Sapere che cosa accadrà alle loro famiglie non spaventa i palestinesi

Tre residenti di Jabal Mukkaber (sobborgo palestinese di Gerusalemme est, n.d.t.) sapevano che le loro case e la vita delle loro famiglie sarebbero state distrutte, eppure sono andati a Gerusalemme martedì scorso con determinazione omicida.

di Amira Hass

Haaretz

La mattina del 6 ottobre, quando la polizia ha fatto saltare in aria la casa di Ghassan Abu Jamal – uno degli assassini nell’attacco terroristico di novembre alla sinagoga Har Nof – a Gerusalemme est ed ha provocato gravi danni agli appartamenti di suo fratello e dei genitori, suo cugino Ala’a Abu Jamal stava a guardare.

“Ha cercato di dire ai poliziotti ‘Perché dovevate fare questo?’ ”, ricorda S., un parente. “ ‘La Corte Suprema ha approvato la demolizione della casa di Ghassan, ma ha dato ordine di evitare di danneggiare gli appartamenti vicini. Perché colpite anche la famiglia dei genitori e del fratello?’ ” Ma loro non hanno ascoltato. “Lo hanno insultato e picchiato davanti a sua moglie e a tre bambini”, ha aggiunto S.

Una settimana dopo, il 13 ottobre, il cugino Ala’a, dipendente della Bezeq (azienda di telecomunicazioni, n.d.t.), ha lanciato la sua auto aziendale contro Yeshayahu Kirshavsky ad una fermata di autobus a Gerusalemme. Poi è uscito dalla macchina ed ha ucciso Kirshavsky, di 60 anni, con un’accetta, prima di essere ammazzato.

“Noi, io, siamo ancora sotto shock,” ha detto S. “Lui era un uomo tranquillo, con la testa a posto. Aveva un lavoro stabile, a differenza di Ghassan, che era sempre disoccupato. Sono così preoccupato di come la gente viene spinta a gesti estremi. Se un uomo come Ala’a ha fatto quel che ha fatto – ed io sono contrario a questo con tutto il cuore – chi può sapere che cos’altro può succedere? Dopo la punizione dell’intera famiglia di Ghassan e di suo cugino Uday per l’attacco alla sinagoga, lui sapeva che cosa aspettarsi: che sarebbe stato ucciso; che avrebbero distrutto la sua casa; che la vita dei suoi figli e di sua moglie sarebbe stata distrutta. Eppure ha fatto quel che ha fatto.”

“Che governo stupido”, ha detto S. “Non vedete che così non funziona, che i vostri metodi di punizioni collettive provocano esattamente l’opposto?”, ha chiesto.

La figlia di Ghassan, Salma, ha compiuto cinque anni circa un mese fa. Ha chiesto una torta con in cima una vecchia foto di lei e suo papà. Nella foto, lei lo guarda con adorazione e lui le sorride con amore. E’ servita molta glassa e molta panna montata per ricoprire la torta rettangolare.

Dal momento dell’approvazione da parte della Corte Suprema della demolizione della casa di Ghassan, due mesi fa, sua moglie Nadia ed i loro tre bambini hanno vissuto al piano di sotto con il fratello Muawiyyah. L’Alta Corte di Giustizia, che ha respinto una petizione da parte di Hamoked (Centro per la difesa dei diritti individuali ed umani del gruppo Addameer, ndt) contro la punizione della famiglia, ha anche approvato la sua deportazione da Gerusalemme est alla Cisgiordania, poco dopo il compleanno della bambina.

Nadia è parente di Ghassan –  entrambi appartengono allo stesso clan nel villaggio beduino di Sawwahra, che è stato diviso a metà nel 1967: parte di esso è rimasta in Cisgiordania ed un’altra parte, conosciuta come Jabal Mukkaber, è diventata un quartiere di Gerusalemme est.

Quando è stato costruito il muro di separazione in Cisgiordania all’inizio del nuovo millennio, sono stati interrotti i contatti tra le due zone, e solo Nadia è rimasta nella sua casa di Gerusalemme grazie ai permessi di residenza temporanea del Ministero dell’Interno. Dopo l’attacco alla sinagoga, la sua richiesta di rinnovo del permesso è stata respinta.

Il giorno del compleanno di sua figlia, i bambini della grande famiglia e le loro madri si sono riuniti nella piccola stanza degli ospiti di Muawiyyah per festeggiare. Ma Nadia, vestita di nero, non era con loro, ha preferito restare in un’altra stanza.

Non poteva pretendere di essere felice, o che la tensione e la preoccupazione per il futuro non le devastassero l’anima. I suoi tre bambini sono cresciuti circondati dalla famiglia allargata nel quartiere di Gerusalemme: Nadia non può strapparli al loro ambiente naturale, ma al tempo stesso non può abbandonarli e andare a vivere da sola in Cisgiordania.

La torta è stata portata nella stanza e messa su un piccolo tavolo. Dopo aver spento le candeline, con l’aiuto di una zia, Salma ha brandito un lungo coltello affilato e lo ha puntato dritto sul viso del suo papà morto. Ha affondato il coltello nella gola e ha continuato tagliando parti della sua faccia, e poi della propria faccia, in pezzettini che sono stati distribuiti tra i bambini. Allora sua zia si è allontanata dal tavolo ed è andata in un angolo della stanza, sperando che nessuno si accorgesse delle sue lacrime.

I bambini ovviamente non hanno capito il simbolismo del coltello che tagliava l’immagine del padre. Il coltello ha detto ciò che i parenti evitano di dire apertamente: che sono arrabbiati col padre, Ghassan, che li ha abbandonati, che non si è preso cura di loro ed ha fatto quel che ha fatto. Alcuni preferiscono non vedere fotografie dettagliate degli omicidi, per scacciare il pensiero del coltello che forse ha colpito il corpo di persone che stavano pregando.

“Quale cuore è più spezzato di quello di un padre il cui figlio ha fatto questo?” ha detto a Haaretz il padre Mohammed. Ha detto cose simili un anno fa. “Che dio possa perdonarlo”, mormora S.

S. ha anche detto martedì scorso che il cugino Ala’a ha accompagnato le famiglie di Ghassan e del cugino Uday in tutte le fasi della punizione collettiva decisa da Israele.

“Gli interrogatori dei parenti, le ricorrenti incursioni e visite della polizia nelle loro case, qua e là pugni, insulti, il fratello Muawiyyah che ha perso il lavoro”, ha raccontato.

E poi hanno sigillato la casa dei genitori di Uday. “Sigillare” vuol dire buttare del  cemento nella casa e riempire tutte le stanze di un liquido che si solidifica fino a raggiungere 50-80 cm. dal soffitto.

