questa faccenda,” aggiunge.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele revoca la cittadinanza a centinaia di beduini del Negev facendoli diventare apolidi

Jack Khoury – 25 agosto 2017,Haaretz

Alcuni erano cittadini da 40 anni, hanno fatto il servizio militare e pagato le tasse, ma si sono trovati con lo status di cittadini cancellato schiacciando un tasto e senza ulteriori spiegazioni.

Decine di persone – uomini e donne, giovani e anziani – si ammassano sotto una grande tenda nel villaggio non riconosciuto [villaggi, soprattutto di beduini, che esistono da decenni ma che lo Stato israeliano non riconosce come tali, ndt.] di Bir Hadaj. Alcuni tengono i documenti in una borsa di plastica mentre altri stringono logore buste. Quello che li ha portati in questo villaggio a sud di Be’er Sheva, nel deserto del Negev israeliano, è stato che l’Autorità per la Popolazione, l’Immigrazione e le Frontiere ha revocato la loro cittadinanza, sostenendo che gli è stata concessa per errore.

A giudicare dal crescente aumento di denunce che si sono accumulate negli ultimi mesi, questo sembra un vasto fenomeno tra i beduini che abitano nel Negev. Centinaia se non migliaia di loro stanno perdendo la cittadinanza a causa di “registrazioni sbagliate”. Questa è la giustificazione che hanno ricevuto dal ministero dell’Interno, senza ulteriori dettagli o spiegazioni.

Il cinquantenne Salim al-Dantiri, di Bir Hadaj , per anni ha cercato inutilmente di ottenere la cittadinanza israeliana. Non capisce perché Israele non gliela voglia concedere; suo padre è stato soldato dell’esercito israeliano. “A volte dicono che c’è stato un errore con la registrazione dei miei genitori decine di anni fa. E’colpa nostra?” chiede al-Dantiri. Non è l’unico, ma molti di quelli che sono venuti all’incontro sono restii a dire il proprio nome per timore che ciò possa danneggiarli nei rapporti con l’Autorità per la Popolazione. Altri hanno già perso la speranza.

Mahmoud al-Gharibi, della tribù Al-Azazme della zona di Be’er Sheva è un falegname che è rimasto disoccupato per un anno in seguito a un incidente stradale. Ha 12 figli da due mogli. Una è cittadina israeliana e l’altra è della Cisgiordania. Sette dei suoi figli sono cittadini israeliani ma lui è apolide dal 2000. “Sono andato al ministero dell’Interno per rinnovare la mia carta d’identità,“ racconta. “Lì, senza nessun preavviso, mi hanno detto che hanno annullato la mia cittadinanza in quanto c’era stato un errore. Non mi hanno detto di cosa si trattasse o cosa ciò significasse. Da allora ho presentato 10 ricorsi, ricevendo 10 rifiuti, ogni volta con pretesti diversi. Ho due figli che hanno più di 18 anni ed anche loro sono apolidi. E’ inaccettabile. Ho vissuto in questa zona per decine di anni e mio padre era qui prima di me. Se c’è stato un errore, dovrebbero correggerlo.”

Nella tenda un’altra persona, che desidera rimanere anonima, dice che “molte di queste persone, soprattutto quelle che non parlano molto bene l’ebraico, non capiscono cosa gli stia succedendo. Nessuno spiega niente e improvvisamente il tuo status cambia. Entri come cittadino ed esci privato della cittadinanza, e allora inizia un processo infinito di lungaggini [burocratiche].

Per anni Yael Agmon, dei dintorni di Yeruham, ha accompagnato beduini al ministero dell’Interno per aiutarli a fare le pratiche per il passaporto o il rinnovo della carta d’identità. In molte occasioni ha assistito alla revoca della loro cittadinanza. “Puoi chiaramente vedere come un impiegato inserisce i loro dati nel computer ed essi perdono istantaneamente la loro cittadinanza. Allora devono fare i conti con un processo burocratico infinito. A volte gli costa decine di migliaia di shekel [10.000 shekel = 2.355 €] per l’onorario degli avvocati e alla fine non sempre riottengono la cittadinanza,” dice.

Salman al-Amrat arriva all’incontro nella tenda a causa dello status di sua moglie e del suo figlio maggiore. Il cinquantaseienne membro della tribù Al-Azazme è cittadino israeliano. Sua moglie di 62 anni è apolide benché sia nata qui, dice. “Ogni volta che cerchiamo di avere la sua cittadinanza ci scontriamo con un rifiuto.” Anche il figlio maggiore di Al-Amrat, che ora ha 34 anni, è apolide benché i suoi fratelli minori abbiano finalmente ottenuto la cittadinanza. “Per anni abbiamo tentato di ottenere la cittadinanza per lui, ma inutilmente. Ogni volta dicono di aver perso qualche documento. Ora stiamo tentando con un avvocato. E’ illogico che sei dei miei figli ed io abbiamo la cittadinanza e il mio figlio maggiore no,” dice.

Atalla Saghaira, un abitante del villaggio non riconosciuto di Rahma, ha lottato durante 13 anni per ottenere la cittadinanza, nonostante il suo defunto padre abbia fatto il militare nell’esercito israeliano. Ha iniziato nel 2002, quando ha fatto richiesta di un passaporto e il ministero dell’Interno gliel’ha rifiutato. “Hanno detto che i miei genitori erano diventati cittadini, ma non ne avevano il diritto,” afferma. Alla fine ha ottenuto la cittadinanza israeliana nel 2015. “Ho insistito per avere i miei diritti ed ho iniziato da solo una campagna contro la burocrazia finché ho ottenuto la cittadinanza, ma so che c’è gente che ha rinunciato,” dice. Il padre di Saghaira è stato camionista nell’esercito per molti anni, e se n’è andato dopo essere rimasto ferito. All’epoca aveva sette figli (compreso Atalla), ma tre di loro sono ancora apolidi.

Un altro residente di Bir Hadaj, Abu Garud Salame, lavora nella zona industriale di Ramat Hovav. Sostiene che tutti i suoi cinque figli e tre dei suoi fratelli hanno ricevuto la cittadinanza israeliana ma a lui è stata negata ogni volta che ha chiesto che gli venisse restituita. “Abbiamo vissuto qui per decine di anni. I miei genitori sono stati registrati negli anni ’50 ed ora sono stato privato della cittadinanza. Anche se ci fosse stato qualche errore nella registrazione non so perché devo pagarne io le conseguenze,“ dice. “Perché dobbiamo essere responsabili di quello che è successo decenni fa?”

Cambiamento automatico di status

La parlamentare Aida Touma-Suliman della Lista Unitaria [coalizione di partiti arabo-israeliani arrivata terza alle ultime elezioni israeliane, ndt.] negli ultimi mesi ha ricevuto molti appelli da persone che sono state private della loro cittadinanza israeliana. L’avvocatessa Sausan Zahar del “Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele – Adalah” recentemente ha presentato ricorso al ministro degli Interni Arye Dery e al procuratore generale Avichai Mendelblit chiedendo loro di porre fine a questa politica.

Secondo la sua petizione, queste cancellazioni generalizzate della cittadinanza vanno avanti almeno dal 2010. Quando cittadini beduini vanno agli uffici del ministero degli Interni a Be’er Sheva per occuparsi di questioni di routine come cambiare il loro indirizzo, ottenere un certificato di nascita o per registrare un nome, l’anagrafe esamina il loro status e quello dei loro genitori e nonni, risalendo fino ai primi giorni dello Stato [di Israele].

In molti casi l’impiegato dice loro che la cittadinanza israeliana gli è stata concessa per sbaglio. Immediatamente cambia la loro condizione da cittadini a residenti e si consegna loro un nuovo documento. Alle persone che hanno perso la cittadinanza non viene data nessuna spiegazione né la possibilità di presentare ricorso. Invece l’impiegato gli suggerisce di presentare domanda ed iniziare il procedimento per ottenere la cittadinanza da zero, come se fossero appena arrivati in Israele.

Molti, presi di sorpresa e senza una consulenza legale, non sanno cosa fare. Alcuni presentano una richiesta di cittadinanza, mentre altri semplicemente si disperano. Zahar dice che molte richieste vengono rigettate per la perdita di documenti, per la fedina penale (che non è una ragione valida per negare la cittadinanza) o persino per la difficoltà del postulante a parlare ebraico. Molte donne beduine che hanno perso la cittadinanza ricadono in quest’ultima categoria. Una di queste donne ha presentato appello contro la cancellazione della sua cittadinanza in base ad un presunto errore. Quando si è scoperto che il suo ebraico era lacunoso, il suo appello è stato rigettato. E’ rimasta apolide.

L’appello di “Adalah” al ministro degli Interni evidenzia che persone che sono state cittadine per 20, 30 o persino 40 anni, alcune delle quali hanno fatto il militare, che hanno votato e pagato le tasse, si sono trovate con impiegati che hanno cancellato il loro status schiacciando un tasto. Come residenti permanenti, possono votare per le elezioni amministrative ma non possono candidarsi, votare per le elezioni politiche o candidarsi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. Ricevono servizi come quello sanitario e la sicurezza sociale, ma non possono avere un passaporto israeliano. Se stanno fuori dal Paese per un lungo periodo possono anche perdere la residenza permanente e, a differenza dei cittadini, non possono trasmettere automaticamente il loro status ai propri figli.

Tra quelli che restano senza cittadinanza israeliana ci sono persone nate in Israele da genitori che hanno la cittadinanza israeliana. Ci sono famiglie in cui un figlio è cittadino mentre un altro è residente permanente. Alcune delle persone colpite sono state private della loro cittadinanza quando hanno tentato di rinnovare il passaporto per andare in pellegrinaggio alla Mecca, un precetto obbligatorio dell’Islam e una cosa che ora non possono fare.

Registrazione durante il Mandato Britannico

Lo scorso anno la commissione della Knesset per gli Interni e l’Ambiente ha tenuto una discussione sul problema, in seguito alla serie di ricorsi per la restituzione della cittadinanza. Durante questa discussione i funzionari del ministero dell’Interno hanno confermato che questa politica esiste: quando cittadini beduini arrivano agli uffici del ministero, gli impiegati controllano l’anagrafe per [verificare] la registrazione dei loro genitori e nonni tra il 1948 e il 1952.

Forse quegli anni non sono stati scelti a caso. Tra la fondazione dello Stato [di Israele] nel 1948 e l’approvazione della legge sulla cittadinanza nel 1952, molti arabi non poterono registrarsi all’anagrafe in quanto le loro comunità erano governate da un’amministrazione militare. Ciò includeva zone del Negev che avevano un’alta concentrazione di abitanti beduini dopo il 1948. In molti casi controllare la registrazione dei nonni di una persona richiede la verifica della cittadinanza durante il Mandato Britannico – un periodo in cui la cittadinanza israeliana non esisteva neppure.

