“Un nuovo abisso”: Gaza e la guerra dei cento anni contro la Palestina

Rashid Khalidi

Giovedì 11 aprile 2024 – The Guardian

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi terribili degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia

Per le persone di tutto il mondo, me compreso, le immagini terribili che giungono da Gaza e da Israele dal 7 ottobre 2023 sono ineludibili. Questa guerra incombe su di noi come un’immobile nuvola nera che diventa sempre più oscura e inquietante con il passare delle interminabili settimane di orrore che si succedono davanti ai nostri occhi. Avere amici e parenti lì rende tutto questo molto più difficile da sopportare per molti di noi che vivono lontano.

Alcuni hanno sostenuto che questi eventi rappresentano una rottura, uno sconvolgimento, che questo sia stato “l’11 settembre di Israele” o che si tratti di una nuova Nakba, un genocidio senza precedenti. Certamente, la portata di questi eventi, le riprese quasi in tempo reale di atrocità e devastazioni insopportabili – in gran parte catturate sui telefoni e diffuse sui social media – e l’intensità della risposta globale non hanno precedenti. Sembra di trovarsi in una nuova fase, dove l’esecrabile “processo di Oslo” è morto e sepolto, dove l’occupazione, la colonizzazione e la violenza si stanno intensificando, il diritto internazionale viene calpestato e le placche tettoniche da tempo immobili si stanno lentamente muovendo.

Ma anche se molto è cambiato negli ultimi sei mesi, gli orrori di cui siamo testimoni possono essere veramente compresi solo come una nuova fase catastrofica di una guerra che va avanti da diverse generazioni. Questa è la tesi del mio libro The Hundred YearsWar on Palestine [La Guerra dei Cent’anni contro la Palestina, ndt.]: che gli eventi succedutisi in Palestina a partire dal 1917 sono il risultato di una guerra in più fasi condotta contro la popolazione indigena palestinese da grandi potenti mecenati del movimento sionista – un movimento allo stesso tempo colonialista e nazionalista, che mirava a sostituire il popolo palestinese nella sua patria ancestrale. Queste potenze si sono successivamente alleate con lo Stato-Nazione israeliano nato da quel movimento. Nel corso di questa lunga guerra i palestinesi hanno resistito strenuamente all’usurpazione del loro Paese. Questo quadro è indispensabile per spiegare non solo la storia del secolo scorso e oltre, ma anche la brutalità a cui abbiamo assistito dal 7 ottobre.

Sotto questa luce, è chiaro che non si tratta di una lotta secolare tra arabi ed ebrei che va avanti da tempo immemorabile, e non è semplicemente un conflitto tra due popoli. È un prodotto recente dell’irruzione dell’imperialismo in Medio Oriente e dell’ascesa dei moderni nazionalismi degli Stati-Nazione, sia arabi che ebrei; è un prodotto dei violenti metodi di insediamento coloniale europei impiegati dal sionismo per “trasformare la Palestina nella terra di Israele”, secondo le parole di uno dei primi leader sionisti, Ze’ev Jabotinsky; ed è un prodotto della resistenza palestinese a questi metodi.

Inoltre questa non è mai stata solo una guerra tra il sionismo e Israele da una parte e i palestinesi dall’altra, occasionalmente sostenuta da attori arabi e di altro tipo. Ha sempre comportato l’intervento massiccio delle più grandi potenze dell’epoca dalla parte del movimento sionista e di Israele: la Gran Bretagna fino alla seconda guerra mondiale e da allora gli Stati Uniti e altri. Queste grandi potenze non sono mai state mediatori neutrali o onesti, ma hanno sempre partecipato attivamente a questa guerra a sostegno di Israele. In questa guerra tra colonizzatori e colonizzati, oppressori e oppressi, non c’è stato nulla che si avvicinasse lontanamente all’equivalenza tra le due parti, ma piuttosto un vasto squilibrio a favore del sionismo e di Israele.

Questa tesi è stata crudamente confermata dagli eventi successivi al 7 ottobre, con lo squilibrio di potere evidente nella sproporzione delle dimensioni di morte, distruzione e sfollamento: il rapporto tra palestinesi e israeliani uccisi finora è di circa 25 a 1. Ciò è ulteriormente rafforzato dallo straordinario livello di sostegno politico, diplomatico e militare degli Stati Uniti a Israele, combinato con quello del Regno Unito e di altri Paesi occidentali, in contrasto con il relativamente limitato sostegno militare e finanziario ai palestinesi da parte dell’Iran e di diversi attori non statali.

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia. Possiamo comprenderli correttamente solo nel contesto della guerra secolare intrapresa contro la Palestina, nonostante gli sforzi di Israele di negare la rilevanza del contesto e di spiegarli nei termini della “barbarie” caratteristica dei suoi nemici. Anche se le azioni di Hamas e Israele a partire dal 7 ottobre potrebbero sembrare un cambiamento o una svolta, esse sono coerenti con decenni di pulizia etnica israeliana, occupazione militare e furto della terra palestinese, con anni di assedio e deprivazione della Striscia di Gaza, e con una risposta palestinese a queste azioni spesso violenta.

Comunque vada a finire, questo episodio della lunga guerra contro la Palestina ha chiaramente avuto un profondo impatto traumatico sia sui palestinesi che sugli israeliani. Ciò è vero in termini di numero eccezionale di persone uccise, ferite, disperse, catturate o detenute; distruzione senza precedenti di case e infrastrutture nella Striscia di Gaza; l’enorme numero di famiglie colpite, soprattutto tra i palestinesi; e l’intenso impatto psicologico di questi eventi.

In un breve periodo sono stati arrecati danni immensi alle popolazioni civili palestinesi e israeliane. Il bilancio palestinese di oltre 33.000 morti, insieme a forse 8.000 dispersi e presumibilmente morti, la stragrande maggioranza dei quali civili, è di gran lunga il più alto mai registrato in qualsiasi fase di questa guerra lunga un secolo. Nella guerra del 1947-49 furono uccisi circa 15.000 civili e combattenti palestinesi; nel 1982, durante l’invasione del Libano e l’assedio di Beirut, Israele uccise più di 19.000 civili e combattenti palestinesi e libanesi. Nei sei mesi trascorsi dal 7 ottobre il numero di morti e feriti – circa 120.000 – corrisponde a circa il 5% della popolazione della Striscia di Gaza di 2,3 milioni.

Il bilancio di oltre 800 vittime civili in Israele è il più alto dalla guerra del 1948. Finora sono stati uccisi più di 685 soldati, poliziotti e personale di sicurezza israeliani – più del numero di soldati uccisi nella guerra del Sinai del 1956, nell’invasione del Libano del 1982, nella seconda Intifada e nella guerra del Libano del 2006. Il totale delle vittime israeliane, compresi soldati e civili uccisi e feriti, ha superato quello della guerra del 1967. Inoltre, nell’ottobre dello scorso anno sono stati fatti prigionieri circa 250 civili e soldati israeliani e cittadini stranieri, e più di 100 sono ancora tenuti in ostaggio.

Durante l’intero corso di questa lunga guerra, un numero così elevato di palestinesi e israeliani non era mai stato cacciato dalle proprie case. Mentre tra il 1947 e il 1949 circa 750.000 palestinesi – più della metà della popolazione palestinese dell’epoca – furono sottoposti alla pulizia etnica da quello che divenne Israele, e circa 300.000 nella Cisgiordania e la Striscia di Gaza dopo l’occupazione del 1967, questi numeri sono stati oscurati dalla cifra di circa 1,7 milioni di abitanti di Gaza che Israele ha sfollato dal 7 ottobre. Nel frattempo, almeno 250.000 israeliani sono stati sfollati dagli insediamenti coloniali e dalle città nelle aree al confine con la Striscia di Gaza e il Libano.

Questi shock traumatici hanno avuto un impatto enorme su entrambe le società. In Israele, la violenza del 7 ottobre, in particolare l’elevato numero di civili uccisi, feriti e catturati, con i raccapriccianti risultati diffusi in diretta streaming tramite i social media e ripetutamente trasmessi in televisione, ha avuto un impatto viscerale sull’intero Paese. Gli attacchi hanno evocato ricordi storici di violenza e persecuzione e hanno distrutto il senso di sicurezza che Israele riteneva di aver fornito ai suoi cittadini. Sembra quasi che, nella coscienza pubblica israeliana, dal 7 ottobre il tempo si sia fermato mentre l’effetto bruciante di questo trauma collettivo si ripete come in un ciclo senza fine. Il risultato è stato quello di accelerare lo spostamento verso destra in atto nella società israeliana, con i politici e il discorso pubblico diventati ancora più aggressivi e intransigenti. Gli attacchi hanno provocato un’intensa sete di vendetta, evidente dal modo brutale in cui è stata condotta la guerra di Israele, e il senso di perpetuo vittimismo della nazione è stato rafforzato, nonostante l’immenso squilibrio di potere tra Israele e palestinesi.

Il flusso infinito di immagini della devastazione di Gaza, dell’enorme numero di vittime, delle decine di famiglie completamente spazzate via dagli attacchi dell’intelligenza artificiale israeliana, e della fame e delle malattie causate dalle paralizzanti restrizioni israeliane sul transito di acqua, cibo, medicine, carburante ed elettricità nella Striscia di Gaza – palesi violazioni del diritto internazionale umanitario – hanno traumatizzato i palestinesi ovunque. Genitori e nonni avevano raccontato loro della Nakba e di altri tragici episodi della storia del loro popolo. Ma guardando il paesaggio lunare in cui Israele ha trasformato Gaza, i palestinesi sono comunque rimasti scioccati dallo spietato omicidio di migliaia di civili e dalla vasta distruzione di case, ospedali, scuole, luoghi di culto e infrastrutture, in quello che è stato descritto da un rapporto statunitense storico militare come “una delle più intense campagne di punizione sui civili della storia”. Oltre a dover affrontare per mesi queste orribili realtà i palestinesi sono ossessionati dai ricordi storici della Nakba e dalla domanda su quando e se questa guerra finirà e su come gli abitanti di Gaza potranno mai avere di nuovo una vita normale.

Questi eventi scioccanti hanno avuto eco in tutto il mondo, poiché la serie apparentemente infinita di atrocità che Israele ha inflitto agli abitanti di Gaza è stata vista in tempo reale sui media tradizionali, alternativi e sui social media. Questa è la prima volta che una generazione di giovani in tutto il mondo guarda da mesi tali immagini di carneficina. A gennaio un sondaggio ha rilevato che quasi la metà degli americani tra i 18 e i 29 anni crede che Israele stia commettendo un genocidio. La Palestina è diventata una causa fondamentale per attivisti giovani e meno giovani, unendo varie correnti di opposizione allo status quo globale. Allo stesso tempo, ha diviso le famiglie lungo linee generazionali, mandando in frantumi il compiacente consenso tra i liberali occidentali secondo cui, nonostante i suoi difetti, Israele sarebbe una forza positiva.

Israele è stato accusato dal Sudafrica del genocidio di Gaza davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che con un voto schiacciante ha accettato di esaminare il caso e ha ordinato misure provvisorie. Questa non è la prima volta che Israele viene accusato di violare il diritto internazionale, accuse che disprezza, ma durante questa guerra il processo ha subito un’accelerazione infliggendo un danno crescente all’immagine internazionale sempre più offuscata di Israele.

La sofferenza che Israele sta provocando a Gaza ha ulteriormente diminuito la sua legittimità, già gravemente compromessa, a livello globale. Al di là della possibilità di una maggiore escalation della guerra in altre parti del Medio Oriente, le scosse di assestamento potrebbero avere conseguenze a lungo termine per la politica interna di Israele, dei palestinesi e degli Stati arabi e regionali, nonché sul futuro di Israele nella regione, e forse anche sull’esito delle elezioni presidenziali americane.

Questa guerra produrrà senza dubbio cambiamenti nella strategia a lungo termine di Israele nei confronti dei palestinesi. L’attacco a sorpresa del 7 ottobre e i successivi fallimenti sul campo di battaglia hanno messo in luce le debolezze della pianificazione militare, dell’intelligence e della sua decantata tecnologia di sorveglianza. Questi fallimenti hanno portato all’uccisione o alla cattura di più di 1.000 soldati e civili israeliani e all’invasione di numerosi insediamenti coloniali di confine, alcuni dei quali non sono stati riconquistati fino al 10 ottobre. Questa è stata una delle peggiori sconfitte nella storia militare di Israele. Questa è anche la prima volta dal 1948 che una guerra viene condotta con un tale grado di ferocia all’interno di Israele. Con la parziale eccezione della Seconda Intifada, in 75 anni Israele non è stato esposto a nulla di paragonabile a questo attacco diretto alla popolazione civile sul suo territorio.

Scosso da questa catastrofica sconfitta, il governo israeliano ha asserito che manterrà a lungo termine il controllo di sicurezza sulla Striscia di Gaza, rifiutandosi di ritirare completamente le sue truppe; il che in pratica equivarrebbe ad una estesa rioccupazione totale o parziale. Considerata la storia dell’enclave, che dal 1948 rappresenta il luogo di più intensa resistenza dei palestinesi all’espropriazione e al dominio da parte di Israele, potrebbe non esserci nel prossimo futuro un termine definito di questa nuova fase del conflitto.

Un altro cambiamento radicato nel fiasco militare del 7 ottobre è che esso rappresenta il temporaneo collasso della dottrina sulla sicurezza di Israele. Questa è spesso chiamata erroneamente “deterrenza”, ma in realtà deriva dall’approccio aggressivo insegnato per la prima volta ai fondatori delle forze armate israeliane – ufficiali come Moshe Dayan, Yigal Allon e Yitzhak Sadeh, membri scelti delle milizie Haganah e Palmach, addestrati alla fine degli anni ’30 da esperti veterani della contro-insurrezione coloniale britannica. La dottrina sostiene che attaccando preventivamente o attraverso una ritorsione con una forza schiacciante e colpendo direttamente le popolazioni civili considerate favorevoli agli insorti il nemico può essere sconfitto in modo decisivo, intimidito in modo permanente e costretto ad accettare le condizioni del colonizzatore. In passato, per quanto riguardava Gaza, questa dottrina – descritta dagli analisti israeliani come “falciare il prato” – prevedeva di colpire periodicamente la popolazione e ucciderne un gran numero per costringerla ad accettare uno status quo di assedio e blocco che durava da 17 anni.

Chiamo questo un crollo temporaneo della dottrina, perché mentre gli eventi del 7 ottobre hanno messo in luce nel fallimento di un approccio basato sulla forza l’esistenza di un problema essenzialmente politico, è chiaro che la leadership israeliana non ha imparato nulla. Invece ha raddoppiato le pratiche precedenti, in linea con l’adagio israeliano: “Se la forza non funziona, usa più forza”. I leader israeliani sembrano aver dimenticato la massima di Clausewitz secondo cui la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi.

Nelle parole del sociologo politico israeliano Yagil Levy, nella sua guerra contro Gaza il “quadro politico di Israele è un quadro militare. Netanyahu modella la politica all’interno di un mondo di concetti militari. Non esiste una strategia di uscita politica né una visione politica, che sono l’abc di ogni guerra”. Spinta dal desiderio di vendetta per l’umiliante sconfitta militare e dalla cieca adesione all’antiquata dottrina israeliana sulla sicurezza basata sulla forza, una leadership divisa non ha alcun comune obiettivo politico in questa campagna. Al contrario, brandisce il vuoto slogan della “vittoria completa” e l’idea di ripristinare un atteggiamento aggressivo di “deterrenza”, che è inutile perché manifestamente non è riuscito a scoraggiare gli attacchi in passato, e probabilmente sarà altrettanto inefficace in futuro.

Ci sono ampie prove che il governo israeliano originariamente desiderasse sfruttare l’opportunità offerta dalla guerra per effettuare un’ulteriore pulizia etnica dei palestinesi, sia con la loro espulsione in Egitto che in Giordania, e che, vergognosamente, gli Stati Uniti hanno cercato di persuadere entrambi i Paesi ad accettare questa soluzione, cosa che si si sono rifiutati categoricamente di fare. La forte fazione di coloni all’interno del governo sostiene ancora questo, e spera anche nella possibilità di reinsediarsi nella Striscia di Gaza.

