L’assassinio di un giovane palestinese da parte di coloni israeliani è il più recente tentativo di escalation

Amira Hass

6 agosto 2023 – Haaretz

I coloni israeliani assassini saranno probabilmente liberati o dichiarati innocenti per legittima difesa, i palestinesi attaccati saranno processati per tentato omicidio. Ma la violenza organizzata ha un altro obiettivo.

Ci sono vari possibili scenari in seguito all’assassinio del giovane palestinese Qosai Mi’tan nel suo villaggio di Burqa, a est di Ramallah: la polizia lascerà libero di tornare a casa sua l’ebreo incarcerato in seguito alle affermazioni del suo avvocato che ha agito per legittima difesa dopo che il suo amico era stato ferito. In seguito a proteste crescenti da parte dei parlamentari del (partito) Sionista Religioso che l’esercito sta abbandonando i coloni, l’esercito e lo Shin Bet arresteranno in quel villaggio i palestinesi indiziati per aver attaccato con armi il sospettato (ferito e portato in ospedale), e anche i suoi amici.

Il pubblico ministero chiuderà la pratica contro i due sospettati dato che sarà convinto che si stavano difendendo o potrebbe cambiare l’accusa con una per uso improprio di armi. I giudici a Gerusalemme saranno indulgenti e condanneranno entrambi ai servizi sociali, come lavorare in un asilo nell’avamposto di Pnei Kedem autorizzato di recente.

I palestinesi devono rispondere davanti al tribunale militare di Ofer dell’accusa di aver attaccato pastori ebrei la vigilia dello Shabbat. La loro detenzione sarà estesa fino alla fine di tutti i procedimenti legali. Saranno accusati di tentato omicidio e condannati a vari anni di carcere. “Una disputa sui pascoli non dovrebbe finire in un attacco contro pastori innocenti che volevano solo che le loro pecore e capre brucassero l’erba che cresce su questa terra fertile,” dirà poeticamente il giudice, un tenente colonnello.

Delirante? Non in Israele, come provano i commenti domenica mattina di Itamar Ben-Gvir [ministro di ultradestra per la sicurezza nazionale, ndt.] in cui afferma che ai due sospettati si dovrebbe dare un’onorificenza. Nel giugno 2022 (durante il governo Bennett-Lapid-Gantz), un colono dell’avamposto autorizzato di Nofei Nehemia ha ucciso il ventisettenne Ali Harb del villaggio di Iskaka, a sud di Nablus. Il colono stava partecipando a un’invasione organizzata delle terre del villaggio con lo specifico intento di fondarci un nuovo avamposto. Quando gli abitanti di Iskaka hanno tentato di fermare gli invasori uno di loro ha tirato fuori un coltello con cui ha ucciso Harb. Il pubblico ministero ha archiviato il caso certo che il colono avesse agito per difendersi.

L’invasione dei campi di Burqa da parte di un gruppo di coloni e delle loro greggi è stata prontamente definita dai media come un “conflitto sui pascoli”. Questa formula ingannevole ignora il modello fisso di una crescente violenza dei coloni contro i palestinesi attuata principalmente da “pastori ebrei” ben armati. Dall’inizio dell’anno al 24 luglio ci sono stati 581 attacchi, senza contare assalti e intimidazioni che non sono finiti con danni a proprietà o persone.

Noi non lavoriamo nel vuoto normativo,” ha detto giovedì scorso il giudice Uzi Fogelman, valutando i ricorsi contro la legge che impedisce che Netanyahu venga dichiarato inabilitato a governare. Egli stava difendendo l’autorità della corte a rivedere persino le leggi fondamentali [Basic Laws]. Il giorno prima, lui e i suoi colleghi Esther Hayut e Yael Willner hanno davvero lavorato nel vuoto normativo com’è loro inviolabile abitudine quando si tratta delle colonie in Cisgiordania. Hanno respinto un ricorso presentato dagli abitanti di un altro villaggio chiamato Burqa (questo è vicino a Nablus), che chiedevano fosse loro permesso di lavorare la propria terra senza gli attacchi di coloni e divieti ai propri spostamenti imposti dall’esercito.

La petizione è stata respinta poiché la scuola ebraica, la yeshiva illegale in quella località, era stata spostata in una piccolissima enclave designata come “terra demaniale,” nel bel mezzo di terreni privati palestinesi. Il fatto che i coloni si spostino in questa terra privata e che questa sia la ricetta infallibile per continue molestie e attacchi contro palestinesi non è stata presa in considerazione dai giudici. Proprio come il pubblico ministero che ha liberato l’accoltellatore di Nofei Nehemia ha ignorato l’intenzione illegale a priori di costruire un avamposto invasivo su terreni palestinesi (pubblici o privati fa lo stesso agli occhi del diritto internazionale). Entrambe le decisioni incoraggiano i pogromisti ebrei.

L’assassinio di Mi’tan non è avvenuto in un vuoto. I dettagli precisi saranno chiariti grazie a indagini indipendenti nei prossimi giorni. Ma noi possiamo già riconoscere alcuni degli schemi che saranno seguiti:

1. Collaborazione tra coloni e istituzioni statali. L’avamposto di Migron, a sud di Burqa, fu costruito nel 1999 sui terreni di Burqa. Dopo una battaglia legale intrapresa dagli abitanti del villaggio insieme all’organizzazione Peace Now [Ong progressista pacifista israeliana, ndt.] i coloni furono estromessi dall’avamposto nel 2012, ma l’esercito proibì ai palestinesi, proprietari legali, di ritornare ai propri appezzamenti, coltivarli e svilupparli secondo le proprie necessità. Questo divieto è stato un invito a quelli che 3 anni fa hanno iniziato un allevamento di pecore detto Ramat Migron sulla stessa collina. I contadini e pastori palestinesi della zona spesso denunciano violenti attacchi da questo avamposto. Le autorità hanno trasferito parecchie volte i coloni che, per nulla scoraggiati, ci ritornano continuamente.

2. Anche isolare il villaggio dal circondario, al punto da soffocarlo economicamente e sociale sembra essere sistematico. Burqa giace a meno di 10 chilometri a est di Ramallah. All’inizio degli anni ’80 una strada diretta alla città fu bloccata a vantaggio della colonia di Psagot. Una seconda strada fu bloccata agli inizi del 2000, quando l’avamposto di Giv’at Assaf fu costruito sui terreni del villaggio di Beitin, di fronte all’uscita nord da Burqa. Questa uscita è ancora bloccata.

Invece di meno di 10 minuti per raggiungere Ramallah gli abitanti di Burqa devono fare una lunga deviazione attraverso villaggi adiacenti che richiede dai 30 ai 45 minuti. I costi connessi e la perdita di tempo hanno un impatto diretto sulla difficile situazione economica del villaggio. Anche se nel 2014 l’esercito ha detto al gruppo per i diritti umani B’Tselem che per quanto lo concerne l’uscita non era bloccata, blocchi di cemento e sassi sono piazzati là e non permettono il passaggio delle auto. I pedoni non si azzardano ad andarci. L’avamposto di Oz Zion, ripetutamente demolito e ricostruito, si trova nelle vicinanze della strada bloccata. 

