Nonostante le obiezioni degli Stati Uniti, Netanyahu pensa di trasferire i coloni nelle terre palestinesi abbandonate

di Barak Ravid, 20 novembre 2016 Haaretz

 

Il primo ministro dice di star lavorando ad una soluzione per bloccare la demolizione dell’avamposto illegale di Amona rilanciando una vecchia idea.

Domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che sta ancora cercando una soluzione per impedire l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, costruito su terreno privato palestinese.

Ha detto ai ministri del suo partito Likud che sta considerando l’idea di spostare le case dei coloni su una terra che si crede sia appartenuta ai palestinesi fuggiti durante e dopo la Guerra del 1967 – terra rivendicata da Israele come “abbandonata e non reclamata.”

Il ministro degli esteri ha già messo in guardia contro tale trasferimento, nel timore che violi il diritto internazionale e rechi un danno diplomatico ad Israele.

Anche l’amministrazione americana ha sollevato obiezioni a questa soluzione, benché la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali potrebbe aver incoraggiato Netanyahu ad ignorare l’ammonimento.

Gli americani considerano questo piano come un allontanamento dall’impegno, preso da Netanyahu verso il presidente Barak Obama, che Israele non si sarebbe appropriato della terra palestinese in Cisgiordania per costruire nuovi insediamenti o espandere quelli già esistenti.

La demolizione di Amona – che l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato che avvenga entro il 25 dicembre – ha scatenato tensioni all’interno del governo Natanyahu.

Tribunale della terra’

Domenica Netanyahu ha anche detto che sta promuovendo la costituzione di un “tribunale della terra” in vista di altri casi di strutture costruite illegalmente e su terreni privati palestinesi come insediamenti e avamposti che potrebbero rischiare la demolizione.

Nelle ultime settimane la proposta di tribunale della terra è stata criticata dalla ministra della giustizia Ayelet Shaked, dal ministro della difesa Avigdor Lieberman e dal procuratore generale Avichai Mendelblit.

La proposta è un tentativo di adottare il modello arbitrale utilizzato per risolvere le dispute territoriali tra Cipro e la parte settentrionale del paese , sotto il controllo militare della Turchia. Il sistema consente ai residenti di ricevere compensi in denaro per i terreni di loro proprietà su cui sono state fatte delle costruzioni.

In una riunione di pochi giorni fa Netanyahu e i ministri competenti hanno discusso la questione con il professor Joseph Weiler, esperto di diritto internazionale presso il dipartimento di giurisprudenza dell’università di New York.

Secondo Netanyahu, verrà costituito un gruppo di esperti legali guidato da Roy Schondorf, vice procuratore generale per le leggi internazionali e da Ahaz Ben-Ari, consulente legale alla difesa. Il gruppo dovrebbe suggerire al governo un modo per istituire un tribunale sulla base del modello cipriota.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il disegno di legge di legalizzazione delle colonie israeliane ottiene una prima approvazione della Knesset

di Jonathan Lis e Chaim Levinson,

16 novembre 2016 Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon, capo di Kulanu (partito israeliano di centro, ndtr.), ha cambiato voto in favore del disegno di legge dopo aver riveduto la sua intenzione di opporvisi.

Mercoledì pomeriggio un disegno di legge per legalizzare retroattivamente le colonie illegali ha superato la sua prima lettura alla Knesset, con l’appoggio del gruppo parlamentare Kulanu del ministro delle finanze Moshe Kahlon.

All’inizio della giornata Kahlon, dopo un incontro col primo ministro Benjamin Netanyahu, ha annunciato che il suo gruppo avrebbe appoggiato il disegno di legge.

Il disegno di legge è stato messo ai voti in tre versioni, ognuna delle quali conteneva una controversa clausola per legalizzare retroattivamente le colonie che sono state costruite illegalmente, come quella di Amona.

Sabato l’Alta Corte ha confermato, in risposta ad una petizione dello stato perché la rinviasse, la sua anteriore sentenza in base alla quale Amona deve essere evacuata entro il 25 dicembre.

La prima versione del disegno di legge ha superato la prima lettura con 58 voti contro 50; la seconda con 57 contro 52 e la terza con 58 contro 51.

Nonostante il voto in prima lettura, il capo della coalizione di governo David Bitan ha dichiarato di non intendere portarlo in seduta plenaria per la seconda lettura.

I voti di Kulanu sono stati ritenuti decisivi per l’approvazione del disegno di legge alla Knesset. Precedentemente si era pensato che i deputati di Kulanu si sarebbero astenuti, in base alla dichiarazione di martedì di Kahlon secondo cui non avrebbe appoggiato il disegno di legge a causa del danno che potrebbe provocare alla Corte Suprema.

Nel suo annuncio, Kahlon ha detto che il suo gruppo si sarebbe limitato a formulare riserve sul potenziale danno che il disegno di legge potrebbe causare alla Corte.

Ho appena incontrato il primo ministro ed abbiamo concordato che il portavoce della Knesset dichiarerà che il disegno di legge non danneggia l’Alta Corte”, ha detto Kahlon.

Se esso dovesse danneggiare la Corte Suprema in qualunque fase dell’iter legislativo, Kulanu farà opposizione”, ha aggiunto.

Successivamente Bitan ha fatto la dichiarazione in parlamento.

La legge consentirà ai coloni di vivere su terreni privati palestinesi pagando una compensazione ai proprietari. Il procuratore generale Avichai Mendelblit ha affermato ripetutamente che non difenderà il disegno di legge contro una contestazione nell’Alta Corte, perché esso contraddice il diritto internazionale.

Nel corso del dibattito precedente al voto, il leader dell’opposizione Isaac Herzog ha definito il disegno di legge “orribile proposta della Knesset.” Ha fatto appello a tutti i deputati ad opporsi ad esso, affermando che “mai prima, nella storia del paese, la Knesset ha votato in contraddizione con la legge nazionale ed internazionale.”

Il deputato Ilan Gilon (Meretz, partito laico di sinistra sionista socialdemocratica, ndtr.), che è stato espulso dalla camera durante l’aspro dibattito, ha detto che il disegno di legge “ricorda le leggi dei paesi del terzo mondo, che vengono scritte retroattivamente per cancellare i loro crimini.”

Dopo il voto, il ministro dell’istruzione Naftali Bennet ha detto: “Proprio come abbiamo vinto in questa votazione, vinceremo in futuro – con tenacia, fede ed in accordo con il primo ministro Benjamin Netanyahu e con gli altri partiti dello schieramento nazionalista.”

I membri del partito di Bennet Habayit Hayehudi (Casa Ebraica [partito ultranazionalista dei coloni, ndtr.]) sono stati i promotori di tutte le tre versioni del disegno di legge.