Invece di definire un obiettivo politico preciso un governo israeliano privo di consenso sulla politica ha dichiarato che il suo obiettivo è la completa distruzione di Hamas, un’entità politico-militare-ideologica con diramazioni in tutta la Palestina e nella diaspora palestinese – una missione manifestamente impossibile. Potrebbe essere o meno fattibile per l’esercito israeliano sconfiggere in modo decisivo le forze militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, se Hamas riuscisse a mantenere anche solo una frazione delle sue capacità militari dopo molti mesi di combattimenti [Israele] potrebbe rivendicare una vittoria di Pirro. Come scrisse una volta Henry Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince”. Qualunque sia l’esito militare, Hamas non sarà distrutta come forza politica né ideologica.

Alla luce dell’impatto devastante su Israele dell’attacco di ottobre, e nonostante il bilancio feroce della sua risposta, è improbabile che la filosofia della resistenza armata di Hamas scompaia finché non ci sarà la prospettiva di porre fine all’occupazione militare, alla colonizzazione e all’oppressione del popolo palestinese, o di un orizzonte politico che prometta una vera autodeterminazione e uguaglianza palestinese. Pertanto, uno sconvolgimento che avrebbe potuto essere un catalizzatore di cambiamento potrebbe di fatto produrre la continuità della colonizzazione e dell’occupazione, dell’affidamento esclusivo sulla forza da parte della classe dirigente israeliana e della resistenza palestinese armata.

Se le prospettive israeliane sono poco chiare, anche l’orizzonte politico postbellico per i palestinesi è nebuloso. In termini puramente militari, l’entità e la portata dell’attacco di Hamas a ottobre non hanno precedenti. Eppure, facendo ancora riferimento a Clausewitz, è difficile scorgere gli obiettivi politici di Hamas. Nel passato, in vari momenti, Hamas ha proclamato la sua disponibilità ad accettare uno Stato palestinese accanto a Israele, come nella sua dichiarazione di principi del 2017 che considerava “una formula di consenso nazionale la fondazione di uno Stato palestinese indipendente pienamente sovrano e con Gerusalemme come sua capitale sui confini del 4 giugno 1967, con il ritorno di rifugiati e sfollati alle loro case da cui erano stati espulsi.”

D’altro canto, nello stesso documento, Hamas aveva chiesto “la piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare,” e ha sistematicamente rifiutato di accettare la legittimità di Israele o di rinunciare alla violenza. Entrambe le tendenze sono state presenti in dichiarazioni contraddittorie fatte dai leader di Hamas da ottobre e in iniziative, precedenti e attuali, rivolte ad unirsi all’OLP e ad altre forze politiche palestinesi, o, alternativamente, a trattarle come rivali di cui prendere il posto.

Dal 7 ottobre entrambe queste tendenze si sono rafforzate fra differenti segmenti del popolo palestinese, con la resistenza armata che trova nuovi sostenitori, specialmente fra i giovani, e altri che cautamente sperano in una svolta nella direzione di uno Stato palestinese, sebbene l’Autorità Palestinese a Ramallah sia disprezzata dalla maggioranza dei palestinesi in quanto appaltatrice della sicurezza per conto dell’occupazione israeliana.

Una constante nei 100 anni di questa guerra è che ai palestinesi non è stato permesso di scegliere chi li rappresenta. Come nel passato, le loro preferenze possono risultare inaccettabili alle potenze, che siano Israele, gli stati occidentali o i loro clienti arabi. Queste potenze stanno probabilmente ancora cercando di imporre la loro scelta su chi rappresenti i palestinesi e chi non sia autorizzato a farlo, con i palestinesi stessi senza una voce in questa decisione. In mancanza di un accordo palestinese su una voce politica unificata e credibile che rappresentanti un consenso nazionale, questo significherebbe che la cruciale decisione sul futuro del loro popolo sarà presa da potenze esterne come è successo molte volte nel passato.

Israele ha presentato questa guerra come mirata esclusivamente contro Hamas, affermando di aver scrupolosamente obbedito al diritto umanitario internazionale, usando una forza “proporzionale” e discriminata e che le morti civili erano “danni collaterali” involontari perché Hamas ha usato i civili come “scudi umani”. I governi occidentali e i media mainstream hanno ripetuto queste affermazioni essenzialmente false, sebbene smentiti dalla morte di oltre 33.000 civili, fra cui, secondo l’Unicef, 13.000 minori, la cacciata di 1,7 milioni di persone e la distruzione, ovviamente intenzionale, della maggior parte delle infrastrutture della Striscia di Gaza con ospedali, impianti di purificazione dell’acqua, fogne, centrali elettriche, sistemi di telefonia e internet, scuole, università, moschee e chiese come obiettivi. Dopo sei mesi di guerra, le dimensioni di questa devastazione e del massacro e la fame di massa causati da Israele sembrano penetrare attraverso la nebbia del pensiero di gruppo perpetuato dai governi occidentali e la maggior parte dei media mainstream che precedentemente avevano ripetuto a pappagallo i punti salienti israeliani anche se ovviamente falsi.

Molti osservatori non accecati da questa fasulla narrazione israeliana vedono correttamente questa guerra come diretta contro la popolazione di Gaza nella forma di punizione collettiva, se non di genocidio. La risultante reazione sdegnata è stata quasi universale nel mondo arabo, in quasi tutti i Paesi musulmani e nella maggioranza dei Paesi del sud globale. In aumento sono le fasce delle popolazioni americane ed europee che hanno risposto in modo simile. Fino a tempi recentissimi questa reazione ha avuto uno scarso effetto sulle politiche di totale sostegno a Israele dell’amministrazione Biden, che vanno poco oltre deboli e palesemente insinceri rimproveri retorici. Per molti osservatori le consegne di armi e munizioni americane che bypassano le garanzie del congresso, la protezione diplomatica di Israele all’ONU, ripetizioni meccaniche dei punti chiave israeliani e la durezza di Biden e dei suoi funzionari verso le sofferenze palestinesi sono viste come elementi dell’attiva partecipazione nel commettere crimini di guerra e genocidio, guadagnando a Biden l’epiteto di “Genocida Joe”.

Dal 7 ottobre la forte simpatia per i palestinesi da parte dei popoli dei Paesi arabi e il loro pubblico sostegno per la loro causa (ove tali espressioni sono permesse e spesso anche dove non lo sono) hanno svelato la deliberata ignoranza dei decisori politici e commentatori occidentali e israeliani che hanno sostenuto che la causa palestinese non è importante per gli arabi e che può essere ignorata. In risposta agli attacchi israeliani contro Gaza ci sono stati mesi con le più vaste manifestazioni popolari mai viste da una decina di anni in numerose città arabe, fra cui Il Cairo, Amman, Manama e Rabat, capitali di Paesi che hanno relazioni diplomatiche con Israele. Alla fine i regimi autocratici che rovinano la regione potrebbero riuscire a reprimere la simpatia dei loro cittadini per i palestinesi e l’ostilità verso Israele. Ciononostante, in futuro, questi governi saranno obbligati a prendere più attentamente in considerazione l’appassionato senso di identificazione del loro popolo con la causa palestinese e ad adattare di conseguenza le loro politiche.

Da ottobre un altro elemento è emerso con grande rilevanza: il valore diseguale che le élite occidentali attribuiscono da un lato alle vite israeliane (identificate come “bianche”) e dall’altro a quelle arabe (identificate come “di colore”). Questo vergognoso doppio standard ha prodotto un’atmosfera tossica, repressiva negli spazi dominati da queste élite negli USA e un po’ meno Europa, specialmente nell’ambito politico, corporativo, dei media e nei campus universitari. L’ondata risultante di caccia alle streghe nei parlamenti, fra imprenditori, nel mondo di cultura e università si è concentrata sulle accuse che sostenere la libertà per i palestinesi e criticare le politiche israeliane o il sionismo sia in un qualche modo antisemita.

Queste asserzioni accettano l’affermazione che Israele e sionismo siano sinonimi di ebraismo, mentre ignorano il posto di rilievo di ebrei più progressisti e giovani che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle azioni del governo israeliano. È totalmente assurdo affermare che l’opposizione al sionismo o al colonialismo israeliano sia per principio antisemita. Se coloro che si sono insediati in Palestina fossero stati scandinavi cristiani perseguitati che si percepissero come missionari mandati da dio per sottrarre il Paese alla sua popolazione indigena non ci sarebbe stato nulla di “anticristiano” nel resistere ai loro sforzi.

Le élite occidentali fra i politici, i media e in altri ambienti che promuovono questa atmosfera maccartista di repressione hanno dimostrato che considerano l’uccisione di civili israeliani più degna di attenzione di quella della morte di 25 volte tanto di civili palestinesi. Perciò, con qualche eccezione, in generale i media mainstream individuano in dettaglio le morti di civili israeliani, descritte come il risultato di atrocità perpetrate da Hamas. In contrasto, molto più frequentemente si descrive il grandissimo numero di morti civili palestinesi collettivamente e in termini passivi e senza nominare l’autore israeliano delle loro uccisioni, come se la causa fosse sconosciuta o un fenomeno naturale. Quindi Israele non uccide: i palestinesi muoiono, Israele non affama i palestinesi, loro soffrono la fame.

Questo approccio palesemente di parte è un’arma a doppio taglio: se nel breve periodo potrà servire a Israele per puntellare un pubblico di riferimento in diminuzione per il suo ritratto distorto della realtà in Palestina, il doppio standard inerente è trasparente alla maggior parte del mondo. È anche ovvio a segmenti crescenti di opinione pubblica in occidente, specialmente i più giovani. Invece di ottenere le loro informazioni dalle offerte dei media tradizionali che presentano le notizie in gran parte attraverso le lenti israeliane queste audience più giovani hanno una gamma variegata di fonti, a cui accedono principalmente tramite media alternativi e i social che offrono un panorama di immagini della morte, distruzione e miseria che Israele infligge sui gazawi. Di conseguenza capiscono perfettamente che un alto grado di censura di queste realtà è imposto dalla faziosità dei media tradizionali per i quali giustamente nutrono un totale disprezzo.

Nonostante una feroce ondata di repressione del sostegno ai palestinesi nella sfera pubblica, fra i giovani la maggiore disponibilità di una più ampia varietà di informazioni ha cominciato ad aver un effetto politico negli USA, particolarmente dopo che l’iniziale impennata di simpatia per Israele in risposta agli attacchi di Hamas è stata sostituita dalla simpatia per i civili palestinesi massacrati e affamati. In un sondaggio oltre il 68% degli americani sostiene un cessate il fuoco permanente a Gaza. Un altro ha mostrato che il 57% degli intervistati disapprovava la gestione della guerra a Gaza di Joe Biden, una cifra che sale a circa il 75% nella fascia di elettori fra i 18 e i 29 anni.

Sin dalla sua elezione a senatore nel 1972, Biden si è votato ai miti su Israele e Palestina che sono prevalenti nella conversazione politica e nei media americani. La sua amministrazione non ha ribaltato nessuna delle politiche che chiaramente favoriscono Israele promulgate dall’amministrazione Trump. Biden ha quindi mantenuto una serie di deviazioni significative dalle precedenti politiche USA, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la chiusura del consolato USA a Gerusalemme Est e della missione palestinese a Washington DC, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e riconoscendo l’annessione israeliana delle Alture di Golan.

Oltre a ciò e ben lontano dall’abbandonare l’approccio distintivo dell’amministrazione di Trump, detto “gli accordi di Abramo”, di ridurre l’importanza della questione palestinese e concentrarsi sulla normalizzazione delle relazioni fra Israele e gli Stati arabi, l’amministrazione Biden ha elogiato queste misure che hanno portato ad aprire le relazioni diplomatiche fra Israele e Emirati Arabi Uniti, Marocco e Bahrain, facendo infuriare i palestinesi. Biden e il suo team sono andati persino oltre. Hanno posto forti pressioni per un accordo di normalizzazione fra sauditi e israeliani che avrebbe schierato lo Stato arabo più influente con Israele, indebolendo ulteriormente i palestinesi e diminuendo ancora di più la prospettiva del loro raggiungimento di qualcuno dei loro obiettivi nazionali.

Sebbene la chimera di un accordo di normalizzazione saudita si scontri potentemente con la realtà dopo il 7 ottobre, rivelando le difficoltà che i regimi arabi avrebbero davanti se entrassero in relazione con un Paese che la vasta maggioranza del loro popolo pensa stia commettendo un genocidio, l’amministrazione Biden non ha mai oscillato nella sua promozione aggressiva dell’idea. L’ha fatto mentre indeboliva i suoi clienti arabi con un sostegno illimitato del selvaggio attacco di Israele contro la Striscia di Gaza, che ha con fermezza appoggiato come “autodifesa”. Questo sostegno include il rifiuto categorico di un cessate il fuoco permanente e la consegna di emergenza di aerei pieni di munizioni e armi, senza le quali Israele non avrebbe potuto sostenere la sua campagna militare. Recentemente sono stati promessi altri cacciabombardieri F-15 e F-35.

Con queste azioni e la sua costante ripetizione della retorica israeliana, Biden ha rafforzato la sensazione che gli USA siano visceralmente ostili verso i palestinesi. Anche quando, mesi dopo, ha finalmente insistito che Israele ponga fine alla fame di massa dei gazawi, questa è stata la risposta non alle immagini di neonati palestinesi emaciati ma alle morti dei volontari stranieri bianchi.

Anche la richiesta dell’amministrazione per la “soluzione a due Stati” suona falsa. Non ci sono segni che gli USA richiedano l’implementazione dei prerequisiti essenziali per una tale soluzione: una fine rapida e completa dell’occupazione militare israeliana durata quasi 57 anni e dell’usurpazione e colonizzazione delle terre palestinesi, che ha portato circa 750.000 coloni illegali sul 60% della Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’amministrazione non ha neppure indicato se accetterebbe che i palestinesi scelgano democraticamente i propri rappresentanti.

Senza una decisa applicazione di queste misure la richiesta della “soluzione dei due Stati” è sempre stata priva di significato, una crudele truffa orwelliana. Invece di autodeterminazione, Stato e sovranità palestinesi, manterrebbe in effetti lo status quo in Palestina sotto forma diversa, con una “Autorità Palestinese” collaborazionista e controllata esternamente e mancante di reale giurisdizione o autorità rimpiazzata da uno “Stato palestinese” collaborazionista ugualmente privo di sovranità e indipendenza connessi a un autentico State. Sarebbe una farsa: un arcipelago spezzettato di bantustan sotto il controllo finale di Israele, con supervisione finanziaria e di sicurezza degli USA, dell’Europa occidentale e dei suoi alleati arabi.

Guardando indietro agli ultimi sei mesi, al crudele massacro di civili su scala senza precedenti, con milioni di persone che hanno perso la casa, la fame di massa e le malattie causate da Israele è chiaro che questo segna un nuovo abisso in cui è sprofondata la lotta per la Palestina. Se questa fase riflette gli aspetti di fondo delle precedenti in questi 100 anni di guerra, la sua intensità è unica, e ha creato nuovi e profondi traumi. Non solo non si vede la fine di questa carneficina, sembriamo più lontani che mai da una risoluzione duratura e sostenibile, basata sullo smantellamento delle strutture di oppressione e supremazia e giustizia, uguaglianza totale dei diritti e mutuo riconoscimento.

Rashid Khalidi è autore di libri come The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler-Colonialism and Resistance (La guerra dei cent’anni contro la Palestina: una storia dell’insediamento dei coloni e della resistenza) (Profile, 2020) e docente di studi arabi moderni presso la Columbia University

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Aldo Lotta)




A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Riprese di un drone sollevano dubbi sulla giustificazione israeliana per un attacco mortale contro giornalisti a Gaza

 

 Louisa Loveluck, Imogen PiperSarah CahlanHajar Harb e Hazem Balousha 

19 marzo 2024 – The Washington Post

Gerusalemme – Il 7 gennaio fuori da Khan Younis, nel sud di Gaza, l’esercito israeliano ha condotto un attacco mirato con un missile contro un’auto su cui viaggiavano quattro giornalisti palestinesi.