Anche questo è un metodo usato dai coloni: bloccare strade e sentieri usati dagli abitanti dei villaggi palestinesi. L’esercito sta a guardare. Perciò i coloni hanno bloccato l’uscita diretta da Qaryut alla superstrada 60 o la strada dal villaggio di Sinjil ai propri terreni.

3. L’obiettivo comune condiviso dallo Stato e dai coloni assalitori resta quello di occupare i terreni dei palestinesi. Circa 1.000 dunam (100 ettari) di terreni di Burqa, in maggioranza agricoli, sono intrappolati dentro colonie che si sono iniziate a costruire nella zona negli anni ’80, o vicino a strade che portano a quelle colonie. Gli abitanti non hanno accesso alle proprie terre. La maggior parte delle terre rimanenti è nell’Area C (sotto completa autorità israeliana), una definizione degli accordi di Oslo che avrebbe dovuto essere temporanea, ma è diventata permanente. Israele impedisce al villaggio di costruire sulle proprie terre e di svilupparle come sembra opportuno.

Secondo una relazione del 2014 di Iyad Haddad, un ricercatore sul campo di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.], sugli altri terreni la sistematica violenza da parte dei cittadini israeliani dal 2000 e la conseguente paura impediva agli abitanti di accedere a ulteriori 1.200 dunam. La stessa relazione fece notare che un quarto degli abitanti del villaggio aveva subito attacchi dai coloni. I più noti sono incendiare la moschea e prendere a pietrate i pastori e i raccoglitori di olive.

4. Persino le greggi di capre e le mandrie di bovini servono come arma contro i palestinesi. In tutta la Cisgiordania decine di avamposti di pastori mandano le loro greggi affamate nei villaggi, negli accampamenti di tende, nei campi e frutteti palestinesi per sabotarne i raccolti e impedire agli abitanti di coltivare le proprie terre. Oltretutto questa è una tattica usata per permettere a coloni israeliani armati, spesso scortati dall’esercito, di invadere comunità palestinesi e sconvolgere le loro vite.

Questa violenza organizzata e ben finanziata ha un altro obiettivo: creare provocazioni che portino a un’escalation militare. Dopo tutto i palestinesi non potranno contenere tanto a lungo gli attacchi crescenti contro di loro, commessi con il favore di polizia, esercito e pubblico ministero. Se i palestinesi cercano di difendersi o reagire, esercito e Shin Bet intraprendono delle azioni contro di loro.

Questo obiettivo è stato espresso da Elisha Yered, uno dei due sospetti dell’omicidio di Mi’tan. Yered, un abitante dell’avamposto di Ramat Migron, ha scritto un testo pubblicato il 5 luglio dal Jewish Voice: “Come cittadini cosa ci resta da fare? Non possiamo ridurre neppure per un momento le nostre richieste per una vasta e profonda operazione militare… in tutti i villaggi di Giudea e Samaria. L’obiettivo di tale operazione deve esse la vittoria riconosciuta dal nemico e non una serie di conflitti sanguinosi ogni due o tre mesi …

La recente mini operazione (a Jenin) è stata il risultato di proteste diffuse da parte degli abitanti di Giudea e Samaria [la Cisgiordania, ndt.], a cui più tardi si sono uniti parlamentari e figure pubbliche … noi scenderemo in piazza e protesteremo persino per eventi ‘minori’ come il lancio di pietre e gli attacchi con bombe incendiari e chiariremo agli apparati di sicurezza che non resteremo in silenzio se continua questa politica di contenimento.”

Tutti i rami del movimento dei coloni sono coordinati. Non sorprende quindi che al momento il capo del Comando Centrale, Yehuda Fuchs, sia nel mirino dei rappresentanti dei coloni nella Knesset, che lo accusano di essere debole e di permettere libertà di movimento ai palestinesi. L’opposto del “contenimento” è la guerra. A favore della guerra sono i sostenitori dell’espansionismo e delle annessioni, perché in guerra è più facile commettere crimini irreversibili su larga scala.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




La donazione di reni solo ad ebrei emula il nazismo

Rogel Alpher

18 luglio 2023 Haaretz

Arnon Segal è un fascista messianico, come dimostra il suo essere il numero 20 nella lista del sionismo religioso alla Knesset e il suo attivismo a favore della costruzione del Terzo Tempio (e prima è, meglio è).

“Sono coinvolto quotidianamente con il Monte del Tempio”, ha osservato in un’intervista la scorsa settimana sulla sua decisione di donare un rene a uno sconosciuto. Ha anche annunciato che “l’unica condizione è che il rene vada a un ebreo”.

Questa dichiarazione è come un americano bianco che annunci di rifiutarsi di donare un rene a una persona nera o ispanica o non cristiana, un tedesco che doni esclusivamente ad ariani, un afrikaaner che rifiuti di donare a uno zulu, un indù in India che non lasci che il suo rene vada a un musulmano. Casi evidenti di discriminazione razziale basati su un nazionalismo estremista.

Segal non è diverso da tutti loro. Ha espresso molto chiaramente che l’unico requisito è l’ebraicità del destinatario, foss’anche un gay ebreo che disprezza la religione: “Siamo tutti fratelli, e i disaccordi sono all’interno della famiglia… il nostro impegno è di essere un solo popolo”. Il trapianto ha lo scopo di rafforzare la razza.

La Ministra della Diplomazia Pubblica [Ministero per la gestione dell’immagine nazionale attraverso canali ufficiali di Stato e non, ndt.] Galit Distal-Atbaryan ha spiegato su Twitter: Segal vede tutti gli ebrei come “fratelli e sorelle di sangue… l’immortale famiglia ebraica”. Ogni ebreo è percepito come parte di un corpo più grande chiamato “famiglia”: il popolo ebraico, la nazione ebraica. La connessione tra gli individui di questa “famiglia” è organica. È “nel sangue”. Il sangue che scorre nel corpo di ogni ebreo lo collega eternamente ad un corpo nazionale più ampio, “l’immortale popolo ebraico”. Così disse il Signore. Anche il Terzo Reich propugnò un’ideologia che vedeva ogni individuo della Volksgemeinschaft (la comunità di razza tedesca) come una cellula di un corpo nazionale più ampio.

“Puoi chiamarlo razzismo o fascismo”, ha scritto Distal-Atbaryan. “Noi lo chiamiamo amore.” Il razzismo è amore. Il fascismo è amore. E sulla base di questo neolinguaggio orwelliano, arriva la morale della favola: anche se dice che la “sinistra laica” e il “blocco dei credenti” sono “due universi paralleli che parlano lingue aliene”, secondo lei i fascisti devono pur sempre vedere quelli di sinistra come “amati fratelli… senza limiti nel tempo…”

“Sangue e terra”, cantavano i suprematisti bianchi che marciarono a Charlottesville, in Virginia [nel 2021, una contromanifestante fu uccisa e 19 feriti, ndt.]. Anche questo è uno slogan originariamente nazista, che si basa sull’idea di una connessione mistica tra la patria tedesca e i tedeschi “razzialmente puri”.

Come loro Segal, Distal-Atbaryan e l’intero movimento fascista ebraico in Israele credono in una connessione mistica, divina ed eterna tra tutti gli ebrei e tra gli ebrei e la terra di Eretz Israel [il Grande Israele, ndtr.]