La bella casa di povera pietra della famiglia fu costruita negli anni ’30. Non sarà più possibile abitarla. Ora i genitori di Uday affittano un piccolo appartamento nelle vicinanze, ma continuano a pagare le tasse  municipali per la casa riempita di cemento.

La famiglia ha subito altre forme di punizione collettiva non ordinate dalla Corte Suprema. Per esempio, i vicini e i conoscenti li evitano, perché sanno o temono che se fanno visita alla famiglia, lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, si presenterà il giorno dopo o la polizia farà loro una visita notturna, con tutto ciò che comporta – lo spavento dei bambini nel cuore della notte, colpi e schiaffi, grida ed insulti, una porta o un mobile rotti.

Quando Ala’a ha deciso di seguire le orme del cugino, sapeva benissimo che avrebbe potuto essere ucciso. Questo pensiero non lo ha spaventato. Sapeva anche delle punizioni che i suoi genitori, sua moglie ed i suoi figli avrebbero subito. Forse può avere immaginato che le punizioni sarebbero state ancor più dure, data l’attuale ira ed il desiderio di vendetta di Israele.

Altri due residenti di Jabal Mukkaber hanno sparato ed accoltellato dei passeggeri di un autobus nel quartiere di Armon Hanatziv di Gerusalemme martedì scorso, uccidendo Haim Haviv, di 78 anni e Alon Gruverg, di 51. Non solo sapevano che sarebbero quasi sicuramente morti, ma anche che le loro famiglie avrebbero pagato un caro prezzo per le loro azioni.

Uno di loro era Baha Aliyan, che S. non conosceva, ma ne aveva sentito parlare. Era un attivista sociale, che ha iniziato varie attività per migliorare la qualità della vita, come aprire delle librerie in diversi quartieri palestinesi o sollevare lo spirito collettivo partecipando a diverse gare del Guinness Mondiale dei Primati. S. ha detto di Baha la stessa cosa che aveva detto di Ala’a: “Se un uomo simile decide di fare quel che ha fatto, è solo un’ennesima prova di quanto la situazione sia deteriorata, di quanto sia diventata pericolosa.”

Quando è stata annunciata la sua morte, è circolato ampiamente un post che Aliyan aveva caricato su Facebook il 12 dicembre 2014 – i 10 comandamenti di ogni shahid (martire): “Ci vedremo in paradiso”, era il decimo comandamento. “Non voglio manifesti”, era il secondo, mentre il primo imponeva alle organizzazioni politiche di “non utilizzare il mio sacrificio e la mia morte, perché appartengono alla patria, non a voi.” In altri termini, non pagate per il mio funerale o per la tenda funebre (un’usanza musulmana,ndt)  per sbandierare in cambio i vostri vessilli.

Il terzo comandamento protegge le madri: “Non date fastidio a  mia madre con domande solo per provocare commozione negli spettatori televisivi.”

L’ottavo comandamento dice che è sufficiente che la gente venga a pregare dopo il funerale. Il nono dice che lui non deve diventare un altro numero dimenticato.

Nel quarto chiede di non instillare odio in suo figlio. “ Vorrei lasciagli scoprire da solo la sua patria e morire per lei, non per vendicare la mia morte.”

Nel quinto comandamento, Aliyan ha scritto: “Se vogliono demolire la mia casa, lasciateli fare. La pietra non ha maggior valore dell’anima che dio ha creato.” Il sesto comandamento dice al popolo di non essere triste per la sua morte. “Siate tristi per ciò che accadrà a voi dopo di me.” E poi: “Non guardate a ciò che ho scritto prima del mio sacrificio. Chiedetevi ciò che c’è dietro di esso.”

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele potrebbe essere in procinto di intraprendere i primi passi per diventare uno Stato teocratico

Nella caotica situazione attuale riguardo alla sicurezza, si prevede che il Comitato ministeriale per la legislazione prenda in considerazione un disegno di legge che inserirebbe nella legislazione israeliana precetti religiosi ebraici.

Haaretz Editoriale

Nella caotica situazione attuale riguardo alla sicurezza, si prevede che il Comitato ministeriale per la legislazione analizzi domenica [18 ott.] un disegno di legge che potrebbe preannunciare il primo passo verso la trasformazione di Israele in un Paese regolato dalla legge ebraica (Halakha), inserendo precetti della religione ebraica nella legislazione israeliana.

Le origini della legislazione israeliana sono state codificate Legge Fondamentale [una sorta di Costituzione, ndt], approvata nel 1980.

In base a questa Legge Fondamentale, quando un giudice deve decidere su una questione legale che non trova risposta né nelle leggi né nelle sentenze precedenti, oppure nell’interpretazione, dovrebbe rivolgersi come fonte supplementare ai “principi di libertà, di giustizia, di integrità e pace della tradizione di Israele ( intendendo la tradizione ebraica)”.

Nel corso degli anni, la corte ha interpretato questo come un riferimento ai principi generali della tradizione ebraica e la maggior parte dei giudici non ha accettato il parere secondo cui ciò metterebbe in pratica i principi della legge ebraica come sono formulati. Inoltre, poiché è stato anche possibile trovare risposte a questioni legali mediante ragionamenti deduttivi, i tribunali non hanno fatto ricorso spesso alla Legge del 1980.

I promotori del nuovo disegno di legge, guidati da Nissan Slomiansky membro alla Knesset del gruppo Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, un partito politico sionista religioso di estrema destra, il cui leader è Naftali Bennet, ndt] sono in disaccordo con il fatto che la legge in vigore non obblighi i giudici ad applicare i principi religiosi della legge ebraica, per cui cercano di emendarla. Il disegno di legge proposto imporrebbe ai giudici di considerare i precetti della religione ebraica (e ciò viene affermato esplicitamente, al contrario di quanto fa l’attuale legge), come anche i principi di giustizia, di onestà, di pace, ecc., prima di cercare risposte attraverso l’interpretazione delle norme di legge.

Nella procedura , il disegno di legge renderebbe la legge ebraica , in cui sono incluse le regole del Mishna [insieme della Torah orale e del suo studio, ndt], del Talmud[raccolta di discussioni sulla legge mosaica, ndt] e dell’ halakha é la pratica religiosa ebraica, ndt], parte integrante della legge israeliana senza il filtro dell’attuale legge. La [nuova] legislazione obbligherebbe i magistrati ad applicare una simile legge senza avere la possibilità di trovare risposte con le regole della deduzione.