Due membri di una troupe di Al Jazeera, Hamza Dahdouh, 27 anni, e l’operatore di droni Mustafa Thuraya, 30 anni, sono stati uccisi insieme al loro autista. Due giornalisti freelance sono rimasti gravemente feriti.

Stavano tornando dal luogo di un precedente attacco israeliano contro un edificio, dove avevano utilizzato un drone per riprendere le conseguenze. Il drone, un modello base che si può trovare su Best Buy [principale rivenditore di elettronica degli USA, ndt.], sarebbe fondamentale per la giustificazione israeliana dell’attacco.

Il giorno dopo in una dichiarazione le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] hanno affermato di aver “identificato e colpito un terrorista che manovrava un velivolo che rappresentava un pericolo per i soldati delle IDF.” Due giorni dopo l’esercito ha annunciato di aver scoperto prove che entrambi gli uomini facevano parte di gruppi di miliziani, Thuraya di Hamas e Dahdouh del Jihad Islamico Palestinese, il suo rivale meno numeroso a Gaza, e che l’attacco era stato una risposta a una minaccia “imminente”.

Il Washington Post ha ottenuto e analizzato le riprese dal drone di Thuraya, che erano conservate in una scheda di memoria ritrovata sul posto e inviata a un’agenzia di produzione palestinese in Turchia. Nessun soldato israeliano, velivolo o altra attrezzatura militare è visibile nelle riprese di quel giorno, che il Post ha pubblicato integralmente, sollevando domande critiche sul perché i giornalisti siano stati presi di mira. Colleghi reporter hanno affermato di non essere stati a conoscenza di movimenti di truppe nella zona.

Interviste con 14 testimoni oculari dell’attacco e colleghi dei giornalisti uccisi offrono il racconto finora più dettagliato dell’incidente mortale. Il Post non ha trovato indicazioni che quel giorno i due uomini stessero agendo nella veste di qualcos’altro che giornalisti. Entrambi erano passati attraverso posti di controllo israeliani lungo il percorso verso sud all’inizio della guerra; Dahdouh recentemente aveva ottenuto il permesso di lasciare Gaza, un privilegio raro che è improbabile venga concesso a un miliziano noto come tale.

In risposta a molteplici richieste e domande dettagliate del Post l’esercito israeliano ha risposto: “Non abbiamo nient’altro da aggiungere.”

Il Post non potrebbe identificare altri esempi durante la guerra in cui giornalisti siano stati presi di mira dall’IDF per aver fatto volare droni, che sono stati usati in modo massiccio per riprendere le dimensioni della devastazione a Gaza.

Giornalisti locali hanno detto al Post che non ci sono indicazioni ufficiali sui droni da parte dell’esercito israeliano. Un altro ha detto di aver deciso di non usare il suo drone durante il conflitto, temendo che potesse essere preso a pretesto per un attacco israeliano.

In un comunicato Al Jazeera ha condannato l’“assassinio di Mustafa e Hamza” e si è impegnata a “prendere tutte le misure legali per perseguire i responsabili di questi crimini.”

Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti novanta reporter e altri operatori dei media sono stati uccisi in soli cinque mesi, il periodo più letale per la professione da quando l’associazione ha iniziato a raccogliere dati nel 1992.

“Dovrebbe spettare all’esercito israeliano indagare su quanto avvenuto” il 7 gennaio, ha detto a febbraio al Post Irene Khan, la relatrice speciale dell’ONU sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione.

“Non è sufficiente dire che ‘li abbiamo sospettati e quindi li abbiamo uccisi’,” ha affermato. “É molto facile dire questo in una situazione di guerra.”

I giornalisti

Dal 7 ottobre Israele ha impedito ai media stranieri di entrare nella Striscia di Gaza, tranne che a occasionali [reporter] inseriti nell’esercito il cui accesso è strettamente controllato. Per capire il conflitto il mondo si è basato su centinaia di giornalisti palestinesi.

Il più famoso è stato Wael Dahdouh, padre di Hamza e caporedattore di Al Jazeera a Gaza, la cui tenacia di fronte a una tragedia personale è stata di esempio in tutto il mondo arabo.

Il 28 ottobre Wael ha interrotto la diretta quando ha scoperto che sua moglie, il figlio Mahmoud e la figlia Sham, fratelli di Hamza, e un nipote erano stati uccisi nella loro casa da un attacco aereo israeliano. Il suo collega più vicino, il cameraman di Al Jazeera Samer Abu Daqqa, è morto il 15 dicembre per le ferite riportate dopo un attacco israeliano con i droni, in cui anche Wael è rimasto ferito.

Hamza ha raggiunto la redazione di Al Jazeera a Gaza durante il conflitto, lavorando come assistente cameraman e produttore sul campo, dice suo padre.

Thuraya era un freelance molto noto, forniva foto e immagini con il drone ad Al Jazeera così come all’Agence-France Presse, alla Reuters e a Getty Images. Secondo Shadi al-Tabatibi, 30 anni, collega giornalista nell’enclave, in precedenza aveva lavorato per circa cinque anni come fotografo per il ministero delle Fondazioni Religiose, parte del governo di Gaza guidato da Hamas. Non è chiaro quando sia terminato il suo contratto.

Secondo molti amici e colleghi intervistati dal Post, sia Dahdouh che Thuraya avevano lasciato Gaza City, il fulcro originario dell’operazione militare israeliana, alla fine di ottobre lungo una strada per l’evacuazione di civili indicata dall’esercito israeliano.

Gli uomini hanno vissuto in tende per più di due mesi con altri giornalisti nella città di Rafah, una zona vicina al confine con l’Egitto, dove hanno cercato rifugio circa 1.4 milioni di palestinesi sfollati. I giornalisti raccontano che stendevano i loro materassi su assi di legno per isolare i propri letti dal freddo e viaggiavano sul luogo dei bombardamenti aerei e altri attacchi in gruppo, convinti che fosse più sicuro essere in tanti.

Il 6 gennaio, alla vigilia della loro morte, Dahdouh e Thuraya avevano condiviso il pasto con dei colleghi. “È stata una cena semplice, ma piena di calore,” afferma Adli Abu Taha, 33 anni, un cameraman di Al-Kufiya TV. Thuraya ha parlato per telefono con la moglie e tre figlie, ricorda Tabatibi, promettendo che sarebbe andato presto a trovarle.

La missione

Secondo , Amer Abu Amr, un fotografo del canale televisivo Palestine Today anche lui presente sul posto quel giorno, il 7 gennaio i giornalisti si sono svegliati con la notizia di un attacco aereo contro la casa della famiglia Abu al-Naja, a sud di Khan Younis. In seguito l’esercito israeliano ha descritto la casa come un ufficio del Jihad Islamico Palestinese.

Un post sulle reti sociali suggerisce che almeno quattro persone sono state uccise nell’attacco e che alcuni dei morti e feriti erano già stati portati in ospedale.

Ma con altri corpi che si pensava fossero sotto le macerie, da Rafah si sono diretti sul posto almeno 11 giornalisti, tra cui Dahdouh, Thuraya e i reporter freelance Muhammad al-Qahwaji e Hazem Rajab. Secondo i metadati dei video che ha filmato quel giorno, Thuraya ha fatto volare un drone alle 10,39.

Il Post ha ottenuto le riprese dalla sede di Media Town production a Istanbul, che aveva sub-contrattato il lavoro di Thuraya per Al Jazeera e altri clienti. I video mostrano reporter vestiti di blu che osservano una massa di cavi contorti e cemento. Dei bambini stanno a guardare mentre degli uomini tirano fuori dei corpi. Lavoratori della difesa civile stendono lenzuoli sui morti e li portano via.

Le immagini includono 38 clip e durano poco più di 11 minuti. Ogni tanto si vede Thuraya che guarda il comando del suo drone e che lascia lo schermo ad altri colleghi. Zooma due volte, brevemente, mostrando il panorama a nordovest e sudovest dell’edificio danneggiato, circa un kilometro e mezzo in ogni direzione. Nelle immagini non si vedono soldati israeliani, velivoli o altri apparati militari.

Su richiesta del Post due analisti hanno visionato immagini satellitari disponibili dell’area prese il 7 gennaio da Planet Labs ed Airbus [società che forniscono immagini satellitari del pianeta, ndt.], che coprono un raggio di circa 2 kilometri da dove è stato lanciato il drone. Nessuno degli esperti ha visto prove di presenza militare o attività di miliziani. William Goodhind, un ricercatore open-source [pratica di condivisione aperta dei dati, ndt.] di Contested Ground, un progetto di ricerca che traccia i movimenti militari in immagini satellitari, afferma di non aver trovato alcun segno di “veicoli blindati, camion militari, fortificazioni, barricate e/o punti di lancio di razzi e mortai.” Ha identificato un posto di polizia a circa 800 metri a nord ovest dal lancio del drone, ma afferma che non è chiaro se fosse ancora in funzione.

Preligens, una ditta di intelligenza artificiale geospaziale, ha inserito le immagini satellitari del 7 gennaio fornite dal Post nel suo rilevatore AI di veicoli e non ne ha trovato nessuno blindato in un perimetro di circa 16 km2.

Il drone di Thuraya era un Mavic 2 disponibile in commercio, costruito dalla ditta cinese DJI, più o meno delle dimensioni di una tipica scatola da scarpe ma più sottile. I metadati mostrano che Thuraya ha smesso di riprendere alle 10.55.

Secondo Amr, che afferma che lui e il suo collega Ahmed al-Bursh sono stati feriti da schegge, un secondo attacco ha colpito il luogo alle 11.01. Bursh era piegato in due dal dolore quando è salito su un’ambulanza della Mezzaluna Rossa, come si osserva in un video filmato da Amr, che lo ha raggiunto nell’ambulanza ed ha ripreso la maggior parte del loro viaggio.

“L’ho fatto per paura,” dice. “Temevo che saremmo stati presi di mira.”

Anche Thuraya, Dahdouh, Qahwaji, Rajab e il loro autista, il ventiseienne Qusay Salem, che non erano stati feriti nel secondo attacco, se ne sono andati dal luogo. Qualche minuto dopo un video dell’IDF mostra un drone militare che intercetta il loro veicolo, che viaggia appena dietro l’ambulanza. Il suono dell’esplosione è colto nella ripresa di Amr dal finestrino posteriore dell’ambulanza approssimativamente alle 11.10.

Altri video di testimoni mostrano le orribili conseguenze: Thuraya e Salem sono dilaniati dall’attacco. Qahwaji è a terra e perde molto sangue, mentre i medici si affannano per mettere insieme una barella per lui. Il volto del freelance è ustionato e la sua mandibola è squarciata. Rajab ha gravi ustioni e ha perso l’uso di un occhio.

All’obitorio un Wael distrutto dal dolore stringe la mano di suo figlio e gli mormora dolcemente. Abbraccia la moglie di Hamza, Wafaa, mentre lei appoggia il volto sul petto del marito. La moglie di Thuraya, Soraya, nasconde la testa nel cuscino e piange.

Quella notte in una conferenza stampa a Doha, la capitale del Qatar, il segretario di Stato Antony Blinken ha descritto l’uccisione come una “perdita impensabile”. Come genitore non avrebbe potuto “immaginare l’orrore” che Wael stava provando “non una, ma ora due volte.” Il Dipartimento di Stato ha rifiutato di fornire ulteriori commenti.

Una storia mutevole

La notte dell’attacco è iniziata una lotta di narrazioni. L’esercito israeliano ha affermato in un comunicato che il suo velivolo aveva “identificato e colpito un terrorista che stava manovrando un velivolo che rappresentava una minaccia per i soldati dell’IDF.”

Il giorno successivo il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari è sembrato fare marcia indietro: “Ogni giornalista che muore, dispiace,” ha detto alla NBC, affermando che il drone li aveva fatti sembrare “terroristi”.

In un nuovo comunicato il 10 gennaio l’esercito israeliano ha affermato che il drone rappresentava una “minaccia imminente” per i soldati che si trovavano nei pressi, benché l’attacco sia avvenuto circa 15 minuti dopo che Thuraya aveva smesso di filmare. Il Post ha condiviso con l’esercito israeliano le immagini di Thuraya e chiesto se poteva identificare un qualunque momento in cui il drone avesse rappresentato una minaccia per le sue truppe. “Non abbiamo nient’altro da aggiungere”, hanno affermato le IDF.

Il comunicato del 10 gennaio sostiene anche che l’intelligence militare israeliana ha confermato che Dahdouh e Thuraya erano membri rispettivamente del PIJ e di Hamas.

La giustificazione dell’esercito israeliano per l’attacco risponde “a un modello di risposte che abbiamo rilevato anche prima di questa guerra,” afferma Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del Comitato per la Protezione dei Giornalisti. “Evitare di prendersi le responsabilità, lanciare accuse di terrorismo contro i giornalisti” e affermare che “erano in una posizione che minacciava le posizioni israeliane sul terreno.”

Giornalisti locali affermano che Israele non ha emanato nessun divieto o restrizione ufficiale sui droni, che descrivono come strumenti molto utili per trasmettere l’entità delle distruzioni provocate dalla guerra. Ma anche prima del 7 gennaio un giornalista esperto era giunto alla conclusione che le riprese non valevano il rischio.

Suliman Hijji, un video-operatore che lavora nella zona di Rafah, ha deciso all’inizio della guerra che avrebbe lasciato a terra il suo drone.

“L’uso di velivoli attira l’attenzione e può rendere le persone obiettivi vulnerabili,” afferma.

Un giornalista freelance di Gaza che ha lavorato per media internazionali, parlando in forma anonima per ragioni di sicurezza, sostiene di aver ricevuto un “avvertimento generico” da un ufficiale israeliano: “L’ufficiale mi ha detto di non espormi al pericolo e non far volare droni.”

Da quando Thuraya e Dahdouh sono stati uccisi “nessuno osa far volare un drone,” afferma Anat Saragusti, direttore per la libertà di stampa dell’Unione dei Giornalisti di Israele.

L’esercito israeliano non si è pronunciato sulla sua politica riguardo ai droni dei giornalisti a Gaza.

Il comunicato del 10 gennaio fa riferimento anche a un documento datato giugno 2022 con il logo e il nome delle Brigate Al-Quds, ala militare del PIJ. Il nome di Dahdouh compare di fianco alla cifra di 224 dollari. Nella dichiarazione l’esercito israeliano cita un secondo documento che definirebbe Thuraya come un vice comandante di squadrone del battaglione al-Qadisiyyah della brigata di Gaza City di Hamas, ma non ha reso pubblico il documento e non ha risposto alle numerose richieste di esaminarlo.

L’esercito israeliano ha anche rifiutato di rispondere ad altre domande relative ai documenti, tra cui quando fossero stati trovati e se la loro scoperta fosse legata all’attacco pianificato del 7 gennaio.

Michael Milshtein, ex-capo del dipartimento per gli affari palestinesi dell’intelligence militare delle IDF, afferma di non sapere se il documento con il nome di Dahdouh sia autentico, ma che esso segue “il formato standard di un documento del PIJ.”

“Penso davvero che se il portavoce dell’esercito lo ha reso pubblico sia autentico,” aggiunge. Altri esperti sono dubbiosi.

Potrebbe essere autentico, ma niente di quanto finora ha fornito l’esercito israeliano lo conferma,” sostiene Erik Skare, storico e ricercatore post-dottorato dell’università di Oslo che ha scritto un libro sulla storia del PIJ. Afferma che l’uso del linguaggio, soprattutto i nomi di zone geografiche, è inusuale, così come la mescolanza di testo in inglese e arabo in un documento presumibilmente pensato per uso interno.

Al Jazeera ha respinto le accuse contro i suoi reporter, definendole “un tentativo di giustificare l’uccisione e il fatto di prendere di mira giornalisti.”