Chiunque voglia avere ulteriore prova della crudeltà, immoralità e violenza dell’occupazione, la trova in questo disegno di legge”, ha dichiarato il deputato della Lista Comune (alleanza politica di quattro partiti arabi israeliani, ndtr.) Yousef Jibrin. “Regala la terra a ladri crudeli e sputa in faccia alla legge e alla comunità internazionale.”

Il capo della coalizione di governo Bitan ha inizialmente esitato a portare il disegno di legge in votazione alla Knesset mercoledì, preoccupato di non essere in grado di ottenere la maggioranza per approvarlo. Comunque l’opposizione ha fatto in modo di accelerare l’iter rimandando la discussione su altre questioni in agenda.

Fonti del Likud hanno riferito mercoledì mattina che il primo ministro Benjamin Netanyahu probabilmente non sarebbe stato presente al voto – dopo essersi assicurato che anche un membro dell’opposizione era assente, in modo da mantenere la parità – per non sfidare direttamente la comunità internazionale.

Ma Bennet e la sua collega di partito ministro della giustizia Ayelet Shaked hanno chiarito che, se la votazione non si fosse svolta mercoledì, Casa Ebraica non avrebbe appoggiato i disegni di legge proposti dalla coalizione nel prossimo futuro.

Un funzionario del partito ha detto che non si stava svolgendo nessun colloquio per giungere ad un compromesso: “Bennet è determinato ad andare a fondo della questione. Dopo un anno di tergiversazioni, non c’è altro modo per salvare migliaia di case in Giudea e Samaria.”

Netanyahu avrebbe potuto impedire il voto facendo ricorso contro l’approvazione del disegno di legge al Comitato Ministeriale per la Legislazione, o a titolo personale o attraverso un altro membro del governo. Ciò avrebbe costretto ad una discussione nell’intero governo prima della presentazione del disegno di legge alla Knesset.

I dirigenti della campagna dei coloni di Amona hanno risposto agli annunci secondo cui il disegno di legge avrebbe potuto essere approvato senza la clausola di retroattività, il che significherebbe la loro evacuazione, affermando: “Noi dichiariamo qui chiaramente che chiunque sia complice della disgustosa manovra di cancellare quella clausola sarà personalmente responsabile, di fronte alle future generazioni, della distruzione di una comunità ebraica nella Terra di Israele.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come rendere la vendetta ancora più gradevole

  1. di Amira Hass | 16 novembre, 2016 | Haaretz

Perché Israele ha bisogno di tenere in prigione per 12 anni un ragazzino palestinese di quattordici anni che non ha ferito nessuno?

Ogni palestinese conosce l’espressione infantile del suo viso, che il dolore ha trasformato [in quella] di un adulto. Nei media israeliani è permesso pubblicare solo la prima lettera del suo nome, A. Quello, e il fatto che questo processo si è tenuto a porte chiuse è stata la sommatoria di un trattamento speciale adeguato ad un adolescente di 13 anni e 9 mesi quando avrebbe commesso i reati per i quali è stato condannato.

E tutto il resto – il suo arresto dopo che la folla l’aveva aggredito, le sue ferite, l’interrogatorio brutale, l’accusa più grave, il giudizio e la sentenza – il sistema giudiziario lo ha trattato esattamente nel modo in cui l’opinione pubblica israeliana chiedeva: vendetta, vendetta, vendetta.

I giudici Yoram Noam, Rivka Friedman-Feldman e Moshe Bar-Am lo hanno giudicato colpevole di due tentativi di omicidio, sebbene non abbia accoltellato nessuno. Fin da principio ha raccontato a coloro che lo interrogavano e ai giudici che lui e suo cugino, Hassa Manasra, sono andati circa un anno fa a Pisgat Ze’ev [colonia israeliana, ndt.]per spaventare gli ebrei con i coltelli che avevano con sé ( a causa del modo in cui il regime israeliano opprime i palestinesi ), forse per accoltellare qualcuno, ma senza volere ammazzare nessuno. È stato condannato perché il quindicenne Manasra ha accoltellato un giovane e un ragazzo ( la squadra della polizia di frontiera avrebbe potuto arrestarlo ma lo hanno ucciso come è di moda da queste parti).

I giudici non hanno dato importanza alla testimonianza di A, che lui e Manasra avevano deciso fin dall’inizio che non avrebbero ferito donne, bambini o anziani; di proposito non hanno provato a colpire un vecchio che hanno incrociato sul loro cammino. I giudici non hanno dato credito al racconto di A, che ha provato a evitare che suo cugino ferisse il ragazzo. I giudici non hanno dato il debito peso al fatto che A. avrebbe potuto confessare subito il tentato omicidio, così sarebbe stato condannato prima di raggiungere i 14 anni ( e così non sarebbe stato mandato in prigione). Semplicemente non ha accettato di confessare qualcosa che non aveva intenzione di fare.

L’ ufficiale responsabile della libertà vigilata, che ha dato parere favorevole per un processo di rieducazione di A, ha raccomandato la corte di seguire il consiglio dell’assistente e di tenere il ragazzo fino all’età di 18 anni in una comunità residenziale vigilata. Ma i giudici hanno imposto una condanna di 12 anni di prigione al ragazzo quattordicenne che non aveva ferito nessuno. Non hanno nemmeno dato ascolto alla richiesta di mettere A in una comunità residenziale vigilata fino al raggiungimento dei 18 anni.

“Fin da oggi!” ha decretato il giudice Noam la scorsa settimana nel giorno della sentenza. Il ragazzo deve essere immediatamente condotto in prigione(Megiddo). La vendetta è gradevole e per renderla ancora più dolce i giudici hanno ordinato al minore di pagare un risarcimento di 180.000 shekel (pari a 44mila euro) alle parti lese. Che la famiglia si rovini completamente, perché no?

I giudici avrebbero potuto considerare altre sentenze , che affermano come sia impossibile giudicare i comportamenti dei bambini con gli stessi criteri di quelli usati per un adulto. Avrebbero potuto prendere spunto dai giudici che hanno decretato condanne di 24 mesi e di 54 mesi rispettivamente [da scontare] in una comunità residenziale vigilata a due minori ebrei che hanno ucciso un vecchio che aveva rifiutato di dargli una sigaretta. Ma Noam e i suoi colleghi hanno preferito considerare “l’ondata di terrore” e “il fattore nazionalistico” piuttosto che il ragazzino.

Se avessero tenuto in considerazione il fatto che si trattava di un ragazzino avrebbero giudicato così:

“Dinanzi a noi sta un altro adolescente che dal momento della nascita a Gerusalemme ha subito una discriminazione metodica e intenzionale a favore dei bambini ebrei suoi coetanei: riguardo alla casa, alla scuola, alle opportunità lavorative, alle infrastrutture, alla libertà di movimento e alle scelte, al diritto ad avere un’identità collettiva.