Negli anni ’70 la giunta dittatoriale in Argentina appese un cartello circolare sull’obelisco bianco al centro del viale principale di Buenos Aires che diceva “El Silencio es Salud” (“Il silenzio è salute”). I regimi totalitari, come George Orwell ha capito e prefigurato così chiaramente, capovolgono la logica. Il silenzio è salute? La censura è ovviamente tossica e distruttiva. Il razzismo è amore?

Questo “amore” tra “fratelli e sorelle di sangue” nella “immortale famiglia ebraica” non deriva in alcun modo da valori condivisi. Anzi. Segal è pronto a donare un rene a qualcuno i cui valori sono all’opposto dei suoi, purché il sangue di quella persona sia ebreo. La stessa connessione mistica, divina, organica si trova nel sangue che scorre nelle vene di ogni ebreo, e contiene un legame eterno, e totalmente fascista, con il suolo di Eretz Israel.

La lezione che la fazione del “razzismo è amore” trae dall’Olocausto (di cui ogni fibra dell’esperienza israeliana è satura) è quella di emulare i tedeschi. Forse se i fascisti ebrei in Israele dimenticassero l’Olocausto sarebbero persone migliori, più morali.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Adam, Fuad, Abdullah, Omar: i 28 ragazzini palestinesi uccisi quest’anno dalle forze armate israeliane

Amira Hass

12 giugno 2023-Haaretz

A Gaza Tamin di cinque anni è morto letteralmente di paura durante un’incursione aerea, Mustafa è stato colpito al cuore mentre assieme ai suoi amici tirava pietre a soldati distanti 50 metri

Le forze israeliane, di solito l’esercito, quest’anno hanno ucciso finora 28 minori in Cisgiordania e a Gerusalemme:

1° gennaio: Fuad Abed, 17 anni. Colpito all’addome e alla coscia durante un raid volto a demolire delle case nel villaggio di Kafr Dan vicino a Jenin, una punizione per un precedente attacco da parte di uno dei membri della famiglia. I giovani si stavano scontrando con gli invasori.

3 gennaio: Adam Ayyad, 15 anni. Colpito alla schiena e al braccio durante un raid nel campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme. I giovani lanciavano pietre e molotov contro gli invasori.

5 gennaio: Amer Zeitoun, 16 anni. Colpito alla testa, al braccio e alla gamba durante un’incursione nel campo profughi di Balata, vicino a Nablus. I giovani si stavano scontrando con i soldati invasori.

16 gennaio: Amru al-Khmour, 14 anni. Colpito alla testa durante un’incursione nel campo profughi di Deheisheh. I giovani lanciavano pietre e molotov.

25 gennaio: Wadia Abu Ramouz, 17 anni. Colpito al cuore durante scontri con la polizia di frontiera a Silwan, Gerusalemme. Il suo corpo è stato restituito alla famiglia il 2 giugno. La polizia di frontiera ha il compito di proteggere gli ebrei che si impossessano di terreni e case nel quartiere.

25 gennaio: Mohammed Ali, 16 o 18 anni. Ucciso durante un raid volto a demolire una casa nel campo profughi di Shoafat. Aveva in mano una pistola giocattolo, l’ha gettata via, è fuggito ed è stato colpito alla schiena. Alla famiglia è stato permesso di seppellirlo il 5 febbraio.

26 gennaio: Abdullah Moussa, 17 anni. Colpito al petto durante un raid nel campo profughi di Jenin e uno scontro con uomini armati.

26 gennaio: Waseem Abu Jaouz, 16 anni. Colpito durante un’incursione nel campo profughi di Jenin. È stato investito da una jeep dell’esercito mentre i soldati stavano lasciando il campo.

26 gennaio: Naif al-Awdat, 10 anni, di Nuseirat a Gaza. È morto per le ferite riportate durante un attacco aereo del 6 agosto sul villaggio di Abasan mentre tornava a casa di suo nonno da un negozio di alimentari.

7 febbraio: Hamza Ashkar, 16 anni. Colpito al petto durante un’incursione nel nuovo campo profughi di Askar, dopo aver lanciato una sbarra di ferro contro una jeep blindata mentre l’esercito si stava allontanando.

8 febbraio: Muntaser al-Shawa, 16 anni. Colpito alla testa dopo aver sparato contro l’esercito e fedeli ebrei che avevano invaso Nablus vicino al campo profughi di Balata.

13 febbraio: Qusai Waked, 14 anni. Colpito all’addome durante un’incursione nel campo profughi di Jenin.

14 febbraio: Mahmoud Ayyad, 17 anni. Colpito a un occhio durante un’incursione nel campo profughi di Far’a. Stava correndo con un ordigno esplosivo in mano.

22 febbraio: Mohammed Farid, 16 anni. Colpito durante un raid a Nablus.

3 marzo: Mohammed Salim, 17 anni. Colpito alla schiena durante un’incursione nella città di Azzun vicino a Qalqilyah, dopo che lui e altri avevano lanciato molotov sulla strada.

7 marzo: Waleed Nassar, 15 anni. Colpito all’addome mentre lanciava pietre contro i soldati che invadevano il campo profughi di Jenin.

10 marzo: Amir Odeh, 14 anni. Colpito al petto dopo aver scavalcato la barriera di separazione al checkpoint di Eyal a Qalqilyah. Ha anche lanciato una molotov contro una torre di guardia fortificata dell’esercito. Nessun soldato è rimasto ferito.

16 marzo: Omar Awadeen, 14 anni. Colpito alla schiena da forze speciali sotto copertura mentre pedalava sulla sua bicicletta a Jenin.

10 aprile: Mohammed Balhan, 17 anni. Colpito alla testa, al torace, all’addome e al bacino durante un’invasione del campo profughi di Aqabat Jabr, mentre venivano lanciate pietre lanciate contro gli invasori.

28 aprile: Mustafa Sabah, 15 anni. Colpito al cuore dopo che lui e i suoi amici avevano lanciato pietre contro i soldati a 50 metri di distanza mentre le truppe si avvicinavano al villaggio di Tekoa vicino a Betlemme.

1° maggio: Mohammed al-Lad’a, 17 anni. Colpito alla testa durante un raid nel campo profughi di Aqabat Jabr durante scontri con i soldati.

9 maggio: Mayar Ezzeddin, 11 e Ali Ezzeddin, 8. Uccisi in casa nella gigantesca prigione conosciuta come la Striscia di Gaza durante un attacco aereo. L’obiettivo: il loro padre.

9 maggio: Hajar al-Bahtini, 5 anni. Ucciso in un attacco aereo su Gaza. Il bersaglio: suo padre.

9 maggio: Eman Addas, 17 anni (e sua sorella di 19 anni). Uccise in un attacco aereo su Gaza. L’obiettivo: un loro vicino.

10 maggio: Layan Mdoukh, 10 anni. Ucciso durante un attacco aereo nel quartiere di al-Tufah a Gaza.

10 maggio: Tamim Daoud, 5 anni. Morto letteralmente di paura durante un attacco aereo su Gaza.

10 maggio: Yazen Elian, 16 anni. Ucciso in un attacco aereo su Gaza.

6 giugno: Mahmoud Tamimi, 2 anni. Colpito alla testa nel villaggio di Nabi Saleh vicino a Ramallah da una torre di guardia dell’esercito, posta lì per proteggere l’espansione della colonia di Neveh Tzuf, costruita sulla terra di Nabi Saleh

Questo elenco si basa sui dati raccolti dall’attivista di sinistra Adi Ronen Argov e dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, e sui resoconti dei media.