Amici e familiari dei reporter uccisi evidenziano che nelle settimane precedenti alla loro morte erano stati sottoposti a controlli di sicurezza da parte dell’esercito israeliano. Entrambi avevano attraversato checkpoint da Gaza City per raggiungere il sud. Dicono che Dahdouh aveva ottenuto il permesso di andarsene da Gaza.

Secondo suo padre e un ufficiale intervistato sul suo caso, che ha parlato in condizione di anonimato trattandosi di un argomento sensibile, sei settimane dopo la morte di sua madre e di due fratelli e poco prima della sua morte, Dahdouh era stato autorizzato a lasciare l’enclave bloccata.

Un permesso di sicurezza probabilmente avrebbe richiesto l’approvazione del COGAT, un ente del ministero della Difesa israeliano che autorizza chi può entrare e uscire da Gaza. Il Post ha fornito al COGAT il nome e il numero della carta d’identità di Dahdouh per ricevere conferma se aveva l’autorizzazione ad andarsene, ma non ha ottenuto risposta.

Khan, la relatrice speciale dell’ONU, sostiene che è urgentemente necessaria un’indagine sulle uccisioni. “Se sono stati in grado di fornire così tante informazioni sicuramente ne hanno molte di più,” dice. “Hanno la responsabilità di controllare e di vedere se sono stati fatti degli errori.”

Wael Dahdouh ha lasciato Gaza il 17 gennaio per essere curato delle ferite ma ha giurato di tornare a informare. Altri giornalisti da allora sono scappati dall’enclave o hanno smesso di fare il loro lavoro, nel timore di poter essere i prossimi [a venire uccisi].

Piper e Harb hanno informato da Londra, Cahlan da Washington e Balousha da Amman, Giordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guerra a Gaza: la sinistra israeliana ha rapidamente perso ogni compassione per i palestinesi

Orly Noy

16 marzo 2024 MiddleEastEye

La simpatia dei progressisti israeliani per i palestinesi era basata sulla mentalità coloniale secondo cui i sottomessi sono inferiori e dovrebbero essere loro grati per il sostegno.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la guerra che Israele ha lanciato da allora hanno introdotto una nuova categoria concettuale di persone nel vocabolario ebraico-israeliano: i “disillusi” – cioè le persone che si sono ora “ripresi dalla sbornia”.

Queste persone continuano a dire che, fino al 7 ottobre, erano umanisti propugnatori di pace e che per loro l’attacco di Hamas ha cambiato tutto: di conseguenza hanno cambiato pelle e ora sostengono con passione il genocidio che Israele sta perpetrando a Gaza.

Per più di cinque mesi hanno continuato a fustigarsi a vicenda per il peccato di una loro precedente innocenza di sinistra. Dopo un’adeguata assoluzione rituale, rientrano in seno alla tribù e vengono lavati dal perdono in nome del popolo e della nazione.

Da tempo noiosamente lungo, il numero di questi disillusi continua ad aumentare. Molti dei nuovi aggiunti provengono dall’industria dell’intrattenimento e si identificano con il campo progressista. A tutti spettano i 15 minuti di celebrità per ribadire argomenti stereotipati: credevo nella pace, volevo la convivenza, ma il 7 ottobre ho scoperto che dall’altra parte non ci sono esseri umani, solo animali umani che vanno combattuti ad oltranza.

La purificazione rituale è completata da espressioni di amore e apprezzamento per “le Forze di Difesa Israeliane, l’esercito più morale del mondo”, oltre a ringraziamenti e congratulazioni ai nostri eroici soldati, e a una pseudo indignazione per la difficile situazione degli ostaggi.

Come ha detto il veterano attore Hanny Nahmias, “[Noi] eravamo i più favorevoli alla coesistenza” – ma ora ci vuole una guerra “fino alla fine”.

Obiettivi legittimi

Se consideriamo con attenzione i nuovi disillusi, il problema non sembra essere in primo luogo la loro nuova, diversa posizione – che ora spesso abbraccia lo sterminio totale dei palestinesi a Gaza.

Ad esempio, il popolare cantante Idan Raichel, che è generalmente associato a valori progressisti e spesso collabora con musicisti della comunità etiope, è indignato per il fatto che gli abitanti di Gaza – sfollati, brutalizzati, assetati e affamati – non entrino nei tunnel e combattano Hamas, anche a costo di migliaia di vittime, per ottenere il ritorno di tutti gli ostaggi.

Raichel conclude che, visto che non lo fanno, dovrebbero essere considerati complici dei crimini di Hamas e quindi obiettivi legittimi degli attacchi di Israele.

In effetti, il problema con queste persone recentemente disilluse sembra piuttosto risiedere nell’interpretazione della loro posizione “di sinistra” precedente la disillusione.

In un’intervista al programma del comico Shalom Assayag Stronger Together, l’attrice e presentatrice televisiva Tzufit Grant ha dichiarato che “il mio credo di sinistra non esiste più: pensavo che fossimo ugualmente umani, e invece no”.

Il 7 ottobre, secondo le sue parole, gli aggressori hanno ucciso “la parte umanitaria del mio cervello, l’irrefrenabile compassione, [l’idea che] ‘siamo tutti esseri umani’”.

Grant non crede più che siamo tutti umani. E dunque?

Descrive gli oltre due milioni di palestinesi a Gaza con un vocabolario ripugnante per una per cui, fino a poco tempo fa, l’amore per l’umanità era la luce guida.

Puro narcisismo

Grant non è sola. Forse il sentimento più forte a cui fanno più volte riferimento molti dei nuovi disillusi è l’amarezza: i palestinesi li hanno “persi”.

Loro, gli esponenti della sinistra che affermano di essere stati in passato assolutamente convinti della coesistenza considerando ogni persona un essere umano… e la loro “ricompensa” è stato un attacco criminale il 7 ottobre.

Sì, l’attacco di Hamas alle comunità adiacenti a Gaza è stato terrificante. Ma attenzione all’idea che la semplice buona volontà del padrone dovesse essere sufficiente a soddisfare i palestinesi, che avrebbero dovuto essere grati per la gentilezza del padrone e continuare a sopportare la loro oppressione in silenzio. (Ah, quella nostalgia dei “bei vecchi tempi” quando i palestinesi di Gaza, grazie alla gentilezza di Israele, potevano entrare in Israele per lavorare come operai a giornata ed esserne grati!)

Questo atteggiamento è, nella migliore delle ipotesi, puro narcisismo, non una posizione politica basata su un’analisi della realtà e delle sue distorte relazioni di potere.

Alcuni osservatori dicono ripetutamente che molti dei residenti nelle comunità adiacenti a Gaza che sono state attaccate il 7 ottobre erano persone in cerca di pace, alcuni addirittura attivisti che si offrivano regolarmente volontari per portare i bambini di Gaza dal valico di Erez agli ospedali israeliani – un riferimento inteso a raffigurare i palestinesi come ingrati e a giustificare il cambiamento delle loro posizioni politiche.

Questo atteggiamento è viziato dalla stessa depoliticizzazione narcisistica che vede tutto attraverso la lente delle buone intenzioni di (alcuni) israeliani.

Indubbiamente, offrirsi volontari per trasportare i palestinesi malati da Gaza è un atto nobile e i volontari sono persone le cui azioni erano spinte dalla moralità e dalla coscienza. Ma una posizione politica considera il contesto più ampio in cui questo volontariato ha luogo: vale a dire l’assedio a lungo termine della Striscia di Gaza da parte di Israele e la distruzione della maggior parte delle sue infrastrutture civili.

Tale posizione si interrogherebbe su come si sia realizzata questa situazione in cui i civili palestinesi a Gaza devono fare affidamento sulla generosità di buoni israeliani e non possono ricevere cure mediche adeguate nella stessa Gaza. Si chiederebbe perché non ci siano ospedali adeguati a Gaza, e chi impedisca ai palestinesi di costruirli, e con quale diritto.

Abbracciare il tribalismo

Questa posizione metterebbe in luce il significato di una negazione così ampia della libertà di movimento per milioni di persone da necessitare del permesso del signore supremo non solo per entrare in Israele ma anche per viaggiare nei territori palestinesi in Cisgiordania. Sottolineerebbe anche la natura del regime che per decenni ha controllato ogni respiro di milioni di soggetti privati dei diritti civili, e capirebbe che un tale regime inevitabilmente avrebbe provocato una rivolta. E, contrariamente a tutti i tentativi di controllare il modo in cui queste realtà vengono presentate al consumo pubblico, comprenderle accuratamente non equivarrebbe a sostenere la violenza né a giustificarla, ma al contrario: un’analisi imparziale di questa realtà sanguinosa ci permetterebbe di uscirne.

Un concetto a cui al massimo può aspirare il suddito è il riconoscimento del suo essere umano da parte del padrone, riconoscimento che può essere negato con la stessa facilità con cui è stato concesso se il suddito “delude”: è il segno distintivo della situazione coloniale.

In questa situazione, il padrone si ritiene così superiore al soggetto che quest’ultimo dovrebbe essere grato per ogni momento in cui la presa del padrone sulla sua gola si allenta, mentre ogni resistenza alla minaccia sempre presente di uno strangolamento equivale a ingratitudine.

Questi sono gli stessi “uomini di sinistra del passato” che, oltre alla delusione nei confronti dei palestinesi, hanno anche improvvisamente scoperto le gioie di abbracciare il tribalismo come evidentemente ha fatto Tzufit Grant.

Dal 7 ottobre, racconta, avrebbe voluto camminare tutto il giorno per le strade e baciare gli israeliani: “Sono diventata molto israeliana, molto ebrea”.

Purtroppo, disastrosamente, nell’Israele di oggi, tutto ciò sembrerebbe implicare la separazione non solo dalla “porzione umanitaria” del cervello, ma dal cervello stesso.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I medici di Gaza hanno riferito alla BBC che le truppe israeliane li hanno picchiati e umiliati dopo i raid in ospedale

Alice Cuddy

12 marzo 2024 BBC

Il personale medico palestinese a Gaza ha detto alla BBC che sono stati bendati, trattenuti, costretti a spogliarsi e ripetutamente picchiati dalle truppe israeliane dopo l’attacco al loro ospedale il mese scorso.

Ahmed Abu Sabha, un medico dell’ospedale Nasser, ha raccontato di essere stato detenuto per una settimana in cui, ha detto, è stato aggredito da cani con la museruola e gli è stata rotta una mano da un soldato israeliano.

Il suo racconto combacia perfettamente con quello di altri due medici che hanno voluto restare anonimi per paura di ritorsioni.

Hanno raccontato alla BBC di essere stati umiliati, picchiati, inzuppati con acqua fredda e costretti a inginocchiarsi in posizioni scomode per ore. Hanno detto di essere stati detenuti per giorni prima di essere rilasciati.

La BBC ha dato i dettagli delle loro accuse alle Forze di Difesa Israeliane (IDF). Non hanno risposto direttamente alle domande su quei resoconti, né hanno negato specifiche accuse di maltrattamenti. Ma hanno negato che il personale medico sia stato maltrattato durante l’operazione.

Hanno affermato che “qualsiasi abuso sulle persone fermate è contrario agli ordini dell’IDF ed è quindi severamente proibito”.

Il 15 febbraio l‘IDF ha fatto irruzione nell’ospedale di Khan Younis, nel sud di Gaza, uno dei pochi nella Striscia ancora funzionante, affermando che secondo l’intelligence l’ospedale ospitava agenti di Hamas.

Hanno detto anche che vi erano stati trattenuti ostaggi israeliani presi da Hamas il 7 ottobre – e alcuni degli ostaggi hanno pubblicamente confermato di essere stati trattenuti a Nasser. Hamas ha negato che i suoi combattenti operino all’interno di strutture mediche.

Un filmato girato di nascosto in ospedale il 16 febbraio, il giorno in cui i medici sono stati arrestati, è stato condiviso con la BBC.

Mostra una fila di uomini in mutande davanti all’edificio del pronto soccorso dell’ospedale, inginocchiati con le mani dietro la testa. Davanti ad alcuni di loro giacciono camici medici.

“Chiunque abbia provato a muovere la testa o a fare qualsiasi movimento è stato picchiato“, ha detto alla BBC il primario dell’ospedale dottor Atef Al-Hout. “Li hanno lasciati per circa due ore in quella posizione vergognosa.”

L’IDF ha dichiarato alla BBC: “Di norma, durante il processo di arresto, è spesso necessario che i sospetti terroristi consegnino i loro vestiti in modo che possano essere perquisiti e per assicurarsi che non nascondano giubbotti esplosivi o altre armi.

“I vestiti non vengono restituiti immediatamente ai detenuti, per il sospetto che possano nascondere mezzi utilizzabili per scopi ostili (come coltelli). I vestiti vengono restituiti ai detenuti quando è possibile farlo.”

Il personale medico ha detto che sono stati poi portati in un edificio ospedaliero e picchiati, e poi trasportati mezzi nudi in una struttura di detenzione.

Il dottor Abu Sabha, medico 26enne appena qualificato e volontario a Nasser, ha descritto alcuni momenti del suo trattamento durante la detenzione, torture come far stare i detenuti in piedi per ore senza pausa. Ha detto che altre punizioni inflitte ai detenuti erano di metterli a pancia in giù per lunghi periodi e di procrastinare i pasti.

Un esperto di diritti umani ha affermato che il filmato e la testimonianza del personale medico intervistato dalla BBC sono “estremamente preoccupanti”. Ha detto che alcuni dei resoconti forniti alla BBC “rientrano molto chiaramente nella categoria di trattamento crudele e disumano”.

Lawrence Hill-Cawthorne, co-direttore del Centro per il Diritto Internazionale dell’Università di Bristol, ha dichiarato: “Questo va contro ciò che è stata per molto tempo un’idea fondamentale del diritto da applicare nei conflitti armati, ovvero che gli ospedali e il personale medico vanno protetti.”

“Il fatto che curino cittadini dello schieramento nemico non deve in alcun modo minare la loro tutela“, ha affermato.

La BBC ha indagato sulla vicenda dell’ospedale per diverse settimane, parlando con medici, infermieri, farmacisti e sfollati accampati nel cortile. Abbiamo effettuato un controllo incrociato dei dettagli dei racconti.

Ci sono stati forniti i nomi di 49 membri del personale medico di Nasser che si ritiene siano stati detenuti. Di questi, 26 sono stati nominati da più fonti: i medici sul campo, il Ministero della Sanità gestito da Hamas, alcune associazioni internazionali e le famiglie delle persone scomparse.

I tre medici che affermano di essere stati arrestati e successivamente rilasciati non hanno ancora reso pubblico il loro resoconto. Fra loro abbiamo intervistato due volte il dottor Abu Sabha. La sua storia è apparsa coerente e abbiamo verificato i punti chiave del suo resoconto in maniera indipendente.

Le famiglie di altri cinque medici dell’ospedale hanno detto alla BBC che i loro cari sono scomparsi. Inoltre, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha confermato alla BBC di aver ricevuto decine di telefonate da persone che affermano che i loro familiari, compresi alcuni medici che erano a Nasser, sono scomparsi.

I medici rimasti a Nasser affermano che l’operazione dell’IDF presso l’ospedale ha reso impossibile prendersi cura dei pazienti. Secondo il primario dottor Hout quando l’IDF ha preso il controllo vi venivano curati quasi 200 pazienti, molti dei quali “costretti a letto”, di cui sei nell’unità di terapia intensiva.

Il personale autorizzato a rimanere ha detto di aver ricevuto l’ordine di spostare pazienti gravemente malati tra gli edifici, di aver dovuto interrompere il proprio lavoro per essere interrogati e di aver ricevuto in carico pazienti che non erano preparati a gestire, il tutto lavorando in condizioni soffocanti e antigeniche.

Numerosi medici hanno affermato che 13 pazienti sono morti nei giorni successivi all’occupazione da parte di Israele.