Dinanzi a noi sta un altro ragazzo che sfortunatamente ha subito quotidianamente la brutalità della polizia, il disprezzo della municipalità e la malvagità del sistema. Un altro ragazzo che è confuso dalla [reazione]debole degli adulti nei confronti di tutta questa malvagità e la tendenza all’emulazione lo ha spinto a compiere un gesto assurdo e pericoloso a cui i suoi genitori si sono opposti e di cui oggi egli stesso si è pentito. Lo manderemo in una comunità residenziale vigilata per pochi anni, per riflettere, per capire e per rieducarsi.

“Il mutamento della situazione generale non dipende solamente da noi, ma è stato già dimostrato che le uccisioni, le demolizioni di case e le sproporzionate condanne alla detenzione e al pagamento di multe non sono dei deterrenti. Al contrario. Mandano un messaggio ad altri palestinesi che gli ebrei li odiano, li perseguono, li opprimono e li espellono solo perché sono palestinesi.”

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




I palestinesi temono che Abbas stia sempre più diventando un dittatore

di Amira Hass

11 novembre 2016 Haaretz

La Corte Costituzionale Palestinese ha stabilito che il presidente palestinese Mahmoud Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese (Parlamento provvisorio nei territori occupati,ndtr.), consentendogli così di emarginare i suoi rivali.

Un accademico della Striscia di Gaza ha scritto su Facebook in risposta alla vittoria elettorale di Trump: “Come primo provvedimento, Trump ordinerà di redigere dei rapporti di sicurezza riguardo ai traviati del suo partito che hanno votato per Clinton, e istituirà una corte costituzionale pronta ad eliminare i membri che non hanno votato per lui.”

Il palestinese comune non ha difficoltà a cogliere la frecciata. Il presidente Mahmoud Abbas ha condotto per anni un’epurazione e una campagna per tacitare coloro che considera sostenitori di Mohammed Dahlan (dirigente di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione, ndtr.), o che dissentono dalla linea ufficiale del partito. Persino Nikolay Mladenov, coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, ha fatto allusione in pubblico ai tentativi di Abbas di mettere a tacere (gli avversari).

Mercoledì sera si è tenuta a Ramallah una cerimonia solo su inviti per l’ inaugurazione del museo “Yasser Arafat”. Il museo ha aperto al pubblico ieri (10 novembre, ndtr.), nel 12^ anniversario della morte di Arafat. Mladenov, che era tra i relatori, ha sottolineato le tappe fondamentali della vita del “leader che ha trasformato i rifugiati in una nazione.”

Era un uomo che rispettava le opinioni dei suoi avversari”, ha detto. Giusta o sbagliata che sia, questa affermazione è in linea con il modo in cui l’OLP e Fatah ricordano Arafat, quando mettono a confronto la sua leadership con quella di Abbas.

Il 3 novembre la Corte Costituzionale palestinese ha stabilito che Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese, permettendogli così di emarginare i suoi rivali. Nel breve termine questo significa la conferma dell’ordine di Abbas del 2012 di revocare l’immunità parlamentare a Dahlan.

La Corte Costituzionale non interveniva in ambito legislativo dal 2006. La vibrata protesta dei suoi membri e dei gruppi palestinesi per i diritti umani contro questa sentenza non deriva dalla preoccupazione per la reputazione e per la sorte di Dahlan. Egli, che era negli anni ’80 un focoso attivista contro l’occupazione e capo delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, si è trasformato in un uomo d’affari con interessi globali. Se le voci sono vere, Dahlan spende decine di milioni di dollari per garantirsi la fedeltà dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza e la loro opposizione alla fazione di Abbas.

I contestatori vedono la sentenza della corte come un altro passo nella direzione di quella che sembra essere la strategia di Abbas verso un regime dittatoriale.

La legge istitutiva della Corte Costituzionale è stata emanata nel 2003, al fine di esprimere pareri ed interpretare norme costituzionali poco chiare in caso di disaccordo tra l’autorità esecutiva e legislativa.

Nel gennaio 2006, alla vigilia della vittoria elettorale di Hamas, quando Abbas era già presidente, la legge è stata drasticamente modificata. Sono state revocate la partecipazione della Corte Costituzionale nella nomina dei giudici e l’autorità della Corte nel monitorare e supervisionare l’attività del presidente. Ciononostante la Corte Costituzionale è rimasta inattiva, perché nessun giudice è stato nominato.

Lo scorso aprile sono stati nominati nove giudici della Corte Costituzionale. Le nomine sono state immediatamente contestate da 18 gruppi palestinesi per i diritti umani, che denunciavano che tutti i giudici erano membri di Fatah o vicini ad essa. Hanno anche sostenuto che, benché i giudici dovessero ricevere il mandato da parte dei vertici dei tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), lo hanno ricevuto in assenza di quello legislativo.

In un’ulteriore dichiarazione diffusa questa settimana, le stesse organizzazioni per i diritti umani hanno contestato la sentenza della Corte che autorizza il presidente a revocare l’immunità ai membri del Consiglio Legislativo. Sostengono che la Corte (prima di diventare la Corte Costituzionale) ha affermato che la Legge Fondamentale Palestinese ( costituzione provvisoria in attesa di uno stato palestinese, ndtr.) non è superiore alle altre leggi. Hanno anche detto che lo stato di emergenza, in base al quale l’ANP ha operato a partire dal 2007, conferisce al presidente poteri quasi illimitati.

Un membro di una delle organizzazioni ha detto che questi passi segnalano una tendenza verso una Corte sottomessa al potere esecutivo. Ha affermato che, sulla base della bozza di costituzione dello “Stato di Palestina”, che è stata emanata pochi mesi prima dell’insediamento della Corte Costituzionale, l’obiettivo è autorizzare questa Corte a decidere chi sarebbe nominato nelle funzioni di presidente, se dovesse morire quello in carica.

Allo stato di cose presente, questo significa una sola cosa, impedire che il portavoce del Consiglio Legislativo Palestinese Aziz Dweik, di Hamas, diventi presidente ad interim, come stabilito dalla Legge Fondamentale dell’ANP. Ma la decisione consentirà anche di revocare l’immunità ad altri parlamentari critici verso il governo palestinese. Anche se la loro immunità non venisse revocata, la sentenza produrrebbe comunque un effetto che potrebbe mettere a tacere le critiche.

Questa settimana un giornalista palestinese ha osato scrivere su Facebook: “Il sogno palestinese è svanito ed è iniziato l’incubo. Il sogno di uno stato palestinese indipendente è scomparso, perché il potere politico ha trasformato il progetto nazionale in un progetto personale e di parte.”

E’ una dimostrazione di coraggio, in un momento in cui, secondo quanto riferito da fonti palestinesi, le forze di sicurezza palestinesi stanno arrestando gli autori di post critici.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I palestinesi non si aspettano molto da Trump, ma temono di perdere l’autogoverno

di Amira Hass, 10 novembre 2016

Haaretz

L’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come una prosecuzione del declino americano.