Dopo la discussione alla Knesset dello scorso anno, è stato chiesto al ministero dell’Interno di verificare le dimensioni del fenomeno, la sua legalità e tener aggiornata da allora la commissione per gli Affari Interni. Il capo del dipartimento per la cittadinanza del ministero, Ronen Yerushalmi, ha presentato i risultati al presidente della commissione, David Amsalem (del Likud), nel settembre 2016. Intitolato “Registrazioni errate dei residenti del Negev”, il rapporto afferma che “le dimensioni del problema possono riguardare 2.600 persone con cittadinanza israeliana, che potrebbero perderla a causa di errata registrazione da parte del ministero dell’Interno.” Aggiunge che, poiché non sono stati esaminati casi singoli, i dati non sono esatti e il numero potrebbe anche essere maggiore.

Durante un incontro della commissione nel dicembre 2015, il consulente legale della commissione, Gilad Keren, ha manifestato dubbi riguardo alla legalità della procedura: “La legge sulla cittadinanza si riferisce a casi in cui la cittadinanza è stata ottenuta in base a dati falsi, vale a dire in circostanze più gravi, non quando lo Stato ha commesso un errore. Riguarda persone che hanno fornito informazioni false prima di ottenere la cittadinanza. La legge consente al ministero dell’Interno di revocare la cittadinanza solo se sono passati meno di tre anni da quando è stata concessa. Dopo quel periodo per revocarla c’è bisogno dell’intervento di un tribunale. Quindi non capisco come, quando una persona è stata un cittadino per 20 anni e lo Stato fa un errore, lo status di questa persona venga modificato.”

Il ricorso di “Adalah” al ministro dell’Interno e al procuratore generale chiede una sospensione immediata della prassi di cancellazione della cittadinanza. Zahar sostiene che la persona colpita da questa cancellazione non ha neppure il diritto ad un processo prima che la sua cittadinanza israeliana gli venga ritirata. Oltre ad infrangere il diritto alla cittadinanza, scrive, questa politica viola in modo palese il diritto all’uguaglianza. Si fonda in modo discriminatorio sulla nazionalità, in quanto i cittadini non ebrei si sono trovati con la revoca della cittadinanza in seguito ad un errore nella registrazione dei loro genitori o nonni in base alla “Legge del Ritorno” [che consente a chiunque sia ebreo di ottenere la cittadinanza israeliana, ndt.].

Temo che quello che si vede sia solo la punta dell’iceberg e che quello che non si è ancora visto sia ancora più grave,” afferma Touma-Suliman. Dice che se Dery e Mendelblit non risolvono presto la questione, questa arriverà all’Alta Corte di Giustizia. “Non ci sono giustificazioni per questa politica,“ dice. “Il ministero viola in modo evidente la legge. E’ inaccettabile che in una famiglia che vive sotto lo stesso tetto metà dei bambini siano cittadini mentre l’altra metà siano residenti o persone con uno status indeterminato.”

Haaretz ha contattato una serie di importanti ex funzionari del ministero dell’Interno e dell’Autorità per la Popolazione, compreso il capo dell’agenzia fino al 2010, Yaakov Ganot, e Amnon Ben-Ami, il suo direttore fino a poco tempo fa. L’ex ministro dell’Interno Eli Ben-Yishai, che ha recentemente ricoperto l’incarico nel 2013, ha affermato che se è stata presa una decisione per revocare la cittadinanza dei beduini del Negev, “non ne so niente e non ricordo di aver avuto una discussione riguardo a questo problema durante il mio mandato.”

L’Autorità per la Popolazione ha risposto che i casi succitati non erano esempi di revoca della cittadinanza ma di errori di registrazione nel passato, in cui persone sono state registrate come cittadini ma non lo erano. Ha detto che ora è il momento di risolvere il problema, aggiungendo che il ministero sta discutendo della questione, il ministro ha preso una decisione e la commissione per gli Affari Interni della Knesset è stata informata. Afferma che “sono stati fatti dei tentativi per affrontare questo problema dal punto di vista legale in un modo che non colpisca lo status in Israele di queste persone.” L’Autorità per la Popolazione sostiene anche che il procuratore generale si occuperà del ricorso presentato da “Adalah”.

L’ufficio di Dery ha insistito sul fatto che i casi non erano assolutamente esempi di revoca della cittadinanza ma piuttosto situazioni di risistemazione dello status legale. “Il ministero ha destinato funzionari presso l’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione per occuparsi del processo che riguarda questo gruppo di persone nel modo più facile e semplice possibile. Il ministro Dery ha chiesto loro di trovare ogni modo possibile per accelerare la procedure nel tentativo di evitare di imporre loro qualunque tipo di disagio,” afferma l’ufficio.

L’ufficio del procuratore generale ha detto ad “Adalah” che l’anagrafe generale sta procedendo ad un esame di migliaia di persone che sono state erroneamente registrate come cittadini invece che come residenti permanenti. La risposta afferma che a coloro i quali vengano trovati registrati come tali per errore sarà concesso di ottenere la cittadinanza con un processo accelerato, nel caso in cui rispondano ai criteri legali.

In base alla risposta, finora a nessuno è stata negata la cittadinanza ed i diritti dei residenti sono stati rispettati. Di conseguenza la risposta afferma che la Procura Generale non vede ragioni per intervenire sulla decisione dell’Autorità per la Popolazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Solo i palestinesi possono cambiare la loro realtà

Amira Hass, 23 agosto 2017, Haaretz

I palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

Cominciamo dalla fine: anche se i palestinesi avessero un’unica, unita, rispettata leadership che avesse una reputazione di integrità, ed anche se i suoi membri avessero eccellenti doti intellettuali, si dedicassero al loro popolo ed avessero capacità strategiche, sarebbe stato difficile per loro sfidare l’ attività di esproprio/acquisizione che Israele continua a rafforzare e intensificare. Difficile, ma possibile.

Ma non c’è un’unica leadership, ce ne sono parecchie, e litigano tra di loro anche quando appartengono allo stesso partito (Fatah), organizzazione (OLP) o contesto istituzionale (due governi). Non è colpa del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma di un sistema e di un modus operandi di cui lui è al tempo stesso uno dei creatori ed uno dei risultati.

L’atteggiamento della popolazione verso la leadership è caratterizzato da sospetto, sdegno e disprezzo, insieme a paura. Le accuse più blande rivolte alla leadership di Ramallah parlano di mancanza di organizzazione, inefficienza e indolenza. Quelle più gravi riguardano la corruzione e l’attaccamento al potere per motivi personali e settari. Accuse simili sono lanciate in modo leggermente meno esplicito al governo ed alle Ong di Gaza.

A molti è chiaro che il quadro di riferimento di Oslo, che è scaduto nel 1999, era una trappola. I Paesi donatori a favore dei palestinesi continuano a sostenerlo per timore di un disastro umanitario ancor più grave, della perdita di controllo e perché sono incondizionatamente fedeli ad Israele. Le donazioni sono diminuite, ma restano una trappola. Implicano obbedienza e mantenimento della “calma”, o consentono solo una collera di bassa intensità. Ma i palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

La testa gira ed il cuore duole, perché di fronte a loro c’è un nemico sofisticato, malvagio ed efficiente, che non ha confini.

Visivamente, l’immagine di una piovra potrebbe essere appropriata, ma vi sono due problemi nell’utilizzarla per raffigurare il regime israeliano. Uno è che ricorda le caricature antisemite, ma quello è il problema di un regime che imita le caricature. Il secondo è che Israele sfodera molto più di otto tentacoli, in quanto mette insieme diverse tradizioni di dominazione – occupazione militare, colonialismo (l’espulsione di un popolo dalla sua patria per insediare altri al suo posto) e apartheid (poiché l’espulsione non è del tutto riuscita, ne è seguita la separazione basata sull’ineguaglianza). Dovrebbe essere chiaro che questo si riferisce alla situazione su entrambi i lati della Linea Verde (linea di demarcazione tra Israele ed i Paesi arabi confinanti fino alla guerra del 1967, ndtr.). Israele ha avuto un’opportunità per cambiare nel 1993. Ha scelto di non coglierla.

Un’immagine più adeguata potrebbe essere quella di un computer che emette comandi in tutte le direzioni. Una volta programmato, non si ferma più. Spedisce squadre armate a irrompere nelle case della gente mentre dorme ed a confiscare denaro e proprietà; squadroni di distruzione a demolire asili, case e pozzi: squadre armate non ufficiali a scacciare pastori e contadini. Impiega anche ladri di terra – funzionari, progettisti, architetti e imprese di costruzione – che fanno in modo che i palestinesi soffochino nei loro centri abitati. Lo spazio è tutto per gli ebrei, dice il comando supremo. Il computer emette anche comandi mentali: ignora qualunque cosa dedicandoti in modo esclusivo all’eredità ebraica. Attraverso l’orgoglio per la nostra Nazione, che produce premi Nobel, elimina qualunque altra cosa come non importante. Declama la nostra sofferenza ed eroismo ad Auschwitz.

Contro gli efficienti e complessi apparati israeliani stanno i palestinesi, con una pletora di dirigenti in competizione, strategie in conflitto, ministri del governo che non si coordinano tra loro, un’informazione che non è di dominio pubblico e non è accurata, la faticosa duplicazione di istituzioni il cui lavoro si sovrappone, i vuoti slogan e la disperazione. Una manifestazione di questa disperazione è l’enunciato che Israele è la parte forte, per cui il cambiamento può e deve venire solo da Israele. Ma no, gli israeliani non hanno interesse a cambiare la situazione. Noi ne traiamo beneficio. La spinta al cambiamento può e deve venire dagli stessi palestinesi, a casa loro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli israeliani che prendono molto sul serio la ricostruzione del Terzo Tempio

Ayelett Shani – 10 agosto 2017, Haaretz

Eran Tzidkiyahu, una guida per il conflitto israelo-palestinese, spiega perché gli attivisti del Tempio sono così determinati – e come la loro missione entra in conflitto con una parte fondamentale dell’identità palestinese.

Colloquio con: Eran Tzidkiyahu, 36 anni, ricercatore presso il “Forum per la Riflessione Regionale” e guida di percorsi “geopolitici”. Dove: ai piedi del Monte del Tempio. Quando: domenica [6 agosto]

Cosa vuol dire che lei è una “guida geopolitica”?

Significa che sono impegnato nel conflitto dalla prospettiva dei suoi aspetti geografici e politici. Essenzialmente, porto in giro le persone e mostro loro il conflitto sul campo – sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], nei territori, nelle colonie. In luoghi che sono sacri per gli ebrei, i cristiani e i musulmani.

Quali persone sono interessate a questo tipo di visite?

Rappresentanti di varie organizzazioni della società civile, studenti e docenti di università israeliani e del resto del mondo, ebrei americani, gruppi di rabbini. Non molto tempo fa ho guidato importanti funzionari del Mossad [servizio segreto israeliano, ndt.]