Hanno detto che molti fra questi pazienti sono morti a causa delle condizioni dell’ospedale, inclusa la mancanza di elettricità, acqua e altri beni essenziali necessari per far funzionare Nasser. Non è possibile verificarlo in modo indipendente. Un medico ha condiviso foto di corpi in sacchi sui letti che, come abbiamo verificato, sono state scattate in un reparto dell’ospedale.

L’IDF ha detto alla BBC di aver “fornito all’ospedale centinaia di razioni di cibo e un generatore alternativo che ha permesso di continuare a funzionare e curare i pazienti ricoverati“.

I “sistemi essenziali” dell’ospedale avrebbero continuato a funzionare durante le operazioni dell’IDF grazie a un sistema continuo di alimentazione elettrica, hanno affermato.

Il 18 febbraio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che l’ospedale era a corto di cibo e forniture mediche di base e aveva cessato di funzionare. I restanti pazienti sono stati inviati in altri ospedali intorno a Gaza e il personale medico che vi lavorava se n’è andato poco dopo.

Un dottore: “Pensavo che mi avrebbero giustiziato”

I detenuti rilasciati e altri medici hanno detto alla BBC che l’edificio della maternità, chiamato Mubarak, è diventato il luogo in cui l’IDF interrogava e picchiava il personale. Il dottor Abu Sabha ha detto che inizialmente era stato scelto perché stesse con i pazienti dopo il raid, ma in seguito è stato portato a Mubarak che secondo lui era diventato “praticamente un luogo di tortura”.

Tutti e tre i detenuti con cui ha parlato la BBC hanno affermato di essere stati stipati con molti altri su veicoli militari e picchiati mentre venivano trasportati. I soldati li hanno picchiati con bastoni, tubi, calci di fucili e pugni, hanno detto.

“Eravamo nudi. Indossavamo solo dei boxer. Ci hanno ammassati uno sopra l’altro. E ci hanno portato fuori da Gaza”, ha detto uno dei medici che ha voluto rimanere anonimo. “Per tutto il percorso siamo stati picchiati, insultati e umiliati. E ci hanno versato addosso acqua fredda”.

Il dottor Abu Sabha ha detto che durante il viaggio i soldati hanno fatto scendere i detenuti dal veicolo. “Ci hanno portato su un pezzo di terreno coperto di ghiaia, ci hanno costretto a inginocchiarci e bendato gli occhi… C’era una fossa nel terreno e pensavamo che ci avrebbero giustiziati e seppelliti qui. Abbiamo iniziato tutti a pregare. “

Ha detto che è stato poi portato in un edificio dove lui e gli altri detenuti sarebbero stati detenuti.

Gli altri due detenuti rilasciati hanno detto che ad un certo punto sono stati sottoposti a controlli medici ma non medicati. Uno ha detto che invece di ricevere cure per una ferita, un soldato dell’IDF lo ha colpito nel punto in cui era ferito.

“Mi hanno messo sopra una sedia ed era come per un’impiccagione“, ha detto. “Ho sentito il rumore delle corde, quindi ho pensato che sarei stato giustiziato.

“Dopo di che hanno rotto una bottiglia e [col vetro] mi hanno fatto dei tagli sulla gamba e hanno lasciato che sanguinasse. Poi hanno iniziato a portare dentro un medico dopo l’altro e hanno iniziato a metterli uno accanto all’altro. Sentivo i loro nomi e le loro voci.”

L’IDF ha detto alla BBC che “non effettua e non ha effettuato finte esecuzioni di detenuti e respinge tali affermazioni”.

Tutti e tre i detenuti con cui ha parlato la BBC hanno affermato di essere stati stipati in massa su veicoli militari e picchiati mentre venivano trasportati. I soldati li hanno picchiati con bastoni, manichette, calci di fucili e pugni, hanno detto.

Il dottor Abu Sabha ha detto alla BBC che i detenuti venivano regolarmente puniti per quelle che erano ritenute infrazioni. “A un certo punto, la benda mi si è abbassata un po’ ma avevo le mani ammanettate sulla schiena e non potevo aggiustarla.

“Mi hanno portato fuori per la punizione… mi hanno lasciato in piedi con le mani alzate sopra la testa e il viso rivolto in basso per tre ore. Poi, lui [un soldato] mi ha chiesto di avvicinarmi. L‘ho fatto, lui ha preso a colpirmi la mano finché non me l’ha rotta.”

Più tardi quello stesso giorno è stato portato in bagno, picchiato e gli hanno aizzato contro cani con la museruola, ha raccontato.

Il giorno dopo, un medico israeliano gli ha fatto un gesso e poi i soldati gli hanno disegnato sopra una stella di David, ha continuato. Quel gesso è stato poi cambiato da un medico di Gaza e Ahmed l’aveva ancora durante la sua intervista con la BBC.

La BBC ha confermato che dopo la sua detenzione il dottor Abu Sabha si è sottoposto a una radiografia e ha dovuto curarsi una mano rotta in un ospedale da campo a Gaza, e che è arrivato lì con un gesso con disegnata una stella di David.

L’IDF non ha risposto alle domande della BBC sull’ingessatura del dottor Abu Sahba.

A nessuno dei tre medici sono state fatte accuse specifiche, ma due hanno affermato che gli interrogatori si sono concentrati sulla presenza di ostaggi o combattenti di Hamas all’interno dell’ospedale.

Hanno detto che è stato loro chiesto anche dove si trovassero il 7 ottobre, quando uomini armati di Hamas hanno fatto irruzione da Gaza in Israele uccidendo circa 1.200 persone, prendendone in ostaggio altre 253. Si ritiene che più di 130 ostaggi siano ancora detenuti da Hamas. Funzionari israeliani hanno detto che almeno 30 di loro sono morti.

Il Ministero della Sanità a Gaza, gestito da Hamas, afferma che più di 31.000 persone sono state uccise dagli attacchi aerei di ritorsione di Israele e dalloffensiva di terra in corso.

Uno dei detenuti rilasciati ha detto che due giorni dopo essere stato interrogato, gli ufficiali dell’IDF gli hanno detto che non c’erano prove e che sarebbe stato rilasciato.

“Gli ho chiesto: ‘Chi mi risarcirà di tutte le percosse e le umiliazioni che ho subito, che mi avete fatto, mentre sapevo che non ero colpevole di nulla?’ Ha cominciato a borbottare: Non ho niente contro di te. Nessuna accusa“.

Il dottor Abu Sabha ha detto alla BBC di non essere mai stato interrogato durante i suoi otto giorni di detenzione.

I tre medici con cui abbiamo parlato dicono di essere stati riportati a Gaza bendati dopo il rilascio.

La BBC ha confermato il resoconto del dottor Abu Sabha secondo cui sarebbe rientrato a Gaza dal valico di Kerem Shalom, controllato da Israele, vicino al punto più meridionale della Striscia dove si incontrano Gaza, Israele ed Egitto.

I resoconti dei medici sono in contrasto con un diverso resoconto fornito alla BBC da un alto funzionario dell’IDF, che afferma non fosse stato effettuato alcun arresto del personale medico a Nasser, “a meno che non sapessimo che fosse possibile ottenere questa o quella informazione di intelligence” da loro.

“Avevamo ragionevoli motivi per ritenere che avessero delle informazioni, quindi li abbiamo presi per interrogarli e porgli delle domande, ma non oltre”, ha detto il funzionario.

“Non c’erano manette, non li abbiamo portati via per interrogatori, né in arresto anticipato, ma allo scopo di interrogarli e cercare di ottenere informazioni sugli ostaggi o sui comandanti di Hamas che erano in ospedale… un interrogatorio molto semplice e questo è quanto.”

Alcuni ostaggi prelevati da Israele il 7 ottobre hanno raccontato di essere stati portati nel complesso ospedaliero di Nasser in ambulanza. Una donna presa in ostaggio e rilasciata ha detto che suo marito, che è ancora a Gaza, era coperto da un lenzuolo per sembrare un cadavere.

Hanno descritto di essere stati tenuti in stanze piccole e costretti a chiamare se avevano bisogno di andare in bagno. Uno ha descritto il periodo trascorso in prigionia come “guerra psicologica”.

L’IDF afferma di aver scoperto che Hamas ha utilizzato l’ospedale Nasser

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) afferma che dal 7 ottobre Israele ha sospeso le visite ai detenuti, il che significa che non ha più potuto visitare alcun detenuto.

Ha detto alla BBC che sono “profondamente preoccupati” per le notizie di arresti e continue detenzioni di medici.

“Ovunque e chiunque essi siano, i detenuti devono essere trattati umanamente e con dignità in ogni momento, in conformità con il diritto internazionale umanitario”, affermano.

“Il CICR ha continuamente richiesto, ed è pronto a riprendere immediatamente, le visite ai detenuti al fine di monitorare il trattamento e le condizioni di detenzione.”

Un rapporto interno delle Nazioni Unite visto dalla BBC descrive diffusi abusi nei confronti dei palestinesi che sono stati catturati e interrogati nei centri israeliani di detenzione improvvisati dall’inizio della guerra, e sono simili ai resoconti forniti dai medici. L’IDF ha precedentemente negato accuse specifiche contenute nel rapporto delle Nazioni Unite, compreso il rifiuto dell’accesso all’acqua, alle cure mediche e alla biancheria da letto.

A Nasser “l’ospedale riusciva a malapena a funzionare”

Nel frattempo nell’ospedale Nasser è stato permesso ad alcuni medici di restare e prendersi cura dei restanti pazienti. Alcuni pazienti erano stati arrestati durante il raid, secondo il primario dottor Hout.

In un video fornitoci da un testimone oculare di Nasser, i soldati dell’IDF trasportano due letti d’ospedale e le mani degli occupanti sono alzate sopra la testa e legate. Abbiamo verificato che fosse autentico.

In un filmato separato pubblicato dall’IDF, si possono vedere persone sdraiate sui letti nell’area dell’ospedale con le mani legate e le braccia sollevate in una posizione simile. Non sappiamo chi siano queste persone o cosa sia successo loro dopo questo filmato.

L’IDF ha affermato: “Sottolineiamo che le mani dei pazienti che non erano sospettati di coinvolgimento nel terrorismo non erano legate”.

I medici rimasti temevano di essere uccisi se avessero sfidato l’ordine di non lasciare l’edificio, ha detto alla BBC il dottor Hatim Rabaa, che lavorava anche lui al Nasser, in una telefonata il 22 febbraio mentre in sottofondo risuonavano le esplosioni. Tuttavia, sono scesi nel cortile per prendere acqua, temendo che i pazienti altrimenti sarebbero morti, ha detto.

“La gente moriva di sete. Sulle spalle portavo 12 litri d’acqua per darla da bere. Cos’altro potevo fare?”

Diversi medici hanno affermato che l’IDF non avrebbe concesso loro il permesso di seppellire o addirittura spostare i corpi dei pazienti morti in seguito all’operazione. I corpi sono rimasti all’interno insieme al personale e ai pazienti e cominciavano a decomporsi, hanno detto i medici.

“L’odore riempiva tutto il reparto“, ha detto il dottor Rabaa. “I pazienti gridavano ‘per favore portateli via da qui’. Io gli dicevo ‘non posso deciderlo io‘.”

Il dottor Rabaa faceva parte di un piccolo gruppo di medici scelti per rimanere con i pazienti. Ha detto che anche lui era stato spogliato fino alla biancheria intima e fatto inginocchiare davanti al pronto soccorso, ma poi è stato portato via nell’edificio dove erano tenuti i pazienti.

Ha detto che non sa cosa sia successo ai suoi colleghi che ha lasciato nel cortile.

La BBC ha posto all’esercito israeliano domande dettagliate sulle accuse.

Nella sua risposta, l’IDF ha detto alla BBC che “sono stati arrestati circa 200 terroristi e sospetti di attività terroristica, compresi alcuni che si sono spacciati per squadre mediche”. Hanno detto che “sono state trovate molte armi, nonché medicinali chiusi destinati agli ostaggi israeliani”.

Hanno affermato di aver operato in “modo preciso e mirato, creando danni minimi all’attività in corso dell’ospedale e senza danneggiare i pazienti o il personale medico”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Ecco cosa dice in realtà per conto dell’ONU Pramilla Patten nel suo rapporto sulle violenze sessuali del 7 ottobre

Rete di solidarietà femminista per la Palestina

11 marzo 2024 – Mondoweiss

Il rapporto dell’ONU sulle violenze sessuali del 7 ottobre non ha evidenziato prove di stupri sistematici da parte di Hamas o di qualsiasi altro gruppo palestinese, nonostante i media abbiano ampiamente riportato il contrario. Ma ci sono problemi più profondi riguardo alla credibilità del rapporto.

Negli ultimi quattro mesi una campagna propagandistica concertata, organizzata dal governo israeliano e amplificata attraverso vari organi d’informazione occidentali, ha accusato Hamas di aver usato il 7 ottobre lo stupro come arma di guerra. Dichiarazioni su una pianificazione e messa in atto da parte di Hamas di violenze sessuali (con atti che vanno dal fortemente grottesco all’apertamente feticistico e bizzarro) sono state usate per dipingere la resistenza palestinese come disumana e per giustificare il genocidio in corso a Gaza da parte di Israele. Analisi recenti che dimostrano il carattere fallace di queste affermazioni invenzioni, errori materiali e cattive pratiche giornalistiche, asserzioni di testimoni e primi soccorritori non attendibili, affiliazioni militari israeliane di fonti chiave, nonché l’assenza di prove legali o di attestazioni video o fotografiche hanno aperto una breccia nell’opinione corrente.

Il 4 marzo la Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, ha pubblicato un rapporto basato su una visita condotta dal 29 gennaio al 14 febbraio in Israele e nella Cisgiordania occupata per raccogliere, analizzare e verificare le accuse di violenze sessuali legate al conflitto commesse secondo quanto riferito durante i brutali attacchi terroristici condotti da Hamas il 7 ottobre 2023. Il rapporto, che descrive in dettaglio i risultati del sopralluogo di Patten, è emerso in un momento cruciale. Contemporaneamente, mentre la narrazione israeliana secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche si sta sgretolando, e gli organi di informazione che hanno diffuso tale narrazione sono sotto pressione, il rapporto viene ampiamente proclamato come una difesa di entrambi [Israele e organi di informazione, ndt.].

La nostra analisi mostra che questo non è vero. Il rapporto, infatti, non giunge a molte delle conclusioni per le quali viene elogiato dagli organi di informazione occidentali e molte delle sue conclusioni destabilizzano la narrazione israeliana. Nel rilevare tali conclusioni segnaliamo che il rapporto contiene gravi limiti e discrepanze. È importante capire perché non ci si può fidare del rapporto, dal momento che ha dato nuova vita alla macchina propagandistica sugli stupri di massa utilizzata per giustificare il genocidio di Israele a Gaza.

1. La mancata indagine e i problemi riguardo la metodologia di Patten

Lufficio di Patten non ha né i mezzi né il mandato per indagare su quanto accaduto il 7 ottobre, e le sue risultanze non soddisfano lo standard legale della prova. Al contrario, lufficio della Rappresentante Speciale sulla Violenza Sessuale nei conflitti ha il compito di raccogliere informazioni” e impegnarsi nelpatrocinio legale”.

Ironicamente è proprio lassenza di qualsiasi capacità o potere di indagare che probabilmente ha indotto Israele a rivolgere un invito a Patten. Questo nonostante il rifiuto di Israele di collaborare con lindagine ufficiale dell’ONU attualmente in corso. Nonostante Patten non abbia nascosto che la sua principale preoccupazionenel produrre il rapporto sia stata quella di fare di tutto per gli ostaggi rimasti, ciò che rende la sua missione utile a Israele è la sua compiacenza e deliberata ignoranza nel momento in cui non indaga sulla serie di fatti connessi al 7 Ottobre il suo prima e dopo, contestualmente e storicamente. Non c’è da stupirsi che la missione di Patten abbia goduto della piena cooperazionedel governo israeliano (paragrafo 32), dal momento che era noto in anticipo che la missione non avrebbe potuto anzi, non avrebbe voluto sondare troppo in profondità.