‘Official Palestine’, l’ufficio del Presidente Mahmoud Abbas, ha rilasciato la scontata dichiarazione: “Lavoreremo con qualunque presidente eletto dal popolo americano nel quadro del principio di raggiungere una soluzione permanente in Medio Oriente sulla base della soluzione dei due stati entro i confini stabiliti il 4 giugno 1967, con Gerusalemme est come capitale.”

Non ci si aspetta assolutamente che Donald Trump ci riservi una sorpresa, laddove Barak Obama ha completamente desistito – in altri termini, dal fare pressioni su Israele e porre fine alla costruzione delle colonie – anche se non dichiara, come ha fatto il suo consigliere, che le colonie sono legali. L’ipotesi, o la speranza, è che dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Trump non sarà in grado di allontanarsi troppo dalle regole di lavoro e dai principi fondamentali di decenni di politica estera americana, poiché in fin dei conti gli Stati Uniti sono una nazione che si regge su istituzioni e leggi, non su un uomo solo al comando.

Uno di questi principi fondamentali è il mantenimento dell’occupazione israeliana, unitamente al mantenimento dell’esistenza di un governo indipendente palestinese. Questo trova riscontro nei contributi finanziari da parte degli Stati Uniti all’Autorità Nazionale Palestinese (in gran parte destinati alle forze di sicurezza e alla pavimentazione delle strade che facilitano le infrastrutture di trasporto tra le enclaves dell’area A) e per l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA). (Gli Stati Uniti sono il principale donatore dell’UNRWA). Quindi quando parlano della soluzione dei due stati, che sembra essere più lontana che mai, i funzionari palestinesi di fatto mirano anzitutto al breve termine: non vogliono che la cosiddetta rispettabilità politica che hanno acquisito per se stessi e che la diplomazia riconosce loro possa venir meno.

E neppure vogliono che venga meno la semi-sovranità che hanno conquistato nelle piccole enclaves dell’area A – ed a cui la popolazione palestinese si è abituata più di quanto voglia ammettere. Accadrà che Trump, con le sue dichiarazioni contraddittorie e per via della sua ignoranza, insieme ai repubblicani che ora controlleranno entrambe le camere del Congresso, deciderà di ridurre o addirittura interrompere questi contributi all’ANP?

Trump, nell’arroganza della vittoria, si rapporterà alla leadership palestinese come farebbe nei confronti di un’organizzazione terrorista ostile, o ci sarà qualcuno che gli spiegherà che un’Autorità Palestinese funzionante in realtà è una cosa positiva per Israele e per le politiche del suo partito?

Al tempo stesso, come influirà la mancanza di chiarezza in politica estera di Trump sulla diplomazia palestinese e sulle relazioni con Fatah? E’ possibile – senza alcun riferimento a Trump – attendersi dei cambiamenti finché Abbas rimarrà al vertice della piramide?

Non c’è bisogno, per pretesti diplomatici, di nascondere i veri sentimenti del popolo palestinese nei confronti di Trump. La delirante campagna elettorale negli Stati Uniti, in cui ciò che i due candidati avevano in comune era il gran numero di americani che li detestava, ha rafforzato il mantra palestinese della gente comune: l’America sta attraversando un “declino generazionale”.

Qualunque superpotenza alla fine può cadere in basso, e nemmeno gli Stati Uniti ne sono esenti. E se ciò accade, anche Israele ne verrà indebolito. Dopo lo shock iniziale, l’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come la continuazione del declino.

Questa è un’analisi logica ma non politica, perché viene abitualmente portata a giustificazione dello star seduti a non fare niente finché il tempo e la ruota della fortuna diano i loro frutti. Una specie di versione laica dell’ abitudine di citare versi del Corano che profetizzano la punizione degli israeliani perché hanno peccato e non hanno fatto ciò che era giusto agli occhi di dio.

La vittoria di Trump, sicuramente nel breve e medio termine, verrà interpretata come un incoraggiamento alle politiche israeliane nei territori. Potrebbe accrescere il senso di abbandono dei palestinesi, ma non così drasticamente, a quanto sembra. Non cambierà né cancellerà le due tendenze contraddittorie che oggi caratterizzano la leadership della società palestinese. Da un lato la rivolta individuale, “il suicidio per mano dei soldati” da parte di giovani le cui motivazioni personali e politiche sono intrecciate. Dall’altro lato la fuga dalla politica, dalla possibilità di una rivolta generale e popolare, una vita quasi normale nelle enclaves, attività culturali, aspirazione ad una buona educazione per i ragazzi, problemi di bassi salari e lamentele sul fallimentare sistema sanitario, ecc. Come se l’occupazione non esistesse.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




E’ la fine del mondo?

di Gideon Levy, 10 novembre 2016

Haaretz

Potrà accadere una di queste due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo conosciuto.

Prima confessione: ho sperato che Donald Trump venisse eletto. Seconda confessione: la sua elezione mi spaventa. Basta pensare a Rudolf Giuliani in una posizione preminente nel suo governo, che forse influenzerà la sua politica nei confronti di Israele, per essere colti dal panico. La mia compagna Catherine si è chiusa nella sua stanza, ancor più arrabbiata e terrorizzata: è preoccupata per l’ambiente e per il futuro del suo paese. E’ sicura che Trump distruggerà l’ambiente e che permetterà a Vladimir Putin di invadere la Svezia.

Questa paura di Trump che sta percorrendo il mondo, e forse anche alcuni dei suoi elettori – com’è accaduto per i sostenitori della Brexit in Gran Bretagna che in seguito hanno rimpianto il proprio voto, però in misura molto maggiore – è la paura dell’ignoto. Ed ancor più è la paura dell’inconoscibile. Questa paura ricorda il terrore del 1977 quando andò al potere (in Israele, ndtr.) Menachem Begin. Metà della nazione entrò nel panico, e si fece a gara dovunque nel prefigurare scenari apocalittici. Begin farà la guerra, Begin porterà al fascismo. Alla fine, Begin ha fatto davvero la guerra (contro il Libano, ndtr.) , come avrebbe fatto qualunque altro primo ministro israeliano rispettabile, ma Begin ha fatto anche la pace, come nessun altro primo ministro israeliano prima o dopo di lui ha fatto. E Begin non ha condotto al fascismo.

Ho sperato che Trump venisse eletto perché sapevo che l’elezione di Hillary Clinton, i cui valori da molto tempo sono cambiati, avrebbe anche significato una continuazione dell’occupazione israeliana. Il mio mondo è piccolo, lo ammetto: l’occupazione mi interessa più di ogni altra cosa e per me poche cose potrebbero essere peggio di un presidente che continui a finanziarla. Se lei fosse stata eletta, in posti come Yitzhar e Itamar (colonie israeliane in Cisgiordania, ndtr.) avrebbero stappato bottiglie di champagne. Con il denaro di Haim Saban (imprenditore israeliano naturalizzato statunitense, tra i più ricchi del mondo, finanziatore di Hillary Clinton e della campagna contro il BDS, ndtr.) e l’eredità di Barak Obama, l’America non avrebbe osato fare pressioni su Israele. La fine del mondo, in altre parole.