È difficile capire perché i promotori del disegno di legge lo considerino corretto per un paese democratico introdurre i precetti di un’antica religione. Perché l’intera popolazione israeliana, una larga parte della quale non è religiosa e alcuni non sono neanche ebrei, dovrebbe essere soggetta a una legge religiosa ebraica? E questo in relazione con un diritto religioso  che discrimina sistematicamente gruppi di popolazione quali le donne e coloro che non sono ebrei. I magistrati laici e quelli non ebrei saranno obbligati, in base alla proposta di legge, a promulgare sentenze secondo i precetti della legge religiosa. Per “facilitare di più le cose” per loro, il disegno di legge prevede che un istituto ufficiale ”traduca” la legge ebraica in un linguaggio moderno  e lo renda accessibile a tutti i giudici.

Al di là del messaggio estremistico e coercitivo che il disegno di legge trasmette, esso rafforzerebbe i dubbi sulla legittimità di Israele quale Stato democratico. L’argomentazione che Israele è un Paese che rispetta i diritti dei suoi cittadini risulta sostanzialmente indebolito, evidenziandone maggiormente gli aspetti di Stato ebraico religioso, in particolare quelli che impongono leggi religiose a abitanti che non sono religiosi o che non sono ebrei.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




I residenti di Gerusalemme est sentono di non avere più niente da perdere

Anche quando non sono d’accordo con chi lancia pietre, i palestinesi di Gerusalemme est dicono che la loro esistenza è costantemente minacciata.

di Amira Hass

Haaretz

Rami ha ottenuto la cittadinanza israeliana due anni fa. E’ uno studente nel mezzo dei suoi vent’anni, nato e abitante a Gerusalemme est. Avverso al lancio delle pietre, ha intrapreso una cosciente e autonoma scelta di “israelizzazione” fin dalla scuola superiore.

Rami (non è il suo vero nome) è arrivato alla conclusione che non sarebbe andato avanti nella vita senza imparare l’ebraico, familiarizzare con la cultura ebraica e addirittura farsi degli amici ebrei, e proseguire gli studi e cercare opportunità di lavoro attraverso le istituzioni israeliane. Ha inoltrato due richieste di cittadinanza al Ministero dell’Interno, che le ha respinte entrambe. Solo dopo aver pagato ad un avvocato una cospicua cifra che lo ha indebitato, ha ottenuto la cittadinanza.

Non è patriottismo israeliano ciò che ha motivato Rami a diventare cittadino. Come tanti palestinesi di Gerusalemme che sono riusciti o hanno provato ad ottenere la cittadinanza israeliana, lo ha fatto per poter studiare e vivere all’estero senza il timore di non ricevere il permesso di ritornare alla sua città e alla sua casa. “La nostra esistenza a Gerusalemme è costantemente minacciata”, dice Rami, che si definisce un arabo di Gerusalemme, piuttosto che un palestinese.

Variazioni su questo tema emergono in ogni conversazione con residenti di Gerusalemme est, specialmente nel corso degli attuali ben noti scontri tra polizia e giovani. Giorno e notte, ogni palestinese di Gerusalemme vive e respira il desiderio degli israeliani, che si percepiscono nelle politiche dello Stato, che loro lascino la città e se ne vadano all’estero o a Ramallah. In quanto residenti ma non cittadini, sono soggetti alle leggi di ingresso israeliane – come se avessero chiesto di andare là e non fossero stati annessi. La residenza fuori città – per studio, lavoro o soggiorno in Cisgiordania – li mette a rischio di perdere lo status di residenti di Gerusalemme ed essere espulsi, con l’approvazione dell’Alta Corte.

La costante minaccia di Israele alla loro esistenza nella città è un punto cardine per capire la situazione di Gerusalemme est, anche se c’è chi dice – come la psicologa Rana Nashashibi, il dott. Muhammad Jadallah e Nasser Kos dell’associazione dei Prigionieri Palestinesi – che chiunque volesse e potesse andarsene lo ha già fatto. Così è. I 303.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme est (il 75% di loro sotto la soglia di povertà) non se ne andranno, nonostante le pressioni e l’oppressione.

Sotto molti aspetti, Muhammad (ha chiesto di non rivelare il suo nome completo) è l’opposto di Rami, benché abbiano la stessa età. Ha tirato pietre, è stato ferito, catturato, arrestato e bandito dalla moschea di Al-Aqsa per un anno. La sua casa si trova a circa 50 metri da una delle entrate di Haram al-Sharif (Monte del Tempio). Al contrario di Rami, Muhammad ha dei dubbi sul legame ebreo con quel luogo.

Se una volta vi era un tempio, Allah ha voluto che fosse distrutto, e gli angeli hanno posto le fondamenta per una moschea”, ha detto questa settimana con convinzione.

Invece Rami ha scoperto in giovane età di non credere in dio, però entrambi parlano delle loro esperienze con il razzismo israeliano.

Gerusalemme est chiude alle cinque. Se vogliamo uscire un po’, è impossibile nella parte occidentale della città. Non è sicuro trovarsi là dopo le otto o le nove di sera. Quelli di destra danno la caccia ed inseguono chiunque identifichino come arabo, e di giorno qualunque poliziotto di frontiera può fermarti ed umiliarti”, dice Muhammad. “Perciò noi andiamo a Ramallah e a Betlemme.”

Ma la strada è piena di posti di blocco militari e di ingorghi di traffico a causa di essi, e quando riescono ad arrivare, la loro invidia è acuta. Nelle enclaves dell’Autorità Palestinese non si sperimenta ogni momento l’oppressione israeliana, come accade a Gerusalemme est. Là non c’è il timore di venire aggrediti. Nello scorso anno, dice Rami, tutti a Gerusalemme est hanno avvertito il razzismo e la discriminazione in due principali situazioni: in contrasto con le tempestive condanne comminate a palestinesi, i processi agli imputati per aver bruciato il giovane Muhammad Abu Khdeir a metà del 2014 sono ancora in corso. I palestinesi di Gerusalemme est traggono la conclusione che l’intenzione sia di emettere sentenze risibili. In secondo luogo, “una decina di palestinesi di Gerusalemme sono stati arrestati e processati per dei post su Facebook, mentre tutti sanno che i post razzisti degli ebrei non provocano arresti o processi”, dice Rami.

Rami non chiede ai ragazzi del vicinato che tirano pietre perché lo fanno, in quanto porre una simile domanda lo farebbe considerare uno fuori dal giro. Ma la verità è che lui si sente un estraneo nell’affollato quartiere in cui la sua famiglia si è trasferita 15 anni fa, quando lui era alle elementari, a causa dell’aumento dei prezzi di affitto nel loro vecchio quartiere. La costante minaccia all’esistenza dei palestinesi nella città si manifesta non solo nel precario status di residenza, ma anche della grave carenza di alloggi. Questo non avviene dal nulla. Israele ha espropriato circa un terzo delle riserve di terra che erano annesse a Gerusalemme nel 1967 ai loro proprietari palestinesi a beneficio dei quartieri ebraici e dei programmi pubblici al servizio soprattutto della popolazione ebraica. Sul terreno rimanente sono state imposte rigide restrizioni all’edificazione, probabilmente per preservare il “carattere rurale” dei quartieri, e nel centro di essi vi sono dei terreni destinati a costruzioni fortificate per gli ebrei.