Dopo la pubblicazione del recente rapporto sulla sua missione Patten ha sostenuto che qualsiasi verdetto definitivo sulle violenze sessuali avvenute il 7 ottobre richiederebbe un’indagine ufficiale delle Nazioni Unite.[1] [2] Ma è proprio questa indagine dellONU, presieduta da Navi Pillay, già in corso, che il governo israeliano ha più volte bloccato. Il 15 gennaio, ad esempio, Israele ha dato istruzioni ai medici che avevano curato i sopravvissuti del 7 ottobre di non collaborare con gli investigatori dell’ONU. Lo stesso rapporto di Patten cita la mancanza di cooperazione da parte dello Stato di Israele con gli organi competenti delle Nazioni Unite dotati di mandato investigativo. (Paragrafo 55) Eppure, allo stesso tempo, Israele presenta in modo fuorviante il rapporto di Patten come una convalida dell’ONU alla sua affermazione secondo cui Hamas il 7 ottobre avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche.

Per dimostrare quanto sia facile fare uso strumentale del rapporto di Patten, dobbiamo solo ricercare nel suo contesto il significato di “informazione credibile. Durante il suo incontro con i giornalisti Patten ha ripetutamente legittimato il rapporto sostenendo che seguirebbe la metodologia dell’ONU. Ma un esame più attento rivela che quando l’applicazione dell’onere della provautilizzata dagli organi investigativi dell’ONU – “ragionevoli motivi per ritenere” – viene trasferita in un contesto in cui non è possibile alcuna indagine le informazioni possono facilmente essere distorte e utilizzate come armi (paragrafo 26). Nel rapporto le interviste con testimoni secondari anonimi costituiscono alcune delle principali fonti di informazioni credibilima la loro inclusione si basa sulla valutazione personale della credibilità e affidabilità dei testimoni incontratida parte del team della missione. (Paragrafo 26)

In altre parole, ci viene chiesto di fidarci del giudizio di Patten e di prendere il suo rapporto per oro colato. Tale fiducia sarebbe stata più facile se il rapporto avesse incluso citazioni o riferimenti che spiegassero le fonti su cui si basa a proposito delle sue informazioni credibili. Pur comprendendo che le informazioni sensibilidebbano essere rese anonime quando si ha a che fare con dei testimoni (par. 31), ciò oltrepassa il confine delloccultamento quando le informazioni in questione provengono da istituzioni nazionali israeliane o organizzazioni della società civile; le pubblicazioni non vengono citate, né viene identificato alcun funzionario governativo o primo soccorritore (anche se questi hanno già emesso dichiarazioni pubbliche).

Sappiamo, ad esempio, che Patten ha parlato con uomini della ZAKA [vedi infra, ndt] come Yossi Landau (come lei stessa ha ammesso nella conferenza stampa). Landau è stato una figura centrale nella diffusione di false storie intorno al 7 ottobre, tutte ora screditate. Mentre il rapporto di Patten confuta una falsa storia su una donna incinta [a Be’eri] il cui ventre sarebbe stato squarciato prima di essere uccisa e il feto pugnalato mentre era ancora dentro di lei(paragrafo 65), storia che origina anch’essa da Landau, ripete anche, senza metterle in discussione, altre affermazioni fatte pubblicamente da Landau. Ad esempio, il rapporto avalla le ragioni fornite da Landau al New York Times secondo cui il numero limitato di foto scattateda gruppi volontari di ricerca e salvataggio sarebbe dovuto alla loro estrazione religiosa conservatricee per rispetto al defunto” (paragrafo 46) – il tutto senza mai nominare Landau.

Trasmettere queste informazioni in termini generici, senza fonti o attribuzioni, conferisce alle stesse unaura di obiettività” e imparzialità”. Questa mancanza di trasparenza rende quasi impossibile pesare e valutare le informazioni che riceviamo dal rapporto.

Un ulteriore problema è legato al fatto che il piccolo numero di testimoni della violenza sessuale del 7 ottobre sia già stato ampiamente screditato. Si è scoperto che molti hanno mentito esplicitamente nella loro testimonianza, la maggioranza ha legami diretti o indiretti con l’esercito israeliano, tutti i testimoni chiave hanno cambiato la loro testimonianza in modo abbastanza significativo da minare la loro credibilità, e molti appartengono all’organizzazione sionista conservatrice ZAKA, che, secondo il portavoce Yehuda Meshi-Zahav, si considera un braccio del ministero degli Affari esteri”.

Sappiamo già che la squadra di Patten, nonostante abbia lanciato un appello pubblico, non ha incontrato un solo sopravvissuto alla violenza sessuale dal 7 ottobre (par. 48). A meno che Patten, con pochi contatti sul campo e di fronte a quella che lei stessa ha definito disponibilità estremamente limitata di vittime sopravvissute e testimoni di violenze sessuali, sia stata in qualche modo in grado di evocare una serie completamente nuova di testimoni nell’arco di due settimane dobbiamo presupporre che i testimoni credibilidi Patten provengano da questo gruppo già screditato. È quindi altamente improbabile che siano credibili.

Ancora più problematica è lassenza di citazioni delle fonti, data la provenienza di gran parte delle informazioni contenute nel rapporto. Il rapporto stesso afferma che il raggiungimento dell’obiettivo della squadra è stato limitato dal fatto che le informazioni su cui faceva affidamento provenivano in gran parte da istituzioni nazionali israeliane(Paragrafo 55) fra cui: il Presidente di Israele e la First Lady, i ministeri competentile Forze di Difesa Israeliane (IDF), lAgenzia di Sicurezza Israeliana (Shin Bet), e la Polizia Nazionale israeliana incaricata delle indagini sugli attacchi del 7 ottobre (Lahav 433); [e] diversi incontri di lavoro alla base militare di Shura, lobitorio in cui furono trasferiti i corpi delle vittime, nonché un incontro al Centro Nazionale Israeliano di Medicina Legale” (par. 33).

In tutto, la squadra ha condotto 33 incontri con rappresentanti delle istituzioni nazionali israeliane. (par. 33) Rendere tali informazioni generiche e comunicarle con tono impersonale oscurando le fonti dà lillusione di obiettività”, anche se il rapporto rimane fortemente dipendente dalle fonti israeliane. In quanto tale, il rapporto non è solo metodologicamente imperfetto, ma anche pericoloso.

Nella conferenza stampa del 4 marzo Patten ha ammesso che, senza unindagineci occuperemmo delle violenze sessuali praticamente nel vuoto(Minuto 20:36, corsivo nostro). Questa decontestualizzazione consente di far finta che le storie degli stupri di massa del 7 ottobre non abbiano avuto un ruolo persistente nel giustificare il genocidio di Gaza. In questo senso, la mossa di delegittimare nel rapporto due presunti casi di violenza sessuale che hanno avuto un’ampia diffusione (entrambi completamente confutati molto prima della pubblicazione del rapporto) ha avuto l’effetto di convalidare i giudizi di credibilità espressi nel resto del rapporto e confondere i critici. [3] Il rapporto può quindi sembrare in accordo con i principi di indipendenza, imparzialità, obiettività, trasparenza, integrità” (paragrafo 30), anche se presenta una visione parziale del quadro del 7 ottobre.

Patten afferma di comprendere il rischio che il suo rapporto venga strumentalizzato. Quindi potremmo chiederci perché ha accettato linvito in Israele quando sapeva che gli israeliani stavano rifiutando laccesso alla Commissione dInchiesta dell’ONU, lagenzia con poteri investigativi. Come mostriamo nella nostra analisi della diffusione del rapporto Patten nei media occidentali, il rapporto è già stato citato come sostegno ufficiale dell’ONU alle affermazioni di Israele e utilizzato per rivitalizzare la propaganda sugli stupri di massa, proprio quando quella propaganda era stata pubblicamente sfatata. Ciò essenzialmente rende Patten una complice volontaria del genocidio israeliano a Gaza.

2. Sfatando la narrazione sullo stupro di massa

Nonostante la sua complicità con la narrazione israeliana il rapporto di Patten mina molti dei principi fondamentali di tale versione. Gli organi di informazione di massa occidentali sono attualmente impegnati in una campagna concertata per ignorare questo fatto, dal momento che interpretano il rapporto come una conferma delle affermazioni secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso uno stupro sistematico. In realtà, il rapporto non giunge esplicitamente a questa conclusione. Qui elenchiamo diversi riscontri del rapporto e spieghiamo come e perché minano la narrazione di Israele.

2.1 Il rapporto delle Nazioni Unite non rileva che il 7 ottobre abbia avuto compimento alcun “disegno preordinato” di violenza sessuale

Questa è stata l’affermazione principale di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella nel loro articolo, ormai completamente screditato, “‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7” [“grida senza parole”: come Hamas il 7 ottobre ha utilizzato la violenza sessuale come arma, ndt], in cui sostenevano che i combattenti di Hamas non avrebbero compiuto atti di stupro occasionali e isolati, ma avrebbero invece messo in attoun più ampio disegno preordinato di violenza di genere, utilizzando lo stupro come arma di guerra. Tuttavia, quando, 52 minuti dopo l’inizio della conferenza stampa di Patten del 4 marzo, Farnaz Fassihi del Times ha chiesto: “Potrebbe affermare di aver riscontrato un disegno preordinato di violenza sessuale come strategia di Hamas, sia negli attacchi del 7 ottobre che riguardo gli ostaggi?” Patten ha risposto no in maniera decisa.

In un momento successivo della conferenza stampa, quando la giornalista di Haaretz Liza Rozovsky le ha chiesto: “Ho ragione nel dire che non si può concludere che la violenza sessuale sia stata di carattere sistematico?” Patten ha ribadito la risposta, affermando: “No…il fattore distintivo rispetto al compito che ci eravamo prefissati, la raccolta e la verifica di informazioni allo scopo di includerle nella relazione annuale del Segretario Generale piuttosto che un’indagine, nel qual caso si sarebbe indagata l’eventuale esistenza di aspetti più ampi e sistematici. Non abbiamo approfondito quegli aspetti. (Minuto 57:53)

Il rapporto di Patten non ha potuto né “stabilire l’estensione della violenza sessuale” (par. 86), né “trarre conclusioni sullattribuzione delle presunte violenze sessuali a specifici gruppi armati”. (par. 78) Patten lo ribadisce più avanti, nella stessa audizione, quando spiega:

Non mi addentro sull’estensione, nella relazione non ho dei numeri. Perché per me un caso è più che sufficiente. Non si tratta di… non ho eseguito un esercizio di contabilità. La prima lettera che ho ricevuto dal governo israeliano parlava di centinaia se non migliaia di casi di brutale violenza sessuale perpetrata contro uomini, donne e bambini. Non ho trovato niente, niente del genere. (corsivo aggiunto)

Qui vale la pena chiarire che, mentre il grado di estensione non rientra nellambito del lavoro della missione, lo è la ricerca di disegni preordinati. Vale a dire, il mandato della SRSG-SVC comprende la raccolta, lanalisi e la verifica delle informazioni esistenti, nonché di quelle ricevute in modo indipendente, su episodi e modelli preordinati di violenza sessuale legata ai conflitti(par. 25, corsivo nostro).

È quindi significativo il fatto che non sia stata constatata di fattol’attuazione il 7 ottobre di un disegno preordinato di violenza sessuale. Questo nonostante l’evidente parzialità nellaffidarsi a fonti (di istituzioni nazionali israeliane) di cui soffre il rapporto. Anche al livello molto più basso di informazione credibile(debole come prova, ma con valore indiziario), Patten è chiara durante la conferenza stampa sul fatto che non sia stato riscontrato alcun disegno preordinato di violenza sessuale.

In effetti, il massimo che si può intendere che il rapporto delle Nazioni Unite affermi sono informazioni credibilisu casi differenti. Potenzialmente per compensare lassenza di uno schema preordinato, il rapporto contestualizza in luoghi diversi informazioni riguardanti lo stupro e lo stupro di gruppo. Elenca almeno treluoghi distinti per i quali sostiene che vi siano informazioni credibili di atti di violenza sessuale: il festival musicale Nova e le aree circostanti”; strada 232 e altre vie di fuga’”; e il Kibbutz Re’im. Questa molteplicità di luoghi è ingannevole. A un esame più attento, almeno due dei contesti risultano indistinguibili: il festival musicale Nova si è svolto in un prato che confina con la strada 232, quindi fingere che il festival e zone circostantinon includesse anche la strada 232 è un gioco di prestigio che porta ad alcune delle peggiori incoerenze del rapporto. Nel rapporto ci viene detto:

“Altre fonti credibili sul sito del festival musicale Nova hanno descritto di aver visto numerosi individui assassinati, per lo più donne, i cui corpi sono stati trovati nudi dalla vita in giù, alcuni completamente nudi, con alcuni colpi di pistola alla testa e/o legati, di cui alcuni con le mani dietro la schiena e legati a strutture come alberi o pali. (Par. 58, corsivo nostro)

Eppure il riepilogo colloca questi corpi legati a strutture come alberi e pali lungo la Strada 232. (punto 13) Questo errore è significativo poiché l’impressione di molteplici testimonianze e di una ripetizione di indizi circostanziali di violenza sessuale, quando, in realtà, sono descritti gli stessi episodi. In altre parole, le conclusioni del rapporto vanno oltre e gonfiano anche le affermazioni minime che si possono ricavare dalle cosiddette informazioni credibili raccolte.

Inoltre, quasi tutti i casi di violenza sessuale trattati dal rapporto ci sono familiari grazie a precedenti rapporti e articoli dei media, che si tratti del New York Times, della presa di posizione di Physicians for Human Rights Israel [medici per i diritti umani Israele, ndt.], del rapporto più recente dellAssociation of Rape Crisis Centers in Israel [associazione dei centri antistupro israeliani, ndt.] o una serie di altre fonti. C’è solo un nuovo caso di stupro che il rapporto dell’ONU tenta di aggiungere alla lista già molto limitata di presunti casi che ha iniziato a circolare all’infinito nella sfera pubblica da quando la propaganda di massa sugli stupri è iniziata in grande stile a novembre. Questo caso è localizzato nel terzo sito, il Kibbutz Re’im (2 km a sud-ovest del sito del festival musicale Nova). Viene descritto come lo stupro di una donna allesterno di un rifugio antiaereo allingresso del kibbutz Reim, confermato da testimonianze e materiale digitale”. (par. 61) È basandosi quasi esclusivamente su questo caso che il rapporto giudica che vi siano fondati motivi per ritenere che nel kibbutz Reim si siano verificati casi di violenza sessuale, tra cui lo stupro”. (par. 61)

Tuttavia la descrizione all’esterno di un rifugio antiaereo all’ingresso del kibbutz Re’im” è fuorviante, perché il rifugio antiaereo si trova all’esterno del kibbutz sulla strada 232. Anche se questo caso è classificato nel rapporto dell’ONU sotto l’intestazione che fa riferimento al kibbutz Re’im, avrebbe potuto benissimo essere classificata sotto l’intestazione: strada 232”; infatti fa parte delle aree circostanti al sito del festival Nova. La ragione per cui ciò è importante è che questo è l’unico caso di presunta informazione credibile di stupro in un kibbutz. Finora, in tutti i resoconti e le storie dei media, pochissimi presunti stupri sono stati localizzati nei kibbutz, e tutti questi sono stati confutati. Lo stesso rapporto dell’ONU giudica le altre accuse di violenza sessuale nei kibbutz non verificate (kibbutz Kfar Aza) o infondate (tre accuse nel kibbutz Beeri, che è lunico kibbutz visitato dalla squadra della missione).

Dato che Hamas non sapeva che il 7 ottobre nel campo vicino a Re’im si sarebbe svolto il Nova Music Festival (il rave avrebbe dovuto concludersi il 6 ottobre), se avesse pianificato di utilizzare lo stupro o la violenza sessuale come arma di guerra contro i civili, avrebbe preso di mira i kibbutz. Eppure non ci sono state presentate informazioni credibili su violenze sessuali in nessuno dei kibbutz. [4]

Nonostante le apparenze contrarie, il rapporto dell’ONU non ha cambiato la situazione. Ciò getta ulteriori dubbi sulle affermazioni secondo cui il 7 ottobre la resistenza palestinese avrebbe commesso uno stupro sistematico.