Anche Benjamin Netanyahu dovrebbe essere preoccupato. Un Trump che perde interesse per il Medio Oriente potrebbe anche essere un Trump che non appoggia l’occupazione. L’esultanza dei coloni è prematura. Potrebbe anche trasformarsi in un grido di dolore. Certo Trump non sarà mai amico dei palestinesi, esattamente come non sarà mai amico di tutti i deboli del mondo, ma potrebbe dimostrarsi un vero isolazionista ed in quanto tale annullare il cieco, automatico e sconcertante sostegno del suo paese ad Israele.

Dopo tutto è stato eletto in larga misura grazie alle sue promesse di eliminare il “politicamente corretto”. In America il sostegno alla prosecuzione dell’occupazione israeliana è politicamente corretto. Perciò, nella mia ottica localistica, questa è stata la ragione per cui ho sperato nella vittoria di Trump.

Al contempo la vittoria di Trump mi spaventa. Come spesso accade quando le fantasie diventano realtà, la realtà fa più paura del previsto. Non c’è bisogno di elencare tutte le sue idee bigotte, la sua retorica incendiaria, tutti gli aspetti del suo terribile personaggio. Ha promesso di perpetuare l’uso della tortura durante gli interrogatori, di annullare l’accordo con l’Iran, di utilizzare eventualmente armi nucleari. Cos’altro serve per terrorizzare chiunque sia sano di mente? Tuttavia la sua promessa di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme è ridicola: sicuramente i diplomatici americani non saranno entusiasti di vivere a Gerusalemme e comunque il trasferimento dell’ambasciata probabilmente non è molto importante.

Potrà accadere una delle due cose: o Trump sarà Trump, oppure il Presidente Trump non sarà lo stesso Trump che abbiamo imparato a conoscere. Lui stesso probabilmente non sa chi sarà. Il suo discorso della vittoria di mercoledì suggeriva la seconda possibilità. Se Trump manterrà la sua parola e le sue promesse della campagna elettorale, questo significherà una terribile tragedia per l’America e per il mondo, e forse una piccola speranza per Israele: il Trump originale non esiterà a trascurare Israele ed il risultato potrebbe andare a suo beneficio.

Paradossalmente, ciò che è negativo per il mondo e per l’America potrebbe essere positivo per Israele: un presidente ignorante ed isolazionista, che si disinteressa del mondo, pretende che tutti i paesi paghino per l’aiuto americano ed ha intenzione di distruggere i sacri dogmi, potrebbe essere un presidente che dà una salutare scossa ad Israele.

Mercoledì ha segnato la fine del mondo? Forse sì, forse no.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Con una mossa inedita, Israele ha approvato in segreto la costruzione di edifici palestinesi in Cisgiordania

di Barak Ravid e Chaim Levinson, 27 ottobre 2016

Haaretz

Il gabinetto di sicurezza ha tenuto segreto il voto sull’area C, sperando di impedire ai coloni di esercitare pressioni politiche per ostacolare il piano, promosso dal ministro della difesa Avigdor Lieberman.

Il mese scorso il gabinetto di sicurezza di Israele ha votato l’autorizzazione di una serie di progetti abitativi palestinesi nell’area C della Cisgiordania – la zona più ampia dei territori occupati in cui sono stanziate tutte le colonie e su cui l’Autorità Nazionale Palestinese non esercita alcun controllo.

E’ stata la prima decisione di questo genere da molti anni ed è stata tenuta segreta, o non resa pubblica, nel tentativo di impedire ai coloni israeliani di cercare di fare pressioni per contrastarla.

La proposta è stata avanzata e portata alla votazione del gabinetto dal ministro della difesa Avigdor Lieberman, come parte della sua cosiddetta politica “del bastone e della carota” per incoraggiare i palestinesi moderati, piano da lui stesso presentato ai media israeliani in agosto.

“L’obbiettivo del piano è favorire coloro che sono disposti a convivere con noi e al contempo rendere la vita più difficile a chi pianifica attacchi terroristici”, ha dichiarato all’epoca Lieberman.

Ha continuato: “Ho dato ordine di migliorare il più possibile le strutture umanitarie ed economiche. Il mio obbiettivo è dimostrare ai palestinesi che è vantaggioso vivere insieme e non lasciarsi coinvolgere dalla spirale del terrorismo. Questo dovrebbe portare alla coesistenza e a migliori rapporti economici a prescindere dal processo diplomatico.”

La votazione del governo ha avuto luogo a metà settembre. Hanno votato a favore: il primo ministro Benjamin Netanyahu, Lieberman, il ministro dell’interno Arye Dery, il ministro dell’energia Yuval Steinitz e il ministro dell’edilizia Yoav Galant. Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha lasciato scritto il suo voto favorevole. I voti contrari al piano sono stati quelli dei leaders di Habayit Hayehudi (‘La casa ebraica’, partito sionista di estrema destra nazionalista, ndtr.), il ministro dell’educazione Naftali Bennet e il ministro della giustizia Ayelet Shaked, che non era presente ed ha lasciato una dichiarazione di voto scritta.

Il piano, stilato dal Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) general maggiore Yoav (Poli) Mordechai, comprende progetti edilizi complessivi ed anche permessi di costruzione per strutture pubbliche e unità abitative per palestinesi in parecchi villaggi della Cisgiordania.

Le nuove costruzioni si estenderanno fino ai villaggi del nord della Cisgiordania e della Foresta di Qalqilya. Il piano prevede la creazione di un corridoio economico tra Gerico e la Giordania, una zona industriale ad ovest di Nablus e la costruzione di un ospedale vicino a Betlemme. Verranno anche costruiti nuovi campi di calcio e parchi giochi in aree rurali.

Anche se il piano è di portata relativamente modesta, Israele non prendeva una simile iniziativa da anni.

Benché non rilevante per ragioni diplomatiche o di sicurezza, il piano è stato tenuto segreto, senza far trapelare il minimo dettaglio alla stampa. Un alto funzionario israeliano ha detto che il motivo era che la decisione veniva considerata politicamente sensibile.

Secondo il funzionario, i leaders dei coloni hanno molta influenza nel Likud e ci sono forti obiezioni alle costruzioni palestinesi in area C da parte del partito Habayit Hayehudi. La contrarietà alla questione è cresciuta con la pressione dei coloni sul governo perché revocasse un ordine di demolizione entro la fine dell’anno dell’insediamento illegale di Amona da parte del tribunale.