Dal 30 settembre 2000, inizio della seconda intifada, le forze israeliane hanno ucciso 2.252 minori palestinesi, 42 dei quali lo scorso anno. Il 44% dei 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza (compresa Gerusalemme) ha meno di 18 anni.

Sono nati nella realtà violenta del potere militare che governa la loro esistenza e che si è insediato nella loro terra senza riguardo per le loro vite. Questi bambini maturano velocemente, vivendo senza alcuna speranza di normalità o di un presente o futuro decente.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele non ha soldi per Gerusalemme est

Editoriale di Haaretz

23 maggio 2023 – Haaretz

Domenica nel tunnel del Muro Occidentale si è svolta una riunione di gabinetto festiva, in onore della Giornata di Gerusalemme. Come ogni anno, anche questa volta è stata presa una serie di decisioni riguardo agli investimenti del governo nella capitale. Un attento esame di tali decisioni mostra ancora una volta che l’attuale governo non affronta i reali problemi della collettività. Al contrario, esso si focalizza sul canalizzare denaro ai suoi sodali e sull’investire in iniziative di facciata anziché di sostanza e dimostra una perdurante mancanza di professionalità.

La decisione più importante che si prevedeva venisse presa era sul nuovo piano quinquennale per Gerusalemme est. Il precedente piano, approvato nel 2018 in seguito alle pressioni dell’ex Ministro Ze’ev Elkin, fu il più consistente investimento governativo nella parte est della città dal 1967. Vennero investiti circa 2,1 miliardi di shekel (520 milioni di euro) in educazione, istruzione superiore, infrastrutture e stimolo all’occupazione. Il piano incontrò dei problemi, ma produsse cambiamenti positivi in diverse zone di Gerusalemme est.

Negli ultimi sei mesi gruppi di lavoro all’interno del Ministero per gli Affari di Gerusalemme si sono occupati del nuovo piano quinquennale. Gli esperti hanno calcolato che per mantenere i risultati del piano precedente gli stanziamenti del nuovo piano avrebbero dovuto essere almeno del doppio. In seguito all’opposizione di diversi ministeri, soprattutto quello delle Finanze, la scorsa settimana è stato licenziato un piano più modesto, con un budget di 3 miliardi di shekel provenienti dai bilanci del Ministero delle Finanze, del Comune di Gerusalemme e dei ministeri del governo. Diversamente da quell’ampio investimento previsto nell’educazione a favore degli haredi [ultraortodossi, ndt.] e in fondi di terzi, questi stanziamenti saranno interamente dedicati a migliorare la vita di tutti gli abitanti di Gerusalemme, a rafforzare l’economia e fornire opportunità alle comunità più deboli nella società israeliana.

Ma il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] e altri ministri si sono opposti anche a questo piano e dopo animate discussioni il gabinetto ha deciso solamente che i ministeri avrebbero cercato di raggiungere degli accordi in merito nel mese prossimo. La previsione prevalente è che il budget verrà ridotto in modo significativo rispetto all’attuale proposta e che, a causa dell’opposizione di Smotrich, non conterrà alcun riferimento alla promozione dell’educazione superiore per i ragazzi di Gerusalemme est.

Al tempo stesso il gabinetto ha approvato un gran numero di decisioni che riverseranno denaro in progetti che arricchiranno solamente associazioni e organizzazioni vicine al governo e che comprometteranno i rapporti tra gli abitanti di Gerusalemme: 60 milioni di shekel andranno alla Fondazione Eredità del Muro Occidentale [organismo responsabile delle questioni del Muro del Pianto a Gerusalemme, ndt.] e decine di milioni a progetti della Fondazione Elad [o Fondazione Città di Davide,  ndtr.], alcuni a spese degli abitanti palestinesi che sono stati cacciati dalla loro terra.

Da una riunione di governo all’altra, da una decisione all’altra, cresce l’impressione che questo governo sia assolutamente deciso a distruggere le cose con la massima velocità ed efficienza. Qualunque funzionario professionale rimanga ancora nei ministeri del governo deve mettere in guardia contro le gravi implicazioni di queste decisioni e chiarire che un piano quinquennale per Gerusalemme est non è solo nell’interesse degli abitanti di Gerusalemme est, ma di tutti gli israeliani.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La mancanza di scrupoli israeliana a Gaza

Editoriale

10 maggio 2023 – Haaretz

Nel primo attacco dell’offensiva su Gaza denominata Operazione Scudo e Freccia, iniziata nella notte tra lunedì e martedì, sono state uccise 13 persone tra cui 10 civili, tre dei quali bambini. Ma senza batter ciglio è stato affermato che si trattava di un “danno collaterale” dovuto alla necessità di eliminare tre figure di spicco della Jihad islamica. In realtà, è vero il contrario. I tre comandanti dovrebbero essere visti come il “risultato collaterale” dell’uccisione mirata di civili a Gaza.

Il gran numero di civili uccisi solleva questioni spinose sugli aspetti morali e legali di tali operazioni militari, e dovrebbero essere rivolte a più persone. I primi a cui rivolgere queste domande sono i comandanti dell’esercito, che hanno deciso “giudiziosamente” (più precisamente, a sangue freddo) di effettuare un attacco in un momento in cui era molto probabile che intorno agli obiettivi ci fossero civili, compresi bambini. Il secondo è il governo, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha autorizzato la missione. I decisori si sono assicurati che non ci fossero rischi per la vita dei civili o si sono affidati ai consigli dell’esercito? Hanno calcolato il prezzo omicida dell’azione – uccidere innocenti, compresi i bambini – e sono giunti alla contorta conclusione che il “prezzo” era giusto? Se la risposta è sì, allora questo non è solo un crimine morale, ma un crimine di guerra.

Il terzo è il procuratore generale Gali Baharav-Miara, che ha autorizzato l’operazione senza convocare il gabinetto di sicurezza. Ha accertato a fondo se ci fosse pericolo per la vita dei civili? E se è così, ha ritenuto opportuno approvare l’operazione nonostante il suo costo scellerato?

Ultimi a cui rivolgere le medesime domande sono i piloti che hanno effettuato la missione. Non sapevano, o valutavano, alla luce della situazione in atto e dell’esperienza passata che è molto probabile che il bombardamento di case invece che di siti militari porti all’uccisione di civili? La questione è critica poiché sono stati i membri dell’aeronautica, in particolare i riservisti, a invocare l’insubordinazione contro il golpe di regime [il tentativo di “riforma” giudiziaria del governo Netanyahu, ndt.] I piloti insubordinati vivono in pace uccidendo civili innocenti, bambini compresi? Trovano accettabile eseguire un ordine che ha una “bandiera pirata che ci sventola sopra?”

“Quando sgancio una bomba sento un leggero urto nell’ala”, disse Dan Halutz, ex comandante dell’aeronautica e poi capo di stato maggiore militare (e ora leader della protesta anti-golpe) nel 2002, dopo che 14 civili furono uccisi nel bombardamento della casa di Gaza dell’alto funzionario di Hamas Salah Shehadeh.

