E’ stato ricordato ai contadini palestinesi che vincere in un tribunale israeliano non è sufficiente per avere giustizia

Amira Hass – 30 aprile 2017 Haaretz

In Cisgiordania sono esclusi dalla loro stessa terra mentre l’esercito israeliano non fa rispettare gli ordini del tribunale.

A Moshe Ben-Zion Moskowitz, della colonia di Shiloh in Cisgiordania, è stato chiesto in tribunale se, quando nel 1980 ha iniziato a coltivare un terreno nella giurisdizione del villaggio palestinese di Qaryut, egli ne era proprietario. Per due volte ha risposto che il proprietario del terreno era Dio. Ma l’avvocato Jiat Nasser ha continuato a insistere sul fatto se egli personalmente fosse proprietario della terra, e alla fine Moskowitz ha risposto: “Non io personalmente, ma il popolo ebraico.”

Allora Nasser ha chiesto una spiegazione: “E’ vero che lei non ha comprato la terra?” Moskowitz ha risposto: “E’ la terra del popolo ebraico.”

Ma né Dio né il popolo ebraico hanno aiutato Moskowitz nella causa che ha intentato nel 2010 contro l’amministrazione locale di Qaryut e contro alcuni dei suoi abitanti. La corte non ha accettato la Bibbia come contratto di acquisto.

Moskowitz aveva chiesto alla corte di impedire ai convenuti palestinesi di molestarlo, secondo lui, attraverso denunce alla polizia in merito a sconfinamenti e ai tentativi di coltivare quella stessa terra. Per 30 anni, si è lamentato, egli aveva lavorato la terra senza alcun problema, finché a metà 2007 è arrivato il rabbino Arik Ascherman (allora di “Rabbini per i Diritti Umani”, ora di “Haqel – Ebrei e Arabi in Difesa dei Diritti Umani”) e ha chiesto le prove del suo diritto di proprietà.

Gli ho fatto vedere la Bibbia. Siamo tornati alla nostra terra,” ha detto Moskowitz alla corte nel dicembre 2010.

Ma dopo un’estenuante battaglia legale il giudice Miriam Lifshits nell’aprile 2016 ha deciso che Moskowitz non aveva dimostrato di aver lavorato la terra continuativamente dal 1980, e neppure nei 10 anni precedenti la presentazione della causa. Al contrario, i convenuti hanno provato i propri legami con la terra e che la stavano utilizzando; Lifshits non ha trovato alcuna prova che la terra fosse lasciata incolta quando Moskowitz se ne è impossessato. Non ha mai consegnato alla corte i documenti che aveva promesso; quello che ha detto alla polizia era in contraddizione con quello che ha detto alla corte, e i suoi testimoni lo hanno contraddetto.

Ma anche se la Bibbia e il popolo ebraico lo hanno tradito, le istituzioni che devono far rispettare la legge – la polizia, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele in Cisgiordania – non lo hanno fatto. Un anno dopo la sentenza del giudice, non hanno mosso un dito per togliere di mezzo le serre che Moskowitz ha costruito sulla terra mentre la causa era in tribunale. E questa settimana il colonnello Yuval Gez, comandante della brigata “Binyamin”, ha vietato ai proprietari legali della terra di entrarvi per la prima volta dal 2007.

Il loro avvocato, Kamer Mashraqi-Assad, ha chiesto per un anno all’esercito di scortare i proprietari alla loro terra. E’ vero, non si trova in un’area in cui l’esercito richiede una scorta militare per paura dei coloni, ma, come hanno testimoniato i contadini in tribunale, in passato sono stati oggetto di minacce e violenze.

I coloni “arrivano là con i loro fucili e i loro cani e noi non abbiamo il potere di affrontarli,” ha detto Tareq Odeh di Qaryut alla corte nel dicembre 2010. “Ho due terreni a cui non posso accedere per paura dei coloni.”

Moskowitz, ha continuato, “è armato. Se dovesse sparare a cinque di noi, nessuno gliene chiederebbe conto. Ma se uno di noi lanciasse una pietra contro di lui, nessuno di noi avrebbe scampo.” Odeh è morto un anno fa, per cui non è arrivato ad ascoltare il verdetto della corte.

La scorsa settimana l’ufficio di collegamento dell’esercito ha detto a Mashraqi-Assad che per martedì era stata predisposta una scorta per i contadini. E’ vero, era solo per un giorno, ma hanno atteso eccitati di tornare alla loro terra.

Ma lunedì notte Mashraqi-Assad ha detto loro che l’esercito si era rimangiato la parola. Gez, il comandante di brigata, non aveva intenzione di fornire la scorta, perché c’erano in giro dei coloni.

Martedì mattina Haaretz ha chiesto al portavoce dell’unità dell’esercito israeliano se Gez ha paura della violenza dei coloni o se si identifica con il loro obiettivo di impossessarsi della terra e di cacciare la popolazione che ha la proprietà della terra da prima della fondazione di Israele nel 1948. Mercoledì sera l’unità ha risposto che la scorta era stata inizialmente approvata, “anche se la zona non richiede questo tipo di procedura. Ma durante l’ispezione preliminare dell’area il giorno precedente la data concessa per entrare nel terreno, abbiamo scoperto che l’appezzamento contiene serre agricole che non sono di proprietà di chi ha fatto la richiesta, e quindi di fatto non può essere coltivato. Abbiamo deciso di rimandare la data convenuta per lavorare il terreno in modo che questo problema possa essere esaminato dai professionisti competenti. Una risposta a questa questione verrà fornita rapidamente.”

Pascolare il bestiame

Le autorità hanno anche consentito ai coloni di invadere terra di proprietà privata palestinese nel nordest della Cisgiordania, nei pressi di Tubas e Bardala, vietando al contempo l’ingresso ai pastori palestinesi, in spregio a sentenze giudiziarie.

Qualche decennio fa la parte della valle del Giordano settentrionale tra il muro di confine e il fiume Giordano era preclusa da una recinzione militare ai palestinesi che la possedevano e la lavoravano. I coloni hanno sfruttato questa situazione per impossessarsi di oltre 5.000 dunam (500 ettari) di terra di proprietà privata, con l’avallo delle autorità.

Una petizione dell’avvocato Tawfiq Jabareen all’Alta Corte di Giustizia ha portato alla cancellazione dell’ordine all’inizio del 2016. Anche se i coloni stanno ancora coltivando parte di questa terra, la cancellazione dell’ordine ha consentito almeno ai pastori palestinesi di riprendere ad abbeverare il loro bestiame alla sorgente Ein Saqut.

Tuttavia lunedì personale della polizia e dell’amministrazione civile ha vietato ai pastori palestinesi di abbeverarvi le loro mucche. E’ risultato che qualche giorno prima mandrie di mucche “ebraiche” avevano occupato il luogo.

Erano state portate lì da un avamposto illegale costruito all’inizio di gennaio al confine della riserva naturale di Umm Zuqa, non lontano dalla base militare dove si trova il battaglione di soldati ultra-ortodossi. Nonostante gli ordini emanati contro l’avamposto di interrompere i lavori, questo continua ad espandersi e i suoi residenti stanno cercando di cacciare i pastori palestinesi dai loro pascoli.

Due settimane fa l’organizzazione “Machsom Watch” [associazione di donne israeliane che si oppongono all’occupazione, ndt.] ha scoperto che l’avamposto si rifornisce d’acqua grazie a un collegamento illegale alla vicina base. Dopo una verifica, il portavoce dell’unità dell’esercito lo ha confermato, aggiungendo che i comandanti non avevano la minima idea che ciò stesse accadendo, e che le istituzioni che devono far applicare la legge stanno indagando. Che si sia trattato di una coincidenza o meno, la mandria di vacche si è spostata allora a Ein Saqut.

Mercoledì quattro soldati hanno ordinato ai pastori palestinesi di andarsene e di non avvicinarsi alle mucche dei coloni. Ma quando le attiviste di “Machsom Watch” sono arrivate “i soldati hanno cambiato tono e hanno lasciato che i pastori rimanessero lì con il loro bestiame, ma non che si avvicinassero alla sorgente,” ha detto una di loro, Daphne Banai. “Hanno sostenuto che era una riserva naturale ed alle mucche era proibito entrarvi.

Ma quando i soldati se ne sono andati ho visto i coloni condurre le loro vacche alla sorgente.”

Haaretz ha chiesto al coordinatore delle Attività del Governo nei Territori, al distretto di polizia di Shai (Cisgiordania) e al portavoce dell’unità dell’esercito se sapessero del bestiame che si trovava su un terreno di proprietà privata palestinese, e se vietare la sorgente ai pastori palestinesi e alle loro mandrie fosse un incidente isolato o una politica deliberata. Al momento della stesura di questo articolo non è arrivata nessuna risposta.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Fonti palestinesi dicono che Abbas sta cercando di ingraziarsi Trump punendo Hamas

Zvi Bar’el, 29 aprile 2017, Haaretz

Mantenere al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente politico da parte del presidente palestinese per convincere Trump di essere un partner per la pace.