Stamattina presto siamo anche saliti sul Monte del Tempio. Il poliziotto all’entrata ha chiesto se volevamo una scorta, ci ha avvertito di non toccare niente, di non entrare nelle moschee. Ha detto che la situazione è delicata.

Penso che ci dobbiamo fermare un attimo e guardare questo posto da di fuori. Cerco di leggere lo spazio come se fosse un testo. Non sono interessato solo agli eventi principali che si stanno svolgendo, ma anche alle piccole cose che li circondano. La guardia, il rancore degli Haredim (ebrei ultra-ortodossi) che attendono sul ponte. Le conversazioni dei poliziotti.

Interessante. Cosa vede lei che io non posso vedere?

Per esempio, tutte le entrate al Muro del Pianto (Spianata) sono molto larghe. Solo l’entrata (per i non-musulmani) al Monte del Tempio è stretta e in disparte. Lo Stato non è interessato a che vi si entri, intenzionalmente non fa un ingresso in un terminal con 10 punti di controllo. No, è piccolo e gli ebrei che stanno lì vi vengono trattenuti per un bel po’ di tempo.

Prima che perquisissero la mia borsa, lei mi ha chiesto se avessi portato una copia del Libro dei Salmi. Lei ha detto che ci avrebbe potuto provocare più problemi del tablet e del registratore. Che cosa intende?

Gli ebrei non hanno il permesso di portare oggetti religiosi sul Monte del Tempio. La polizia impone lo status quo che vieta agli ebrei di praticare riti sul Monte. E se qualcuno non è al corrente di ciò ed è in possesso di un simile oggetto, il suo ingresso al Monte del Tempio sarà notevolmente ritardato.

Ma c’era un folto gruppo di ebrei haredim [ebrei ultra-ortodossi, ndt.] che aspettavano di salire. Non portavano siddurim (libri di preghiera)?

Per loro ci sono armadietti speciali in basso in cui sistemare i loro oggetti. Chiunque tiri fuori un libro ebraico sulla spianata del Monte del Tempio è immediatamente arrestato dalla polizia. Una novità che ho notato oggi per la prima volta è che hanno sistemato dei parasole lungo il percorso. Qualcuno ha preso la decisione di fare ombra a questa stretta e scomoda colonna di persone che aspettano in fila.

E lei cosa ne pensa?

Secondo me riflette un cambiamento di approccio da parte della polizia. Penso sia una prova del grande numero di pressioni esercitate sulle autorità responsabili del Monte del Tempio, da vari gruppi a favore del Tempio. Che questi gruppi stanno diventando sempre più potenti.

Forse mi potrebbe dire qualcosa di questi gruppi del Tempio.

Attualmente è un vero insieme di organizzazioni, gruppi ed individui che pongono il Monte del Tempio in cima ai loro programmi, sia che si tratti di ottenere diritti per salire e pregare sul Monte o per promuovere la costruzione del Terzo Tempio. Negli anni ’90 questi gruppi erano marginali, erano considerati fuori posto. Oggi una parte notevole delle loro richieste è entrata nell’opinione comune. In larga misura il (deputato del Likud) Yehudah Glick è il responsabile dell’unificazione di questi gruppi in un ente unico che agisce per promuovere strategicamente i suoi obiettivi. Insieme al (ministro della Sicurezza Pubblica) Gilad Erdan, al (ministro della Cultura e dello Sport) Miri Regev e al comandante del distretto di polizia di Gerusalemme, ha avuto successo nel raggiungere risultati concreti.

Specifichi i risultati.

Del Monte del Tempio si parla nei corridoi della Knesset e nell’ufficio del primo ministro. Il “Comitato per gli Affari Interni e l’Ambiente” guidato da Regev ha tenuto molte audizioni sul diritto degli ebrei di pregare sul Monte del Tempio. Il Murabitun ed il Murabitat (gruppi musulmani, il primo delle donne, il secondo degli uomini, che si considerano i guardiani del Monte del Tempio) sono stati dichiarati illegali. I gruppi di ebrei salgono al Monte del Tempio in numeri e frequenza in continuo aumento. Ma il risultato principale, come ho già detto, è la penetrazione nell’opinione generale. Oggi ogni israeliano laico può affermare che abbiamo diritti sul Monte del Tempio, e molti di loro appoggiano persino il diritto di pregarvi.

E’ un cambiamento nell’opinione pubblica.

Che si esprime anche in concreto. Dal livello di Gilad Erdan, che si esprime contro lo status quo che si suppone debba garantire, alla fuga di notizie dal governo in materia di metal detector, che dimostrano che la loro condotta non è limitata solo a ciò che è pratico e fattibile – che ci sono anche aspetti che riguardano la religione, l’identità, persino credenze messianiche; a cose che posso vedere con i miei occhi.

E’ la polizia che dovrebbe incaricarsi degli ebrei che salgono al Monte del Tempio. Di impedirlo, di ritardarlo, di ridurlo. I sostenitori del Tempio sono, ovviamente, in buoni rapporti con i poliziotti sul Monte del Tempio, e i poliziotti li riconoscono. Lo scorso anno ho visto emergere un evidente rapporto più stretto tra i poliziotti e i sostenitori del Tempo. Quest’anno, circa un mese prima dell’uccisione dei poliziotti drusi (il 14 luglio 2017), il generale della polizia Yoram Halevi è salito sul Monte con un gruppo di sostenitori del Tempio, dove è stato fotografato con loro. E’ il comandante del distretto ed ha ricevuto sul Monte la loro benedizione, che è stata fotografata e documentata. Questa è pura follia. Nel suo blog Arnon Segal, un attivista del Tempio, ha scritto che questa (specifica) salita al Monte del Tempio è stata una “salita dello Stato nazionale” dedicata alla memoria di Hallel Ariel, la ragazza uccisa [da un attentatore palestinese, ndt.] a Kiryat Arba (nel 2016). I suoi genitori sono attivisti estremamente entusiasti ed impegnati del Tempio. Sua madre parla continuamente di una consapevolezza del Tempio.

Che cosa vorrebbe dire “consapevolezza del Tempio?

Vivere la propria vita con la consapevolezza che il proprio scopo in questo Paese in quanto ebreo è di vivere in base ai comandamenti della Torah e che c’è un grande numero di comandamenti che non possono essere osservati senza il Tempio. Per cui si deve vivere con una totale dedizione verso di esso. Per esempio, lavora con donne nel cuocere il pane speciale che deve essere preparato per il Tempio. Per questa gente il Tempio è la ragione per cui sono qui.

A lei sembra una cosa sincera?

Certo. Sono persone interessanti e serie, e non ho nessuna intenzione di ignorarle. In parte per le potenziali ripercussioni di quello che stanno facendo, e in parte perché stiamo parlando di persone intelligenti che hanno una profonda coscienza religiosa e nazionale, alcune delle quali sono totalmente coinvolte anima e corpo. Più li guardo e li ascolto da vicino, più vedo questa esperienza come assolutamente sincera.

Capisco che lei è in stretto contatto con loro.

Li conosco tutti personalmente. Ho anche seguito tutto un corso per guide del percorso del Monte del Tempio tenuto dalla “Fondazione per il Patrimonio del Monte del Tempio”.

Cos’è un corso per guida del percorso del Monte del Tempio?

Alla luce del fatto che sempre più ebrei stanno salendo al Monte, le organizzazioni del Monte del Tempio hanno deciso di lanciare un’iniziativa: l’obiettivo è che ogni ebreo che va al Monte trovi un altro ebreo che lo accompagnerà, gli dirà cose su di esso e gli spiegherà la storia e la teologia.

Non riesco ad immaginare lei inserito in un corso come quello.

Quando mi sono unito al corso loro erano veramente molto preoccupati. Mi hanno chiesto quali erano le mie motivazioni, perché conoscono me e le mie opinioni. Quando ho detto che volevo solo capire, hanno accettato che partecipassi – a condizione, naturalmente, che non avrei scritto nessun post su Facebook né condiviso con qualcuno i contenuti del corso.

Ma c’è un progetto ovvio.

Certamente. Il corso è tenuto da importanti attivisti del Tempio. Lo stesso Yehudah Glick mi ha consegnato il certificato che ho completato il corso.

Qual era il contenuto del corso?

C’era un contenuto principalmente storico-religioso riguardante il Tempio e il Monte. Molta attenzione era dedicata alle dimensioni del Tempio. Una delle principali ragioni del divieto halachitico (diritto ebraico) per la salita al Monte del Tempio ha a che fare con la preoccupazione in merito all’ingresso in zone sacre proibite, per cui questo è estremamente importante per loro, in quanto vogliono sapere dove gli è permesso camminare e dove è proibito. Per loro la questione più interessante è dove si trovasse in realtà esattamente l’altare sulla piattaforma rialzata ad est della Cupola della Roccia [la Moschea di Omar, che si trova sulla Spianata delle Moschee, ndt.].

Perché?

Perché non c’è bisogno di un tempio per offrire sacrifici. Il sacrificio della Pasqua ebraica, per esempio. Loro dicono: “Perché non dovremmo entrare con un capretto e offrire il sacrificio della Pasqua sul Monte del Tempio?” Dopotutto, ciò non dovrebbe violare la santità per i musulmani. E’ consentito. E’ persino prescritto. Per questo è importante sapere dov’è l’altare.

Non posso neanche cominciare a dirle quanto mi risulta difficile identificarmi con tutto ciò.

Guardi, quando lei sta lì in piedi sul Monte, con quelle persone e sono in piedi sui gradini settentrionali e guardano la Cupola della Catena [piccola costruzione musulmana adiacente alla Cupola della Roccia, ndt.], loro non vedono quello che vede lei. Stanno vedendo il luogo dell’altare dei sacrifici. Il luogo del Tempio. Si trovano in un’altra dimensione.

Come in una specie di visione? E’ questo che lei ha sentito quando si trovava tra di loro?

Assolutamente. Loro sono al settimo cielo. Non vedono le cose che li circondano – la fila o i poliziotti o il Waqf [l’associazione musulmana che si occupa della gestione della Spianata delle Moschee, ndt.]. Vogliono andare subito su, e nel momento in cui attraversano le porte, alcuni di loro si inchinano e si prostrano. Ciò è consentito dall’ebraismo solo sul Monte del Tempio. Prostrazione totale, mani e piedi stesi a terra. In qualunque altro luogo ciò sarebbe considerato idolatria ed è vietato. Questa gente sta vedendo sul Monte un passato e un futuro mitologici, e non il presente.

Sì. Questo spiega decisamente molto.