La sfacciata arroganza di Halutz riguardo all’omicidio all’ingrosso – per il quale è stato giustamente oggetto di feroci critiche pubbliche – è diventata routine. Non possiamo accettare che i crimini di guerra e la morte di innocenti diventino parte della routine israeliana. Una leadership con questa visione del mondo non può essere legittima in una democrazia.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale sia nell’edizione ebraico che inglese in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele demolisce la scuola elementare palestinese di un villaggio cisgiordano vicino a Betlemme

Hagar Shezaf

8 maggio 2023 Haaretz

L’Unione Europea e il Ministero degli Esteri tedesco condannano la demolizione fatta da Israele di una scuola in Cisgiordania frequentata da decine di alunni palestinesi

Domenica l’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania ha demolito una scuola elementare palestinese vicino a Betlemme, frequentata da molti studenti, a seguito della sentenza del tribunale distrettuale su una petizione presentata dalla ONG di destra Regavim [ONG israeliana pro-coloni ndt.], co-fondata dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.

La scuola, situata nel villaggio beduino di Jubbet ad-Dib, è stata costruita sei anni fa e accoglieva studenti sia di Jubbet ad-Dib che di Beit Ta’mir. Prima che fosse costruita i bambini della zona dovevano percorrere ogni giorno circa tre chilometri per raggiungere la scuola più vicina. Dopo la demolizione, gli abitanti hanno allestito una tenda nello stesso punto dove programmano di tenere le lezioni.

L’UE, che ha contribuito a finanziare la costruzione della scuola, ha condannato la demolizione definendola una violazione del diritto dei bambini all’istruzione e dicendo di “aver seguito da vicino questo caso e chiesto alle autorità israeliane di non eseguire la demolizione”.

La dichiarazione ha sottolineato inoltre che tali demolizioni sono “illegali ai sensi del diritto internazionale, e il diritto dei bambini all’istruzione deve essere rispettato. L’UE invita Israele a fermare tutte le demolizioni e gli sgomberi, che non faranno che aumentare le sofferenze della popolazione palestinese e rischiano di infiammare le tensioni nel territorio.”

Anche il portavoce del Ministero degli Esteri tedesco ha condannato la demolizione, affermando che la distruzione della scuola “mina” il processo di pace e “sarà discussa con le autorità israeliane”.

Poiché la scuola è stata costruita senza un permesso formale da parte di Israele, il tribunale aveva ordinato l’interruzione dei lavori durante la sua costruzione. Il tentativo di ricevere retroattivamente un permesso per la scuola è stato successivamente respinto. L’avvocato Haytham Khatib della Society of St. Yves, un gruppo cattolico per i diritti umani, ha presentato una petizione contro il rifiuto, ma Regavim ha insistito per la demolizione della scuola.

Il tribunale alla fine si è pronunciato a favore di Regavim, basando la sua decisione su un parere ufficiale emesso nel 2018 in cui si affermava che la scuola aveva problemi di sicurezza e poteva crollare in caso di terremoto.

“Ci dicono che la scuola non è sicura per i bambini, ma non ci permettono di fare nulla. [Non possiamo] ripararla o intervenire su di essa”, dice Halin Musa Sabah, residente a Beit Ta’mir, uno dei proprietari del sito in cui è stata costruita la scuola e zio di uno degli studenti. Secondo Sabah, la scuola “è stata costruita in modo che i nostri figli possano ricevere un’istruzione, che è un diritto di ogni bambino”.

L’attivista Hassan Brijia, membro del comitato contro la barriera di separazione israeliana e gli insediamenti nell’area di Betlemme, afferma che Israele non rilascia permessi di costruzione ai beduini e che la scuola era “essenziale per la vita in questa zona.”

E chiede ” Gli studenti più grandi hanno dieci anni. Rappresentano davvero un tale pericolo per Israele?”.

“L’organizzazione di Bezalel Smotrich [Ministro delle Finanze] ha presentato la petizione contro la scuola e ora Smotrich ne esegue la demolizione”, afferma Brijia – una constatazione con cui Sabah è d’accordo.

“Smotrich ha detto che Huwara deve essere spazzata via e ora ha spazzato via la nostra scuola”, aggiunge Sabah. “Come puoi guardare i bambini che piangono? Come puoi guardare un bambino di sei anni che singhiozza? Come puoi spiegarglielo? Che specie di persona puoi aspettarti cresca in una realtà del genere?”

Dopo che domenica la notizia della demolizione è stata resa pubblica, Regavim ha pubblicato la seguente dichiarazione: “Questo edificio è solo una delle centinaia di scuole illegali costruite in Giudea e Samaria come parte del metodo palestinese di prendere il controllo della terra”.

L’organizzazione ha anche pubblicato un rapporto sull’argomento come elemento della sua guerra in corso contro quelle che dice essere scuole palestinesi illegali nella regione.

Shlomo Ne’eman, capo sia del Consiglio Yesha, organizzazione ombrello che rappresenta gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che del Consiglio regionale di Gush Etzion ha accolto con favore la demolizione, definendola “un altro passo nella nostra continua battaglia per i territori della nostra nazione. Abbiamo ancora molto lavoro da fare”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Dalla vendetta alla pace: in migliaia partecipano al memoriale congiunto israelo-palestinese per le vittime del conflitto

Ran Shimoni

24 aprile 2023 – Haaretz

Circa 200 palestinesi hanno partecipato alla cerimonia di Tel Aviv, dopo che la corte suprema israeliana ha ordinato allo Stato di concedere loro i permessi di ingresso; un piccolo numero di attivisti di destra ha dimostrato ai margini della manifestazione

Lunedì notte a Tel Aviv migliaia di persone hanno partecipato a una cerimonia commemorativa congiunta israelo-palestinese per le vittime del conflitto, sfidando un pugno di attivisti di destra che hanno gridato invettive cariche d’odio.

Per i partecipanti alla cerimonia nel parco Ganei Yehoshua di Tel Aviv, in gran parte privo di illuminazione, è stato difficile trovare la strada. Non c’erano segnali stradali quindi, significativamente, le persone sono giunte alla cerimonia [immerse] nell’oscurità e nell’incertezza. Ma hanno proseguito nella speranza di raggiungere alla fine il luogo giusto, quello pieno di luce. Non avrebbe potuto esserci per loro un viaggio che rispecchiasse meglio il momento attuale.

“Il mio cuore è sempre stato qui, ma in verità questa è la prima volta che vengo”, ha detto Einav Oren, 38 anni, del Kibbutz Revadim. “È davvero commovente trovarsi qui, vedere le persone. C’è una quiete speciale qui.

È difficile non percepire il potere di questa quiete. È composta da migliaia di persone, israeliane e palestinesi, sedute sulle sedie di plastica poste sul prato e in attesa che si ripeta il miracolo che accade ogni anno – una serata condivisa dalle famiglie in lutto di entrambe le parti del conflitto, che piangono insieme per la morte dei loro cari e, cosa più importante, chiedono di essere le ultime famiglie in lutto.

Una di loro era Anat Marnin-Shahar. I suoi fratelli maggiori, Pinhas e Yair Marnin, furono uccisi nella guerra dello Yom Kippur [tra una coalizione araba, composta principalmente da Egitto e Siria, e Israele, ndt.] del 1973 quando lei aveva 16 anni.

Eccoci”, ha detto alle persone lì riunite. Le persone a cui il conflitto ha sottratto la cosa più preziosa di tutte vogliono e possono gridare: Basta!’”