I due milioni di abitanti della Striscia di Gaza sono al buio – non come metafora della mancanza di un orizzonte diplomatico, ma realmente. Il blackout è il vertice dell’assedio economico cui è sottoposto il territorio.

Decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza hanno subito un taglio di almeno il 30% ai loro salari e molti lavoratori stanno per essere costretti ad andare in pensione anticipata. L’assistenza fornita dall’ANP ai sistemi sanitario e di welfare a Gaza diminuirà probabilmente in modo drastico. E se non sarà trovata a breve termine una soluzione alla frattura tra Hamas e Fatah, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe dichiarare Gaza sotto la guida di Hamas “Stato ribelle” e forse addirittura definire Hamas un’organizzazione terroristica.

Tutto questo avviene mentre Khaled Meshal, tuttora a capo dell’ufficio politico di Hamas, si accinge a rendere pubblico il nuovo statuto dell’organizzazione, lunedì prossimo in Qatar. Due giorni dopo Abbas incontrerà il presidente USA Donald Trump.

La pressione su Gaza non è casuale, né è slegata dagli sviluppi regionali ed internazionali. Durante un incontro degli ambasciatori palestinesi di tutto il mondo, l’11 aprile in Bahrein, Abbas ha affermato che intende intraprendere un’azione risoluta nei confronti della “pericolosa situazione” creata da Hamas a Gaza. Due giorni dopo ha ordinato i tagli ai salari, in seguito all’annuncio di inizio anno dell’Unione Europea che non avrebbe più finanziato i salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Inoltre, a gennaio, il Qatar ha reso noto che l’intervento di emergenza concesso per finanziare l’acquisto di elettricità da Israele per Gaza si sarebbe concluso entro tre mesi. Tale decisione non era inattesa, anche se la dirigenza di Hamas a Gaza era ancora convinta che il Qatar avrebbe continuato a finanziare i pagamenti per l’elettricità.

Allora Abbas ha annunciato che avrebbe finanziato l’acquisto di elettricità se Hamas avesse pagato le relative tasse – una condizione che Hamas non poteva accettare, perché avrebbe triplicato il prezzo dell’elettricità. Giovedì l’ANP ha detto ad Israele che non avrebbe più pagato per l’elettricità e ha chiesto che Israele smettesse di detrarre i pagamenti [per l’energia elettrica destinata a Gaza, ndt.] dalle tasse che raccoglie a nome dell’ANP.

L’ANP ha giustificato tutti questi passi con la cronica carenza di liquidità, ma gli analisti ritengono che Abbas stia cercando di ottenere uno dei due scopi, o forse entrambi: abbattere il governo di Hamas aggiungendo il proprio blocco a quelli imposti da Israele ed Egitto, oppure costringere Hamas ad accettare le richieste dell’ANP guidata da Fatah.

Il pretesto politico ufficiale per la punizione è stata la decisione di Hamas di creare un consiglio amministrativo per gestire i servizi pubblici a Gaza – in sostanza, una sorta di governo. Questo eluderebbe la decisione presa a giugno 2014 di stabilire un governo di unità palestinese finché non fosse possibile svolgere nuove elezioni parlamentari e presidenziali.

Salah Al Bardawil, un alto dirigente di Hamas a Gaza, ha replicato che Hamas avrebbe di buon grado sciolto il consiglio e consentito che il governo di unità governasse Gaza, compresi i valichi di frontiera, se l’ANP avesse trattato Gaza al pari della Cisgiordania. Benché Fatah sostenga che Hamas non le consente di governare correttamente Gaza, Hamas a0fferma che l’ANP compie sistematiche discriminazioni nei confronti di Gaza, il che rende necessario il consiglio am0ministrativo.

Ma questo dissidio non spiega l’improvviso cambio di politica dell’ANP, tre anni dopo la formazione del governo di unità.

Una spiegazione fornita da fonti palestinesi fa riferimento al “clima generale” contrario ad Hamas, sia a livello regionale che internazionale, soprattutto a Washington. Abbas, dicono, vuole portare una “dote” all’incontro con Trump la prossima settimana, dato che il presidente USA ha fatto della guerra al terrore un principio cardine della sua politica estera. Inoltre Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo condividono questo principio e tutti vedono in Abbas l’unico partner per qualunque eventuale processo diplomatico.

Se davvero Abbas sta punendo Hamas come parte di un‘iniziativa diplomatica, e non solo per ragioni interne, questo potrebbe aiutarlo a convincere Trump che lui sta veramente combattendo il terrorismo come chiede il primo ministro Benjamin Netanyahu e che Netanyahu sbaglia a sostenere di non avere un interlocutore palestinese per la pace. Dimostrare che Abbas sta sinceramente cercando di costringere Hamas ad accettare il governo di unità ed a riconoscerlo come il rappresentante di tutti i palestinesi, scardinerebbe l’ulteriore argomentazione di Netanyahu che Abbas non può essere un interlocutore perché non rappresenta Gaza.

Se Hamas rifiuta di cedere nonostante queste pesanti pressioni, Abbas potrebbe rafforzarle, forse arrivando a dichiarare Hamas una organizzazione terroristica. Ma questo sembra improbabile, dato che significherebbe un totale boicottaggio internazionale di Gaza, a cui ci si aspetta si uniscano anche Paesi come la Turchia e il Qatar.

A quanto pare Meshal ha deciso di rendere pubblico il nuovo statuto di Hamas lunedì, nella speranza che provocare una risonanza mediatica sul “cambiamento” nelle posizioni dell’organizzazione impedirebbe un accordo tra America, Palestina ed Israele per distruggere l’organizzazione. Il nuovo documento rifletterà in apparenza due cambiamenti principali: una rottura con la Fratellanza Musulmana e la disponibilità ad un compromesso diplomatico.

A differenza del vecchio statuto del 1988, il nuovo non fa menzione della Fratellanza Musulmana. Questa omissione è intesa a presentare Hamas come un’organizzazione esclusivamente palestinese piuttosto che basata su un’ideologia esterna panislamica. Ma soprattutto la mossa ha lo scopo di rabbonire l’Egitto, che sta ingaggiando una guerra a tutto campo contro la Fratellanza.

Il secondo fondamentale cambiamento è una clausola che recita: “Non vi sarà alcuna concessione di nessuna porzione della terra palestinese, indipendentemente dalla durata o dalle pressioni, nemmeno se l’occupazione continua. Hamas rifiuta ogni alternativa alla liberazione della Palestina nella sua interezza, dal fiume fino al mare”, intendendo il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Così prosegue: “La creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, sulla base dei confini del 4 giugno 1967, ed il ritorno dei rifugiati palestinesi alle case da cui sono stati cacciati è il programma nazionale condiviso e consensuale, che non significa assolutamente riconoscere l’entità sionista, come non significa rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi.”

Né Israele né gli Stati Uniti possono vedere in queste parole una concessione politica significativa, anche se riconosce i confini del 1967. Al massimo, la clausola indica che viene adottata la strategia che Fatah ha propugnato prima degli Accordi di Oslo del 1993: liberare tutta la Palestina, ma in diverse fasi.

Perciò neanche la creazione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 metterebbe fine al conflitto con Hamas o al suo desiderio di liberare la Palestina “da Rosh Hanikra a nord a Umm al- Rashrash a sud, dal Fiume Giordano ad est al Mar Mediterraneo ad ovest”, come recita l’articolo 2 del nuovo statuto. Lo statuto inoltre sottolinea che la lotta e la resistenza armate sono la via per conseguire questo obbiettivo.

Tuttavia, Hamas può sperare che il riferimento ai confini del 1967 innescherà un dibattito pubblico sia nei territori palestinesi che in Israele. Potrebbe anche scalfire i tentativi di presentare l’organizzazione come contraria ad ogni iniziativa diplomatica, portare l’America a cancellarla dall’elenco delle organizzazioni terroriste e indebolire gli sforzi di Abbas di presentarsi come l’unico possibile partner per i negoziati. In questo contesto, vale la pena ricordare che nel 2008 Meshal espresse l’intenzione di accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967 senza riconoscere Israele.

La grande domanda è come reagirà a tutto questo il presidente americano. Abbas riuscirà a cancellare la sua immagine di “non partner” e quindi indurre Trump ad addossare a Netanyahu parte delle colpe per lo stallo diplomatico? Trump riuscirà a formulare una nuova politica degli Stati Uniti per raggiungere una soluzione diplomatica dopo l’incontro con Abbas, avendo già ascoltato i punti di vista del presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi, del re di Giordania Abdullah e del re dell’Arabia Saudita Salman? E metterà Hamas nella stessa lista di Hezbollah, dello Stato Islamico e dell’Iran, oppure lo considererà parte imprescindibile di ogni soluzione?

Finché Trump non deciderà, la politica punitiva di Abbas verso Gaza lascerà Israele sull’orlo di un’esplosione. Nessuna delle opzioni israeliane per disinnescare la bomba di Gaza è gradevole.