Quando Lieberman ha presentato il piano per la prima volta il 18 agosto, i capi del Gruppo Eretz Yisrael alla Knesset, i deputati Yoav Kish (del Likud) e Betzalel Smotrich (di Casa Ebraica), hanno inviato una lettera al primo ministro chiedendogli di eliminare tutte le parti del piano che riguardavano i permessi di costruzione per i palestinesi. “Sanare le costruzioni illegali palestinesi darebbe una mano ai tentativi del presidente palestinese Mahmoud Abbas e dei suoi amici di prendere il controllo dell’area C”, hanno dichiarato.

I capi del Yesha Council of settlers (organizzazione che raggruppa i consigli municipali delle colonie ebraiche in Cisgiordania, ndtr.) hanno pubblicato a quel tempo una dichiarazione che denunciava che “il ministro della difesa sta dando una carota ai palestinesi ed un bastone ai coloni”.

Tra novembre e dicembre del 2015 Netanyahu e l’allora ministro della difesa Moshe Ya’alon tentarono di proporre un piano simile, di ampiezza molto maggiore, per costruzioni palestinesi nell’ area C. Ma esso venne bloccato dal gabinetto di sicurezza a causa delle obiezioni di ministri di Casa Ebraica e del Likud. I ministri di Casa Ebraica minacciarono addirittura di essere pronti a far cadere il governo sulla questione. Questa volta, comunque, Bennet e Shaked hanno votato contro il piano.

In risposta, l’ex capo negoziatore e co-presidente dell’Unione Sionista (alleanza politica di centro-sinistra, ndtr.), deputata Tzipi Livni, ha dichiarato che la decisione è “corretta” e “contribuisce alla sicurezza. Se fosse stata resa pubblica, potremmo meglio promuovere i nostri interessi con i paesi della regione e del mondo. La sua segretezza è un timore di Bennet ed un danno per noi”, ha detto.

 

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Invece di scortare i bambini palestinesi dalla scuola a casa, i soldati israeliani tirano pietre.

di Amira Hass | 30/10/ 2016, Haaretz

Usando qui una fionda, costringendo con l’inganno due donne israeliane ad andare su una strada vietata lì, questo è l’esercito israeliano nella sua essenza.

Il video immortala due persone che tirano pietre. Sui 18 o 19 anni, a viso scoperto. Non vi facciamo più aspettare: possiamo dirvi subito che entrambi sono soldati delle Forze di Difesa Israeliane [IDF] che tirano pietre ad alcune ragazze vestite con l’uniforme scolastica. Il portavoce dell’IDF dice che le pietre non erano dirette contro i bambini. Ciò è discutibile, giacché almeno uno dei soldati stava di fronte ai bambini e le sue pietre li hanno costretti a fermarsi sul loro percorso

Questo è successo lo scorso giovedì 27 ottobre alle 13,30 circa. Il luogo: tra i villaggi di Tuba e di Twaneh nelle colline a sud di Hebron, sulla strada che passa sotto l’illegale e non autorizzato avamposto Havat Ma’on I due tiratori di pietre, con la divisa dell’IDF, si trovavano vicino ad un automezzo blindato in cui c’erano almeno altri due soldati. I soldati hanno anche usato una fionda , per aumentare la gittata.

Stavano solo giocando, direte. Non hanno ferito nessuno. Sono ragazzi anche loro. Erano annoiati, [volevano] sfogarsi un po’. Osiamo sfidare il “political correct” e annotare che uno di loro era nero, ovviamente etiope, per cui avrà avuto un sacco di ragioni per essere arrabbiato e volersi sfogare.

In base all’accordo del 2004, l’IDF ha il compito di scortare due volte al giorno gli scolari che vivono a Tuba e che frequentano la scuola a Twaneh. La strada, lunga circa 2 km, è stata sempre utilizzata dai residenti di Tuba e dagli altri villaggi della zona. Dopo la costruzione dell’avamposto, i suoi abitanti hanno cominciato a molestare i palestinesi sulla strada che passa sotto. I bambini erano traumatizzati. Non potevano dormire la notte e i loro genitori non potevano pagare il costo del trasporto su un percorso molto più lungo per evitare le violenze dei coloni.

Grazie alla tenacia dei genitori e agli sforzi di alcune organizzazioni israeliane e internazionali, la lotta per il diritto dei bambini di Tuba di andare a scuola non è stata inutile. [Il caso] è stato portato dinanzi alla Commissione per i diritti dei bambini della Knesset. È stato raggiunto un compromesso: lo Stato non avrebbe sanzionato i coloni violenti, ma l’IDF avrebbe provato a tenerli lontano con la sua presenza.

Il corto dei soldati che tirano le pietre è stato spedito a Haaretz venerdì mattina ed è stato immediatamente mandato al portavoce dell’IDF per una risposta, che è arrivata molto presto: “I comandanti sono al lavoro per indagare sulla faccenda” ci hanno risposto al telefono. Poi è arrivata la risposta scritta: “Una prima indagine rivela che le pietre non sono state lanciate verso i palestinesi e appena i soldati li hanno scorti, hanno smesso di tirare, sono andati incontro ai bambini e li hanno riportati indietro dalla scuola che si trova vicino a Havat Ma’on. Non è previsto che i soldati tirino pietre durante una missione militare e quindi l’incidente viene sottoposto a inchiesta.”

L’adulto che per un pezzo ha accompagnato i bambini e che ha filmato l’incidente ha detto a Haaretz che i soldati non sono andati incontro ai bambini, ma piuttosto hanno aspettato che loro si avvicinassero prudentemente, cercando di capire il motivo del lancio di pietre.

E in un altro incidente [accaduto] due giorni fa, non collegato, due donne attiviste dell’ associazione di base Machsom Watch sono partite per il loro turno al checkpoint della barriera di separazione tra Qalqilyah e Tul Karm. Il loro compito: assicurare che l’IDF non impedisca ai contadini di raggiungere le loro terre, che sono separate dal villaggio a causa della barriera.

Le donne si sono fermate al checkpoint nei pressi della colonia di Salit. Alle 16,15 con 15 minuti di ritardo, quattro soldati sono arrivati con una macchina civile per aprire il cancello per permettere il ritorno a casa dei palestinesi con il trattore, con un carro, con l’asino o con un pulmino. Un soldato sorridente, di nome Yuval, si è avvicinato e ha detto che la causa del ritardo era dovuta a motivi di sicurezza. Questo è quello che i soldati dicono sempre quando sono in ritardo per aprire il cancello chiuso con un lucchetto.

Yuval ha chiesto alle due donne di guidare attraverso il checkpoint aperto e di immettersi sulla strada di sicurezza vietata a chiunque non abbia un permesso. Come le donne hanno successivamente riferito, “due signore anziane con una grande esperienza di vita hanno compiuto [il più grande] errore della loro esistenza obbedendo a un giovane soldato gentile” che aveva detto di volere parlare con loro. E poi, una volta che erano sulla strada, i simpatici soldati, che erano in continuo contatto con il loro comando- le hanno informate che le trattenevano in arresto fino all’arrivo della polizia a causa della loro presenza in una zona proibita.