Come accaduto anche negli anni precedenti, la partecipazione all’evento delle famiglie palestinesi ha richiesto una battaglia legale da parte di Combatants for Peace e Parents Circle – Families Forum, i due gruppi che ogni anno organizzano la cerimonia. Anche questa volta, nonostante il governo la stia portando al patibolo, la Corte Suprema ha negato ai rappresentanti del governo il potere di impedire ai palestinesi di partecipare.

“Ogni persona dovrebbe osservare il Giorno della Memoria secondo le proprie convinzioni”, ha scritto nell’ordinanza il giudice Isaac Amit. Ognuno sopporta la propria sofferenza, il dolore e il distacco, in maniera personale”.

Le critiche israeliane alla cerimonia sono note, e si sono fatte vive a poche decine di metri di distanza (Stanno tenendo una giornata commemorativa per i nazisti palestinesi”, ha gridato al megafono un manifestante durante un discorso rotto dal pianto di Yuval Sapir, che ha perso sua sorella in un attentato suicida a Tel Aviv nel 1994). Ma per i circa 200 palestinesi convenuti la strada è stata ancora più lunga, non solo per la necessità di ottenere un permesso speciale per entrare in Israele, ma anche per la necessità di superare le critiche interne.

“Ho amici a casa che non mi capiscono”, ha detto Yousef Abu Ayyash, ventenne residente a Hebron. Ho dei parenti che sono stati uccisi a causa dell’occupazione. Ma se voglio promuovere la pace questo è il modo migliore per farlo. Qui incontro israeliani che vogliono la stessa cosa che voglio io”.

Yusra Mahfuz, che vive in un campo profughi adiacente a Ramallah, ha parlato della morte di suo figlio, Ala’a, nel 2000. All’inizio, dopo aver perso mio figlio, ho sentito il bisogno di vendetta. Inizialmente rifiutavo soltanto l’idea di sedermi faccia a faccia con il nemico che ha portato via mio figlio, ma lentamente il desiderio di vendetta è stato sostituito dal desiderio di pace e di un futuro migliore”, ha detto. Faccio appello alle madri israeliane che mi stanno guardando ora: il nostro lutto è lo stesso, il nostro dolore è lo stesso. Oggi, più che mai, possiamo vedere quanto sia importante lavorare insieme. E porremo fine allo spargimento di sangue. Quando è troppo è troppo.”

Più israeliani che mai

C’erano più israeliani che mai. Decine di migliaia di persone si sono iscritte in anticipo e diverse migliaia si sono semplicemente presentate. Gli organizzatori non avevano una spiegazione plausibile per questi numeri.

Ishay Hadas, uno dei principali organizzatori delle proteste contro la prevista riforma giuridica del governo e che partecipa ogni anno alla cerimonia congiunta, ha espresso la speranza che “qualcosa del grande spirito democratico delle manifestazioni sia arrivato anche qui, restituendo una speranza alla gente”.

Tuttavia, sostiene di non pensare che l’affluenza alla cerimonia dica qualcosa sulla direzione che prenderanno le proteste a livello nazionale. “è triste, perché le manifestazioni offrono un’opportunità per un vero cambiamento, al di là della salvaguardia dello status quo”, afferma. Ma la società israeliana non lo vuole”.

“Sono contento che almeno qui si possa vedere il cambiamento”, aggiunge.

I volti dei partecipanti mostravano chiaramente la loro empatia, non verso se stessi – dopo anni di molestie, minacce e umiliazioni non ne sentono più la necessità – ma per l’altra parte. Gli ebrei chiedono quella del proprio popolo nei confronti dei palestinesi, e i palestinesi la richiedono verso gli ebrei.

L’intera cerimonia richiede empatia, non nel senso superficiale di sentimenti affettuosi, ma nel senso originale, più profondo e genuinamente sovversivo della parola: un’empatia il cui obiettivo è la capacità di mettersi nei panni di un altro. Quello è il terreno in cui può crescere la possibilità del vero cambiamento” di cui parla Hadas.

In questo Giorno della Memoria così diviso, quando le famiglie in lutto combattono tra loro e una rabbia senza precedenti nei confronti dei rappresentanti di governo si è sovrapposta al lutto, questa cerimonia commemorativa condivisa, che già nel corso dei precedenti Giorni della Memoria ci siamo abituati a vivere come l’evento più carico di emozione in Israele, ha goduto di una quiete speciale in mezzo al chiasso delle lotte intestine nel resto del Paese. Quest’anno la cerimonia a Ganei Yehoshua potrebbe essere stata se non altro la cerimonia commemorativa più unificante di tutte.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un poliziotto per gli ebrei israeliani, uno diverso per gli arabi

Hanin Maiadli

11 aprile 2023 – Haaretz

La scorsa settimana il ministro degli Affari e del Patrimonio di Gerusalemme Amichai Eliyahu, figlio del rabbino Shmuel (“È vietato affittare appartamenti agli arabi”) Eliyahu, ha scritto sul suo profilo Twitter che la ventilata Guardia nazionale dovrebbe operare solo contro cittadini israeliani che si identificano con il nemico.

Prima di tutto, grazie per aver chiarito ogni possibile confusione sul suo obiettivo. Dal momento che il rinvio, il mese scorso, della legge di riforma giudiziaria è stato subordinato dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir all’istituzione di una Guardia Nazionale, molti oppositori della riforma hanno erroneamente pensato che la Guardia Nazionale li avrebbe presi di mira.

È bene che si siano sbagliati. Abbiamo imparato che la legge e l’ordine vengono mantenuti come sempre e che i buoni e i cattivi rimangono gli stessi, sebbene anche gli ebrei stiano iniziando a scoprire che il loro “Paese democratico” è un bluff e che lo Stato è ancora fondato sulla razza.

Eliyahu si è spiegato dicendo che, a suo avviso, “la divisione dei poteri deve essere tale che la polizia si prenda cura della criminalità ordinaria e delle questioni di legge e ordine tra i cittadini comuni, mentre la Guardia Nazionale si può occupare della criminalità nazionalista”. Ha spiegato: “In questo modo non arriveremo a situazioni in cui si veda un commissario di polizia accusare dei cittadini ebrei di una rivolta”. Il problema non è la rivolta in sé ma accusare della rivolta gli ebrei, vero?

In altre parole, il ministro sta dicendo in effetti che gli ebrei sono gli unici veri cittadini, gli arabi sono sudditi, persone identificabili con il nemico, che per il momento sono considerati cittadini (e comunque senza pari diritti, quindi la cittadinanza è solo sulla carta), ma non per molto. Quindi gli ebrei, i cittadini, si rivolteranno? Perché, sono arabi? Al massimo gli ebrei protestano, manifestano, proclamano la pura verità. “Rivolte.” Queste appartengono agli arabi.

E cos’è, in realtà, un “crimine nazionalista” e in che cosa differisce da un “crimine ordinario”? L’eroina venduta da uno spacciatore ebreo è meno pericolosa di quella di uno spacciatore arabo? Un rapinatore di banche ebreo vuole solo rubare denaro mentre un rapinatore di banche arabo ha altre motivazioni? E nel caso di una banda di ladri mista come stabiliamo il movente?