Potrebbe pagare lui stesso per l’elettricità di Gaza, chiedere alla Turchia di aumentare i suoi aiuti o convincere il Qatar a rinviare il taglio dei suoi finanziamenti. Ma ciascuna di queste opzioni apparirebbe come un aiuto di Israele ad Hamas, non come un tentativo di salvare i residenti di Gaza dalla crisi economica ed umanitaria. D’altro lato, non fare niente potrebbe accelerare l’esplosione di Gaza, da cui alti ufficiali dell’esercito hanno di recente messo in guardia, e porre Israele di fronte ad un altro ciclo di violenze.

In entrambi i casi, ancora una volta risulta chiaro che l’indifferenza di Israele per le crisi politiche ed economiche della Palestina è una minaccia strategica alla sua stessa sicurezza e al suo prestigio internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La più giustificata protesta sociale in Israele

Gideon Levy, 23 aprile 2017 Haaretz

Gli oltre 1000 prigionieri palestinesi in sciopero della fame sono parte di una lotta nazionale per la libertà, qualcosa che dovrebbe apparire ammirevole persino agli israeliani.

La loro più giustificata protesta sociale non preoccupa nessuno. Viene condotta una spregevole campagna di incitamento contro di essa, orchestrata dal governo con la genuflessa collaborazione dei media asserviti. La più giustificata protesta sociale in Israele viene presentata come un pericolo ed una minaccia alla sicurezza.

La più giustificata, coraggiosa e profonda protesta sociale oggi in Israele è lo sciopero della fame di centinaia di prigionieri palestinesi, che domenica compirà una settimana. Magari ci fosse gente di coscienza che si unisse allo sciopero, o almeno manifestasse in suo sostegno. Invece abbiamo un giovane dell’Unione Nazionale (alleanza di partiti di destra e nazionalisti, ndtr.) che prepara il barbecue di fronte alle finestre della prigione di Ofer per dare tormento agli affamati.

E’ lo spregevole comportamento dell’ala sadica della destra. Ma nessuno ha nemmeno contestato quel disgustoso spettacolo.

La più giustificata protesta sociale in Israele non è assolutamente presentata come tale. Al contrario, tutti i partecipanti vengono dipinti come abominevoli assassini. Anche tutti i detenuti ebrei sono “abominevoli assassini”? Ma l’opinione pubblica in Israele non ama avere dubbi morali quando si tratta di palestinesi. Quindi i prigionieri politici vengono descritti come assassini e nessuno parla degli obbiettivi della loro lotta, che subisce una totale delegittimazione nel tritatutto della cronaca militare, dettata dal servizio di sicurezza dello Shin Bet.

Prendete in considerazione le spiegazioni che ci vengono messe in bocca: si tratta di una lotta interna tra palestinesi per favorire Marwan Barghouthi; si tratta di Barghouthi contro il presidente palestinese Mahmoud Abbas – tutte chiacchiere della propaganda dell’apparato di sicurezza, che hanno lo scopo di oscurare gli obbiettivi dello sciopero. E nessuno si chiede se sia possibile che l’obbiettivo di uno sciopero della fame di più di mille persone, con tutte le relative sofferenze, sia di favorire la carriera di un prigioniero che sta scontando quattro ergastoli? Si può prendere questo sul serio? Qualcuno sa anche lontanamente che cosa significa uno sciopero della fame? Non è possibile che queste coraggiose persone, disposte a sacrificare il loro benessere ed anche la loro vita, lo stiano facendo per delle buone ragioni?

Le loro ragioni sono incommensurabilmente giuste. Non vi è neppure una richiesta che sia estremista. Vogliono un trattamento un po’ più umano. Vogliono telefoni pubblici, come può avere anche il più infimo criminale ebreo, e vogliono aumentare le ore di visita dei loro familiari. Vogliono potersi fotografare ogni tanto insieme ai loro cari e ricevere un’adeguata assistenza medica. Coloro che dovranno trascorrere la maggior parte della vita in carcere vogliono poter studiare. Ed ovviamente vogliono che si ponga fine alla detenzione amministrativa. In breve, vogliono un po’ più di giustizia. Sono obbiettivi sociali, non politici.

Leggete la storia degli scioperi della fame. Quasi tutti sono stati giusti ed ammirevoli. A cominciare dagli scioperi della fame degli schiavi neri sulle navi britanniche nel diciottesimo secolo, fino al grande sciopero della fame dei prigionieri dell’IRA in Irlanda ed allo sciopero degli studenti cinesi a Tiananmen. Il Mahatma Gandhi, Andrej Sakharov, Abie Nathan (pacifista israeliano, ndt.). Eroi. Ed ora Marwan Barghouthi, del quale Yedioth Ahronoth (uno dei più diffusi quotidiani israeliani, ndtr.) scrive che incita il popolo. A che cosa specificamente lo incita? A portare libri in prigione? Ad installare telefoni pubblici?

Vi sono tra loro degli assassini – la minoranza, tra l’altro – ed anche loro hanno dei diritti. Alcuni sono in prigione a causa dell’attività politica. Alcuni non hanno avuto un processo. Altri sono stati incarcerati recentemente sulla base di presunte intenzioni. Tutti fanno parte della lotta nazionale per la libertà. Questo dovrebbe meritare ammirazione persino dagli israeliani. Hanno ricevuto pesanti condanne, senza alcuna proporzionalità, ed ovviamente senza giusto processo. Le condizioni della loro detenzione inoltre denunciano un vergognoso apartheid, se paragonate a quelle dei prigionieri ebrei.

Adesso stanno lottando per i propri diritti fondamentali. La loro lotta merita sostegno. La campagna contro di loro dovrebbe trovare opposizione. Gli obbiettivi del loro sciopero sono molto più giustificati degli incitamenti del Ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan e più morali della demagogia del leader di Yesh Atid (partito israeliano di centro, ndtr.), Yair Lapid.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’asino del Messia indossa il fascismo

Nota redazionale: su Haaretz è comparso il seguente articolo che riteniamo interessante pubblicare in quanto, nell’imminenza delle celebrazioni del 25 aprile si sono rinfocolate, soprattutto a Roma, le polemiche sulla presenza della Brigata Ebraica, con tanto di bandiere israeliane, e su quella delle organizzazioni che solidarizzano con la causa palestinese. L’autore dell’articolo mette in guardia sui rischi di deriva fascista del sistema politico israeliano. Anche se riteniamo che queste tendenze siano implicitamente presenti nell’ideologia sionista e non solo nelle sue espressioni più estremiste, ci pare che questa denuncia sia significativa e sollevi ulteriori dubbi sulla democrazia israeliana.

Shaul Arieli – 22 aprile 2017,Haaretz

Nel 1995 Umberto Eco delineò 14 caratteristiche di quello che chiamò il “fascismo perenne”. Un esame delle affermazioni da parte di politici israeliani suggerisce che nello Stato ebraico la democrazia potrebbe essere in pericolo

Il tentativo di far arrivare il Messia “attraverso l’intervento dell’ uomo” – per esempio di membri del partito di destra Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni attualmente al governo, ndt.] e dei loro colleghi del Likud [partito di destra al governo con la maggioranza relativa in parlamento, ndt.] – sta forse permeando Israele con caratteristiche del fascismo come le ha definite Umberto Eco nel suo celebre articolo “Ur-fascismo” nella “New York Review of Books” nel giugno del 1995?

Il semiologo e scrittore italiano, deceduto l’anno scorso, scrisse che il fascismo perenne (“Ur-Fascismo”) è presente ovunque, costantemente. A volte indossa abiti civili e può tornare nelle fogge più innocenti. Nell’articolo, che scrisse in occasione del 50esimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale – che più di ogni altra cosa simbolizzò la vittoria dello spirito umano sui regimi delle tenebre -, Eco affermò che è nostro dovere denunciare il fascismo e mettere in rilievo ogni sua nuova manifestazione ogni giorno, in qualunque parte del mondo.

Egli scrisse che le caratteristiche del fascismo elencate nel suo articolo non possono essere organizzate in un sistema – alcune si contraddicono a vicenda, mentre altre caratterizzano altre forme di dispotismo e fanatismo. Tuttavia, la presenza di una sola di queste caratteristiche è sufficiente per consentire al fascismo di coagularsi attorno ad essa.

Certo, il Messia non sta per arrivare – ma forse il suo asino [“asino del Messia” è il termine con cui i sionisti religiosi seguaci del rabbino Kook indicano i sionisti laici, che hanno iniziato il lavoro che permetterà di accelerare il ritorno del Messia, ndt.] sta indossando gli abiti del fascismo. Il Messia non sembra condividere la convinzione dell’ “Inizio della Redenzione” enunciato dal seguaci del rabbino Kook, che vedono nella fondazione dello Stato [di Israele], le sue vittorie militari e l’impresa di colonizzazione come segni che Egli arriverà nei nostri tempi per costruire il Terzo Tempio e ristabilire il Regno di David.