La paura di perdere lo status di residenza e la costruzione del muro dopo il 2000 hanno riportato in città migliaia di persone che avevano migliorato la propria situazione abitativa trasferendosi nei quartieri adiacenti, come Bir Naballah e A-Ramm, che si trovano fuori dalla zona annessa a Gerusalemme. Il risultato è un’alta densità di popolazione, esorbitanti prezzi di acquisto o di affitto delle case, edificazioni senza permesso, ordini di demolizione e demolizioni di case.

Nasser Kos ricorda un ragazzino di 12 anni che al ritorno da scuola ha trovato la sua casa demolita. “Ha gridato ‘vendetta’ in modo che tutti potessero sentirlo e poi è andato a tirare una bomba incendiaria”, dice Kos. “Oggi ha 18 anni ed è ancora in prigione.” Anche chi non è d’accordo con la sua azione lo può capire. Persino Rami comprende quelli che tirano pietre.

Kos dice di essere diventato un militante di Fatah 30 anni fa, in modo che i suoi figli potessero vivere meglio. Non poteva mai immaginare che le loro vite non avrebbero avuto alcuna prospettiva né personale né politica di miglioramento o cambiamento.

Il ragazzo vede picchiare sua madre, vede il vecchio sulla via per Al-Aqsa colpito da un poliziotto”, dice Kos. “Non può sopportarlo. Dà sfogo alla sua rabbia.” Quindi i bambini e i giovani che tirano pietre finiscono per rappresentare tutta la popolazione.

Tutti noi sentiamo che abbiamo raggiunto il limite della nostra capacità di sopportare i sistematici attacchi contro di noi a Gerusalemme”, dice Nashashibi. “Israele è riuscita a far diventare le difficoltà della vita un problema quotidiano per ogni residente di Gerusalemme. Ogni conversazione inizia con ‘hai sentito lo sparo, ero soffocato dal gas, non ho potuto arrivare alla città vecchia, ho ricevuto una multa per niente, un funzionario comunale mi ha trattato sgarbatamente, il ragazzo ha abbandonato la scuola perché il livello è scarso e non ci sono i soldi per una scuola privata, la città non ripara il sistema delle acque di scarico.”

Lei è convinta che “se non fossimo così profondamente frustrati, andremmo tutti in strada.” Gli adulti hanno motivazioni concrete che impediscono loro di esprimere la propria continua rabbia, o come dice Nashashibi: “I bambini ed i giovani non sono condizionati dalle valutazioni e dalla paura degli adulti che non ci si guadagna niente, che si è ormai tentato di tutto e nulla è cambiato.”

La nuova politica israeliana di repressione delle manifestazioni e di punizioni più severe avrà effetto?

La morte non ci spaventa”, dice Kos. “Io sto parlando con te e sono morto. Io muoio mentre vivo. Noi moriamo ogni giorno. Perciò non abbiamo niente da perdere. Ecco perché i giovani sono pronti a morire.”

Sia Jadallah che Ziyyad Hammouri, direttore del Centro per i Diritti Sociali ed Economici di Gerusalemme, dicono che le autorità hanno già inasprito le misure punitive. “Anche persone che non hanno partecipato alle manifestazioni e al lancio di pietre sono state gravemente ferite dai colpi israeliani”, dice Hammouri. “Sono state comminate multe ed è stata cancellata l’assicurazione per le famiglie dei prigionieri. Quindi quale effetto deterrente potrà avere inserire queste misure in una legge?”

Nashashibi dice: “Quel che gli israeliani non capiscono è che nessun ragazzo tra i 12 e i 20 anni di età pensa che quello che è successo ad altri succederà a lui. Hanno la mentalità da “superpotere”. E’ tipico di quella fascia di età. Pensano che ciò che è successo agli altri (arresto, ferimento) è successo perché non hanno fatto le cose abbastanza bene, mentre loro possono fare meglio.

I genitori che hanno paura per i propri figli, per le multe o per la perdita di benefici sociali non possono fermare i ragazzi perché, secondo Nashashibi, “ il regime di discriminazione israeliano ha talmente indebolito l’istituzione familiare palestinese, l’autorità del padre, che essi per lo più non hanno influenza sui figli. Padri che non riescono a guadagnare il necessario per vivere, genitori picchiati dalla polizia di fronte ai loro figli, coppie che si sono sposate quando erano giovani e non lavorano. Tutto ciò ha condotto all’assenza di una figura autorevole all’interno della famiglia.”

Da un lato non vi è una famiglia forte. Dall’altro, non c’è un’organizzazione politica che coordini il lancio di pietre e le dimostrazioni, o che ordini di smettere. La gente ha perso fiducia nelle organizzazioni politiche, inclusa Fatah, dice Kos. I giovani decidono per conto loro.

Il poliziotto che picchia, il colono che visita la moschea di Al-Aqsa o controlla Silwan (quartiere alle porte di Gerusalemme, ndt.) e l’ispettore comunale che emette un ordine di demolizione sono quelli che hanno organizzato i ragazzi e li hanno mandati a tirare pietre”, dice. Rifiuta l’accusa che Fatah non sia interessata alla lotta e che i suoi membri pensino solo ai propri salari dell’Autorità Palestinese. La prova è che i segretari di Fatah nella città – precedente ed attuale – sono stati arrestati.

Molti dei dimostranti che dicono di manifestare per Al-Aqsa, compresi quelli che si sono scontrati coi poliziotti all’interno del cortile e della moschea, non sono particolarmente religiosi. “Alcuni di loro non sanno neanche come si prega”, dice Jadallah, che lavora in una clinica sul monte.

Gli arresti mostrano che non vi è un’associazione specificamente religiosa o organizzata”, concorda Kos. “La moschea di Al-Aqsa attira chiunque – il musulmano e il comunista, il militante e il commerciante, il tossicomane e l’insegnante.”

Diversamente dalle enclaves dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Gaza, non c’è separazione tra i giovani e l’occupazione israeliana e non vi è luogo in cui sia possibile far finta che l’occupazione non esista. Non ci sono forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese che impediscano che i giovani palestinesi si scontrino con la polizia israeliana, come accade a Betlemme e Nablus.