Un’ evasione fiscale compiuta da un arabo è nazionalista? E un abuso edilizio? Una guida spericolata? Pizzo e spaccio di armi? È sotto l’autorità della Guardia Nazionale o della polizia regolare? E che dire dei crimini di cittadini arabi commessi contro altri arabi? È vero, non c’è una voce in bilancio per questo: 42 assassinati dall’inizio dell’anno, un record assoluto.

Ben-Gvir ed Eliyahu vogliono una milizia ebraica con poteri legali che operi solo contro gli arabi. La fase successiva potrebbe benissimo essere quella di decidere che ogni caso criminale che arriva ai tribunali attraverso la Guardia Nazionale richieda una punizione doppia rispetto a un caso giunto attraverso la polizia regolare. O forse serviranno meno prove per ottenere una condanna.

Non dovranno nemmeno lavorare sodo. Sarà sufficiente che un giudice veda che il detenuto viene condotto in aula da agenti che indossano uniformi diverse (sarebbero appropriate delle camicie brune) e la sentenza potrà essere pronunciata senza il fastidio di ascoltare le testimonianze. Un sistema legale separato basato su origine e razza, dove l’ho già sentito?

Secondo un’ottica di sviluppo potenzialmente correlata, questa settimana è stato riferito che Tel Aviv e Berlino stanno per diventare città gemelle. Mi chiedo se in tale contesto invieremo agenti di polizia in Germania per la formazione professionale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una milizia kahanista per Netanyahu

Redazione di Haaretz

28 marzo 2023, Haaretz

Nel suo discorso di lunedì sera il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ripetutamente evocato il pericolo di una guerra civile. Come si addice al nostro provocatore nazionale, lo ha fatto anche mentre insultava e calunniava i suoi oppositori. “C’è una minoranza estremista che è disposta a fare a pezzi il Paese e sta alimentando una guerra civile”, ha accusato, aggiungendo che questa minoranza “usa la violenza, è piromane, minaccia di fare del male ai funzionari eletti, sostiene la guerra civile e il rifiuto [di fare il servizio militare], che è un crimine orribile”.

Ma non ha detto una parola sul suo ruolo nel portare Israele sull’orlo della guerra civile. Al contrario, nel suo discorso Netanyahu ha insistito sul fatto che lui, a differenza di chi si oppone al colpo di stato contro il nostro sistema di governo, “non è disposto a fare a pezzi la Nazione”. Ma come al solito, le sue parole non hanno alcuna relazione con le sue azioni. Poco prima di rivolgersi alla Nazione per dire di essere disposto a congelare le leggi sulla revisione della giustizia fino alla sessione estiva del parlamento per amore del “dialogo”, ha firmato un impegno a istituire una guardia nazionale che sarà subordinata al Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben- Gvir. O in parole povere, una forza di polizia privata di Ben-Gvir.

Ben-Gvir, discepolo di Meir Kahane [1932-1990, rabbino ultranazionalista e razzista imprigionato negli Stati Uniti e in Israele per atti di terrorismo, fondò la Lega per la Difesa Ebraica, ndt.], è un criminale aggressivo, estremista e già condannato. Formare una milizia subordinata a lui piuttosto che alla polizia è una mossa irresponsabile che metterà inevitabilmente in pericolo gli israeliani che non hanno commesso alcun crimine. Un leader politico che non ha intenzione di arrivare a una guerra civile non istituisce e finanzia una forza di polizia privata armata per il membro più estremista del suo gabinetto. Questa mossa dimostra chiaramente che Netanyahu si sta preparando alla guerra civile.

Netanyahu ha guadagnato tempo fino all’estate per sopprimere le proteste e impegnarsi in un “dialogo”. Ma a quanto pare intende utilizzare questo tempo principalmente per essere meglio preparato alla prossima ondata di proteste. E lui e il suo partner kahanista affronteranno l’ondata con una forza di polizia privata a loro disposizione direttamente subordinata al Ministro della Sicurezza Nazionale, non al commissario di polizia Kobi Shabtai. La sua bandiera non sarà la bandiera israeliana, ma la bandiera del movimento Kach di Kahane. A giudicare dalle sue azioni, Netanyahu non è indirizzato alla pace, ma alla guerra.

È facile indovinare chi si unirà ai ranghi della milizia. Lunedì, un manifestante di estrema destra ha picchiato con un bastone il giornalista televisivo di Channel 13 Yossi Eli che stava seguendo una manifestazione a Gerusalemme, e gli ha rotto una costola. “C’erano alcune decine di attivisti di La Familia [gruppo di ultras sostenitore del Beitar Jerusalem, ndt.] e dei suoi satelliti”, ha detto, riferendosi a un gruppo di ultra tifosi di calcio. “Stavamo da un lato per trasmettere e hanno iniziato ad attaccarci, a sputarci addosso, a lanciarci uova e altri oggetti. Il mio cameraman, Avi Cashman, è stato colpito alla testa con un bastone e io sono stato colpito alle costole. La polizia ha cercato di intervenire, ma non erano abbastanza”.

Le truppe d’assalto Netanyahu/Ben-Gvir presenti alla manifestazione di lunedì a sostegno della revisione del sistema di giustizia non erano altro che un provino di ciò che attende i manifestanti dopo la pausa primaverile del parlamento, una volta che la forza di polizia privata sarà istituita e tutta l’organizzazione sarà completata.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nelle prigioni israeliane il numero di palestinesi sottoposti a detenzione senza processo è duplicato

Hagar Shezaf

27 marzo 2023 – Haaretz

In base a nuovi dati, le prigioni israeliane contano 971 detenuti amministrativi, il numero più alto di prigionieri senza processo in 20 anni

Alla data del primo marzo le carceri israeliane contano 971 detenuti amministrativi, il numero più alto di prigionieri senza processo in 20 anni: dati del Servizio Penitenziario Israeliano forniti al Centro per la Difesa dell’Individuo (Hamoked).

Le cifre mostrano che a parte quattro tutti i detenuti sono palestinesi della Cisgiordania, residenti di Gerusalemme est o arabi israeliani. Gli altri quattro sono ebrei israeliani.

Secondo Honenu, un’organizzazione no profit israeliana che fornisce appoggio legale a sospettati di terrorismo ebrei, i quattro ebrei israeliani sottoposti a detenzione amministrativa rappresentano il numero più alto dal 1994.

I dati forniti a Haaretz dall’esercito israeliano mostrano che nel corso del 2022 i tribunali militari hanno approvato il 90% di tutti i mandati di arresto; solo l’1% è stato completamente respinto.

In passato il Servizio Penitenziario Israeliano forniva informazione sul numero totale dei detenuti amministrativi, ma questa volta ha rifiutato di comunicare i suoi dati relativi a minori, donne e cittadini e residenti israeliani.

La prigione di Ofer. Foto Olivier Fitoussi

I detenuti amministrativi sono trattenuti nelle carceri israeliane senza un’accusa, essendo gli arresti considerati una misura preventiva. In tribunale non si svolge nessun procedimento probatorio. Agli avvocati degli imputati non viene fornito nulla tranne un compendio di diverse sentenze da tempo noto come “parafrasi” che cita le imputazioni contro di loro.

I mandati di arresto sono approvati da giudici ai quali viene consegnato un ordine firmato dal capo del Comando Centrale dell’esercito israeliano e classificato informazione segreta sul detenuto. Le udienze sulle detenzioni amministrative non sono aperte al pubblico.