Ho scelto di presentare una selezione di affermazioni fatte da politici israeliani – per lo più sulle reti sociali – insieme a sette delle caratteristiche che Eco propone, per verificare se Israele sta andando verso un regime fascista, o se non si tratta di nient’altro che della schiuma delle onde, che scomparirà quando le acque si infrangeranno sulle spiagge della forte democrazia israeliana.

Culto della tradizione

Un “culto della tradizione”, basato sull’assunto che la verità (divina) ci è già stata data e che tutto ciò che resta da fare è continuare ad interpretare il messaggio che abbiamo ricevuto, emerge nelle parole di tre membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndt]. La ministra dello Sport e della Cultura Miri Regev ha concluso il suo discorso alla Knesset per celebrare il “Giorno della Bibbia” nel luglio 2015 affermando: “E’ già stato detto molte volte che la Bibbia non è solo una vicenda storica… ma anche un libro che ha sempre conservato una dimensione attuale.” La parlamentare del Likud ha aggiunto: “Le risposte che si trovano nelle sue pagine, come le domande formulate nei suoi versetti, la collocano come una costante, eterna guida spirituale e pratica che ci guida in ogni tempo.”

Il secondo deputato, Moti Yogev (di “Casa Ebraica”), ha espresso più di chiunque altro la filosofia del suo partito. Lo ha fatto esplicitamente e senza infingimenti, che è quello che fa il segretario del suo partito (e ministro dell’Educazione) Naftali Bennett. Nell’agosto 2015 Yogev ha scritto un post su Facebook, in cui condannava le azioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot, affermando: “Il rabbinato militare mette in rapporto i soldati con la tradizione ebraica come le radici dell’albero che gli dà la forza di crescere e fiorire.” E il collega di partito di Yogev Nissan Slomiansky sta dedicando le sue energie a promuovere una legge della Knesset che accentuerebbe l’influenza delle leggi religiose ebraiche (halakha) sulla giurisprudenza contemporanea.

Il rifiuto della modernità

Questa forma di tradizionalismo contiene una caratteristica che Eco ha definito “il rifiuto della modernità”. I tradizionalisti percepiscono l’età moderna come l’inizio di un pericoloso processo che porta all’apostasia. Nell’agosto del 2015 Yogev ha pubblicato un post su Facebook in cui protestava contro l’apertura il sabato della multisala “Yes Planet” a Gerusalemme. “L’osservanza dello Shabbath [il sabato festivo ebraico, ndt.] è una questione che definisce il carattere della Nazione israeliana,” ha scritto, rammaricandosi del fatto che “Tel Aviv è ‘una città che non si ferma mai’ [slogan per promuovere il turismo a Tel Aviv, ndt.] e forse non sa neppure cosa significa perdere lo Shabbath.”

Nel settembre 2016, durante un evento in onore della “Tali Foundation” (che finanzia studi sull’eredità ebraica nelle scuole laiche), Bennett ha dichiarato: “Studiare l’ebraismo ed eccellere in questo è più importante per me che studiare matematica e scienze,” ed ha respinto le successive accuse a questa sua posizione.

L’anti-intellettualismo è sempre stato un sintomo di fascismo. La persecuzione di intellettuali liberali per il loro tradimento dei valori tradizionali è stata una linea-guida delle elite fasciste. La poetessa Lea Goldberg lo ha spiegato quando ha scritto che intellettuali ed artisti minacciano le dittature e le visioni del mondo che negano le libertà degli esseri umani, insegnando “all’umanità a dire ‘no’ con amara derisione quando i tempi lo richiedono.”

In un’intervista con il giornale Israel Hayom nel settembre 2015 Regev ha presentato i nuovi criteri per definire la cultura: “Anche chi non è mai andato a teatro o al cinema e non ha mai letto Haim Nahman Bialik [considerato il poeta nazionale di Israele, ndt.] può essere considerato una persona di cultura, ” ha dichiarato. “Può esserlo molto più di persone che fanno prendere aria alla propria pelliccia una volta al mese in qualche teatro.” Ma persino queste definizioni impallidiscono in confronto alle parole del deputato David Bitan (del Likud), che in marzo ha dichiarato: “L’ultima volta che ho letto un libro è stato 10 anni fa.”

Nel gennaio 2015 Ayelet Shaked (di “Casa Ebraica”, ed ora ministra della Giustizia) ha postato su Facebook: “Natan Zach appoggia il terrorismo diplomatico contro Israele,” in riferimento allo stimato poeta israeliano, ma si è affrettata a rimuovere il suo post. E in un post del luglio 2016, in risposta a un attacco su Facebook da parte del critico cinematografico e presentatore radiofonico Gidi Orsher, Regev ha promesso: “Sono gli ultimi spasmi della vecchia elite, e io non smetterò finché questa elite razzista non sarà privata delle sue risorse e posizioni di potere.”

Paura della differenza

Definire ogni opposizione come tradimento è un’altra caratteristica che contraddistingue il fascismo. Nell’ottobre 2016 Bitan ha chiesto la revoca della cittadinanza al capo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem. Nel febbraio scorso il suo collega del Likud, il deputato Miki Zohar, ha scritto su Facebook: “Ogni volta che spunta un’organizzazione di estrema sinistra, essa si adopera per proclamare i propri principi ipocriti, presumibilmente per fare bella figura con il resto del mondo, anche al prezzo di danneggiare lo Stato di Israele e la sua sicurezza. Per cui una volta è B’Tselem, un’altra è “Breaking the Silence” [associazione di ex-militari che denuncia quanto avviene nei territori palestinesi occupati, ndt.], e nel caso di Amona (colonia evacuata), c’era Yesh Din (Volontari per i Diritti Umani). E’ importante notare che queste organizzazioni sono finanziate con milioni di dollari da elementi di ogni parte del mondo che sono ostili ad Israele.”

La deputata Tzipi Hotovely (del Likud, ora anche vice-ministro degli Esteri) ha scritto su Facebook nel settembre 2014: “Il rifiuto da parte di ufficiali dell’ “Unità 8200″ (in riferimento a riservisti dell’intelligence che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori) è una cintura esplosiva sociale, e riflette la bancarotta morale del sistema educativo in cui sono cresciuti. Non sono degni di fare il servizio militare nell’esercito più morale del mondo [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndt.].”

Al contempo nel settembre 2014 Shaked si è rammaricata che “l’Alta Corte di Giustizia abbia calpestato il potere legislativo,” dopo che la Corte ha respinto un emendamento a una legge riguardante i richiedenti asilo. E nell’agosto 2015 Yogev ha scritto su Facebook: ” Il giudice della Corte Suprema Uzi Vogelman, nella sua decisione odierna che ritarda la demolizione delle case di terroristi omicidi, si è messo dalla parte del nemico. Egli sta difendendo i diritti di assassini e quindi impedisce misure punitive e mette in pericolo vite umane.”

In un post su Facebook del 2015 Bennett ha chiesto agli israeliani di votare per “Casa Ebraica” sulla base del fatto che “nessun altro lotterà contro la tirannia legale dell’Alta Corte di Giustizia, che sta danneggiando mortalmente il nostro Stato.” E non ha esitato a fare campagna elettorale nel’esercito israeliano, scrivendo “Per il bene del popolo ebraico: prendete i vostri telefonini, convincete i soldati della vostra brigata!” Quindi ha inserito i duri commenti dei membri del suo partito riguardo la Corte Suprema.

Tutti questi gravi interventi indicano ignoranza e mancanza della minima comprensione dei rispettivi ruoli del potere legislativo e di quello giudiziario. La loro intenzione è di “etichettare” come traditori – delegittimare – tutti quelli che si oppongono allo spirito dell’attuale governo.

Appello ad una classe media frustrata

Ancora una volta in questo campo “Casa Ebraica” è all’avanguardia. Nel marzo 2015 Bennett ha dichiarato che “Habayit Hayehudi (cioè “Casa Ebraica”) è la casa sociale di Israele.” Nel contempo in un post su Facebook del settembre 2013 il deputato Eli Ben-Dahan ha spiegato che quando ha visitato il sud di Tel Aviv, “ho visto gli effetti di lasciare gli infiltrati (i richiedenti asilo africani) in Israele. Gli abitanti di Tel Aviv sud hanno vissuto a lungo nella paura. Dobbiamo modificare ciò, e sto lavorando per ripristinare lo spirito ebraico in quel luogo.”

Ognuno è educato per diventare un eroe

Il culto dell’eroe è direttamente legato al culto della morte – l’eroismo è la regola nel fascismo. Dichiarazioni che esprimono militarismo e sacrificio nell’interesse dello Stato hanno molti progenitori. Nel febbraio 2015 Bennett ha scritto un post rivolto al leader dell’opposizione, il deputato Isaac Herzog: “Il Sionismo religioso non va più in giro a testa bassa,” ha scritto. “Stiamo dritti in piedi. Siamo grandi e forti, influenzando e portando il nostro contributo, orgogliosi di quello che siamo. I cimiteri sono pieni di eroi, diplomati nei programmi di formazione militare, delle scuole rabbiniche militari e di Ezra e Bnei Akiva” – movimenti giovanili religiosi sionisti.