Per quanto li riguarda, la costruzione del Tempio è un’idea logica e corretta. Guardi, dopotutto “Sion” non è costruire kibbutz. Se lei avesse chiesto ad un ebreo 200 anni fa quale fosse il significato del “Ritorno a Sion”, avrebbe risposto: “Tornare alla Terra Santa e ricostruire il Tempio.” Per questo la gente prega ed è dove la consapevolezza “sionista” era diretta – fino all’avvento del Sionismo. Il Sionismo è essenzialmente un ripudio di questo discorso, un tentativo di secolarizzarlo, di renderlo nazionalista. Il sionismo ha tentato di sfuggire a questa idea del Tempio, ed ora lo stiamo vedendo tornare.

Sta tornando o è stato ripreso dal Sionismo religioso?

Essenzialmente è rientrato in gioco come risposta alla possibilità di un compromesso territoriale. La gente di “Gush Emunim” [organizzazione dei coloni israeliani, ndt.] non è concentrata sul Tempio. [Gli accordi di] Oslo sono stati la crisi che ha portato settori più ampi dell’opinione pubblica sionista religiosa a dimostrare interesse per il Monte del Tempio. Nel marzo 1996 il consiglio rabbinico “Yesha” (che rappresenta i rabbini dei coloni) emanò un appello per salire al Monte del Tempio. Era al culmine del mese di Ramadan, e il venerdì seguente la diffusione dell’appello 250.000 palestinesi si recarono a pregare lì. Questa è la dinamica nelle due parti [in conflitto]. Pochi mesi dopo, scoppiarono gli scontri del tunnel del Muro del Pianto e il Movimento Islamico (israeliano) decise di impegnarsi a pieno nella questione di Al-Aqsa.

Lo status quo, gli accordi non scritti tra le autorità e il Waqf, che avevano retto per 30 anni crollarono. Essenzialmente sia il consiglio rabbinico “Yesha” che i dirigenti del Movimento Islamico in Israele sono uniti attorno allo stesso luogo sacro. Non si tratta di una coincidenza. E’ impossibile parlare del Monte del Tempio come guida dell’identità ebraica senza parlare di Al-Aqsa (con cui i musulmani si riferiscono a tutta la Spianata) come guida dell’identità palestinese. Allo stesso modo in cui questa idea è sorta in un momento in cui c’era un tentativo di raggiungere un compromesso e forse porre fine al conflitto, la stessa cosa è successa dal lato palestinese. Non si tratta di una questione accademica o di un argomento filosofico: si tratta di un dato di fatto per tutti i palestinesi.

Ne è convinto?

Poco prima che ci incontrassimo, un vecchio palestinese nel quartiere musulmano mi ha detto: “In quanto palestinese, sono obbligato a proteggere questo luogo: le parlo col cuore e non con la testa.” Non è che ogni palestinese di Jenin [in Cisgiordania, ndt.] o di Umm al-Fahm [cittadina arabo-israeliana, ndt.] stia pensando tutto il tempo ad Al-Aqsa, ma al centro dell’identità palestinese, a cosa li differenzia dal mondo arabo e islamico attorno a loro c’è il loro rapporto con Al-Aqsa ed il senso della missione eterna di proteggerla nel corso della storia contro la conquista degli eretici. E’ un messaggio palestinese nazionale non meno che islamico religioso. Nello stesso modo in cui gli ebrei vedono come santo il periodo del Secondo Tempio, l’etica di Masada e di Hanukkah, l’ultimo periodo di sovranità ebraica, così l’Islam in questo Paese si unisce attorno all’idea della protezione dei luoghi santi di Gerusalemme -“Al-Aqsa, il cui luogo su cui sorge noi benediciamo” (dalla Surah 17:1 del Corano) – come il terzo luogo più sacro per l’Islam, là stiamo proteggendo i luoghi sacri dell’Islam dai pericoli che incombono. Queste sono le basi molto profonde dell’identità palestinese qui.

Non vogliamo ripercorrere tutta la lunga storia di scontro sul Monte del Tempio, ma quello che li accomuna tutti, penso, è una dinamica di reazione. Una parte vi viene trascinata in seguito alle azioni della parte avversa.

Le persone, sia da parte palestinese che da quella israeliana, la vedono come se “l’altra parte stia facendo ciò a noi,” mentre in effetti la situazione è come la descrive lei, c’è un flusso continuo di risposte e contr-risposte.

Forse potrebbe descrivermi questo luogo attraverso gli occhi dei palestinesi. Attraverso gli occhi dei singoli che vengono qui sul Monte per pregare cinque volte al giorno.

Il Monte del Tempio non è solo il terzo luogo più sacro per i musulmani in Israele, è il parco più grande di Gerusalemme est, lo spazio aperto più grande in una zona che per il resto è un disastro urbanistico. E’ l’unico luogo in cui c’è un certo livello di libertà e di indipendenza per i palestinesi, perché è il posto in cui la sovranità israeliana non è totale e l’occupazione israeliana è meno presente. Pertanto si possono vedere famiglie riunite per fare un picnic, persone che l’attraversano senza una ragione speciale in pieno giorno, solo per starci, per pregare, per mangiare. Questo fenomeno è gradualmente cambiato negli ultimi anni, e questo è proprio quello che i palestinesi sentono che stanno perdendo – non solo il loro simbolo nazionale, ma anche il proprio spazio di libertà personale a cui sono legati non solo al livello religioso ma anche a quello individuale. Di nuovo, si deve capire – non ci sono parchi, non ci sono giardini, c’è solo il Monte del Tempio. I ricordi dell’infanzia di molti di loro sono radicati in questo luogo. Alla luce del rapporto di forze in questo spazio, interpretano tutto quello che succede da parte israeliana come un tentativo di privarli del loro spazio qui.

Riguardo alla sovranità, ieri ho letto una vecchia citazione dello storico Shlomo Ben-Ami, che sosteneva che più abbiamo il controllo sul Monte del Tempio, più ne siamo ostaggi.

Ha ragione. Siamo ostaggi della questione della sovranità sul Monte del Tempio. La nostra sovranità qui è il problema e non la soluzione.

Ogni volta che c’è un esplosione di proteste, quando viene messa a dura prova, scopriamo che in realtà non abbiamo la sovranità [sul Monte del Tempio].

Secondo me questo è vero per tutta Gerusalemme. Lo Stato di Israele crede che la soluzione a Gerusalemme sia nel mettere in pratica la sovranità, ma sono già 50 anni che la sovranità a Gerusalemme si è manifestata solo come potere, ed ogni bambino che frequenta un corso preparatorio in scienze politiche può affermare che più si usa la forza fisica, meno tu possiedi realmente un vero potere istituzionale. Una sovranità che si esprime attraverso battaglioni di poliziotti di frontiera non è una sovranità profonda, e non ci sarà una soluzione per il Monte del Tempio finché parleremo in termini di sovranità assoluta. Chi è il proprietario “riconosciuto” del Monte del Tempio? Importa realmente? Il processo giuridico è desiderabile per la gestione di questa faccenda? In fin dei conti non abbiamo la sovranità né sul Monte del Tempio né su Gerusalemme est, e questa è la realtà. Non siamo neanche in grado di sistemarvi dei metal detector.

Qualcuno fa riferimento alla sensazione di successo tra i palestinesi in seguito a questo recente ciclo (di violenze). Lei che cosa ha sentito dire?

Ho sentito amici palestinesi, anche del tutto laici, parlare con assoluto entusiasmo del potere e dell’organizzazione comunitaria. Dicono di non essersi mai sentiti così. Se erano stati bambini durante al Seconda Intifada, o nati dopo, non sono mai stati abituati a questa sensazione di comunità; hanno conosciuto solo la sopravvivenza giorno per giorno, spaventati da chiunque vedessero. Improvvisamente si sono sentiti legati, una sensazione di comunità, una speranza che potesse cambiare. I media palestinesi sono pieni di appelli a trarre le conclusioni da questa vittoria. La prima conclusione è che Israele non può opporsi ad azioni organizzate di massa non violente.

Di chi è stata l’idea che i fedeli musulmani rifiutassero di entrare sulla Spianata (finché fossero rimasti sul posto i metal detector)? Delle preghiere di sfida fuori dalle porte?

Non lo so. Stavo seduto qui qualche giorno da con degli amici, esperti di Gerusalemme, tra loro dei palestinesi, e non riuscivamo a trovare una risposta su chi abbia iniziato tutto questo – i leader religiosi, il Waqf o gli abitanti. Dopotutto, il Waqf non avrebbe potuto sapere che gli abitanti lo avrebbero appoggiato.

Come appare sul campo?

Un sacco di gente nelle strade. Le donne della città gli hanno portato una grande quantità di cibo. Stiamo parlando di cinque preghiere al giorno, che è praticamente tutto il giorno. Gente che arriva da ogni parte del Paese. Il giorno prima ero a Baka al-Gharbiyeh [cittadina a maggioranza araba in Israele, ndt.], dove ho incontrato intellettuali arabi molto noti che stavano dicendo – domani andremo su ad Al-Aqsa, tutta la famiglia. Abbiamo una missione qui, abbiamo un dovere. La polizia ha messo sbarramenti su una strada. Di notte hanno controllato ogni macchina per cercare di scoraggiare la gente dal cercare di attraversarli, ma ciononostante decine di migliaia lo hanno fatto.

Qual è esattamente il ruolo che il Waqf ha giocato nella vicenda dell’organizzazione spontanea?

Quello che è successo qui nelle ultime due o tre settimane è sorto dalla piazza palestinese di Gerusalemme est. A Gerusalemme non c’è una dirigenza. Semplicemente non esiste. C’è il Waqf. E’ l’istituzione più vasta e più influente. In seguito a questi avvenimenti, il Waqf e la piazza si sono incontrati. Un’istituzione ben organizzata con potere, danaro e gerarchia ha incontrato una piazza che stava desiderando ardentemente una dirigenza e un’azione collettiva. Gli interessi convergevano – il Waqf ha guadagnato dalla piazza un rinnovato potere, e la piazza ha guadagnato una dirigenza. A un certo livello, è la stessa piazza di Gerusalemme che si è preoccupata per anni di Al-Aqsa.

Quando (il re di Giordania) Abdullah e Bibi (Netanyahu) si sono messi d’accordo sull’installazione di telecamere nel 2015, la piazza semplicemente non lo ha permesso. Ora la piazza è di nuovo entrata sulla scena. Secondo me c’è stato un cambiamento profondo nella concezione delle attività organizzate a Gerusalemme est. Stanno emergendo nuove strutture, un nuovo modus vivendi. E’ ragionevole ipotizzare che qui sorgeranno nuovi dirigenti. Qui è successo qualcosa di molto importante – un’organizzazione popolare non violenta che ha obbligato Israele a cedere. L’internet palestinese si sta già occupando dell’argomento.

Cosa vede lei? Cosa stanno scrivendo?