Forse c’è qualcosa di più sano in questo”, conclude Nashashibi, “perché puoi sfogare la tua rabbia e dimostrare che non c’è nulla di normale in una città occupata.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




In Israele, ci muoviamo in mezzo agli assassini e ai torturatori

L’atto di censura nei confronti del Teatro Al-Midan [cfr. A.Hass su Internazionale ]scaturisce dall’invidia della capacità dei nostri assoggettati di vincere l’oppressione, di pensare e creare, sfidando la nostra immagine di loro come inferiori.

di Amira Hass | 22 giugno 2015 |

Haaretz

 

 

Nelle nostre case, nelle nostre strade e nei nostri luoghi di lavoro e divertimento ci sono migliaia di persone che hanno ucciso e torturato migliaia di altre persone o hanno diretto la loro uccisione e la loro tortura. Scrivo “migliaia” invece del più vago “innumerevoli” – un’espressione relativa a qualcosa che non si può misurare.

La grande maggioranza di coloro che uccidono e torturano (anche adesso) vanno fieri delle proprie gesta e la loro società e le loro famiglie sono orgogliose delle loro gesta – benché normalmente sia impossibile trovare un collegamento diretto tra i nomi dei morti e torturati ed i nomi di coloro che uccidono e torturano, e anche quando è possibile,[ciò] è proibito. E’ proibito anche dire “assassini”. Ed è proibito scrivere “malviventi” o “persone crudeli”.

Io, crudele? Dopo tutto, le nostre mani non sono coperte di sangue quando schiacciamo il bottone che sgancia una bomba su un edificio che ospita 30 membri di una famiglia. Malvivente? Come potremmo usare questo termine per designare un soldato di 19 anni che uccide un ragazzo di 14 anni che è uscito per raccogliere piante commestibili?

I killer e i torturatori ebrei e i loro diretti superiori agiscono come se avessero un’autorizzazione ufficiale. I palestinesi morti e torturati che si sono lasciati alle spalle negli scorsi 67 anni hanno anche dei nipoti e delle famiglie in lutto per i quali la perdita è una costante presenza. Nei corridoi universitari, nei centri commerciali, negli autobus, nei distributori di carburante e nei ministeri governativi, i palestinesi non sanno chi, tra la gente che incrociano, ha ucciso, o quali e quanti membri delle loro famiglie e del loro popolo ha ucciso.

Ma ciò che è certo è che i loro assassini e torturatori vanno in giro liberamente. Come eroi.

In questa malsana situazione in cui i palestinesi soffrono lutto e angoscia, noi, gli ebrei israeliani, non possiamo vincere. Con la nostra aviazione e le nostre forze armate e la nostra Brigata Givati e le nostre celebri unità di commando d’elite, siamo dei perdenti in questo contesto. Ma poiché siamo i dominatori indiscussi, falsifichiamo il contesto e ci appropriamo del lutto.

Non ci accontentiamo dei terreni, delle case e delle vie di comunicazione dirette che abbiamo rubato loro e di cui ci siamo impadroniti ed abbiamo distrutto, e che continuiamo a distruggere e a rubare. No. Noi in più neghiamo ogni ragione, ogni contesto storico e sociale delle espulsioni, spossessamenti e discriminazioni che hanno costretto un piccolissimo manipolo di quei palestinesi che sono cittadini di Israele a cercare di imitarci prendendo le armi. Si sono ingannati pensando che le armi fossero lo strumento giusto di resistenza, o hanno raggiunto il colmo della rabbia e dell’impotenza e deciso di uccidere.

Che se ne pentano o no, la loro delusione non cancella il fatto che avevano ed hanno tutte le ragioni di resistere all’oppressione e alla discriminazione e malvagità che sono parte del dominio di Israele su di loro. Condannarli come assassini non ci trasforma in vittima collettiva in questa equazione. Invece di indebolire le ragioni della resistenza, noi stiamo soltanto intensificando e migliorando gli strumenti di oppressione. E un mezzo di oppressione è l’insaziabile desiderio di vendetta.

L’attacco al Teatro Al-Midan e lo spettacolo “Un tempo parallelo” sono parte di questa sete di vendetta. E comprende anche tantissima invidia. Invidia per la capacità di coloro che opprimiamo di vincere l’oppressione e il dolore, di pensare, di creare e di agire, sfidando la nostra immagine che li dipinge inferiori. Loro non ballano la nostra musica come poveri smidollati.

Come in una caricatura antisemita, per noi tutto si concentra nelle finanze, nel denaro. Noi non stiamo zitti, noi ci vantiamo. Siamo felici se solo togliamo loro i finanziamenti. Li abbiamo trasformati in una minoranza nella nostra terra quando li abbiamo espulsi e non abbiamo concesso loro il ritorno, ed ora il 20% che è rimasto qui dovrebbe dirci grazie e pagare con le tasse degli spettacoli che esaltano lo Stato e la sua politica. Questa è democrazia.

Non è una guerra culturale, o una guerra sulla cultura. E’ un’altra battaglia – probabilmente una causa persa, come quelle precedenti – per un futuro sano per questo paese. I cittadini palestinesi di Israele erano una forma di assicurazione per la possibilità di un futuro sano: si può dire un ponte, bilingue, pragmatico, anche se contrario alla loro volontà. Ma dobbiamo attuare dei cambiamenti, dobbiamo imparare come ascoltarli, perché questa assicurazione sia valida. Ma noi, gli indiscussi dominatori, non prevediamo di ascoltarli e non conosciamo il significato di cambiamento.

Una nota finale: I rapporti sull’omicidio di un residente di Lod, Danny Gonen, alla sorgente di Ein Bubin vicino al villaggio di Dir Ibzi’a erano accompagnati da collegamenti a recenti precedenti attacchi: la persona ferita in un attacco terroristico vicino alla colonia di Alon Shvut, il poliziotto di frontiera accoltellato vicino alla Tomba dei Patriarchi a Hebron. E che cosa si ometteva di menzionare? Ovviamente, due giovani palestinesi recentemente uccisi dai soldati israeliani: Izz al-Din Gharra, di 21 anni, colpito a morte il 10 giugno nel campo profughi di Jenin e Abdullah Ghneimat, 22 anni, schiacciato il 14 giugno a Kafr Malik da una jeep dell’esercito israeliano.

In media ogni notte l’esercito israeliano compie 12 raid di routine. Per i palestinesi, ogni raid notturno, che spesso comporta l’uso di granate stordenti e di gas e sparatorie, è un mini attacco terroristico.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Bruciate chiese e moschee in Israele

Fino a quando Israele permetterà che vengano bruciate le sue chiese e le sue moschee?

Israele deve trattare i mandanti dei crimini motivati d’odio, come quello commesso vicino a Tiberiade, con la stessa severità riservata a coloro che mandano le auto bomba nel centro delle città.