E nell’ottobre 2015 il presidente di “Israele Casa Nostra” [partito di estrema destra che rappresenta soprattutto gli immigrati russofoni, ndt.] Avigdor Lieberman (attualmente ministro della Difesa) ha scritto su Facebook: “Mi aspetto che alla fine della riunione di governo di questo pomeriggio ci siano chiare decisioni e linee guida: nessun terrorista maschio o femmina uscirà vivo da ogni attacco terroristico; si applicheranno leggi d’emergenza e verrà instaurato un governo militare se necessario, per sradicare il terrorismo. La sicurezza si ottiene con il pugno di ferro!”

La vita è una guerra permanente.

“Il fascismo non combatte per la vita, vive per la lotta.” Sembra essere la convinzione del primo ministro Benjamin Netanyahu, che, alludendo all’assassinio dell’ex-primo ministro Yitzhak Rabin, ha affermato nell’ottobre 2015 al Comitato della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa: “In questi giorni si parla di cosa sarebbe successo se questa o quella persona fosse rimasta [in vita]. E’ irrilevante…Mi viene chiesto se vivremo sempre con la spada – sì.”

In un post del febbraio 2014 Bennett ha promesso ai soldati che fanno il turno di guardia sotto la pioggia che prima o poi finirà, ma “un giorno sarete a casa con vostra moglie, i vostri bambini, al caldo, con una spessa coperta, e allora i futuri soldati faranno la guardia per voi.”

L’ossessione di un complotto

Alla radice della psicologia fascista c’è la convinzione ossessiva che le istituzioni internazionali stanno cospirando contro lo Stato, che è quindi sotto assedio. Di conseguenza, molti regimi fascisti sono caratterizzati dall’apparizione della xenofobia. Questo gli risulta molto utile. Netanyahu primeggia tra simili commenti nel suo sito web ufficiale: “Un abisso profondo ed ampio ci separa dai nostri nemici. Essi santificano la morte mentre noi santifichiamo la vita. Santificano la crudeltà, mentre noi santifichiamo la compassione” (luglio 2014). “Circonderemo tutto lo Stato di Israele con una recinzione e una barriera? La risposta è ‘sì’. Nel contesto in cui viviamo, ci dobbiamo difendere da belve selvagge” (2016).

Nel fascismo “gli individui come tali non hanno diritti, e il Popolo è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la Volontà Comune. Poiché non molti esseri umani possono avere una volontà comune, il Capo rivendica di essere il loro interprete.” Queste sono le parole del deputato Bezalel Smotrich (De “la Casa Ebraica”), in un articolo del 2011 intitolato “Noi meritiamo di più”, nella rivista dei coloni “Sheva”: “E’ opportuno che lo Stato investa maggiori risorse nell’educazione sionista religiosa,” prosegue. “Perché? Perché ai suoi figli è stato assegnato il compito di guidare il popolo ebraico.”

Quando si tratta di machismo e di oppressione delle minoranze sessuali, Smotrich è senza dubbio il campione. Nel febbraio 2015, in un seminario in una scuola superiore di Givatayim, ha affermato che gay e lesbiche sono “anormali”. E il suo collega Yogev ha parlato contro la comunità LGBT nel luglio 2013, dicendo a Channel 10 [catena televisiva israeliana, ndt.]: “E’ un fenomeno degno di pietà, non da incoraggiare…Non si tratta solo di un punto di vista dell’ Halakhà [norme religiose ebraiche, ndt.], ma anche una posizione morale che è corretto articolare.”

Un’altra caratteristica del fascismo, l’impoverimento del linguaggio, può essere riscontrata in molti dei succitati parlamentari, ma nessuno raggiunge i livelli così bassi del ministro della Cultura Regev. Tutti i testi fascisti utilizzano un vocabolario ristretto e la sintassi più elementare, limitando gli strumenti necessari per un pensiero critico e complesso. In un breve discorso di cinque minuti a un pubblico di studenti delle superiori nel 2012, Regev ha affermato che il deputato Stav Shaffir (dell'”Unione Sionista” [coalizione di centro tra Laburisti e Khadima, ndt.]) era un comunista; che l’ex segretaria del partito Laburista Shelly Yacimovich aveva votato per Hadash [partito di sinistra non sionista, ndt.]; ha dichiarato: “Gerusalemme nei secoli dei secoli…applaudite!”

Nel suo articolo Eco citò le parole del presidente USA Franklin D. Roosevelt del 4 novembre 1938, che sono significative per la democrazia israeliana oggi: “Mi avventuro a fare l’impegnativa affermazione che se la democrazia americana cessa di avanzare come una forza viva, che cerca giorno e notte di migliorare con mezzi pacifici la condizione dei nostri cittadini, nella nostra terra il fascismo si rafforzerà.”

Eco iniziò il suo articolo raccontando la sua fanciullezza nell’Italia di Mussolini, preda dell’ideologia fascista per più di 20 anni. Siamo proprio certi che ora, 50 anni dopo la guerra dei Sei Giorni, tutte quelle affermazioni da parte di esponenti israeliani eletti non siano altro che schiuma nell’acqua? La democrazia israeliana è così forte e solida come siamo soliti pensare?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Lo sciopero della fame palestinese è rivolto oltre le carceri

Amira Hass – 19 aprile 2017, Haaretz

Lo sciopero della fame da parte dei detenuti palestinesi è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle tante celle che esistono all’esterno.

Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, iniziato e guidato da Marwan Barghouti, ha un potenziale sovversivo rigenerante e non necessariamente contro il servizio carcerario israeliano. Come dicono parecchi rappresentanti dei carcerati fuori dalle prigioni, non si tratta di uno sciopero conflittuale o ideologico. Si tratta di diritti umani fondamentali che spettano persino ai prigionieri, persino a quelli che sono membri dell’’altra nazione.

Fornire loro un telefono pubblico, e farla finita con le guardie carcerarie che fanno molti soldi con il contrabbando di cellulari. Permettere loro di incontrasi con le famiglie senza affrontare il continuo iter angoscioso per ottenere un permesso una volta l’anno. Prolungate le visite e vedrete quale impatto positivo avrà sulla situazione. Quello che stanno cercando di dire i detenuti al servizio carcerario ed all’opinione pubblica israeliani è che entrambe le parti hanno interesse che le prigioni conservino un certo livello di decenza.

L’effettivo livello di sovversione è interno. Si può osservare nello sciopero un tentativo di fare in modo che i palestinesi si scuotano di dosso il loro fatalismo e la loro passività alla luce della sempre più potente ostilità di Israele e di far uscire i loro litigiosi dirigenti dall’acquiescenza nei confronti dello status quo e dalla loro illusione di sovranità.

Non è una cosa da poco nell’era della privatizzazione. Cosa sono gli scioperi della fame dei singoli se non una privatizzazione della lotta? Cosa sono gli attacchi all’arma bianca, le minacce con un coltello e gli investimenti con le auto se non la privatizzazione di una rivolta (o utilizzarla per sfuggire a problemi e frustrazioni personali e familiari, e persino per morire)? Gli scioperi della fame individuali di detenuti amministrativi [cioè senza un’imputazione, ndt] sono stati un peso per le organizzazioni di appoggio ai prigionieri, ma questi gruppi sono stati travolti dalla preoccupazione naturale per il benessere dei detenuti, ed hanno investito negli scioperi moltissimo tempo e discussioni che non hanno portato da nessuna parte. L’uso troppo frequente di scioperi della fame individuali li ha completamente usurati come strumento di mobilitazione, di impatto o di cambiamento.

La carcerazione di palestinesi è una politica pianificata di Israele. Ma, oltre alle prigioni normali, Israele ha creato e continua a creare ogni genere di altri mezzi per tener prigionieri i palestinesi. Questa, in fin dei conti, è la descrizione sintetica del vero processo di Oslo, non quello riflesso nelle promesse altisonanti. Agglomerati ed ancora agglomerati di carceri in mezzo a noi, e tutti noi – ebrei israeliani – siamo i secondini. Quindi l’esperienza della carcerazione, che si tratti di una prigione formale o di altro genere, è condivisa da tutti i palestinesi.

Ma con la frammentazione dello spazio dei palestinesi – utilizzando collaudati trucchi colonialisti che Israele ha aggiornato e raffinato, e a cui ha aggiunto un sacco di faccia tosta – ha creato decine di meccanismi diversi di incarcerazione, di unità geo-sociali con diversi livelli di mancanza di libertà e asfissia. Il culmine è naturalmente Gaza, dove due milioni di persone stanno scontando l’ergastolo. Ma anche nelle altre parti del Paese (compreso il territorio sovrano di Israele), i muri in cui sono imprigionati i palestinesi variano: norme burocratiche che cambiano continuamente, crescente discriminazione, Area C, arroganza, coloni violenti, un divieto di passaggio attraverso il ponte di Allenby [tra la Cisgiordania e la Giordania, ndt], umiliazioni all’aeroporto Ben Gurion, ecc.

