Quattro adolescenti palestinesi uccisi dalle forze israeliane in 24 ore.

Redazione di MEE

8 ottobre 2022 – Middle East Eye

Un recente raid dell’esercito a Jenin ha provocato due morti, il giorno dopo che altri due, tra cui un quattordicenne, sono stati colpiti a morte

Sabato, poche ore dopo che due adolescenti erano stati colpiti a morte in due diversi incidenti nella Cisgiordania occupata, soldati israeliani hanno ucciso due palestinesi a Jenin.

Secondo il ministero della Sanità palestinese sabato mattina, durante una vasta incursione dell’esercito nel campo profughi di Jenin, sono stati uccisi dal fuoco israeliano Mahmoud Assos, 18 anni, e Ahmed Daragma, 16.

Nel raid sarebbero stati schierati veicoli blindati, bulldozer, elicotteri dell’esercito e droni da combattimento.

Combattenti palestinesi hanno risposto al fuoco, mentre anche abitanti disarmati hanno affrontato i soldati israeliani lanciando pietre.

Secondo il ministero della Sanità palestinese Assos è stato colpito al collo e Daragma alla testa.

Almeno altri 11 palestinesi, tre dei quali in condizioni critiche, sono stati feriti.

L’esercito israeliano ha affermato che stava effettuando un’operazione di arresto quando “ordigni esplosivi, bottiglie molotov e colpi di armi da fuoco” sono stati lanciati contro i soldati, che hanno risposto al fuoco e “sono stati identificati dei colpi”.

Un palestinese è stato arrestato, ha aggiunto l’esercito. Fonti palestinesi lo hanno identificato come Saleh Abu Zeneh.

Mezzi di informazione locali hanno riferito che durante il raid a giornalisti e medici palestinesi è stato negato l’accesso. L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha affermato che i soldati israeliani hanno sparato verso un gruppo di giornalisti che si stavano mettendo al riparo nella zona.

Venerdì pomeriggio altri due minorenni palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Adel Ibrahim Daoud, 14 anni, è stato colpito alla testa nei pressi della barriera di separazione israeliana a Qalqilya, mentre Mahdi Ladadweh, 17 anni, è stato colpito al petto da soldati a nord-ovest di Ramallah.

Secondo il giornale israeliano Haaretz, riguardo alla morte di Daud l’esercito israeliano ha affermato di aver sparato a qualcuno che avrebbe lanciato bottiglie molotov verso i soldati.

Secondo la Mezzaluna Rossi palestinese venerdì, durante la repressione contro manifestazioni contro l’occupazione in tutta la Cisgiordania, più di 50 palestinesi sono rimasti feriti dalle forze israeliane.

Porterà a un’esplosione”

Nei mesi scorsi i palestinesi della Cisgiordania hanno affrontato una crescente violenza mai vista da anni da parte delle forze israeliane.

Operazioni di raid e arresti quasi quotidiane, che secondo l’esercito israeliano intendono debellare un’insurrezione della resistenza armata palestinese, in particolare nelle città del nord di Nablus e Jenin, sono aumentate in tutti i territori palestinesi occupati.

Quest’anno più di 160 palestinesi, di cui 50 nella Striscia di Gaza e almeno 110 nella Cisgiordania e a Gerusalemme est, sono stati uccisi da fuoco israeliano. Il numero di morti in Cisgiordania è il più alto registrato in un solo anno dal 2015.

Da maggio almeno due soldati israeliani sono stati uccisi da fuoco palestinese.

Il movimento palestinese Hamas ha affermato che il raid di Jenin dimostra la debolezza dell’esercito israeliano contro “la resistenza in Cisgiordania”.

Quindi ricorre alla mobilitazione di mezzi militari ed elicotteri per arrestare una sola persona,” ha affermato in un comunicato Hamas, che governa la Striscia di Gaza.

Venerdì il portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Nabil Abu Rudeineh ha condannato Israele per quelle che ha definito “esecuzioni sul campo”.

La continuazione di questa politica porterà a far esplodere la situazione e maggiori tensioni e instabilità,” ha avvertito Abu Rudeineh in un comunicato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Casa dolce casa: il mio amaro ritorno in Palestina

Fida Jiryis

27 settembre 2022 – The Guardian

Per tutta la mia vita i miei genitori esuli mi avevano parlato della tragedia della Palestina. Poi, quando avevo circa 20 anni, la mia famiglia ci è ritornata e l’ho vista con i miei occhi

Misi piede nel mio paese per la prima volta a 22 anni. I miei genitori erano palestinesi, ma, nel 1970, andarono in esilio. Dopo esser fuggiti dalla guerra in Libano vivemmo a Cipro.