Editoriale di Haaretz 21 giugno 2015

L’incendio doloso di giovedì [18 giugno] della chiesa “Della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci” a Tabgha, vicino a Tiberiade, è il diciottesimo attacco incendiario a una chiesa o a una moschea negli ultimi quattro anni. Nessuno di questi casi è stato risolto, nessun responsabile è stato individuato e, naturalmente, nessun colpevole è stato accusato per gli attacchi, che sono parte di un’ampia serie di azioni, comprendenti scritte con lo spray sulle chiese e sulle moschee incitanti all’odio, sputi ai sacerdoti cristiani a Gerusalemme e la pubblicazione di editti di vari rabbini contro i “gentili”.

Danneggiare luoghi sacri non è solo un atto criminale o un o un crimine qualunque motivato dall’odio. Proteggere la libertà di culto è uno dei principi fondamentali universali previsti da tutti i trattati e dalle costituzioni di tutti i Paesi, in quanto costituisce l’aspetto principale dell’identità culturale. Persino nazioni che si costituiscono in base alla religione prevalente, come alcuni Stati islamici, considerano le istituzioni religiose di altre fedi come luoghi sacri, perseguendo e punendo coloro che le profanano.

Le leggi israeliane contro il danneggiamento dei luoghi sacri sono di una chiarezza cristallina, così come il discorso ufficiale apparentemente portato avanti dal governo. Se si considera la fedeltà nei confronti della definizione di Israele come Stato ebraico, il governo condanna vigorosamente tutti i casi in cui un luogo di culto non ebraico viene deturpato. Tuttavia è difficile prendere in seria considerazione le condanne espresse dal primo ministro, dai ministri e dagli esponenti della Knesset quando, nello stesso momento, fanno l’occhiolino a quelli che infrangono la sovranità dello Stato e intraprendono personali campagne religiose e culturali contro i cristiani e i musulmani.

Quale messaggio ha realmente trasmesso al pubblico il primo ministro Benjamin Netanyahu dopo l’ultimo attacco incendiario? Ha dato istruzioni al capo dei servizi di sicurezza Shin Bet [il servizio segreto interno n.d.t.] di accelerare l’inchiesta per trovare i colpevoli. Significa che deturpare le istituzioni religiose fino ad ora non era tra i compiti dello Shin Bet? Possiamo trarre la conclusione che individuare i colpevoli dei crimini motivati dall’odio contro gli arabi non è un fatto degno della loro attenzione?

È giusto dire che profanare luoghi di culto non è percepito come un atto “classico” di terrorismo che mette in pericolo la sicurezza nazionale. Tale interpretazione vale anche ovviamente per i colpevoli di delitti motivati dall’odio e per i fanatici religiosi. La loro continua libertà gli da un senso di impunità che gli permette di continuare nei loro crimini.

Il governo di Israele, giustamente, non avrebbe ignorato l’incendio di sinagoghe, la distruzione di tombe nei cimiteri ebraici o l’aggressione contro ebrei in altri Paesi se i governi [di questi Paesi] si fossero scarsamente impegnati nell’indagare simili crimini. Ora deve dimostrare determinazione nello sradicare analoghi crimini di incitamento all’odio dall’area sotto la sua giurisdizione, definendo i colpevoli come terroristi che minano la sicurezza d’Israele, né più né meno di quelli che mandano le auto bomba nel centro delle città.

 

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Palestinese in sciopero della fame ospedalizzato e legato con la forza

Khader Adnan Musa, al nono periodo di detenzione amministrativa, ha fatto lo sciopero della fame per un mese.

 

Di Amira Hass, 9 giugno 2015

 

Haaretz

 

Un detenuto amministrativo palestinese che è stato in sciopero della fame durante lo scorso mese è stato ospedalizzato con la forza ed incatenato al letto.

Khader Adnan Musa si trova nell’ospedale Assaf Harofeh di Tzrifin con un braccio e una gamba legati al letto 24 ore al giorno e tre poliziotti giorno e notte nella sua stanza, secondo quanto hanno riferito due attivisti israeliani contro l’occupazione, che lo hanno visitato venerdì.

Musa, che è stato posto in detenzione amministrativa per la nona volta 11 mesi fa, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la sua prolungata detenzione senza processo. Tre anni fa, durante un altro periodo di detenzione amministrativa, ha ottenuto il rilascio dopo uno sciopero della fame durato 66 giorni. In tutto, ha passato più di sei anni nelle prigioni israeliane.

Il servizio di sicurezza Shin Bet sostiene che egli è un membro attivo della Jihad Islamica, un’organizzazione terroristica.

Secondo il suo avvocato, Jawad Boulus, Musa, che rifiuta di sottoporsi ad esami medici, si è opposto alla propria ospedalizzazione perché sapeva che sarebbe stato ammanettato al letto. Boulus lo ha visitato mercoledì scorso, quando si trovava ancora nella clinica della Polizia Penitenziaria Israeliana a Ramle.

Il regolamento della Polizia Penitenziaria vieta di incatenare un prigioniero tranne nel caso in cui la guardia carceraria tema che egli possa fuggire o aiutare altri a fuggire, o provocare danni a persone o oggetti, danneggiare o distruggere delle prove, o riceva o spedisca un oggetto passibile di essere usato per commettere un crimine o minacciare la disciplina nel suo luogo di custodia. Però, alla domanda da parte di Haaretz di quale tra queste infrazioni la guardia temesse che Musa avrebbe commesso, il portavoce della Polizia Penitenziaria Israeliana Sivan Weizman non ha fornito spiegazioni.

Weizman ha detto che il detenuto è stato trasferito in ospedale in modo che la sua situazione potesse essere monitorata. E’ stato ricoverato in ospedale in base alla decisione del medico. Si tratta di un detenuto di sicurezza che è sorvegliato secondo regolamento, in base alle circostanze e alla adeguata valutazione della situazione.

Una portavoce dell’ospedale Assaf Harofeh ha detto che le decisioni sulla contenzione dei prigionieri sono di esclusiva competenza della Polizia Penitenziaria. Ha aggiunto che loro cooperano con la Polizia Penitenziaria come da regolamento.

Sia Boulus che gli attivisti israeliani hanno riferito che Musa è pienamente cosciente e vitale, benché I media palestinesi abbiano riportato il contrario. Comunque, ha aggiunto Boulus, Musa ha perso molto peso.

Musa potrebbe essere presto affiancato da un’altra persona in sciopero della fame, il segretario generale del Fronte per la Liberazione della Palestina, Ahmad Saadat, che sta scontando una sentenza di 30 anni per il suo ruolo nell’assassinio dell’ex ministro Rehavam Zeevi. Saadat domenica ha informato sia i suoi avvocati che la Polizia Penitenziaria che avrebbe iniziato uno sciopero della fame il 19 giugno, un anno dopo da che la sua famiglia ebbe il permesso di fargli visita per l’ultima volta: questo è stato riferito ad Haaretz dagli avvocati Boulus e Sahar Francis.