Questa frantumazione in dozzine di unità carcerarie ha creato diversi livelli di coscienza tra le persone imprigionate in ognuna di esse, a seconda del livello di soffocamento e detenzione. Quelli per i quali il livello di incarcerazione è minore (libertà di viaggiare all’estero ma non a Gerusalemme, solo metà della terra del villaggio è stata rubata, il filo spinato e la base militare si trovano a un chilometro dalla loro casa invece che a mezzo chilometro) hanno un’ esperienza diversa del secondino israeliano rispetto ad una donna che vive nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron, che è tagliata fuori dal mondo a 300 metri da casa sua. I dirigenti ufficiali, guarda caso, hanno esperienza del minor grado di detenzione. Il grado di urgenza per cambiare la situazione è diverso da una prigione all’altra.

Lo sciopero della fame è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle molteplici celle carcerarie che esistono fuori. La sua sfida è la costruzione di una collettività di prigionieri come un’entità che definisca il programma palestinese, un’entità che veda i palestinesi fuori dalle prigioni come una collettività smembrata e frammentata che deve essere riunificata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele nelle tenebre.

Gideon Levy, Haaretz 14 aprile 2017.

Nessun’altra nazione al mondo perquisisce bagagli alla ricerca di cibi proibiti, eccetto forse l’Iran. La polizia del Passover chametz [il cibo pasquale] è una cosa israeliana più di Mobileye o di Amos Oz.

Ecco come si presenta lo stato ebraico, quello che tanti Israeliani vogliono preservare ad ogni costo: una guardia armata che controlla i bagagli all’ingresso dell’ospedale. Ma non sta cercando ordigni esplosivi. Questa è una settimana di festività e la guardia cerca qualcos’altro: cerca chametz, i cibi lievitati che sono proibiti per la Pasqua ebraica.

Controlla ogni tipo di cibo che entra nell’ospedale ed è lui l’arbitro della legge ebraica, il supervisore della kashrut [la conformità di un cibo]. È proibito far entrare qualunque cosa desti il sospetto di essere treyf, cioè non kosher. Se c’è qualche dubbio, nel dubbio si proibisce. Se non è kosher nei giorni di Pasqua, o torna a casa o va nella spazzatura.

La nostra guardia è un ottimo ragazzo, un tipo amichevole, ma ora è un’autorità teologica. Come se non bastassero i 10.000 guardiani del kashrut che lavorano nei giorni normali nel democratico stato ebraico (che ha solo un millesimo di questi ispettori per la sicurezza nelle costruzioni), ora le guardie della sicurezza e quelle che ispezionano i vostri bagagli sono state aggiunte ai soldati dell’esercito di Dio. Il governo s’infiltra non solo nei bagagli ma anche nello stomaco.

Siamo nell’anno 2017, ma la situazione è medievale. Israele si può vantare quanto vuole di essere l’unica democrazia del Medio Oriente o di essere amico dei gay. Ma la verità è che è retrogrado. È coercitivo. Diventa sempre più tetro e arcigno. Nubi minacciose si addensano nel cielo. Nessun’altra nazione al mondo perquisisce bagagli alla ricerca di cibi proibiti, eccetto forse l’Iran. Il problema è che la polizia dello chametz è più israeliana di Mobileye; la guardia dello chametz è molto più israeliana di Amos Oz.

All’ingresso degli ospedali c’erano cartelli che dicevano: “Questo luogo è stato fatto kosher per la Pasqua, in ossequio alla legge religiosa. Vi chiediamo di non introdurre cibo chametz [lievitato] per tutta la durata della festività. È consentito introdurre frutta e verdura oppure prodotti in confezione chiusa recanti la certificazione di idoneità kosher per la Pasqua.” Firmato dal rabbino dell’ospedale, dal capo dei servizi religiosi e dall’amministrazione.

Lasciamo perdere l’obbligo di kashrut in tutte le cucine degli ospedali, un precetto a cui avremmo dovuto ribellarci già da anni. Ora è proibito anche introdurre gli avanzi del seder [cena rituale] di Pasqua, se non hanno il timbro di idoneità kashrut. Chi non è religioso ha il diritto di mangiare come gli pare, ma questa ovvia affermazione è considerata sovversiva in Israele.

In altre parole, nessun Israeliano ha il diritto di mangiare come vuole quando è in ospedale o in qualunque altra istituzione pubblica. Il fatto che almeno un quinto dei pazienti sono arabi, così come buona parte del personale medico, e ancora più numerosi sono i non-Ebrei o semplicemente i non-religiosi, tutto questo non interessa a nessuno. Che mangino matza [pane azzimo] fino a strozzarsi. Oppure non mangino proprio. Ci sono migliaia di prigionieri palestinesi che mangiano matza anche per due mesi dopo Pasqua per finire la produzione in eccesso: i pazienti arabi possono ben fare a meno del pane per una settimana. Volevate uno stato ebraico e l’avete avuto. Non lo volevate? il problema è vostro.

Gli Israeliani accettano questa situazione come fosse un decreto venuto dal cielo. Quasi nessuno protesta. Così vanno le cose in una società anestetizzata. Il fatto che tutto questo succede in una festività che per qualche motivo viene chiamata la festa della libertà, non fa altro che aggiungere una tocco grottesco a una situazione che non è affatto divertente. E quello che succede nella pratica è anche meno divertente: infatti la gente porta di nascosto cibo in ospedale. Una coscia di pollo in tasca; pesce gefilte nella giacca; hummus, patate fritte e insalata nel doppio fondo della borsa per la doccia. Questa settimana ho portato di contrabbando un quarto di pollo avvolto nei pantaloni del pigiama. Per alcuni pazienti, il cibo fatto in casa è il loro maggior conforto.

Potreste dire: ma insomma, è solo per una settimana all’anno. Oppure potreste dire: non è così terribile, alla fine si tratta solo di cibo. E ci vogliamo dimenticare la tradizione? Ma non si tratta solo di una settimana, la cosa è molto peggiore di quanto sembra. Perché mentre Israele si vanta di essere tanto progressista, non si accorge di come sta andando giù per la china verso le tenebre. Proprio così: un paese che si comporta in questo modo è nelle tenebre. Le tradizioni non si trasmettono con le guardie armate.

Il giorno in cui Israele sarà un po’ più democratico e un po’ meno ebraico, inshallah, ognuno potrà mangiare quel che gli pare, dove gli pare. Sembra una cosa irrealizzabile? In effetti, nell’Israele del 2017 è un’utopia.

(http://www.haaretz.com/misc/article-print-page/.premium-1.783140)

Traduzione di Donato Cioli

http://www.assopacepalestina.org/




Centinaia di israeliani e palestinesi in corteo a Gerusalemme contro l’occupazione israeliana.

Nir Hasson 1 Aprile., 2017 | Haaretz

La dimostrazione è stata fatta alcune ore dopo un attacco all’arma bianca a Gerusalemme, di cui gli organizzatori dicono che “ si è trattato di un doloroso richiamo al prezzo dell’occupazione”

Centinaia di palestinesi e israeliani hanno preso parte a un corteo a Gerusalemme contro l’occupazione.

L’evento di sabato è il primo di una serie organizzata da “Standing Together” ( Stiamo insieme), un movimento che raccoglie associazioni pacifiste e partiti di sinistra, per sottolineare i cinquant’anni dalla guerra dei Sei Giorni.

In un comunicato il movimento afferma che il motivo della mobilitazione “è protestare contro il continuo controllo di Israele sui territori e in particolare su Gerusalemme Est e per una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli”

Sabato mattina nella Città Vecchia di Gerusalemme un palestinese è stato ammazzato dopo aver ferito con un coltello due civili e un poliziotto

Uno degli organizzatori, Itamar Avneri, ha detto che l’incidente “ è stato un doloroso richiamo al prezzo dell’occupazione. Auguriamo una pronta guarigione ai feriti e speriamo di non assistere più a simili incidenti o atti di panico nelle strade della città. Questo deve finire”.

Il corteo si è mosso da Gan Hasus nel centro della città e si è concluso nella Città Vecchia con un comizio vicino alla porta di Jaffa.

La deputata della Knesset Zehava Galon, presidente del partito Meretz, rivolta al corteo ha detto: “Non possiamo mettere da parte il conflitto con i palestinesi, quando le fiamme lambiscono un barile pieno di esplosivo. L’attacco all’arma bianca nella Città Vecchia evidenzia come sia un’illusione privare un’intera popolazione dei diritti e dell’autodeterminazione senza che la disperazione si trasformi in un orribile odio e violenza.”

Mohammed Abu Hummus, capo del comitato popolare di Isawiyah a Gerusalemme Est, ha esortato ”chiunque creda nel popolo palestinese ad opporsi al governo razzista israeliano.” Ha aggiunto: “La sinistra deve farsi avanti e dare una mano, mobilitarsi nelle strade e chiedere il cambiamento”.