Gli Stati occidentali applicano raramente la detenzione amministrativa e in alcuni Paesi questa pratica non esiste affatto. Israele la utilizza soprattutto in Cisgiordania contro i palestinesi, mentre viene raramente utilizzata nei confronti di cittadini israeliani, in particolare ebrei.

Eli Bahar, un ex consulente legale del servizio di sicurezza Shin Bet, ha detto di ritenere che l’aumento del numero di detenuti amministrativi sia legato alla crescente impotenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Se ci fosse un’efficace forza di polizia,  si dovrebbe occupare dei crimini che vengono considerati terroristici, ma in fondo rientrano nell’applicazione del diritto penale”, dice.

Perciò non sorprende che a fronte di una debole ANP, che dovrebbe come proprio ruolo garantire questo genere di applicazione della legge e impedire l’escalation, lo Stato di Israele deve agire con sempre maggiore aggressività, sicuramente se si vuole mantenere un livello ragionevole di deterrenza antiterrorismo”, aggiunge Bahar.

L’esercito israeliano dice di aver emesso nello scorso anno 2.076 ordini di detenzione amministrativa contro palestinesi. 2.016 di essi sono stati portati davanti al tribunale militare, che ne ha approvato il 90%. Nel 7% dei casi il tribunale ha ordinato una detenzione più breve di quella richiesta.

L’anno scorso il deputato Ahmad Tibi del partito Hadash-Ta’al (partito arabo) ha impugnato i dati sui detenuti amministrativi trattenuti negli anni precedenti per contestare l’allora Ministro della Difesa Benny Gantz.

I dati non registravano un’analisi dettagliata tra i mandati di arresto emessi e quelli portati effettivamente in giudizio. Tuttavia includevano il numero di mandati revocati o abbreviati, mostrando che la proporzione dei mandati che la corte aveva rigettato nell’anno precedente era bassa in rapporto agli anni precedenti.

L’arresto di un palestinese nel 2022. Foto : Uff. Stampa IDF

Nel 2021 il 13% dei mandati è stato respinto o abbreviato – il dato più basso nel periodo 2017-2021. Nel 2022 solo l’8% dei mandati è stato respinto dal tribunale, con un evidente calo.

Jessica Montell, direttrice esecutiva di Hamoked che monitora i diritti dei detenuti amministrativi, attribuisce il basso grado di interventi, tra le altre cose, al boicottaggio dei tribunali da parte dei detenuti da gennaio a luglio 2022. I loro avvocati non si sono presentati in tribunale, riducendo la possibilità dei detenuti di influenzare l’esito delle udienze.

Montell sottolinea che, mentre il numero dei detenuti amministrativi è duplicato dal 2020, il numero totale di prigionieri è rimasto più o meno lo stesso. “E’ semplicemente un abuso di ciò che dovrebbe essere l’eccezione all’eccezione”, dice.

I dati forniti a Hamoked dal Servizio Penitenziario Israeliano mostrano che all’inizio di marzo di quest’anno nelle carceri israeliane c’erano 4.765 prigionieri, di cui 971 erano detenuti amministrativi. In paragone, nel marzo 2020 c’erano 4.634 prigionieri, di cui 434 erano detenuti amministrativi.

Bahar dice che i tribunali militari e civili tendenzialmente non contestano le informative su un detenuto presentate. “E’ difficile per loro occuparsi di questo. L’intero processo di detenzione amministrativa differisce dal sistema giudiziario in cui entrambe le parti perorano la propria causa. Qui solo una parte espone la sua causa e l’altra riceve la ‘parafrasi’, per cui qui c’è quasi un pregiudizio strutturale che rende difficile al giudice analizzare ciò che sta avvenendo come farebbe in una procedura legale ordinaria”, spiega.

Nel suo libro “Shin Bet sotto esame: sicurezza, giustizia e valori democratici”, Bahar scrive che è difficile determinare il momento in cui la minaccia attribuita ad un detenuto viene meno. “I casi in cui disponiamo di informazioni attendibili che suggeriscono che il detenuto si è allontanato dalla sua strada pericolosa sono rari”, scrive nel libro.

Bahar aggiunge che i tribunali preferiscono non emettere sentenze contrarie all’apparato della sicurezza perché si assumerebbero il rischio di rilasciare un detenuto che in seguito potrebbe compiere un attacco terroristico. Comunque resta convinto che questo sistema debba continuare ad essere applicato nei territori (occupati).

E’ uno strumento molto importante”, dice Bahar, riassumendo la propria posizione. “Il sistema di intelligence e di giustizia che è stato creato dovrebbe fornire una risposta alla natura intrinsecamente problematica della detenzione amministrativa garantendo che gli arresti non siano arbitrari.”

La detenzione amministrativa di regola dura dai tre ai sei mesi. Tuttavia non c’è limite al numero di volte in cui può essere estesa, il che significa che la detenzione in alcuni casi può durare anni.

In linea di principio i mandati di arresto sono firmati dal capo del Comando Centrale, anche se in pratica per la maggior parte sono firmati da ufficiali col grado di colonnello. In Israele il Ministro della Difesa è responsabile della firma degli ordini di detenzione amministrativa e le autorità hanno solo 48 ore di tempo per presentarli all’esame del presidente del tribunale distrettuale. In Cisgiordania un giudice militare, normalmente di grado relativamente inferiore, ha otto giorni di tempo per esaminare l’ordine.

Ci sono anche altre differenze relativamente al riesame giurisdizionale. In Israele la legge stabilisce che l’ordine debba essere consegnato per ulteriore esame entro tre mesi dall’arresto. Invece in Cisgiordania la legge richiede che una revisione possa avvenire solo due volte all’anno per ogni ordine, il che significa che in pratica normalmente non vi è alcun procedimento di riesame.

Un’altra differenza sta nel fatto che in Israele presenziano all’udienza dei rappresentanti dello Shin Bet, per cui il giudice può porre domande riguardo al materiale informativo relativo all’arresto. In Cisgiordania si è stabilita la prassi per cui il materiale informativo è presentato in forma scritta dal procuratore senza la presenza in tribunale dello Shin Bet. Inoltre i giudici possono esaminare informazioni presentate come prova, comprese quelle per sentito dire, che non sarebbero ammissibili in un processo penale.

In linea di principio un’udienza amministrativa dovrebbe essere completamente diversa da una penale – non dovrebbe essere un mezzo per punire una persona per ciò che ha fatto, ma per impedire un danno che non si possa impedire in altro modo”, dice Montell.

E’ ovvio che non è così che Israele fa uso della detenzione amministrativa perché questa funziona come una catena di montaggio. Viene emesso un mandato di tre o sei mesi per volta– non è commisurato allo specifico pericolo rappresentato da una particolare persona”, dice.

Montell aggiunge che nel corso degli anni si è imbattuta in cause penali in cui le autorità non hanno ottenuto un prolungamento dell’incarcerazione ed hanno risolto il problema ordinando una detenzione amministrativa.

Questa prassi non è stata utilizzata solo contro palestinesi: il mese scorso è stata applicata al caso di due ebrei arrestati per i disordini a Hawara. Dopo che il tribunale ha disposto il loro rilascio sono stati sottoposti a detenzione amministrativa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)