Francis ha detto che lo sciopero della fame di Saadat ha lo scopo di protestare non solo per la mancanza delle visite dei suoi famigliari, ma anche per ciò che molti prigionieri lamentano come ripetute violazioni da parte della Polizia Penitenziaria degli accordi che posero fine allo sciopero della fame di massa dei prigionieri palestinesi nel 2012.

Lo sciopero della fame del 2012 fu indetto per protestare contro il divieto delle visite dei famigliari, i prolungati periodi di isolamento ed il largo uso della detenzione amministrativa. Ma secondo Saadat non vengono applicati né gli accordi scritti né quelli orali raggiunti a quel tempo. Tuttora i prigionieri vengono mandati in isolamento, a centinaia di prigionieri vengono negate le visite dei famigliari ed il numero dei detenuti amministrativi è in aumento. Attualmente circa 450 palestinesi sono trattenuti senza processo.

Intanto, secondo Addameer, l’Associazione per l’Appoggio ai Prigionieri e per i Diritti Umani, lo Shin Bet e l’esercito israeliano lunedì hanno arrestato una dottoressa palestinese-americana, Sabreen Abu Sharar, che ha studiato in Egitto. Un tribunale l ‘ha posta in custodia cautelare per sette giorni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




È ora che la FIFA mostri ad Israele il cartellino rosso

Israele griderà allo scandalo, ma la sua sospensione dalle gare internazionali di calcio potrebbe realmente portare ad un cambiamento del gioco.

di Gideon Levy

17 maggio, 2015 | Haaretz

Fin dall’inizio va detta la verità: spero che Israele sia sospesa dalla FIFA . Il 29 maggio, potrebbero fare una mossa che cambierebbe il gioco. Potrebbe iniziare una reazione a catena di cui sarebbe difficile prevedere l’esito. Se la Federazione internazionale mostrasse a Israele il cartellino rosso, come chiedono i palestinesi, vorrebbe dire che il calcio metterebbe in moto il processo del cambiamento.

Vorrebbe dire che è arrivato finalmente il momento per Israele di pagare per i crimini della sua occupazione. Che gli israeliani comincino ad essere penalizzati per quello che è stato fatto in loro nome, con il loro coinvolgimento, con la loro approvazione e con il loro appoggio finanziario. Che stracciare continuamente il diritto internazionale da parte di Israele – in modo arrogante e burlandosene volgarmente – ha un prezzo. Quale migliore prezzo se non impedire ad Israele di partecipare alle competizioni internazionali di calcio fino a quando non cambierà la sua condotta? Ha funzionato benissimo nel passato con il Sud Africa, il mentore di Israele in parecchi ambiti – il boicottaggio internazionale degli sport dell’apartheid è stato uno degli elementi decisivi che hanno portato alla caduta del regime – e può funzionare egualmente con Israele.

La prima risposta alla decisione di sospendere Israele sarà ovviamente da parte sua gridare allo scandalo, assumendo il ruolo della vittima, serrando le fila e lanciando il contrattacco: vedete cosa ci stanno facendo, quegli antisemiti, quella gente che odia Israele; siamo una nazione rimasta sola, tutto il mondo è contro di noi! Naturalmente useranno la memoria dell’olocausto. I politici e gli intrallazzatori proveranno a superarsi a vicenda con affermazioni indignate . Il capo dell’Unione Sionista on. Isaac Herzog proclamerà che in un simile caso, non vi sarà differenza tra l’opposizione e la coalizione [di governo] ma un solo popolo. Israele dichiarerà illegale con la forza il calcio palestinese con una direttiva generale dell’IDF [l’esercito israeliano n.d.t.]: ogni ragazzo con un pallone verrà arrestato; forse lo stadio di Gaza verrà bombardato in base al fatto di essere un deposito di armi; l’ufficio a Ramallah di Jibril Rajoub presidente della federazione calcio palestinese verrà devastato (non per la prima volta).

La Repubblica Ceca e il Canada proporranno partite amichevoli con Israele; Shimon Peres organizzerà una partita tra la Micronesia e la Palestina.

Ma pochi mesi dopo ciò, asciugate le lacrime e in preda allo scoraggiamento, privati di [partecipare ] alle gare internazionali di calcio e senza un prospettiva diplomatica internazionale, sorgeranno le domande e i dubbi. Cosa potrà fare Israele per finire di commettere ingiustizie? Perché ha fatto veramente tutto quello? E, soprattutto, ne valeva la pena? Vale la pena continuare l’occupazione e pagarne il prezzo, che continuerà solamente a crescere? Vale la pena essere messi al bando per le colonie di Itamar e Yitzhar?

Le sanzioni e i divieti non si fermeranno a Zurigo: la FIFA fischierà l’inizio del gioco che in qualche parte del mondo stanno proprio aspettando.

Allora ,quando il prezzo sarà insopportabile, un numero sempre maggiore di israeliani si sveglierà dall’ indifferenza. Non c’è speranza che lo facciano prima: non hanno nessuna ragione per farlo – stanno bene, la società chiude gli occhi, [funziona] il lavaggio del cervello.

Una sanzione al calcio non uccide nessuno. Non si versa sangue con il boicottaggio. È un’arma legittima per realizzare la giustizia e applicare il diritto internazionale. Israele ha sostenuto e sostiene il boicottaggio e lo favorisce: contro Hamas, contro Gaza e naturalmente contro l’Iran. Ha perfino aderito al boicottaggio del Sud Africa sebbene [fosse] a dispetto di se stesso. Ora è arrivato il suo turno.

Qualcuno può confutare che il cartellino giallo è stato mostrato un numero infinito di volte e che [Israele] ha continuato come se nulla fosse accaduto? Non andrebbe mostrato il cartellino rosso per tenere imprigionati milioni di gazawi compresi i giocatori di calcio?

Si ricorda il presidente della FIFA Sepp Blatter a Ramallah di avere pronosticato al campo Al-Amari un futuro brillante al giocatore di calcio Mohammed al Qatari , studente dell’Accademia di calcio Blatter? Ha saputo che Qatari è stato ucciso da una pallottola dell’IDF dritto nel petto da una distanza di 70 metri mentre protestava contro l’ultima guerra a Gaza? Non è questo un crimine?

Israele sta assumendo un atteggiamento diplomatico di stupore e di offesa cercando senza posa di prevenire la nefasta decisione. Potrebbe perfino anche questa volta cavarsela. Ma non è arrivato il momento che ci domandiamo ancora per quanto?