Ora una nuova era di riconciliazione era arrivata. Circa un anno dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 fra Israele e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ci fu finalmente permesso di ritornare. Fu emozionante ritornare dopo tanti anni alla nostra casa avita. La nostra grande famiglia in Galilea fu felicissima, specialmente i miei nonni, e fummo sommersi da un’ondata di amore. Ero elettrizzata perché finalmente stavo ritornando. Volevo una patria. Non volevo più sentirmi come una straniera. Era il sogno che si avverava. Gli anni senza una patria erano alle nostre spalle. Ma tornare a casa per tutti noi fu molto più arduo di quanto avessi immaginato.

Per mio padre fu difficile trovare il proprio posto in Israele che era cambiato così drasticamente negli anni in cui era stato via. Era cresciuto in un villaggio rurale in Galilea, ma era andato in esilio per il suo impegno politico e la sua collaborazione in un movimento di resistenza palestinese. Aveva anche pubblicato un libro, Gli arabi in Israele, descrivendo il duro destino dei palestinesi che erano rimasti dopo l’occupazione. A Beirut e poi a Cipro aveva lavorato per l’OLP per diventare uno stretto collaboratore del suo leader, Yasser Arafat. Al nostro ritorno Arafat insistette perché accettasse una carica nell’Autorità Palestinese di nuova fondazione.

Ma mio padre non voleva un incarico burocratico perché sentiva che lo avrebbe condizionato dopo anni di ricerca e produzione saggistica indipendente. Rimase un consulente di Arafat, incontrandosi con lui nel suo ufficio, in hotel o con amici. Il quartier generale dell’OLP era stato spostato dalla Tunisia in Cisgiordania. I palestinesi in Israele erano in gran parte liberi dalla persecuzione che mio padre aveva subito prima di partire quando era stato ripetutamente vessato e arrestato, le case della famiglia saccheggiate e distrutte. Ora però avevano a che fare con un sistema più generalizzato di discriminazione.

Poche settimane dopo il nostro arrivo al villaggio di nostro padre lui portò me e il mio fratello minore a fare un giretto in macchina. Non andammo lontano: dopo poco più di un chilometro entrammo in un paesino. “Questo è Deir el-Qasi,” disse. Sul cartello c’era scritto: “Elqosh”. Nel 1948, dopo la distruzione della Palestina, che noi chiamiamo Nakba o catastrofe, Deir aveva subito la pulizia etnica e il cambio di nome.

Attraversammo stradine tranquille fiancheggiate da case e alberi flessuosi. C’erano dei pollai. Papà fermò la macchina e uscimmo. “Vedete questa?” indicò un’antica struttura in pietra. “Questa è una delle case originarie del villaggio.”

Fissandola fui colpita dalla realtà. Per tutta la mia vita avevo letto e sentito della tragedia della Palestina. Adesso la vedevo.

Non buttarono giù tutte le case,” stava dicendo papà. “Alcune furono risparmiate perché i nuovi arrivati venivano dallo Yemen e a loro piacevano le case arabe. Ce n’è un’altra … ”

La gente di Elqosh allevava le galline, pascolava le mucche e coltivava verdura e frutta. Venivano al nostro villaggio, Fassouta, per piccoli commerci e per andare dal dottore o dal dentista. Dopo essermi stabilita nel villaggio, passavo da quel posto ogni giorno. A loro volta le case di Deir el-Qasi che mio padre ci aveva mostrato mi fissavano. Cosa era peggio, mi chiedevo, avere la propria casa distrutta o che fosse rimasta intatta, ma abitata da altri?

Dall’arrivo dei bulldozer israeliani del villaggio di Suhmata erano rimasti pochi ulivi e alcune pietre sporgenti. La maggior parte dei suoi abitanti era in Libano, ma qualcuno era riuscito a restare e viveva nei paesi vicini. Ho incontrato parecchie famiglie a Fassouta. Di nuovo mi chiesi cosa fosse più penoso: essere stati totalmente tolti di mezzo e lontano o dover attraversare il posto del loro villaggio e vederne le rovine?