“Siamo riusciti ad incidere su Israele e dobbiamo continuare così.” Questa opinione pubblica, che ha sempre subito accordi sulla propria testa, è ora l’opinione pubblica che ha guidato gli avvenimenti, e (il presidente turco) Erdogan e (il presidente USA) Trump e re Adbullah e Bibi possono solo rimanere ai margini. La piazza di Gerusalemme sta attualmente riscoprendo la propria forza.

Pensa che Netanyahu l’abbia capito?

Non lo so. Sulla questione del Monte del Tempio, Netanyahu si è costantemente nascosto dietro poliziotti di basso rango.

Cosa pensa di Yoram Halevi, il comandante del distretto di Gerusalemme, di cui abbiamo parlato prima?

Non lo conosco. A giudicare solo dal suo risultato, è un disastro. Yoram Halevi sale sul Monte del Tempio con gli attivisti del Tempio, cambia il loro status, si esprime in modo arrogante in materia di metal detector, come se si trattasse dell’ingresso in un supermercato. Stiamo parlando di una mancanza di professionalità e di comprensione del terreno. E’ questa idea di voler impartire una lezione, di agire in modo inflessibile, tanto da scatenare la protesta popolare.

Voleva “evitare che i palestinesi avessero l’impressione della vittoria.”

E’ quello che ha detto. E alla fine ha perso. Se è davvero un professionista serio, è apparentemente motivato da altre considerazioni.

La conclusione di questa conversazione è davvero sconfortante.

In realtà sono ottimista. Penso che se togliamo dall’equazione la questione della sovranità, sarà possibile pensare a soluzioni creative. A un discorso di cooperazione. Quando saremo uguali, non ci sarà la differenza nell’equilibrio di forze che esiste attualmente: potremmo proseguire questo dialogo, e gli ebrei potrebbero pregare sul Monte del Tempio come fanno i musulmani.

Non ci conterei molto.

Perché no? E’ successo in Irlanda, con gli accordi del Venerdì Santo. Anche là c’era un conflitto di secoli, con un aspetto religioso. E’ un lungo percorso, e spetta a noi tentare e prendere quel percorso – o soccombere al pessimismo. Non possiamo cambiare il corso della storia, possiamo solo scegliere il nostro percorso.

Sa, sono tornato qui, dopo tre anni in Francia, nel mezzo dell’operazione “Margine protettivo” (nel 2014). Dalla tranquilla Strasburgo proprio dentro alle sirene dell’allarme aereo. Non è stata una cosa semplice, ma non dubito di aver fatto la scelta giusta. Sento che la mia vita è ricca di valori e di senso, nonostante le sfide e le preoccupazioni sul futuro dei bambini.

Strasburgo mi ha ispirato. Dopotutto è stata al centro del conflitto tra Francia e Germania per secoli ed è diventata un simbolo della riconciliazione europea. C’è un grande numero di coppie franco-tedesche che vivono lì e che non sono in grado di comprendere come qualcuno possa aver combattuto per questo, così come i bambini nati dopo la riconciliazione in Irlanda.

Se c’è una cosa che ho imparato è che devi essere umile quando si tratta di storia e non dire che qualcosa non accadrà perché può sempre succedere. Un bambino nato un minuto dopo la firma degli accordi sarà incapace di capire come noi abbiamo potuto pensare o vivere in modo diverso.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Benny Morris e Daniel Blatman riprendono la discussione sulla scia dell’uscita del libro di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza”

NOTA REDAZIONALE: riteniamo interessante per il lettore seguire il dibattito storiografico sulla guerra del ’47-’48 da cui è nato lo Stato di Israele che viene proposto ai lettori israeliani dal quotidiano “Haaretz”.

Come in altri articoli[vedi http://zeitun.info/?s=pulizia+etnica ]che abbiamo già tradotto, il principale protagonista è lo storico ebreo- israeliano Benny Morris, autore negli anni ’90 di importanti studi che hanno messo in serio dubbio la narrazione israeliana sugli avvenimenti che portarono all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, e che in seguito è passato ad un attivo sostegno delle politiche dei governi israeliani, ed in particolare del Likud. In questo caso se la prende con un suo collega israeliano-palestinese che ha scritto un libro su quelle tragiche vicende. Come in precedenti circostanze, sullo stesso giornale gli risponde un altro storico ebreo- israeliano Daniel Blatman, che si è occupato di studiare l’Olocausto e i movimenti ebraici europei non sionisti, come il Bund, partito socialista ebraico .

Israele non ha messo in atto una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948

Il problema dei rifugiati palestinesi fu il risultato di un piano strategico sionista e della “pulizia etnica”, sostiene erroneamente lo storico Adel Manna nel suo libro “Nakba e sopravvivenza”, in cui “strage” ed “espulsione” compaiono in quasi tutte le pagine.

Haaretz

di Benny Morris – 29 luglio 2017

Ho affrontato la lettura del nuovo libro del prof. Adel Manna, “Nakba e sopravvivenza: lo storia dei palestinesi che sono rimasti con qualche speranza ad Haifa e in Galilea, 1948-1956”. Conosco bene la narrazione dei palestinesi – una narrazione di spossessamento e discriminazione, di sventura storica e di infinita ingiustizia senza averne alcuna colpa.

In questa narrazione c’è solo una parte che è nel giusto ed una quantità di cattivi, tra i quali i sionisti sono i più importanti. La narrazione è stata diffusa ormai da decenni dalla dirigenza palestinese e dagli opinionisti arabi, così come dagli storici e studiosi arabi e dai loro sostenitori, tra cui Walid Khalidi e Rashid Khalidi, Edward Said ed Ilan Pappe. I loro libri riempiono gli scaffali delle biblioteche e delle librerie dell’Occidente. In Israele, i loro scritti sono in buona parte introvabili in quanto la maggior parte di essi non è stata tradotta in ebraico.

Questo vuoto non sarà riempito dalla pubblicazione, in ebraico, da parte dell’istituto Van Leer e dalla casa editrice Hakibbutz Hameuchad, di “Nakba e sopravvivenza”, (Nakba significa “catastrofe”, come è nota ai palestinesi la guerra del 1948), ma questo non è il libro che speravo. Manna, un musulmano di Majdal Krum in Galilea, ha studiato all’Università Ebraica di Gerusalemme e per anni ha insegnato in varie università e college. Il suo campo di studi comprende la storia della Palestina, i palestinesi e Gerusalemme nel periodo ottomano e in quello contemporaneo e il conflitto arabo-israeliano.

Da una conoscenza superficiale di Manna, credevo che egli conoscesse la storia della Palestina e dello Stato di Israele. Ho sperato che sarebbe riuscito ad evitare la narrazione palestinese e a costruire una storia basata sulla documentazione e sui fatti, dimostrando un’apertura intellettuale e una visione dei due lati della medaglia. Sono rimasto deluso. A dire la verità, Manna non nasconde il suo punto di partenza. Nella sua introduzione c’è un impegno o una avvertenza che il libro è scritto “dalla prospettiva dei sopravvissuti…Nel mio libro ho scelto di non adottare la posizione dello storico imparziale che nei suoi scritti lascia da parte le proprie posizioni personali ed ideologiche”, (forse tutte o in gran parte già implicite nell’uso della parola “sopravvissuti”- come se gli arabi che rimasero in Israele dopo il 1948 cercassero di sopravvivere ad una continua politica e ad una campagna intese alla loro eliminazione).

Devo avvertire i lettori che le 377 pagine dense e fitte di “Nakba e sopravvivenza” sono affette da innumerevoli ripetizioni, sia di racconti (per esempio, quello dell’esecuzione di cinque giovani arabi a Majdal Krum il 5 novembre del 1948, che è raccontata almeno tre volte) e di varie recriminazioni. La descrizione complessiva di quello che è successo qui nel 1948 come “massacro ed espulsione” o “espulsione e massacro” compare in quasi tutte le pagine almeno una volta, se non varie. Quindi oserei dire che il numero di volte in cui nel libro compare questa frase è superiore al numero di arabi che sono stati uccisi in casi in cui hanno avuto luogo stragi.

Vale la pena notare, peraltro, che massacri di arabi contro ebrei, e ce ne sono stati, sono appena citati nel libro – e quando Manna fa riferimento al massacro nella raffineria di petrolio ad Haifa il 30 dicembre 1947 lo definisce come un “attacco” o un “grave attacco”, non come un massacro. Questo è il modo in cui le cose compaiono in una narrazione rispetto ad un vero saggio storiografico.

Il libro è diviso in due parti. Il primo affronta quello che successe nel 1948 e il secondo si concentra su quello che avvenne tra il 1949 e il 1957 agli arabi che rimasero in Israele, che si definiscono come “abitanti palestinesi dello Stato di Israele” o come “arabi del 1948”. In entrambe le parti l’enfasi è posta sul corso degli eventi nel nord – la Galilea ed Haifa – con pochissimo spazio dedicato a quello che successe nel centro e nel sud del Paese.

Nel suo lavoro Manna fa ampio uso della stampa araba (cosa che approvo), della stampa di sinistra ebraica e dei verbali di processi, soprattutto sentenze dell’Alta Corte di Giustizia, relative alla minoranza araba ed ai partiti politici arabi dal 1948 al 1957.

Buona parte del libro si basa su interviste che lui o altre persone hanno fatto ad arabi che hanno vissuto il 1948 e il primo decennio di vita dello Stato di Israele. Manna difende appassionatamente il valore della “storia orale” come una fonte attendibile per la ricostruzione degli avvenimenti e di sentimenti del passato. Attraverso “Nakba e sopravvivenza” egli “mostra” che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente). Non fornisce dettagli su come le interviste sono state condotte. A volte non dice neppure quando si sono svolte o chi ha fatto l’intervista.

E’ ovvio che Manna ha fatto una ricerca di archivio molto povera (praticamente tutte le sue note sono annotazioni archivistiche approssimative e/o non corrette; per esempio la maggior parte dei riferimenti all’Archivio dell’esercito israeliano). Quasi tutte le citazioni da fonti primarie sono riferite di seconda mano da ricerche di altre persone, compresi libri che ho scritto io (a proposito dei quali Manna fa sia apprezzamenti positivi che riserve, alcune delle quali giustificate). Ha accuratamente scelto cosa inserire nel suo libro e cosa escludere.

Progetto strategico sionista

Per lo più gli storici distorcono la storia non attraverso grossolane falsificazioni ma piuttosto ignorando documenti e fatti importanti. Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo fecero anche negli anni successivi alla guerra; non ci fu un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non ci fu neppure una guerra: ci fu solo un’espulsione e nient’altro.

A merito di Manna, egli nota che i dirigenti degli arabi di Palestina e quelli arabi della regione rifiutarono effettivamente il piano di spartizione [della Palestina tra ebrei sionisti e palestinesi, ndt.] (adottato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947, che secondo Manna era immorale), ma dimentica di citare che il giorno seguente alcuni palestinesi aprirono il fuoco e iniziarono attacchi che in alcune settimane si ingigantirono fino a diventare una guerra civile generalizzata – la prima fase della guerra che andò dal novembre 1947 al maggio 1948. Per come la vede Manna, la guerra semplicemente scoppiò; nessuno le diede inizio.