Gideon Levy twitta a @levy_haaretz




Soldati israeliani: a Gaza tutti erano considerati terroristi

 

 

Un gruppo di soldati: Nella guerra di Gaza l’IDF  ha supposto che chiunque fosse un terrorista

L’organizzazione “Breaking the Silence “ [Rompere il silenzio] afferma che l’adozione del principio di rischio minimo per i soldati ha comportato più vittime civili.

 

Di Gili Cohen, 4/5/2015

Haaretz

“Breaking the Silence” ha aspramente criticato l’esercito israeliano [IDF, Israeli Defence Forces] per la sua strategia operativa nella guerra a Gaza della scorsa estate, sostenendo che ha comportato “un danno enorme e senza precedenti alla popolazione civile ed alle infrastrutture nella Striscia di Gaza”.

L’organizzazione di veterani dell’esercito ha pubblicato un rapporto con le testimonianze di 60 soldati ed ufficiali dell’IDF coinvolti nell’operazione Margine Protettivo di luglio e agosto dell’anno scorso. Secondo questo gruppo, le testimonianze segnalano un principio generale che ha ispirato l’intera operazione militare: il minimo rischio per le forze israeliane, anche quando ciò significasse perdite civili.

Le regole d’ingaggio stabilivano fondamentalmente che “chiunque si trovasse in un’area [operativa] dell’IDF, che l’esercito aveva occupato, non era un civile. Questo era il criterio”, ha affermato uno dei soldati.

Un carrista ha riferito che, a un certo punto, si è capito che tutte le case in cui le forze israeliane erano entrate e che avevano utilizzato sarebbero poi state distrutte da grossi bulldozer D9. “In nessun momento fino alla fine dell’operazione….nessuno ci ha detto quale utilità operativa avesse la distruzione delle case”, ha detto. “ Durante un colloquio i comandanti dell’unità hanno spiegato che non si trattava di un atto di vendetta. A un certo punto ci siamo resi conto che era una costante. Si abbandona una casa e la casa non c’è più. Arriva il D9 e la demolisce.”

Un altro soldato ha aggiunto: “C’era un comandante di alto grado che amava veramente i D9 e era proprio favorevole alle distruzioni; li ha utilizzati parecchio. Basta dire che quando lui si trovava in un certo luogo, tutte le infrastrutture intorno all’edificio venivano totalmente distrutte – quasi ogni casa era colpita da una granata.”

Un soldato di fanteria ha ricordato un incidente in cui un militare ha identificato due figure sospette che camminavano in un frutteto, distante poche centinaia di metri. Le sentinelle non potevano identificarle immediatamente, per cui è stato inviato un drone per fare un sopralluogo. Si trattava di due donne che attraversavano il frutteto, parlando ai cellulari. “L’aereo le ha prese di mira e le ha uccise”, ha detto. Un comandante di blindati che è arrivato in seguito per perlustrare l’area ha trovato i corpi delle due donne, che avevano entrambe più di 30 anni ed erano disarmate.

Secondo il soldato, il fatto che le donne avessero in mano solo i cellulari è stato riferito al comandante del battaglione. Nonostante questo, nei rapporti scritti in seguito, le donne vennero classificate come “terroriste” – vedette che stavano operando nella zona. “Il comandante se n’è andato e noi abbiamo proseguito. Loro sono state contate tra i terroristi. Sono state uccise, quindi è chiaro che erano terroriste”, ha detto.

Sono stati riportati numerosi altri casi relativi all’uccisione di civili. Ad una donna chiaramente malferma e che non costituiva minaccia è stato ingiunto dal comandante di divisione di dirigersi ad ovest, verso una zona dove erano fermi dei carri armati. Quando si è avvicinata ai mezzi corazzati, è stata mitragliata a morte. (Pare che questo sia uno degli incidenti su cui sta indagando la polizia militare.)

Un altro soldato che combatteva nel nord di Gaza ha riferito di un vecchio ucciso un pomeriggio quando si è avvicinato ad un militare. Precedentemente i militari erano stati avvertiti di stare attenti ad un uomo anziano che avrebbe potuto portare con sé delle granate. “Il ragazzo che era di guardia – io non so che cosa gli sia successo; ha visto un civile, gli ha sparato, e non lo ha ucciso subito. L’uomo giaceva a terra contorcendosi dal dolore”, ha detto il soldato.

Un altro soldato che ha riferito lo stesso incidente ha detto che un altro militare alla fine ha sparato all’uomo uccidendolo. “Nessun sanitario ha voluto avvicinarglisi (per paura che potesse avere addosso degli esplosivi)”, ha spiegato. “Era chiaro a tutti che potevano accadere due cose: o lo lasciavamo morire lentamente, o ponevamo termine alla sua agonia. Alla fine, hanno posto termine alla sua agonia. E’ arrivato un D9, lo ha ricoperto di terra e ed è finita così.”

Le dettagliate testimonianze contenute nel rapporto includono altre pratiche adottate da alcune unità durante l’operazione “Margine Protettivo”. Un carrista ha riferito che dopo la morte di un compagno di plotone il comandante ha annunciato che dovevano sparare una raffica di colpi in sua memoria. “Colpi come si sparano ai funerali, ma con proiettili e contro le case. Non si trattava di colpi sparati in aria. Dovevi solo scegliere dove sparare. Il comandante ha spiegato: ‘Scegliete la casa più lontana, gli farà più male.’ Era una forma di vendetta”, ha detto.

Un altro carrista ha detto che dopo tre settimane di combattimento si è creata una competizione tra i componenti della sua unità – su chi sarebbe riuscito a colpire dei veicoli in movimento su una strada su cui transitavano auto, camion e anche ambulanze.

“Quindi ho visto un veicolo, un taxi, ed ho cercato di colpirlo ma l’ho mancato”, ricorda. “Sono arrivati altri due veicoli ed io ho tentato un paio di altri colpi, ma non ci sono riuscito. Allora il comandante è arrivato e ha detto ‘Dai, smettila, stai sprecando tutti i colpi. Finiscila’. Allora siamo andati verso la mitragliatrice”, ha aggiunto.

Ha detto che aveva capito che stava sparando a civili. Interrogato a questo proposito, ha detto: “Penso, in fondo, che questo mi abbia un po’ turbato. Ma dopo tre settimane a Gaza, quando spari a qualunque cosa si muova, ed anche a ciò che non si muove, ad un ritmo psicotico, tu non….il bene e il male si confondono un po’, la tua moralità incomincia a svanire e perdi la bussola. Diventa un video gioco. Davvero, davvero tranquillo e realistico.”

Traduzione di Cristiana Cavagna