I soldati erano dei simpatici giovanotti, come ho detto. Hanno perfino offerto del caffè alle donne. Ma eseguivano gli ordini del comando di arrestare le due donne e con il loro gentile comportamento le hanno attirate nella zona proibita. “ I soldati hanno sostenuto che eravamo arrivate dalla Cisgiordania” ha raccontato Shosh, una delle donne. “Gli abbiamo detto:”Certo, da quale altra parte avremmo potuto venire? E da quando è proibito viaggiare in Cisgiordania?”

Hanno anche tentato di dire ai soldati che era una perdita di tempo, che la polizia sarebbe venuta e le avrebbe rilasciate immediatamente e si sarebbe arrabbiata per il disturbo.“ Era come parlare a un muro. Non abbiamo niente contro i soldati. Il problema veniva dal’alto. Gli era stato ordinato di arrestarci.” Dopo innumerevoli telefonate tra i soldati e i comandanti, e siccome stava già diventando buio, hanno detto alle donne che erano libere di andarsene. Così non sono state in grado di controllare la situazione in altri due checkpoint. Forse era questo il vero motivo della manovra?

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Forze di sicurezza palestinesi si scontrano con sostenitori del rivale di Abbas nei campi di rifugiati della Cisgiordania

Di Jack Khoury

Haaretz 26 ottobre 2016

Martedì notte dozzine di giovani palestinesi si sono scontrati con forze dell’ordine della Autorità Nazionale Palestinese nei campi di rifugiati della Cisgiordania. Le violenze sono iniziate nel campo di Al Am’ari, vicino a Ramallah, per poi estendersi al campo profughi di Balata a Nablus ed al campo profughi di Jenin.

Gli incidenti segnano un chiaro aumento delle tensioni all’interno di Fatah tra i sostenitori del presidente palestinese e del suo rivale in esilio Mohammed Dahlan.

Le forze dell’ordine hanno adottato misure di controllo degli scontri per disperdere la folla ad Al Am’ari e a Jenin, mentre colpi di arma da fuoco sono stati uditi a Balata, presumibilmente sparati da dimostranti armati.

Secondo fonti palestinesi, gli scontri ad Al Am’ari si sono sviluppati da una manifestazione organizzata da Jihad Muhammad Tamliya, un membro del Consiglio Legislativo Palestinese, per protestare contro la sua espulsione da Fatah, insieme ad altri importanti membri dell’organizzazione. Tamliya, Jamal al-Tirawi di Balata, Rafat Aliyan di Gerusalemme ed altri sono stati cacciati dopo aver tenuto un raduno a El Bireh, in cui hanno chiesto il ritorno di Dahlan tra i ranghi di Fatah. Le forze di sicurezza dell’ANP hanno represso il comizio.

In risposta, Tamliya ha inscenato una protesta ad Al Am’ari durante la quale i manifestanti hanno incendiato pneumatici e sparato in aria, determinando l’intervento delle forze dell’ordine dell’ANP e ulteriori scontri.

Le tensioni tra l’ANP e sostenitori di Dahlan sono aumentate nell’imminenza del congresso del Comitato Centrale di Fatah previsto per il prossimo mese a Ramallah.

Secondo molti membri di Fatah il congresso si sta trasformando in una lotta tra la fazione di Abbas e quella di Dahlan per chi controlla l’organizzazione. Pare che Dahlan abbia recentemente ottenuto l’appoggio di molti Stati arabi e riconquistato influenza nella Striscia di Gaza [da cui era stato cacciato in seguito al conflitto armato tra Fatah e Hamas nel 2006. Ndtr.]. Si ritiene che Abbas voglia tener lontano Dahlan dalle istituzioni di Fatah e inserire nuove leve più giovani nel Comitato Centrale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Pulizia etnica” e propaganda filo-araba

Di Benny Morris

Haaretz22 ottobre 2016

Gli indiretti confronti fatti da Daniel Blatman con i crimini tedeschi contro gli ebrei ed altri non riflettono un modo serio di scrivere di storia.

E’ un peccato che i miei critici Daniel Blatman e Ehud Ein-Gil non leggano con attenzione, ammesso che leggano; mi riferisco ai loro articoli su Haaretz in cui sostengono che Israele ha perpetrato una pulizia etnica. Se Blatman avesse letto il mio libro “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi, 1947-49”- pubblicato in inglese nel 1988 e in ebraico nel 1991, con un’edizione aggiornata in inglese nel 2004 – avrebbe visto che le mie opinioni sulla storia del 1948 non sono affatto cambiate.

Le mie conclusioni sulla nascita del problema dei rifugiati palestinesi non sono cambiate in questi libri, né nel mio libro “1948”, che è stato pubblicato in inglese nel 2008 e in ebraico nel 2010. Qualche palestinese è stato espulso (da Lod e Ramle, per esempio), a qualcun altro è stato ordinato o è stato suggerito di andarsene dai suoi leader (da Haifa, per esempio) e la maggior parte è scappata per paura degli scontri, evidentemente nella convinzione che sarebbero tornati alle loro case dopo la prevista vittoria araba.

Ed effettivamente, all’inizio di giugno, il nuovo governo israeliano adottò una politica per impedire il ritorno dei rifugiati – quegli stessi palestinesi che avevano combattuto l’Yishuv, la comunità ebraica prestatale, e cercato di distruggerla.

Quanto al fatto che ho cambiato opinione, ciò è avvenuto durante gli anni ’90 solo riguardo ad una cosa – la volontà palestinese di fare la pace con noi. All’inizio del decennio, pensavo che forse qualcosa fosse cambiato nel movimento nazionale palestinese e che volessero riconoscere la realtà e arrivare ad un compromesso per i due Stati per due popoli.

Ma nel 2000, dopo il “no” di Arafat a Camp David (appoggiato dal suo successore Mahmoud Abbas), e alla luce della seconda Intifada e delle caratteristiche di quella intifada, ho capito che non erano interessati alla pace. Sfortunatamente da allora la situazione non è cambiata.

Nel 1947-48 non c’era un’intenzione a priori di espellere gli arabi, e durante la guerra non ci fu una politica di espulsione. Ci sono “storici” che odiano chiaramente Israele, come Ilan Pappé e Walid Khalidi, e forse anche Daniel Blatman, considerando quello che ha detto, che vedono il “Piano Dalet” dell’Haganah del 10 marzo 1948 come un progetto complessivo di espellere i palestinesi. Non lo è.