Il suo argomento centrale, di fatto il tema del libro, è che il problema dei rifugiati palestinesi sia nato come conseguenza di un progetto sionista che venne coscientemente adottato fin dall’inizio e in conseguenza di una messa in pratica sistematica di questo progetto: “Il trasferimento degli arabi dalle zone del Paese verso i vicini Stati arabi era diventato un obiettivo dichiarato fin dal rapporto della commissione Peel [commissione del potere mandatario inglese in seguito alla più importante rivolta palestinese contro inglesi e sionisti, ndt.] del 1937. Il piano dell’offensiva ebraica (Piano D), messo in atto nell’aprile 1948, era un importante anello nella pianificazione dell’espulsione dei palestinesi, (ma) la politica di pulizia etnica fu molto più estesa e complessa di qualunque piano scritto… In Galilea una politica di pulizia etnica venne messa in pratica nelle prime fasi della guerra, in zone che erano state destinate allo Stato ebraico in base al piano di spartizione [della Palestina deciso dall’ONU, ndt.].

Manna indica due azioni iniziali dell’Haganah [principale milizia armata sionista, da cui è nato l’esercito israeliano, ndt.] subito nel dicembre 1947 (le azioni a Khisas e a Balad al-Sheikh) come manifestazioni del “desiderio da parte dei dirigenti dell’Yishuv (la popolazione ebraica del Paese prima della fondazione dello Stato di Israele) che nessun palestinese rimanesse nella Galilea orientale e nella pianura costiera.” In seguito menziona come risultato di questa politica l’ “espulsione” degli abitanti di Tiberiade, Safed, Beit She’an, Giaffa, Haifa e Acri nell’aprile e maggio del 1948. Manna continua a dire che durante la seconda metà della guerra, dal maggio 1948 al gennaio 1949 – durante la guerra convenzionale che fece seguito all’invasione della Palestina da parte degli Stati arabi vicini – la politica di Israele fu e rimase l’espulsione della popolazione araba locale. Infine Manna sostiene che questa politica fu ancora perseguita dal 1949 al 1956. Secondo lui il divieto di ritorno dei rifugiati e le espulsioni di massa di “infiltrati” nei primi anni dopo il 1948 furono manifestazioni di questa politica, e nota che la sua stessa famiglia fu era tra le persone espulse da Majdal Krum in Libano nel 1949.

Manna afferma che Israele usò leggi contro l’infiltrazione per espellere quanti più arabi possibile dal nascente Paese, comprese persone che non erano infiltrate ma risultavano non possedere un certificato del registro dell’anagrafe o una carta d’identità israeliana. Indica persino il massacro di Kafr Qasem [in cui, in concomitanza con la guerra contro l’Egitto per il controllo del canale di Suez, 48 ignari contadini palestinesi con cittadinanza israeliana di ritorno dai campi vennero uccisi dall’esercito israeliano che, senza informarli, aveva anticipato il coprifuoco in vigore nelle zone arabe del Paese, ndt.] nella cosiddetta “Zona del Triangolo” del 29 ottobre 1956 come una manifestazione di questa politica.

Le argomentazioni di Manna non sono convincenti. Ha ragione quando dice che c’era una politica di espropriazione delle terre e di discriminazione contro gli arabi che rimasero in Israele (benché il governo militare e l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento fossero misure logiche alla luce dei tentativi di distruggere l’Yishuv e della continua ostilità, compresa la violenza da parte degli arabi nei Paesi limitrofi, tra cui rifugiati dalla Palestina, contro lo Stato di Israele ed i suoi abitanti ebrei). Ma, una politica di espulsione dal 1949 al 1956? Se ci fosse stata una simile politica, perché non venne messa in pratica? Perché il numero di arabi in Israele è aumentato costantemente, in parte per le infiltrazioni di rifugiati all’interno di Israele che, nel corso degli anni, ottenero la carta d’identità?

L’autore sostiene anche che l’intenzione di Israele era di approfittare della campagna del Sinai per espellere la minoranza araba dal Paese, ma il piano è fallito a causa della mancata partecipazione della Giordania alla guerra. Anche questo non ha fondamento. In Israele c’erano sicuramente figure di spicco, tra cui il capo di stato maggiore dell’esercito Moshe Dayan, che negli anni ’50 speravano che scoppiasse un’altra guerra e permettesse a Israele di occupare la Cisgiordania o forse persino di espellere in Giordania gli arabi israeliani. Tuttavia non si trattava di una “politica” statale.

Nessun ordine di espulsione

Torniamo al 1948. Se Manna avesse letto i documenti dell’archivio dell’Haganah, dell’archivio dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] o degli archivi di Stato di Israele (o la versione aggiornata del 2003 del mio libro sul problema dei rifugiati “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi rivisto”), avrebbe scoperto che non ci fu una politica di espulsione dei “palestinesi” e che l’Haganah non espulse arabi prima dell’aprile 1948 (con l’eccezione degli abitanti arabi di Cesarea, in cui le motivazioni non avevano niente a che fare con la lotta contro gli arabi). Avrebbe anche trovato che l’Haganah e i dirigenti dell’Agenzia Ebraica (il governo dell’Yishuv) si attennero alla politica di accettazione del piano di spartizione (benché certamente non ne fossero contenti), che includeva una numerosa minoranza araba nello Stato ebraico che si stava formando. Il 24 marzo 1948 Yisrael Galili, capo del comando nazionale dell’Haganah (e di fatto il vice del ministro della Difesa David Ben-Gurion) emise un ordine generale alle brigate e ai settori dell’Haganah perché si attenessero alla politica del momento di lasciare al loro posto e di garantire la pace e la sicurezza delle comunità arabe nella zona destinata al nascente Stato (salvo che in casi eccezionali per ragioni militari).

Persino nel passaggio dell’Yishuv a una strategia di attacco nell’aprile e maggio 1948 dopo quattro mesi di strategia difensiva, i suoi dirigenti e membri dello Stato Maggiore dell’Haganah non adottarono una politica di “espulsione degli arabi” e le varie unità operarono in modo diverso a seconda della zona. Il “piano D”, dal 10 marzo 1948, non obbligava ad “espellere gli arabi” – anche se ai comandanti di brigata era stato dato il permesso di espellere le popolazioni arabe o di consentire loro di restare. Molto dipendeva dalle caratteristiche degli arabi del posto, dal comportamento degli abitanti e dalla personalità dei comandanti ebrei, oltre che dalle circostanze in ogni singola zona.

Ad Haifa fu la dirigenza araba che chiese ai suoi abitanti di andarsene (il sindaco ebreo, Shabtai Levy, e gli attivisti del sindacato dei lavoratori Histadrut [sindacato sionista, ndt.] chiesero loro di rimanere); a Tiberiade non ci furono espulsioni (benché forse le autorità del mandato britannico incoraggiarono l’esodo degli arabi); a Giaffa la popolazione se ne andò a causa della pressione militare ebraica e della previsione di un’occupazione ebraica dopo il ritiro delle truppe britanniche; a Safed scapparono a causa della conquista della città da parte del Palmach [milizia armata sionista inserita nell’Haganah, ndt.], non in conseguenza di ordini per espellerli; ad Acri non ci fu un ordine di espulsione e la maggioranza degli abitanti rimase in città dopo che venne occupata il 18 maggio.

Manna ha ragione quando dice che durante l’operazione “Hiram” alla fine dell’ ottobre 1948 e nelle settimane successive i soldati dell’IDF misero in atto una serie di massacri (a Saliha, Hula, Jish, Safsaf, Eilabun, Majdal Krum, Arab al-Mawasi e altrove) e qui e là espulsero villaggi (Jish, Eilabun, Birim e altri). Ed è anche vero che il trattamento dei drusi [minoranza religiosa considerata eretica dai musulmani, ndt.](che avevano in effetti stretto un’alleanza con l’Yishuv) e dei cristiani fu diversa da quello dei musulmani, che nei mesi precedenti avevano attaccato l’Yishuv. Tuttavia non ci fu una politica e non ci fu uniformità di comportamento tra le unità e gli ufficiali.

Il 12 novembre Ya’akov Shimoni, un funzionario del ministero degli Esteri (che in precedenza era stato un importante membro del servizio di intelligence dell’Haganàh (lo Sha’i)), visitò la Galilea con altri funzionari del ministero e parlò con i soldati e con altri ufficiali e funzionari sul campo. Scrisse: “Il trattamento (a Hiram) degli abitanti arabi della Galilea come nei confronti dei rifugiati arabi che stavano vivendo nei villaggi della Galilea o nelle loro vicinanze ha riflettuto un comportamento casuale ed è stato diverso da luogo a luogo in base alle iniziative di un comandante o dell’altro o di un ufficiale e dell’altro dei vari dipartimenti del governo: in un luogo hanno espulso e in un altro hanno lasciato la popolazione sul posto; in un posto hanno accettato la resa di un villaggio e in un altro invece no; in un posto hanno favorito i cristiani e in un altro hanno trattato cristiani e musulmani allo stesso modo senza distinzione; in un posto hanno persino consentito ai rifugiati che erano scappati in un primo momento dopo la conquista di tornare alle proprie case, e in un altro non l’hanno permesso.”

E il 18 novembre Shimoni aggiunse: “Troppe mani stanno mescolando la polenta…Loro (i comandanti dell’IDF) non hanno nessun ordine chiaro in mano o una prassi chiara riguardo al modo di comportarsi con gli arabi.”

E’ vero che dopo la visita di Ben-Gurion ai comandi del fronte settentrionale alla fine dell’operazione “Hiram” venne emanato alle brigate dell’esercito un ordine (generico) a nome di Moshe Carmel, comandante del fronte, per “aiutare” gli abitanti ad andarsene, ma la direttiva arrivò troppo tardi e non venne messa in pratica alla lettera. In un posto espulsero [la popolazione araba], in un altro non lo fecero.

L’argomentazione di Manna è che i massacri dell’operazione “Hiram” vennero organizzati “dall’alto” e intendevano far scappare gli arabi. Tuttavia: 1) Manna non ha nessuna documentazione che dimostri un simile rapporto e 2) in molti dei villaggi in questione fughe o espulsioni di massa non avvennero in seguito a massacri, né a Dir al-Assad né a Majdal Krum (qui Manna si sbaglia riguardo al suo villaggio: non ci fu un’espulsione da Majdal Krum), né a Arab al-Mawasi, né a Jish né a Hule. E’ possibile che comandanti sul campo abbiano pensato che un massacro avrebbe portato a una fuga di massa; forse un’ansia di vendetta, o solo semplice crudeltà erano la causa di queste uccisioni. Non ci sono prove in un senso o nell’altro, salvo sul fatto che unità di tre diverse brigare (la Golani, la Settima e la Carmeli) misero in atto una serie di massacri durante quelle settimane.