Avi Buskila, direttore di Peace Now, ha manifestato speranza nell’unità: “Il governo della destra dei coloni e dell’occupazione vuole che l’odio prevalga nei cuori e domini nelle strade, che gli ebrei odino gli arabi, i mizrahim [ebrei originari dei Paesi arabi. ndtr.] gli aschenaziti [ebrei di origine europea. ndtr.], i militanti di destra disprezzino quelli di sinistra, Ofakim odi Tel Aviv. Hanno paura perché sanno che vinceremo, tutti, ebrei e palestinesi, gerosolimitani e abitanti di Tel Aviv, mizrahim e askenaziti, etiopi e russi, donne e uomini, tutti insieme vinceremo”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un documento segreto rivela che Israele espulse abitanti di Gaza subito dopo la guerra dei Sei Giorni

Yotam Berger, 15 marzo 2017, Haaretz

Il memorandum del Ministero degli Esteri rivela che l’esercito israeliano fu impegnato in un’azione di punizione collettiva, in cui scacciò dozzine di residenti del campo profughi e demolì case, per una mina antiuomo le cui tracce portavano al campo.

Un documento segreto del Ministero degli Esteri datato 15 giugno 1967 rivela che Israele espulse dei palestinesi dalla Striscia di Gaza come punizione collettiva per rappresaglia rispetto ad un tentato attacco alle truppe israeliane.

Il documento descrive una visita di funzionari del Ministero degli Esteri all’ufficio del governatore militare a Gaza e parla della decisione di espellere dozzine di palestinesi da Gaza verso il Sinai, dopo che era stata piazzata una mina antiuomo destinata a colpire le forze di sicurezza israeliane. Il documento classificato fu scritto da Avner Arazi, che all’epoca era in servizio al dipartimento per l’Asia del Ministero degli Esteri.

Il dottor Guy Laron, un docente del dipartimento di relazioni internazionali dell’Università Ebraica, ha detto ad Haaretz: “Non so niente di questo episodio, ma vi sono state espulsioni e massacri alla fine della guerra. Non facevano parte della storia ufficiale, ma sono accaduti.”

Ha detto di non aver letto di questo specifico episodio, ma ha citato un esempio relativo all’unità di commando Shaked avvenuto alla fine della guerra. “E’ accaduto sotto il comando di Benjamin Ben-Eliezer (poi deputato e più volte mnistro laburista, ndtr), il 10 o l’11 giugno. C’è anche la storia dei beduini di Rafah, avvenuta dopo, nel gennaio 1972. Furono espulsi migliaia di beduini, si stima dai 6.000 ai 20.000.”

Il documento è stato scoperto da membri di Akevot, l’istituto di ricerca sul conflitto israelo-palestinese. Il direttore esecutivo di Akevot, Lior Yavne, ha detto ad Haaretz: “Quello che è eccezionale in questa storia è che i funzionari del Ministero degli Esteri hanno immediatamente scritto un memorandum di intesa. Non era il loro compito. Dovevano firmare un accordo con UNRWA (agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndtr.). Sembra che fossero turbati da quanto avevano visto.”

Il documento descrive la visita di Arazi a Gaza il 14 giugno, giorni dopo la fine della guerra dei Sei Giorni, in cui incontrò il governatore militare di Gaza. I funzionari ricevettero un’informativa sugli avvenimenti dei giorni seguiti alla presa di Gaza. “Il 12 o il 13 una mina antiuomo è esplosa nelle vicinanze di Gaza”, asserisce il documento. “L’indagine ha riscontrato che la mina era stata posata poco prima che esplodesse. Le tracce hanno condotto ad alcune case nel campo profughi di Al-Tarabshe (sic).”

Secondo il documento, gli israeliani chiesero agli abitanti delle case di segnalare le persone che avevano compiuto l’attacco. “Poco tempo dopo, sono comparse 110 persone che si sono dichiarate soldati dell’esercito di liberazione palestinese, assumendosi la responsabilità collettiva,” afferma il documento.

Arazi descrive le ripercussioni di questo atto. “Non hanno voluto sentir parlare di segnalare chi tra loro avesse compiuto l’azione”, ricorda. “Gli furono concesse tre ore per rivelare gli autori dell’azione, altrimenti sarebbero stati puniti tutti – fu deciso di trasferire nel Sinai tutti quelli che non avessero risposto al termine dell’ultimatum e abbandonarli! Pare che nel frattempo sia stata eseguita la punizione. L’esercito fece anche esplodere otto case alle quali conducevano le tracce.”

Il documento descrive anche altri episodi in cui l’esercito cercò di far pressione sulla popolazione palestinese perché consegnasse armi e soldati alle forze di sicurezza.

“Il governo ha chiesto ai residenti del campo profughi nella Striscia di consegnare tutte le armi in loro possesso”, è scritto nel documento. “Loro non hanno risposto a questo appello. Perciò il governo ha chiesto al rappresentante locale dell’Unrwa di indicare un deposito in cui chi possedeva armi potesse riporle nella notte senza essere ricercato o dover essere identificato. Questo metodo è stato più efficace.” E inoltre: “Nell’ipotesi che alcuni soldati egiziani si nascondessero in case del campo profughi, i residenti del campo sono stati invitati a consegnare questi soldati. Non vi è stata alcuna risposta.”

Laron sostiene che ci sono testimonianze oculari di espulsioni di massa dalla Cisgiordania appena finita la guerra. “E’ successo alla fine della guerra in Cisgiordania”, ha detto. “Probabilmente c’era qualche piano organizzato, riguardo al quale non sono stati diffusi documenti. Tuttavia, ci sono resoconti di soldati che arrivavano sui camion e spingevano i residenti ad andarsene, li trasportavano per espellerli”, ha aggiunto.

“Uri Avnery, nelle memorie che ha appena pubblicato, sostiene di aver incontrato soldati dell’unità che dicevano che quello era il loro lavoro – attuare un piano organizzato finalizzato all’espulsione dei residenti della Cisgiordania”, ha continuato Laron. “Il comandante generale, Uzi Narkiss, appena prima della guerra disse che, se ce lo permettessero, potremmo scacciare gli arabi dalla Cisgiordania in 48 ore. Senza dubbio furono esiliate migliaia di persone.”

Yavne, dell’istituto Akevot, ha detto che la testimonianza nel documento del governatore di Gaza nel 1967 dimostra che le demolizioni delle case e le espulsioni sono state usate come strumento di punizione nei territori da parte dell’esercito fin dai primi giorni dell’occupazione. Riguardo all’ufficiale che parlò con i funzionari del Ministero, Yavne ha aggiunto: “I giuristi dello stato tendono a negare che le demolizioni delle case siano parte di una politica di punizioni, ma la testimonianza del generale Gaon mostra la vera natura dell’azione di demolizione, che danneggia sempre coloro che non sono coinvolti nel conflitto.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La morte di un palestinese accende le proteste contro la cooperazione dei dirigenti della Cisgiordania con Israele.

Amira Hass, 15 marzo 2017,Haaretz

Basil al-Araj, di 33 anni, è stato ucciso vicino a Ramallah da soldati israeliani, che affermano che lui fosse ricercato dalle forze di sicurezza. Le fonti palestinesi sostengono tutt’altro.

Basil al-Araj, trentatreenne di Betlemme, è stato ucciso da soldati israeliani e poliziotti di frontiera lunedì scorso, nell’appartamento in cui si nascondeva ad Al-Bireh, vicino a Ramallah. L’esercito asserisce che era ricercato dalle forze di sicurezza ed è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con i soldati arrivati ad arrestarlo. Fonti palestinesi sostengono che l’esercito ha sparato una granata nell’appartamento.

La sua morte ha riacceso il dibattito tra i palestinesi sulla cooperazione per la sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed Israele ed ha scatenato proteste, come al solito represse dai servizi di sicurezza dell’ANP. E questo, ancora una volta, ha innescato ulteriori proteste.

La repressione della ridotta protesta di domenica davanti al tribunale di Al-Bireh, a cui ha partecipato anche il padre di Al-Araj, non era insolita. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno represso molte proteste.

Tuttavia sono state le circostanze ad essere inconsuete: dentro al tribunale sei giovani avrebbero dovuto affrontare un processo con l’accusa di detenere illegalmente armi e di aver messo in pericolo delle vite. Ma solo uno era presente. Altri quattro sono stati arrestati da Israele alcuni mesi fa. Il sesto era Al-Araj.

L’anno scorso tutti e sei sono stati detenuti in un carcere palestinese per circa sei mesi e rilasciati in seguito ad uno sciopero della fame. Poi quattro sono stati arrestati da Israele e Al-Araj è ha fatto perdere le sue tracce. Secondo quanto riportato dai palestinesi, nonostante avesse le prove che quei quattro si trovavano in prigioni israeliane, il giudice ha semplicemente rinviato il loro processo al 30 aprile, adducendo che si trattava di detenuti amministrativi che potrebbero essere rilasciati per quella data. Ha annullato l’incriminazione di Al-Araj solo dopo aver ricevuto il suo certificato di morte.