Se Blatman e Ein-Gil avessero davvero letto il piano – reso pubblico negli anni ’70 – avrebbero visto che intendeva congegnare una strategia ed una tattica perché l’Haganah conservasse il controllo delle strade strategiche in quello che sarebbe diventato lo Stato ebraico. Intendeva anche rendere sicuri i confini nell’imminenza della prevista invasione araba in seguito alla partenza degli inglesi. La tesi di Blatman secondo cui il “Piano Dalet” “discuteva dell’intenzione di espellere quanti più arabi possibile dal territorio del futuro Stato ebraico” è una falsificazione in malafede. Sono le parole di un propagandista filo-arabo, non di uno storico.

Citare le affermazioni sbagliate

Il piano comprendeva le linee-giuda generali per i vari battaglioni e brigate relativamente al modo di comportarsi verso i villaggi rurali ed i quartieri urbani arabi. Riguardo ai villaggi, il piano stabilisce esplicitamente che gli abitanti dei villaggi che combattono contro gli ebrei devono essere espulsi ed i villaggi distrutti, mentre i villaggi neutrali o amici avrebbero dovuto essere lasciati intatti ( e avrebbero dovuto esservi stabiliti dei presidi).

Nel caso di quartieri arabi in città miste, i comandanti dell’Haganah sul terreno ordinarono che gli arabi dei quartieri periferici fossero trasferiti nei centri arabi di quelle città, come Haifa, non espulsi dal Paese.

In altre parole, questo non era un piano per “espellere gli arabi” come Blatman e Ein-Gil sostengono a proposito di questo documento. Ein-Gil cita del documento solo tre affermazioni che accennano alla possibilità dell’espulsione – non quelle che danno istruzioni ai comandanti di brigata e di battaglione di lasciare sul posto la popolazione araba.

Per inciso, la descrizione di Ein-Gil dell’occupazione del villaggio di Al-Qubab – con le sue case vuote dopo che gli abitanti erano semplicemente scappati – non è esattamente la descrizione di una violenta e crudele pulizia etnica. E le sue considerazioni sulla domanda a proposito di cosa gli ebrei avrebbero potuto fare se avessero trovato degli arabi in quelle case non testimonia della pulizia etnica nel 1948.

Oltretutto nel territorio trasferito a Israele nel 1948 dopo l’accordo di armistizio tra Israele e la Giordania, il numero di palestinesi che rimase sotto il controllo di Israele era la metà di quello che cita Ein-Gil.

Al contempo, se ci fossero stati un piano generale e una politica di “espulsione degli arabi”, ne avremmo trovato indicazioni nei vari ordini operativi per le unità in combattimento e nei rapporti al quartier generale, come “Abbiamo messo in atto un’espulsione in base al piano generale” o ” al Piano Dalet.” Tali riferimenti non ci sono.

Nelle decine di migliaia di documenti operativi dell’ Haganah/esercito israeliano dei mesi più importanti (da aprile a giugno 1948), ho trovato solo un riferimento a un’operazione messa in atto secondo il Piano Dalet. (Riguardava una certa operazione della brigata “Alexandroni”, se non ricordo male, ma in questo momento sono all’estero e non ho a disposizione il documento).

E’ risaputo che decine di migliaia di arabi rimasero nel territorio dello Stato ebraico – ad Haifa e a Giaffa, a Jisr al-Zarqa e a Fureidis, ad Abu Ghosh e Ein Nakuba, in Galilea e nel Negev.

Ho anche detto che in aprile-giugno 1948 sia nell’Haganah ed in generale nell’Yishuv c’era una “atmosfera favorevole al trasferimento”, e ciò è comprensibile alla luce delle circostanze: costanti attacchi da parte di milizie palestinesi durante quattro mesi e la previsione di un’imminente invasione degli eserciti arabi intenzionati ad annientare lo Stato ebraico che stava per nascere e forse anche il suo popolo.

Responsabilità condivisa

Tutto ciò richiedeva l’occupazione e l’espulsione degli abitanti dei villaggi che tendevano imboscate, prendevano di mira e uccidevano ebrei lungo i confini e sulle principali strade. Le circostanze non consentivano un esame attento delle azioni, intenzioni e opinioni di ogni singolo abitante, benché a quanto pare Blatman e Ein-Gil pensino che la guerra avrebbe dovuto essere condotta così in zone abitate con i mezzi a disposizione dell’Yishuv nel 1948. Ma come ho scritto, la grande maggioranza degli arabi fuggì, e gli ufficiali dell’Haganah/esercito israeliano non ebbero bisogno di affrontare la decisione se espellerli o meno.

E’ vero che all’inizio della mia carriera io “sono arrivato alla conclusione che Israele è responsabile della fuga di massa dei palestinesi nel 1948”, come sostiene Blatman. Ho sempre detto che la responsabilità è condivisa tra l’Yishuv/Israele, i palestinesi e i Paesi arabi – con enormi responsabilità che ricadono sui palestinesi che hanno iniziato il conflitto.

Non sono un esperto di pulizia etnica a livello mondiale (presumo che poca gente consideri Blatman un esperto di tal genere), ma sicuramente ne so qualcosa. Nel caso dei serbi in Jugoslavia, Belgrado ha adottato una politica di pulizia etnica fin dall’inizio e l’ha applicata sistematicamente. A Srebrenica nel 1993, in due giorni, hanno massacrato 9.000 musulmani e in varie zone hanno stuprato migliaia di donne in modo organizzato.

Se queste sono le caratteristiche della pulizia etnica, allora non fu attuata una pulizia etnica in Israele in nessuna delle due fasi della guerra, che fu iniziata dagli arabi. E tra parentesi, su un argomento di cui sono veramente ben informato, Blatman ha torto.

E’ vero che alla fine della Prima Guerra Mondiale decine di migliaia di armeni rimasero in Asia Minore (Blatman solleva questa questione per insinuare un parallelo tra il genocidio degli armeni e la fuga degli arabi nel 1948). Ma nella terza fase del genocidio armeno, dal 1919 al 1924, quasi ogni vittima fu espulsa ed uccisa. (Ciò, senza dubbio, è una novità per Blatman l'”esperto”).

Chiunque legga Blatman non può fare a meno di notare che egli suggerisce un confronto tra quello che Hitler ha fatto agli ebrei e quello che gli ebrei hanno fatto agli arabi della Terra di Israele. Egli insinua persino – di nuovo in modo ingannevole – un confronto tra le azioni dell’Yishuv e quelle dei tedeschi nell’Africa sud-occidentale tedesca (più tardi Namibia) all’inizio del XX° secolo, quando uccisero decine di migliaia di indigeni herero.

Questi paragoni sono immorali e riflettono intenzioni propagandistiche, così come un modo per niente serio di scrivere la storia. Alla fine Blatman mi definisce come “un beniamino della destra dei coloni”. E’ un insolente. Mi sono sempre opposto al progetto delle colonie in Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania. Ndtr.] e nella Striscia di Gaza, e lo faccio ancora adesso.

Il professor Benny Morris, uno storico, è l’autore di “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi rivisto.”

(traduzione di Amedeo Rossi)