2.2 Il rapporto non attribuisce alcun atto di violenza sessuale a Hamas o ad altre organizzazioni di resistenza palestinesi

Nonostante la trionfante dichiarazione del presidente israeliano Isaac Herzog secondo cui il rapporto conferma con limpidezza e coerenza morale i crimini sessuali sistematici, premeditati e continui commessi dai terroristi di Hamas contro le donne israeliane, il rapporto non rileva esplicitamente che Hamas in particolare abbia commesso alcun crimine. Nella conferenza stampa, Patten spiega che:

Dati i molteplici attori presenti, Hamas, la Jihad islamica palestinese, altri gruppi armati, civili, armati e disarmati, non mi sono addentrata nellattribuzione, considerati i tempi e dato il fatto che non stavo conducendo unindagine.

Lo stesso rapporto della missione rileva che Hamas ha formalmente negato le accuse di aver commesso degli stupri il 7 ottobre e ribadisce che non ritiene alcun gruppo responsabile di possibili casi di violenza sessuale:

“Dato che la missione non era investigativa non ha raccolto informazioni e/o tratto conclusioni sull’attribuzione di presunte violenze sessuali a specifici gruppi armati.” (Paragrafo 78)

Vari titoli di mezzi di informazione hanno scelto di ignorare tale affermazione: CBS News ha riferito che LONU dichiara di avere ‘fondati motivi per ritenere’ che il 7 ottobre Hamas abbia compiuto attacchi sessuali,” e Associated Press e Time che “Linviata dell’ONU afferma che esistono ‘fondati motivi’ per ritenere che il 7 ottobre Hamas abbia commesso violenze sessuali. Titoli che affermano che il rapporto di Patten abbia attribuito la violenza sessuale a Hamas sono apparsi anche su The Guardian, The Financial Times e The Washington Post.

2.3 Il rapporto non individua un singolo elemento di prova audiovisivo o fotografico che confermi lo stupro

Questo nonostante il fatto che un patologo forense e un analista digitale del team della missione abbiano esaminato:

Oltre 5.000 foto, circa 50 ore e diversi file audio di filmati degli attacchi, forniti in parte da varie agenzie statali e attraverso una revisione online indipendente di varie fonti aperte, per identificare potenziali casi e indicazioni di violenza sessuale legata al conflitto. Il contenuto comprendeva gli attacchi reali e le loro conseguenze immediate, catturati attraverso bodycam e telecamere da cruscotto dei combattenti, cellulari individuali, televisioni a circuito chiuso e telecamere di sorveglianza del traffico. (Paragrafo 34)

Nella sezione dedicata alle conclusioni del rapporto Patten scrive che “Attraverso la valutazione medico-legale delle foto e dei video disponibili non è stato possibile identificare alcuna indicazione tangibile di stupro”. (Paragrafo 74)

Inoltre il rapporto aggiunge in una nota che:

La squadra della missione ha preso atto delle affermazioni delle autorità israeliane secondo cui alcuni dei materiali online incriminanti, compresi quelli che raffiguravano specificamente atti di violenza sessuale, sarebbero stati rimossi… è opinione della squadra della missione che se fossero stati diffuse sui principali mezzi di comunicazione evidenti prove digitali di violenze sessuali o di ordini di commettere violenza sessuale, ciò sarebbe stato probabilmente scoperto, dato il volume delle informazioni pubblicate online e ulteriormente diffuse, rendendo improbabile la rimozione di ogni traccia di tale materiale. (Paragrafo 77)

2.4 Il rapporto conferma che i testimoni hanno diffuso storie false sulle violenze sessuali del 7 ottobre

Confermando ciò che giornalisti e attivisti indipendenti dimostrano ormai da mesi il rapporto si è prodigato nel constatare la manipolazione di prove e testimonianze, affermando che:

“Va rilevato che i testimoni e le fonti con cui la squadra della missione ha collaborato hanno adottato nel tempo un approccio sempre più cauto e circospetto riguardo ai resoconti precedenti, fino a ritrattare in alcuni casi le dichiarazioni rese in precedenza.” (Par. 64)

E:

“interpretazioni forensi imprecise e inaffidabili da parte di alcuni non professionisti hanno costituito una sfida ulteriore.” (Paragrafo 10)

Tra queste interpretazioni imprecise sono compresi rapporti ampiamente diffusi (con riedizioni da parte di BBC, NBC News, The New York Post, Unherd e altri) secondo cui una donna sarebbe stata trovata al Kibbutz Beeri con oggetti come coltelli inseriti nei genitali. Tuttavia, quando la squadra della missione ha esaminato le foto, non ha trovato nulla del genere. (Minuto 55:10)

Nella sua conferenza stampa Patten suggerisce che le interpretazioni errate dei primi soccorritori potrebbero essere state intenzionali: “Potrebbero non essere stati in malafede, non lo so, ma è un fatto che abbiamo trovato molti casi di interpretazioni forensi inaffidabili e imprecise da parte di persone inesperte. (Minuto 56:20)

Le allusioni a “persone inesperte” o ai primi soccorritori si riferiscono quasi certamente alla ZAKA, un’organizzazione religiosa conservatrice ultra-ortodossa intervenuta sulla scia del 7 ottobre come gruppo di primi soccorritori. Mondoweiss ha già ampiamente documentato l’inaffidabilità dell’organizzazione e il loro coinvolgimento nella fabbricazione di prove delle atrocità del 7 ottobre.

Il governo israeliano riconosce la ZAKA come lunica organizzazione responsabile della gestione delle morti dovute ad attacchi terroristici” in Israele. Ormai abbiamo ampie prove che i membri della ZAKA, che mantengono una posizione religiosa radicale contraria alle autopsie e alle procedure forensi, hanno usato la loro immaginazioneper inventare storie elaborate di brutalità sessuale sulla scia del 7 ottobre. Il rapporto di Patten sottolinea le pratiche inaffidabili della ZAKA, ma ignora opportunamente lo stretto rapporto della ZAKA con il governo israeliano: lorganizzazione riceve finanziamenti governativi e si coordina con i principali ministeri governativi, il tutto atteggiandosi a organizzazione non governativa neutrale. Il portavoce della ZAKA Yehuda Meshi-Zahav ha affermato che lorganizzazione agisce come un braccio del ministero degli affari esterie il 23 novembre 2023 Benjamin Netanyahu ha incontrato i membri della ZAKA, dicendo loro: Voi avete un ruolo importante nellinfluenzare lopinione pubblica, che a sua volta influenza i leader. Siamo in guerra; e questa continuerà”.

Il rapporto di Patten funziona come una distrazione dal genocidio

Nonostante il fatto che il rapporto di Patten non riscontri alcuna informazione credibile a sostegno di una serie di stupri avvenuti il 7 ottobre, che non abbia poteri investigativi e che mantenga evidenti lacune di credibilità che non può colmare nellambito del suo mandato, i media occidentali hanno seguito le indicazioni guida del governo israeliano nellinquadrare il rapporto come una conferma della versione di Israele secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche.

Allo stesso tempo, questi organi di informazione ignorano il totale rifiuto di Israele di collaborare con lindagine ufficiale dell’ONU su tali affermazioni. Dobbiamo vedere il rapporto di Patten per quello che è: un tentativo di dare una patina di legittimità ad affermazioni che sono state ampiamente smentite riciclando testimonianze anonime sotto la copertura della metodologia ONU” – ma senza il mandato investigativo necessario per legittimare quella metodologia. Il rapporto di Patten non individua esplicitamente una tipologia di violenza sessuale, non fornisce alcuna indicazione sulla sua proporzione e non fa il nome di alcun possibile autore. Ciò non sembra preoccupare Patten, che ribadisce continuamente di agire nel suo ruolo di difensora delle vittime di violenza sessuale legata ai conflitti e non di inquirente.

Ma difensora di chi? In definitiva, uno dei maggiori problemi di questo rapporto è che funge da distrazione una distrazione dalla difficile situazione di migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi che continuano a essere sottoposti ad abusi sessuali accertati e torture nelle carceri delloccupazione; dal destino attuale di quelle donne i cui indumenti intimi i soldati israeliani hanno fotografato dopo aver bombardato le loro famiglie e le loro case; da persone costrette a identificare i propri figli, mariti e padri spogliati e lasciati con i soli indumenti intimi, umiliati sessualmente e torturati.

È una distrazione dallagonia delle madri che ora sono costrette a guardare i loro figli morire di fame; dal terrore di oltre 50.000 donne incinte a Gaza senza cibo, acqua o assistenza medica e senza un posto sicuro dove partorire; dal dolore delle donne palestinesi che piangono i 30.000 martiri già massacrati nel genocidio in corso da parte di Israele.

Come femministe, rifiutiamo categoricamente luso delle accuse di violenza sessuale come arma per giustificare queste atrocità e ci uniamo alle femministe di tutto il mondo nel chiedere che coloro che condividono questa propaganda siano ritenuti responsabili di complicità nel genocidio e di aver anzi costruito il consenso per la sua attuazione.

Note

[1] La prima e principale raccomandazione del rapporto Patten è che venga svolta unindagine. (Par. 88).

[2] Questa non è la prima volta che Patten si nasconde dietro la sua mancanza di mandato investigativo per diffondere affermazioni dubbie senza prove. Nellottobre 2022, quando le è stato chiesto se avesse prove a sostegno della sua affermazione secondo cui i soldati russi avevano commesso uno stupro di gruppo utilizzando il Viagra (unaffermazione circolata per la prima volta online), Patten è apparsa offesa. Non è compito del mio ufficio andare a indagare, ha ribattuto, ho un mandato di patrociniola mia sede è a New York, in un ufficio a New York, e ho un mandato di patrocinio. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR), che ha il mandato di indagare, nel suo ampio rapporto non ha fatto menzione delle affermazioni sul Viagra.

[3] Sfatando le invenzioni già falsificate riguardanti il Kibbutz Be’eri (paragrafo 65), screditando ZAKA (già un facile bersaglio per Haaretz) e fornendo interpretazioni alternative di foto e video post mortem di “danni devastanti da ustione”, il rapporto dell’ONU si posiziona come autocorrettivo e quindi rinnova la narrazione dello stupro di massa in una forma più credibile.

[4] Inoltre, alcuni dei sopravvissuti nei kibbutz hanno testimoniato di essere stati trattati umanamente dai combattenti palestinesi che li avevano fatti prigionieri (come nell’esempio spesso citato di Yasmin Porat).

Rete di Solidarietà Femminista per la Palestina

La Rete di Solidarietà Femminista per la Palestina è un collettivo internazionale di accademiche, avvocatesse e organizzatrici femministe antimperialiste e anticolonialiste impegnate contro la propaganda colonialista dei coloni sionisti e a favore di una Palestina libera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele ha ucciso altri 124 palestinesi in 24 ore

Redazione di Middle East Monitor

5 marzo 2024 – Middle East Monitor

Ieri il ministero palestinese della Sanità ha affermato che nelle ultime 24 ore, fino a lunedì mattina, l’esercito israeliano ha commesso 13 nuovi massacri contro famiglie nella Striscia di Gaza, uccidendo 124 persone e ferendone altre 210.

Gli aerei da guerra israeliani hanno colpito in tutta la Striscia di Gaza mentre la guerra all’enclave assediata è entrata nel 150esimo giorno. Nel frattempo al Cairo sono continuati i colloqui tra una delegazione di Hamas e mediatori provenienti da Qatar, Egitto e Stati Uniti per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco nel territorio occupato.

Gli attacchi aerei contro Rafah, nella parte meridionale della striscia di Gaza, sono stati intensificati, uccidendo decine di persone nel campo profughi d Nuseirat. L’artiglieria israeliana ha bombardato aree residenziali e rifugi nei campi di Jabalia, Khan Yunis, Deir Al-Balah e Tal Al-Zaatar.

Finora dal 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 30.534 palestinesi a Gaza ne ha feriti altri 71.920. Attualmente è accusato di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il New York Times ha un orribile pregiudizio anti-palestinese

BEN BURGIS

29 febbraio 2024 – Jacobin

Il fatto che il New York Times abbia affidato la sua inchiesta sulle denunce di aggressioni sessuali del 7 ottobre ad Anat Schwartz, una giornalista non professionista con convinzioni antipalestinesi e rapporti con l’esercito israeliano, è un esempio estremo della indefettibile tendenziosità del giornale a favore di Israele.

Il New York Times forse è il quotidiano più prestigioso del mondo anglofono. I suoi articoli hanno ottenuto 132 premi Pulitzer, a cominciare da quello che il giornale ricevette nel 1918 per i suoi servizi sulla Prima Guerra Mondiale. Ne ha aggiunti altri tre solo l’anno scorso.

In un’epoca in cui è diventato sempre più comune per i lettori vantarsi non di leggere o vedere reportage oggettivi ma piuttosto di consultare fonti “delle due parti”, il Times può essere percepito come la reliquia di un tempo passato, quando vigeva ancora l’ideale della neutralità. Il giornale è stato storicamente soprannominato “La Vecchia Signora”, sia per la sua tradizione di stamparlo solo in bianco e nero – non ha iniziato a includere immagini a colori fino agli anni ’90 – e per una certa etica di prudenza e accuratezza giornalistiche.

Tuttavia, come ha evidenziato Mona Chalabi, una delle giornaliste che ha aggiunto un Pulitzer al giornale lo scorso anno, una delle aree in cui questa reputazione è più difficile da conciliare con la realtà è l’informazione del Times su Israele/Palestina. Poco prima di presentarsi alla cerimonia del Pulitzer a novembre Chalabi ha postato sulla sua pagina Instagram un grafico che fa un bilancio devastante.

Persino mentre il numero di morti palestinesi rende minimo quello degli israeliani – le stime attuali del numero di civili israeliani uccisi il 7 ottobre è di centinaia, mentre decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi durante i molti mesi di brutale rappresaglia israeliana – il Times ha destinato molta più attenzione ai morti israeliani. Di fatto, come mostra la tabella, la disconnessione dalla realtà è effettivamente aumentata nello stesso momento in cui i morti palestinesi stavano aumentando in modo esponenziale.

Più di recente la polemica sulla giornalista freeelance del Times Anat Schwartz ha rivelato l’orribile profondità della tendenziosità. Nonostante non abbia esperienza giornalistica, ha fatto parte del piccolo gruppo di reporter designati a coprire una delle vicende più delicate e importanti di cui il Times si è occupato da quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza: le accuse secondo cui Hamas avrebbe sistematicamente utilizzato aggressioni sessuali come arma di guerra durante l’attacco del 7 ottobre. Da allora dettagli fondamentali di questa vicenda si sono dimostrati discutibili, e Schwartz ha evidenziato di essere quanto più lontana si possa immaginare da una giornalista neutrale.

Prima di diventare regista – e, improvvisamente lo scorso anno, giornalista freelance del New York Times — Schwartz ha fatto parte del reparto di intelligence dell’aviazione militare israeliana. E le sue opinioni sul conflitto israelo-palestinese, che sono di dominio pubblico, tendono a un razzismo genocida.

Anat Schwartz e il New York Times

La firma di Schwartz è comparsa, insieme a quelle di suo nipote Adam Sella e dell’esperto giornalista Jeffrey Gettleman, in un articolo intitolato “Urla senza parole: come Hamas ha utilizzato sistematicamente la violenza sessuale il 7 ottobre”. L’articolo è stato scelto per una lode speciale dal direttore esecutivo del Times, Joe Kahn, che in una mail alla redazione ha affermato: “Il gruppo” di Gettleman, Schwartz e Sella ha trattato una vicenda “molto politicizzata e delicata” in “modo sensibile e dettagliato”.