C’è in effetti il sospetto – ma sulla base del materiale che è a disposizione dell’analisi pubblica è impossibile arrivare alle conclusioni certe nel modo in cui lo fa Manna. Ma è vero che gli esecutori di questi crimini non furono puniti (in apparenza grazie all’intervento del ministro della Difesa).

In più bisogna notare che dal giugno 1948 la politica del governo di Israele fu di proibire ai rifugiati di tornare nel Paese, e che questa politica venne messa in pratica durante tutta la guerra e nel dopoguerra in modo sistematico (benché decine di migliaia di rifugiati riuscirono ad infiltrarsi nel Paese o venne loro consentito di tornare nel quadro di un “ricongiungimento familiare” o con accordi speciali. Per esempio, il vescovo George Hakim e centinaia di altri cristiani, come gli abitanti di Eilabun, tornarono grazie a detti accordi e alla fine ottennero la cittadinanza israeliana, come gli stessi genitori di Manna, che si infiltrarono nel Paese dopo un lungo periodo nel campo di rifugiati di Ain al-Hilweh in Libano).

“Successo parziale”

Per cui è stato così che alla fine della guerra 125.000 arabi rimasero nello Stato di Israele e 160.000 alla fine del 1949, la maggioranza dei quali nel nord. Manna non spiega per niente come ciò accadde, citando solo quelli, tra i 20.000 e i 30.000, che vennero cooptati all’interno della popolazione del Paese nel maggio 1949 con l’annessione allo Stato del “Triangolo”, che va da Umm al-Fahm fino a Kafr Qasem. Egli sostiene che questi individui utilizzarono vari metodi per “sopravvivere” (collaborando con le autorità, nascondendosi in grotte nei pressi dei loro villaggi, e così di seguito). Non spiega perché, se c’era davvero una politica complessiva di espulsione, non sia stata messa in pratica, perché l’esercito e la polizia non espulsero semplicemente gli arabi rimasti, villaggio dopo villaggio, e lasciarono anche un gran numero di arabi ad Haifa, Acri e Giaffa, molti dei quali musulmani.

Riguardo a Nazareth, in cui la maggior parte della popolazione araba rimase, Manna giustamente nota la sensibilità israeliana verso l’opinione pubblica del mondo cristiano. Ma riguardo a Majdal Krum? A chi all’estero sarebbe importato che gli abitanti del villaggio di Manna o di quelli vicini – Sakhnin, Dir Hana, Arrabeh, oggi tutti grandi villaggi o cittadine – venissero espulsi alla fine dell’ottobre 1948? Nell’estate del 1948 l’IDF consigliò al governo che Acri venisse svuotata dei suoi abitanti. Perché, se l’espulsione era la prassi, non vennero espulsi fuori dal Paese, a Giaffa o altrove? Ben-Gurion temeva il suo ministro per le Minoranze, Bechor Sheetrit (che si oppose all’espulsione degli abitanti di Acri)?

Non ci sono spiegazioni per tutto ciò, tranne l’assenza di una qualunque politica di espulsione, anche se Ben-Gurion e molti altri volevano che nello Stato ebraico rimanessero quanti meno arabi possibile, e certamente non ci fu un’ espulsione sistematica come sostiene Manna. Non fu la “tenacia” degli abitanti dei villaggi che impedì la loro espulsione – se ci fosse stato un ordine di espulsione, se ne sarebbero andati (come successe a Caesarea, Eilabun, Lod, Ramle e in altri luoghi in cui agli abitanti venne ordinato di andarsene).

“Nonostante i molti tentativi da parte dell’esercito e di altri elementi di espellere gli arabi dalla zona, il successo fu solo parziale,” scrive Manna. Un’assurdità. Quando qualcuno punta contro di te e contro la tua famiglia un fucile e ti dice di andartene, soprattutto dopo che ha già ucciso alcuni dei tuoi vicini, tu te ne vai. Le spiegazioni di Manna sono semplicemente poco serie.

L’autore ha apportato un significativo contributo al discorso sugli arabi in Israele, sottolineando l’influenza della Nakba sulle loro vite e mentalità negli anni successivi al 1948. Queste cose non sono state interiorizzate da molti ebrei israeliani. Ci sono molti passi del libro in cui Manna critica il suo stesso popolo. Descrivendo le azioni degli arabi nella rivolta del 1936-1939, ad esempio, li accusa di aver commesso “gravi atti di terrorismo contro soldati e civili, incendiando campi e distruggendo proprietà…Il terrorismo venne impiegato anche all’interno della stessa comunità araba, soprattutto contro gli oppositori della rivolta.”

Scrive anche che i dirigenti della rivolta, compreso Haj Amin al-Husseini [Gran Muftì di Gerusalemme e leader politico palestinese, ndt.] assunsero “posizioni estremiste e intransigenti, che causarono gravi danni” ai palestinesi. Tuttavia questi lampi di lucidità critica sono davvero rari. A un certo punto Manna critica i palestinesi (ed i loro storici?) e afferma che non hanno ancora condotto “un dibattito critico e serio sulla storia della Nakba e sulle sue implicazioni.” Si direbbe che ha ragione.

Per la Nakba non c’era bisogno di una “politica di espulsione”

A differenza di quanto sostiene Benny Morris, il saggio di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza” è un libro stimolante, degno di nota per il suo approccio metodologico nel presentare una storia credibile e sfaccettata della tragedia palestinese del 1948

Haaretz

Di Daniel Blatman – 4 agosto 2017

Le critiche di Benny Morris all’importante libro “Nakba e sopravvivenza: la storia dei palestinesi che sono rimasti ad Haifa e in Galilea, 1948-1956” di Adel Manna (vedi articolo “Israele non aveva una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948,” 29 luglio) sono parte dei tentativi dello storico – durati in modo continuativo per 15 anni – di negare quello che egli sosteneva in passato: che Israele mise in atto una pulizia etnica a tutti gli effetti durante la guerra di indipendenza di Israele del 1948. (“Nakba”, che significa catastrofe, è il termine utilizzato dagli arabi per descrivere la guerra, quando più di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante un periodo di circa due anni).

In passato Morris lo ha affermato con encomiabile coraggio. In un dibattito con lo scrittore israeliano Aharon Megged sulle pagine di Haaretz nel 1994 dichiarò: “Il nuovo materiale fattuale che è stato reso pubblico nei documenti (per esempio: dettagli che sono stati celati riguardo a massacri, espulsioni ed espropri condotti dalle forze di difesa ebraiche nel 1948 e negli anni seguenti) hanno dato luogo a una diversa interpretazione dell’impresa sionista. La principale aspirazione del sionismo era di risolvere i problemi del popolo ebraico nella Diaspora con la costruzione di un’entità statale che sarebbe stata un rifugio per gli ebrei e un Paese modello.”

“Ma,” continuava Morris, “i sionisti avevano anche altri obiettivi: prendere il controllo della Terra di Israele dal mare al fiume [Giordano] per sostituire i palestinesi che vi vivevano: per cacciarli fuori dal Paese nel momento decisivo le forze di difesa del movimento sionista diedero espressione al bisogno bellicoso ed espansionista che è sempre stato alla base dell’ideologia sionista, e fecero in modo – sia con mezzi per farli fuggire e espellerli, o impedendo il ritorno dei rifugiati – di spingere fuori dai confini dello Stato in formazione la grande maggioranza degli arabi che vivevano nelle zone che divennero lo Stato di Israele, ed anche di allargare lo Stato oltre le linee disegnate dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947 [che diede il beneplacito alla partizione della Palestina, ndt.].”

Il Benny Morris del 1994 ha fatto un lavoro migliore per spiegare quello che il dott. Manna afferma nel suo libro. Ma negli ultimi anni Morris ha cercato di “correggere un errore” e di dimostrare che le conclusioni a cui è arrivato con le sue ricerche sull’espulsione dei palestinesi erano in realtà sbagliate. Non so cosa gli abbia fatto cambiare le conclusioni riguardo alla catastrofe che Israele inflisse al popolo palestinese nel 1948. Quello che è peggio è il fatto che Morris critichi maliziosamente una ricerca che sta cercando, in modo equilibrato e critico, di affrontare la Nakba e le sue conseguenze da un punto di vista che non corrisponde alla narrazione sionista – una narrazione che anche Morris aveva duramente contestato in passato per i suoi preconcetti ideologici.

Morris nella sua recensione afferma: “Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo hanno fatto anche negli anni successivi alla guerra; non è avvenuto un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non c’è neppure stata una guerra: c’è stato solo un’espulsione e nient’altro.” Ma questa non è un’affermazione simile a quelle che egli stesso aveva fatto 23 anni fa?

Nel suo libro Manna fa uno stimolante tentativo di scrivere una storia sfaccettata della tragedia palestinese, e il suo approccio metodologico è degno di nota. Ha ragione quando sostiene che la ricerca israeliana riguardante gli avvenimenti che hanno riguardato il 1948 soffre del problema di una separazione innaturale tra la “ricerca ebraica” e la “ricerca araba”. In altre parole, tra la storia scritta dagli storici ebrei e quella scritta dagli storici arabi. Ci sono molte ragioni di questa divisione, dal fatto di comprendere le lingue pertinenti all’influenza delle narrazioni nazionali sullo storico.

A differenza di molti dei suoi critici, Manna parla correntemente l’arabo, l’ebraico e l’inglese, ed è questa la ragione per cui, per esempio, può leggere ed esaminare non solo documenti ufficiali dell’Haganah (la milizia armata ebraica pre-statale), ma può anche analizzare la stampa araba e altre fonti arabe. In altre parole, a differenza di Morris, le cui ricerche si basano principalmente sui documenti ufficiali degli archivi israeliani ed inglesi, Manna presenta un quadro complesso e più credibile della tragedia palestinese.

La tendenziosità di Morris è chiara, per esempio, anche nelle sue critiche a Banna riguardo alle interviste che ha raccolto dai sopravvissuti della Nakba, che sono ora uomini e donne anziani. Com’è possibile, contesta Morris, che dopo così tanti anni la gente ricordi quello che accadde realmente? Secondo Morris ” Attraverso ‘Nakba e sopravvivenza’ egli «mostra» che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente).”

In altre parole secondo Morris quello che importa realmente per comprendere “quello che accadde realmente” è quello che ha trovato lui negli archivi israeliani o britannici. Strano, dato che in una recensione che scrisse nell’edizione ebraica di Haaretz (“Quei rifugiati non hanno nessun posto in cui tornare, 24 novembre 1992) in una raccolta enciclopedica pubblicata dall’Instituto per gli Studi Palestinesi sui villaggi palestinesi che furono cancellati dalle mappe nel 1948, pensava in modo diverso: “Gli autori non hanno intervistato rifugiati (e tra pochi anni non ne rimarrà nessuno”), affermò.