All’esterno, qualche dozzina di manifestanti, tra cui giovani donne e vecchi militanti contro l’occupazione israeliana, dimostravano contro la cooperazione per la sicurezza con Israele. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno cercato di impedire all’emittente Falastin Al-Youm, legata alla Jihad islamica, di trasmettere la manifestazione in diretta.

Poi, nonostante la presenza di donne, i servizi di sicurezza hanno disperso i dimostranti con spintoni, brutali percosse, granate stordenti e gas lacrimogeni. Il gas si è diffuso nella strada dove si trovano anche una scuola ed un asilo.

Tra i feriti trasportati in ospedale c’era il padre del ragazzo morto. Uno dei quattro dimostranti arrestati per parecchie ore era Khader Adnan, famoso per il lungo sciopero della fame contro la sua detenzione senza processo in Israele. La polizia dell’ANP ha detto che i dimostranti sono stati dispersi perché bloccavano una strada importante.

Fotografie della repressione della protesta sono state diffuse nei social media, insieme ad appelli a tornare nelle strade, invece di limitarsi a denunce su Facebook. E’ stata indetta un’altra manifestazione per la giornata di ieri a Ramallah e sono stati sollecitati a parteciparvi giornalisti ed avvocati.

Anche una precedente manifestazione, svoltasi nel campo profughi di Deheishe per commemorare Al-Araj e protestare contro la cooperazione per la sicurezza con Israele, è stata dispersa con la forza. Questo ha spinto il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ad annunciare un boicottaggio delle elezioni amministrative previste in Cisgiordania a maggio.

Come al solito, le opinioni su Facebook erano divergenti. Alcuni avanzavano il sospetto che i servizi di sicurezza dell’ANP avessero aiutato Israele a rintracciare Al-Araj e sostenevano che anche la sua incriminazione costituisse cooperazione con l’occupazione. Altri denunciavano la dispersione della protesta, ma mettevano in guardia dalle accuse di tradimento e dal paragonare la polizia palestinese ai soldati israeliani. Gli attivisti di Fatah non si sono assunti la responsabilità per le azioni della polizia, tralasciando il fatto che la loro organizzazione è il partito al governo e che i suoi membri ricoprono ruoli chiave nei servizi di sicurezza.

Al-Araj, che era farmacista, faceva parte della sinistra palestinese. Ha partecipato a proteste popolari pacifiche contro il progetto di Israele di costruire un muro attraverso Al-Walaja, un villaggio ad ovest di Betlemme, ed espropriare i suoi terreni per costruire un parco pubblico per gli israeliani. Ha partecipato anche alle proteste popolari contro le colonie e la normalizzazione con Israele.

La lotta popolare pacifica è stata sconfitta: il muro è stato costruito, la popolazione ha perso le sue terre o ne è stata scacciata, le colonie si stanno espandendo e la cooperazione per la sicurezza dell’ANP con Israele continua. Gli amici di Al-Araj dicono che questa sconfitta lo ha spinto ad abbracciare i metodi della lotta palestinese del 1936 – armarsi, entrare in clandestinità, salire sulle colline, rischiare l’arresto e la morte. La strada tragica che lui ha intrapreso e che, nonostante tutto, la grande maggioranza non prende, è la prova del vicolo cieco in cui si trova la politica palestinese.

Come sempre, le ultime proteste e i tentativi di reprimerle hanno risvegliato la speranza che si potrà spezzare l’impasse nella politica palestinese, che il monopolio che Mahmuod Abbas detiene sulla politica all’interno dell’OLP, di Fatah e dell’ANP potrà essere indebolito. L’esperienza insegna che, dopo un’iniziale repressione delle proteste, l’ANP trova il modo di disperderle. Ma c’è un accumulo costante di amarezza, disgusto, disperazione e rabbia. Non c’è modo di sapere come, o per quanto tempo, i servizi di sicurezza dell’ANP saranno in grado di arginare questi sentimenti o di reprimere l’attività politica da essi generata.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La polizia ferma un importante attivista israeliano per presunto possesso di materiale BDS.

Yotam Berger | 14 marzo 2017 Haaretz

Jeff Halper, nato negli Stati Uniti, cofondatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case, è stato fermato dopo aver condotto un tour della zona E1, di fronte all’insediamento israeliano di Ma’alehAdumim.

Mercoledì scorso la polizia ha sottoposto a fermo l’attivista di spicco della sinistra Jeff Halper, presso l’insediamento di Ma’aleh Adumim, per sospetto incitamento, affermando di aver agito sulla base di una denuncia per possesso di “materiali relativi al movimento BDS”.
Halper, che si è trasferito in Israele dagli Stati Uniti nel 1973, è stato trattenuto dopo aver guidato un tour di stranieri al sito E1,di fronte all’insediamento, e è stato portato dal furgone della polizia a una commissariato vicino, per essere poi rilasciato senza essere messo agli arresti.
Prima di liberarlo gli agenti di polizia hanno fotografato i manifesti e le mappe che teneva in mano. Halper nega di avere distribuito durante il tour qualsiasi materiale relativo al BDS, o anche di avere discusso del movimento di boicottaggio.
Distribuire tali materiali non sarebbe stato in violazione della legge, anche di una legge anti-boicottaggio del 2011 [http://www.haaretz.com/israel-news/israel-passes-law-banning-calls-for-boycott-1.372711], secondo la quale una persona o un’organizzazione che chiede il boicottaggio di Israele, compresi gli insediamenti, può essere denunciato da chi è bersaglio del boicottaggio, anche senza che debba dimostrare di avere subito alcun danno.
La legge nega anche a una persona o una società che sostiene il boicottaggio di Israele o degli insediamenti la possibilità di partecipare agli appalti governativi. Un’altra legge, approvata questo mese, dà diritto a Israele di negare l’ingresso agli attivisti pro-BDS [http://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.775614].
Halper, co-fondatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case, ha dichiarato ad Haaretz che mercoledì stava partecipando a un tour nei territori con visitatori stranieri. Aveva condotto un gruppo di quindici persone in un punto di osservazione sulla zona E1, nei pressi di Ma’aleh Adumim.
“È un buon posto per mostrare il contesto in cui si trova Ma’aleh Adumim rispetto a Gerusalemme. E’ una tappa regolare dei nostri tour; non era la prima volta che portavo un gruppo in quel luogo”, ha detto Halper.
Al termine della visita i turisti erano saliti a bordo di un autobus diretto a nord e lui stava andando a prendere un autobus per Gerusalemme, ma “mentre correvo verso l’autobus, ho scorto la polizia nella zona, e li ho visti parlare e contattare il gruppo. Ho chiamato l’autista palestinese (del bus che trasportava i turisti) che mi ha detto di avere sentito dire che stavamo distribuendo materiale BDS “.
“Improvvisamente l’autobus, dopo due fermate, si è fermato nel mezzo di Maaleh Adumim, la polizia è salita a bordo, mi ha intimato che mi stava arrestando, e mi ha fatto uscire dall’autobus”, ha riferito Halper.
Halper è stato interrogato riguardo al materiale che aveva con sé.
“Non mi hanno spiegato il motivo del fermo, hanno accennato a qualcosa sul BDS, ma nessun dettaglio. Mi hanno messo in un furgone, già sgradevole di per sé. Mi hanno spinto in direzione della stazione di polizia. Appena arrivati ​​alla stazione, si sono fermati e mi hanno fatto un paio di domande su quello che avevo nel sacco e se c’era del materiale BDS.
“Siamo usciti dal veicolo e hanno gettato le mie mappe sul furgone; erano le mappe di Gerusalemme e della sua area più estesa. C’era anche qualcosa con sopra scritto “BDS per BDS”: è qualcosa di cui faccio uso. Io sostengo che non abbiamo soluzioni da offrire e propongo uno Stato democratico bi-nazionale, per questo uso lo slogan “BDS per BDS”. Non è un adesivo o un volantino, ma solo una mappa con quelle parole scritte sopra.
“L’hanno trovato e l’hanno preso, hanno scritto un verbale o qualcosa del genere, e mi hanno rilasciato”, ha detto Halper.
Halper ha affermato che la polizia ha rifiutato di dargli una copia della contravvenzione o di spiegare ciò di cui era sospettato.
In risposta ad una domanda di Haaretz, la polizia regionale della Samaria ha detto:
“Non c’è alcuna indagine su questa questione. C’erano informazioni che sono state verificate da una pattuglia; una volta chiaro che non ha commesso alcuna violazione, è stato liberato.”
Il portavoce della polizia ha detto che l’accusa contro di lui è “incitamento”, ma è stato rilasciato dopo l’interrogatorio; non è prevista nessun’ altra indagine.

(Traduzione di Angelo Stefanini)