Da allora l’articolo è stato messo sotto accusa per evidenti imprecisioni. In particolare, circa un terzo dell’articolo è stato dedicato fondamentalmente a un solo incidente: il presunto stupro di Gal Adbush, uccisa il 7 ottobre, diventata nota come “la donna vestita di nero” per la sua apparizione in un video che la mostra a terra morta con il corpo in parte denudato. Il video non mostra un’aggressione sessuale, anche se alcuni osservatori l’hanno interpretato come una prova che avrebbe potuto avvenire in precedenza.

Un successivo reportage della pubblicazione progressista ebraica Mondoweiss ha messo in dubbio praticamente ogni elemento di questo articolo:

“Al momento non c’è alcuna traccia del video su internet, nonostante le affermazioni del Times secondo cui “è diventato virale”. Oltretutto la stampa israeliana, benché abbia raccontato centinaia di vicende sulle vittime del 7 ottobre, non ha mai citato “la donna vestita di nero” neppure una volta prima dell’articolo del 28 dicembre. Non sembra che il video di fatto sia diventato il simbolo ampiamente diffuso che il Times sostiene sia. Ma comunque dopo un giorno dalla pubblicazione del reportage sono emersi fatti che smentiscono l’articolo del Times.

In particolare i genitori e i fratelli di Adbush hanno strenuamente smentito l’idea che ci sia una qualche prova del fatto che Gal sia stata stuprata ed hanno manifestato disgusto nei confronti del comportamento dei giornalisti del Times. Non hanno interpretato il video nello stesso modo e dicono che non avrebbero collaborato con l’articolo se avessero saputo che sarebbe stato centrato su queste accuse.

Per essere chiari, niente di quanto detto intende affermare che nessuna donna o ragazza israeliana sia stata violentata il 7 ottobre. Anche se Adbush non è stata una di loro, sarebbe sorprendente se il 7 ottobre fosse la prima volta nella storia dell’umanità che migliaia di soldati infuriati ed esaltati siano stati mandati in territorio nemico per una missione che include l’uccisione e il rapimento a caso di civili senza che nessuno di questi soldati abbia commesso alcuna aggressione sessuale.

Ma la specifica accusa fatta da Schwartz e dai suoi co-autori in “Urla senza parole” è che “le aggressioni contro le donne non sono state eventi isolati ma parte di un modello di comportamento più generale.” È un’accusa estremamente grave e la posta in gioco è molto alta. Un organo informativo con valori etici se ne sarebbe occupato con cautela e avrebbe controllato rigorosamente ogni dettaglio.

La posta in gioco è alta perché la narrazione dello Stato di Israele sugli avvenimenti del 7 ottobre, che ha incluso una pesante insistenza sulle aggressioni sessuali, è stata utilizzata per giustificare atrocità su grande scala. Nel momento in cui scrivo 1,9 milioni dei 2.3 milioni di abitanti di Gaza sono stati espulsi dalle loro case e la fame sta dilagando. Le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF) sono state così metodiche nel loro obiettivo di distruggere le infrastrutture civili del territorio che l’ultima università rimasta a Gaza è stata distrutta con una esplosione controllata. Decine di migliaia di civili, tra cui oltre dodicimila bambini, sono stati uccisi. E, con un colpo di scena deprimente ma prevedibile, ci sono prove credibili che le atrocità israeliane abbiano incluso violenze sessuali, il che non sarebbe una novità.

Proprio a causa della gravità dei crimini sessuali e della giustificazione che essi spesso conferiscono ai nemici di chi li ha commessi, è estremamente importante avere una chiara e concreta attendibilità delle prove. Quanto ci vorrà – quanto ci vorrebbe – perché un giornale come il New York Times dichiari che aggressioni sessuali da parte di membri delle IDF sono “non incidenti isolati ma parte di un modello di comportamento più generale?”

È possibile immaginare che il Times assegni un articolo che faccia una simile accusa a un gruppo di tre giornalisti, uno dei quali membro di Hamas senza esperienze giornalistiche che non abbia mai preso le distanze dal suo passato e un altro che sia nipote dell’ex membro di Hamas? Se ciò per qualche ragione avvenisse, potete immaginare che l’articolo poi venga gestito senza verificare accuse cruciali, persino mentre i genitori e fratelli della principale presunta vittima negassero chiaramente che lo stupro fosse avvenuto?

Se potete arrivare con la vostra immaginazione così lontano, aggiungete un dettaglio in più. Immaginate che l’ex membro di Hamas abbia recentemente approvato sulle reti sociali post che chiedono l’uccisione di massa di israeliani, e che lo abbia fatto molto prima che la sua firma apparisse per la prima volta sul Times.

In effetti il più recente cambiamento nella saga di Schwartz è che si è scoperto che lei, prima che il suo lavoro comparisse sul Times, aveva approvato un grottesco post che definiva i palestinesi “animali umani” e chiedeva che Gaza venisse “trasformata in un mattatoio”. Il post proponeva anche che Israele abbandonasse l’idea di “proporzionalità” a favore di una “risposta sproporzionata” e incoraggiava le IDF a “violare ogni regola” per garantire la vittoria.

Perché Chomsky digrigna i denti

Molto chiaramente Schwartz è uno dei sintomi di un problema molto più generale riguardo alla copertura di Israele/Palestina pubblicata dal New York Times. Un indizio di come abbia potuto avvenire viene da uno sguardo più attento sul direttore esecutivo succitato.

Come hanno scritto su Intercept Ryan Grim e Daniel Boguslaw, il padre di Kahn, Leo Kahn, è stato per molto tempo consigliere del Committee for Accuracy in Middle East Reporting and Analysis [Comitato per l’Accuratezza dell’Informazione e dell’Analisi sul Medio Oriente] (CAMERA), che intendeva imporre l’adesione a una linea filo-israeliana nell’informazione dei mezzi di comunicazione “denigrando giornalisti con il cui lavoro era in disaccordo e lanciando campagne di boicottaggio contro organizzazioni di comunicazione che ritiene non rispondano con sufficiente acquiescenza alle sue richieste.” E, secondo lo stesso profilo di Joe Kahn pubblicato dal Times quando è diventato direttore esecutivo del giornale nel 2022, padre e figlio “spesso ‘hanno analizzato insieme l’informazione giornalistica’”. Mentre il Times nega che CAMERA abbia una particolare influenza sulle sua informazione, Grim e Boguslaw notano che il livello di adesione del giornale alle continue richieste di CAMERA” è “in sorprendente contrasto con la sua tradizionale resistenza a correggere i propri articoli.”

Né, osservano, questo è l’unico rapporto familiare che suscita serie domande riguardo alla capacità del giornale di informare su Israele/Palestina in accordo con la sua aura di pesante integrità giornalistica. “Nel corso degli ultimi 20 anni i figli di tre giornalisti del Times si sono arruolati nelle IDF mentre i genitori coprivano questioni riguardanti il conflitto israelo-palestinese,” notano gli autori di Intercept.

Tuttavia sotto la superficie di questi strati di tendenziosità antipalestinese potrebbe esserci una questione più profonda e più semplice. Come hanno sostenuto Noam Chomsky e il defunto coautore Edward Herman in Manufacturing Consent [La fabbrica del consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore, 2014], uno dei pregiudizi caratteristici dei mezzi di comunicazione più importanti in generale – di cui il New York Times è stato emblematico molto prima dell’inizio di questi recenti drammatici conflitti di interesse – sono state la profonda deferenza e l’affinità ideologica rispetto alla sicurezza nazionale statunitense.

Questo era vero per come hanno informato sulla guerra del Vietnam quando i presidenti Lyndon B. Johnson e Richard Nixon bombardavano a tappeto quel Paese per reprimere una rivoluzione contadina. Lo era nella guerra contro l’Iraq, quando il Times pubblicò acriticamente le menzogne dell’amministrazione di George W. Bush sulle “armi di distruzione di massa”. Non dovremmo sorprenderci di scoprire che è vero riguardo a Gaza, dove il massacro di massa e l’espulsione di civili vengono portati avanti con fondi e armi americani.

Questa dinamica ha ispirato una classica storiella riguardo a una visita di Chomsky dal dentista. Come raccontato da Gore Vidal e Christopher Hitchens, il dentista disse a Chomsky: “I tuoi denti sono a posto, ma devi smettere di digrignarli.” Chomsky smentì di digrignare i denti, e il dentista gli garantì che lo faceva, come evidenziato dal fatto che il suo smalto era consumato. Era presente la moglie di Chomsky, che assicurò al dentista che Noam non digrignava i denti di notte mentre dormiva. In seguito la coppia capì. Noam digrignava i denti quando la signora Chomsky era fuori dalla stanza mentre lui beveva il suo caffè mattutino “e leggeva il New York Times.

Collaboratore

Ben Burgis è editorialista di Jacobin, docente di filosofia a contratto alla Rutgers University e conduttore del programma e podcast di YouTube Give Them An Argument [Date loro un argomento]. E’autore di vari libri, il più recente dei quali è Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong, and Why He Still Matters [Christopher Hitchens: quello che ha fatto bene, come si è sbagliato e perché è ancora importante. Hitchen è stato un intellettuale e giornalista britannico naturalizzato statunitense originariamente trotzkista e passato poi a posizioni di destra, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Oltre 2/3 degli ebrei israeliani si oppongono agli aiuti umanitari ai palestinesi che muoiono di fame a Gaza

Jonathan Ofir

23 Febbraio 2024-Mondoweiss

Un nuovo sondaggio dell’Israeli Democracy Institute mostra che il 68% degli ebrei israeliani si oppone “al trasferimento di aiuti umanitari ai residenti di Gaza”.

È un dato scioccante. L’Israeli Democracy Institute ha pubblicato questa settimana un sondaggio che dimostra che oltre i 2/3 degli ebrei israeliani – cioè il 68% – si oppongono “in questo momento al trasferimento di aiuti umanitari ai residenti di Gaza

La situazione è anche peggiore: il sondaggio ha cercato di escludere qualsiasi possibile opposizione all’UNRWA (contro cui Israele si sta scagliando) o alle autorità di Hamas (che Israele considera terroristi). Inutilmente. Oltre due terzi si oppongono comunque agli aiuti umanitari “tramite organismi internazionali che non siano collegati ad Hamas o all’UNRWA… La maggioranza degli intervistati ebrei (68%) si oppone al trasferimento di aiuti umanitari anche in queste condizioni”, rileva il sondaggio.

I numeri sono peggio quando si tratta degli ebrei israeliani di destra, dove l’opposizione è all’80% – quattro su cinque. E si consideri che circa 2/3 degli elettori israeliani sono considerati di destra.

Qui bisogna davvero fermarsi. Ci troviamo in una situazione in cui i palestinesi di Gaza muoiono di fame, le persone disperate consumano mangimi per animali. Questa settimana il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite ha riferito che le persone a Gaza stanno “già morendo per cause legate alla fame” e uno screening nutrizionale dell’UNICEF nel nord di Gaza ha rilevato che 1 bambino su 6 sotto i due anni è gravemente malnutrito. Gli israeliani non ignorano affatto questi dati. Stanno sostenendo il genocidio a stragrande maggioranza.

È ormai prassi comune nella società israeliana discutere a partire da quale età sia accettabile che i bambini muoiano di fame. Una recente discussione sul programma di notizie dell’emittente pubblica più popolare ha raggiunto un consenso tra un ex funzionario del Mossad e la conduttrice veterana sul fatto che è legittimo che i bambini di età superiore ai 4 anni muoiano di fame.

Gran parte del mondo, compresi gli Stati Uniti, sembra negare quanto sia omicida ed esplicitamente genocida la società israeliana. Nancy Pelosi continua a parlare di Israele come “l’unica democrazia nella regione” mentre gli stessi israeliani sostengono la morte per fame dei bambini. La gente semplicemente non sembra capirlo.

L’aiuto umanitario è stato uno dei punti principali dell’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio, emessa quando la corte ha ritenuto plausibile che Israele stesse commettendo un genocidio, secondo l’accusa del Sud Africa. Era il punto 4 dei 6, che afferma:

Lo Stato di Israele adotterà misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari per affrontare le condizioni di vita avverse affrontate dai palestinesi nella Striscia di Gaza”.

Anche il giudice israeliano aggiunto appositamente alla Corte, Aharon Barak, che ha votato contro 4 delle 6 misure urgenti, ha votato a favore di questa (è stata approvata 16 a 1, con l’eccezione della giudice ugandese Julia Sabutinde che ha votato recisamente contro tutte le misure).

È una cosa così basilare, un bisogno così fondamentale – anche in guerra, quando ci si oppone a una questione così fondamentale diventa qualcosa di diverso dalla guerra: diventa un genocidio. Come stiamo assistendo.

Questo sondaggio sembra solo confermare ciò che abbiamo già visto. I manifestanti israeliani hanno bloccato i camion degli aiuti al confine meridionale vicino a Rafah. Si sarebbe forse tentati di inquadrarli come estremisti marginali, ma il sondaggio mostra che sono la maggioranza. Il sondaggio afferma anche che i leader israeliani come il ministro della Difesa Yoav Galant, che all’inizio del genocidio disse: “Ho ordinato un assedio totale sulla Striscia di Gaza – niente elettricità, niente cibo, niente gas, tutto è chiuso – stiamo combattendo animali umani e noi agiamo di conseguenza”, rappresentano la maggioranza della popolazione.

Questo è il peggior livello di disumanizzazione nella società israeliana che posso ricordare da quando vi sono nato 52 anni fa. Naturalmente, questa disumanizzazione non è iniziata il 7 ottobre, esisteva molto prima che io nascessi e anche prima che esistesse lo Stato. Ma ora sembra essere giunto al culmine. Agli israeliani non sembra importare più nemmeno di mantenere una parvenza di tolleranza: sono entrati in una vera e propria modalità di genocidio. E quando dico disumanizzazione, non sono solo i palestinesi ad essere disumanizzati in questo processo. Gli israeliani si stanno riducendo a un livello di barbarie. È qualcosa che abbiamo fatto a noi stessi mentre ci convincevamo che uccidere decine di migliaia di palestinesi ci avrebbe salvato in qualche modo da questo abisso. Non è così.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’economia israeliana si è ridotta di quasi il 20% nell’ultimo trimestre del 2023 a causa della guerra a Gaza

20 febbraio 2024 – Middle East Monitor

L’economia israeliana si è ridotta di quasi il 20% nell’ultimo trimestre del 2023 in seguito all’offensiva e al bombardamento in corso della Striscia di Gaza da parte delle forze israeliane.

Secondo l’ufficio centrale di statistica israeliano, cifre preliminari mostrano che il prodotto interno lordo (PIL) della nazione si è contratto del 19,4% annualizzato nei tre mesi finali dello scorso anno, contrazione che è quasi il doppio di quella attesa dal mercato.

Nel primo trimestre del 2023, il tasso di crescita del PIL è stato del 3,1%, diminuito al 2,8% nel secondo trimestre, seguito dal 2,7% nel terzo trimestre. Per l’intero 2023, l’economia israeliana è cresciuta per un totale solo del 2%, una significativa riduzione rispetto al 6,5% del 2022.

La contrazione dell’economia nel quarto trimestre del 2023 è stata direttamente influenzata dall’inizio della guerra ‘Spade di Ferro’ il 7 ottobre”, ha affermato l’ufficio di statistica, riferendosi all’inizio da parte di Tel Aviv dei suoi bombardamenti e dell’invasione di Gaza, seguiti all’operazione nel territorio israeliano da parte del gruppo di resistenza palestinese Hamas.

Le ragioni per la contrazione dell’economia israeliana probabilmente vanno dal boicottaggio dei prodotti israeliani in tutto il mondo, al rallentamento degli investimenti internazionali nella nazione, alla riduzione delle importazioni ed esportazioni nello/dallo Stato di occupazione a causa della interruzione delle rotte di navigazione.

Presumibilmente tutte quelle motivazioni hanno provocato una caduta della domanda, costi crescenti, scarsità di lavoro nella nazione e si prevede che la guerra di Israele a Gaza costerà 48 miliardi di dollari allo Stato di occupazione.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)