Benny Morris crede ancora che il ruolo dello storico non sia altro che quello di raccontare ai suoi lettori quello che ha trovato in un archivio e in documenti resi pubblici da qualche organizzazione governativa o meno. Se gli studi sull’Olocausto, per esempio, avessero continuato ad essere basati su un approccio simile – come è stato in realtà il caso della storiografia tedesca negli anni ’70 – non avremmo saputo praticamente niente sulle vite degli ebrei e sui loro tentativi di sopravvivere durante gli anni della loro grande tragedia, come oggi sappiamo grazie alle molte testimonianze degli stessi sopravvissuti.

Ed è proprio quello che fa Manna: propone la storia della tragedia nazionale del suo popolo dal punto di vista della vittima, del sopravvissuto. La politica di Israele sul problema palestinese e la politica di espulsione non sono il cuore del libro: quello che vi si trova è la storia dell’espulsione e della sopravvivenza.

Anche sulla questione dell’espulsione Morris si agita nel tentativo di allontanare se stesso da quello che era una volta. Ma qui cammina su un terreno minato: ricercatori seri del fenomeno della violenza di massa non devono trovare una prova inequivocabile dell’esistenza di una “politica di espulsione” per arrivare alla conclusione che sono stati commessi crimini contro l’umanità. Egli asserisce che non ci fu una politica di questo tipo, e se ci furono direttive emesse per perpetrare massacri nei villaggi palestinesi esse furono comunicate, egli afferma, “attraverso un ordine (generico).”

Si potrebbe pensare che quando gli Ottomani decisero di espellere gli armeni nel 1915 lo abbiano pubblicato sulla stampa ufficiale, o quando Ratko Mladic decise di massacrare oltre 7.000 musulmani bosniaci, uomini e ragazzi, a Srebrenica nel 1995 abbia reso pubblico il suo ordine. Ordini e istruzioni di attuare tali crimini sono dati oralmente, in discussioni riservate e in modo implicito, in un linguaggio ambiguo. Ciò non significa che quelli che li mettono in atto non sappiano esattamente quello che intende la persona che dà questi ordini ambigui.

Morris scopre la prova definitiva della debolezza delle affermazioni di Manna riguardo alle espulsioni nel fatto che alla fine della guerra 160.000 arabi rimasero all’interno di Israele. Questa è un’espulsione? Se ci fosse stata una politica di espulsione, chiede, come è possibile che siano rimasti così tanti palestinesi? Ciò mi ricorda quello che hanno scritto i negazionisti dell’Olocausto nei primi anni dopo la II guerra mondiale. Una soluzione finale? Di cosa state parlando? Com’è possibile che centinaia di migliaia di ebrei siano rimasti in ogni Paese europeo, e milioni in Unione Sovietica? Forse, sostengono questi antisemiti, molte centinaia di migliaia morirono per le dure condizioni in vari posti – ma…camere a gas e uccisioni di massa?

Ovviamente nessuna ricerca è priva di errori e di affermazioni imprecise. Questo è vero anche per la ricerca di Manna, e Morris cita alcune di queste. Ma il libro di Manna è un importante contributo allo studio della tragedia palestinese e soprattutto una rara opportunità per il lettore ebreo di comprendere gli aspetti umani della grande catastrofe che l’indipendenza nazionale del suo popolo ha inflitto a membri di una nazione che ha vissuto in questo Paese per molti anni prima di essa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ancora in attesa di un Gandhi palestinese? Lei/lui c’è già

Zaha Hassan – 30 luglio 2017, Haaretz

Ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks. Ogni prigioniero che fa lo sciopero della fame è un Mandela, e ogni gazawi che sopravvive nonostante le condizioni disumane è un Gandhi palestinese.

La seconda domanda (dopo “Dov’è la Palestina?”) più frequentemente posta a un palestinese-americano è: “Dov’è il Gandhi palestinese?”

Gli americani vogliono sapere perché i palestinesi non utilizzano tattiche non-violente per porre fine ai loro decenni di oppressione e di colonizzazione della loro terra.

Ovviamente in questa domanda è implicita la premessa, coltivata dalla rappresentazione mediatica dell’ “arabo infuriato” e del musulmano nichilista, così come da campagne lautamente finanziate di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che coinvolgono gruppi di lobbysti ed i centri di studio ad essi associati che dipingono tutto il Medio oriente come un covo ribollente di odio contro l’Occidente cristiano, che i palestinesi siano geneticamente predisposti alla violenza.

La verità è che, se un premio Nobel fosse assegnato a un intero popolo per la moderazione che ha dimostrato e per l’ostinata caparbietà a sopravvivere, a perseverare e a costruire un domani migliore nonostante i sistematici tentativi di eliminarlo – persino tentativi di negare addirittura la sua esistenza, come fece Golda Meir [nel 1969 in un’intervista l’allora primo ministro di Israele affermò che i palestinesi non esistevano, ndt.] – esso dovrebbe andare al popolo palestinese.

Perché, dove esiste un precedente dell’imprigionamento di 2.2 milioni di persone che sono stati resi deliberatamente dipendenti per il cibo, l’acqua e l’energia durante un intero decennio, mentre la narrazione continua a dire che è tutto giustificato dalla “sicurezza” di Israele, come nel caso delle attuali sofferenze di Gaza?

Dove c’è un precedente di sette milioni di persone a cui viene negato il diritto di tornare alle proprie case e proprietà confiscate settant’anni fa, solo perché sono della religione sbagliata, mentre nuovi insediamenti illegali si espandono freneticamente nel pezzo di terra della Cisgiordania che dovrebbe essere parte del loro Stato ancora da creare?

Dove c’è un precedente di Stati e istituzioni incaricati di difendere le leggi e la legalità internazionali che chiedono a un popolo occupato sempre più concessioni e di negoziare per legittimare crimini di guerra e per normalizzare l’esistenza dell’occupante?

La verità è che ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks [la donna di colore che nel 1955 in Alabama si rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco e diede inizio alla lotta per i diritti civili dei neri negli USA, ndt.]. Ogni prigioniero che mette in pericolo la propria vita per settimane intere facendo lo sciopero della fame per lottare contro la propria incarcerazione e le condizioni di detenzione è un Mandela, e ogni persona che oggi vive a Gaza e che sopravvive nonostante le privazioni disumane, è un Gandhi palestinese.

Quante altre migliaia di tappetini da preghiera devono essere srotolati nelle strade di Gerusalemme prima che la resistenza non violenta palestinese sia non solamente riconosciuta ma anche appoggiata e incoraggiata? Quante altre proteste del venerdì devono aver luogo a Bi’lin e in altri villaggi in Cisgiordania? Quante tende della pace devono essere erette e demolite a Gerusalemme e nel Naqab [Negev in arabo, ndt.]?

La vera questione, tuttavia, non è quantificare le proteste, ma garantire che altri le conoscano.

Gandhi lo sapeva. Martin Luther King, Jr lo sapeva. E il governo israeliano, l’AIPAC [l’associazione ebraica filo-israeliana più potente negli USA, ndt.] e quanti sono interessati a mantenere il dominio di Israele sulla terra palestinese lo sanno. E questa è la ragione per cui vergognosi esempi di legislazione come la legge 720 del Senato contro il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.] stanno circolando nelle aule del Congresso. La legge, stilata con la collaborazione dell’AIPAC, lo farebbe diventare un reato punibile fino ad un massimo di 20 anni di carcere e una multa fino a 1 milione di dollari per il fatto di sostenere l’uso di metodi economici non violenti contro Israele.

Potete immaginare Rosa Parks che sconta 20 anni di prigione per aver organizzato il boicottaggio degli autobus segregati? O Martin Luther King Jr. obbligato a pagare un milione di dollari per aver boicottato ristoranti razzisti con posti separati?

Dovrebbe essere chiaro a tutti noi che punire il diritto di espressione che ha lo scopo di porre fine a un’ingiustizia è sbagliato. Quando si vedono i fatti, gli americani lo capiscono. E lentamente ma inesorabilmente alcuni membri del Congresso che inizialmente erano stati co-promotori della legge con un tipico riflesso condizionato, una deferenza cieca verso l’AIPAC, stanno vedendo chiaro, come la senatrice Gillibrand, che, quando è stata messa in guardia dall’ACLU [American Civil Liberties Union, Unione Americana per le Libertà Civili, organizzazione non governativa che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA, ndt.] sulle preoccupazioni relative al diritto di parola e a problemi di incostituzionalità della legge e sfidata da elettori durante un’assemblea comunale, ha espresso la sua volontà di riconsiderare il suo appoggio [alla legge].

Così, mentre CNN e Fox News [due importanti reti televisive statunitensi, ndt.] possono non informare sulle centinaia di migliaia di palestinesi che hanno pregato nelle strade di Gerusalemme la scorsa settimana, protestando contro il tentativo mascherato di Israele di esercitare la propria sovranità sulla Spianata delle Moschee, questi accaniti tentativi legislativi da parte dei difensori di Israele per porre fine all’appoggio alla resistenza non violenta nei territori occupati o all’estero stanno accendendo riflettori da stadio di football sui problemi.

Attivisti del movimento progressista si rendono drammaticamente conto di come le loro libertà civili vengano minacciate in nome della protezione dell’occupazione di Israele sui palestinesi. Allo stesso modo, quando le linee aeree USA hanno messo in atto la legislazione israeliana che impedisce ai difensori dei diritti umani di viaggiare in Israele (compresi ebrei-americani, uno dei quali è un rabbino), gli americani hanno visto il rapporto tra questo fatto e gli abominevoli divieti di viaggio [si riferisce alla proibizione di ingresso negli USA dei passeggeri provenienti da alcuni Paesi musulmani, ndt.] perseguiti dall’amministrazione Trump

I palestinesi ed i loro sostenitori dovrebbero sperare (e pregare nelle strade) che Israele continui a rivelare la natura della sua oppressione contro di loro, e al contempo continuare a perseguire metodi collaudati e non violenti per riportare la giustizia e lo stato di diritto, perché si giunga ad una vera comprensione delle cause e delle soluzioni del conflitto israelo-palestinese.

Non c’è un modo più efficace per mettere in luce un’ingiustizia e per modificare la percezione sbagliata ad essa associata che attraverso lo stesso oppressore. Rosa Parks, Dr. King e Gandhi lo sapevano e lo sanno anche i palestinesi e quelli che solidarizzano con loro.

Zaha Hassan è una giurista per i diritti umani e studiosa del Medio Oriente al New America [prestigioso centro studi indipendente di politica ed economia, ndt.], con sede a Washington. In precedenza è stata coordinatrice e consulente esperta del gruppo negoziatore palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)