In realtà io e la mia famiglia fummo fortunati, una rara “eccezione”. Sebbene gli accordi di pace permetessero il ritorno nel territorio palestinese di parecchie migliaia di appartenenti all’OLP, solo a un numero molto ristretto fu permesso di ritornare alle proprie cittadine o ai villaggi di origine in Israele, e solo se avevano la cittadinanza israeliana prima di andarsene. Mentre riprendeva la tensione tra OLP e Israele solo circa dieci [rifugiati] erano riusciti a ritornare e alcuni portarono con sé le proprie famiglie. Noi non avevamo punti di riferimento, nessuno con cui parlare che avesse vissuto la nostra stessa esperienza.

I palestinesi erano al fondo della scala sociale. La vecchia generazione ricordava gli anni di regime militare [lo stato d’assedio imposto fino al 1966 ai palestinesi rimasti in Israele, ndt.] e oppressione. Erano vissuti sotto una pesante cappa di intimidazioni. Per decenni loro stessi non si erano neppure chiamati palestinesi. Anzi per definirci avevamo un fantastico ossimoro: “arabi israeliani”. Quando menzionavo la Palestina, la gente di Fassouta reagiva con un silenzio sconcertato o con profondo disagio. Anche quando parlavamo della nostra posizione di inferiorità in Israele, loro la vedevano solo dalla prospettiva del lavoro e dei loro problemi più pressanti. Per sopravvivere avevano dovuto far parte del sistema israeliano. Per le generazioni più giovani, nate dopo la creazione di Israele, questo sistema era tutto quello che conoscevano.

Nel villaggio c’era poco lavoro. Fu chiaro che dovevo lasciare la mia famiglia per trovarne uno. Il fratello più giovane di mio padre, George, lavorava per le Pagine Gialle e viveva ad Haifa. Mi trovò un posto da uno dei suoi clienti, una ditta che vendeva software didattici. Lo stipendio era basso, ma dovevo pur cominciare da qualche parte. Haifa era a un’ora e mezza di macchina, ma non potevo permettermene una. Dovevo trasferirmi e trovai una stanza in un appartamento con delle studentesse universitarie di Fassouta che frequentavano il primo anno di studi.

La casa era vecchia e squallida, ma era tutto quello che potevamo permetterci. Dividevo la stanza con una delle ragazze e le altre due occupavano l’altra. Era difficile avere un po’ di privacy ed io ero l’intrusa perché erano tutte cugine e sembravano incerte su come rapportarsi con me. La nostra prima sera là le ho aiutate a pulire l’appartamento e poi abbiamo cenato. Non riuscii a dormire fino a tardi, mi giravo e rigiravo nel letto e non ero sicura che anche la mia compagna di stanza dormisse. Ma mi imbarazzava cercare di parlarle.

Il mattino dopo riuscimmo appena a mangiare qualche fetta di pane tostato prima di uscire. Avevamo i nervi a fior di pelle: per loro era il primo giorno di università e per me di lavoro. Non avevo idea di dove andare, ma loro lessero i cartelli del bus e mi aiutarono. La loro fermata era prima della mia, loro scesero e si girarono sorridendomi e facendomi ciao con la mano. Risposi con un cenno, combattendo il senso di panico.

Guardai davanti e vidi salire sull’autobus due soldati. Strabuzzai gli occhi. Portavano delle armi. Camminarono lungo il corridoio e si sedettero nei due posti vuoti davanti a me. Fissai i fucili che portavano a tracolla sulle spalle. Era la prima volta che vedevo il freddo metallo così da vicino. Deglutivo con fatica. Nessuno girava armato a Cipro. Perché c’erano armi per le strade? Era normale? E se fosse partito un colpo?

Volevo cambiare posto. Guardandomi intorno vidi che tutti i sedili erano occupati. Ce n’era uno proprio al fondo, ma là c’erano ancora più soldati. Tutti chiacchieravano normalmente mentre l’autobus continuava per la sua strada. Io ero l’unica a sudar freddo.

Sembrava anche che io fossi l’unica palestinese. Mi dissi di restare calma. Ero probabilmente non troppo lontana dalla mia fermata. Per quanto cercassi, non riuscivo a scacciare il terrificante pensiero che impazzava nella mia mente: “Sono su un autobus con dei soldati israeliani!”

Dopo dieci minuti riconobbi la zona, suonai velocemente la richiesta di fermata e mi precipitai fuori. In strada respirai profondamente e mi diressi verso il mio ufficio. Ero frastornata, avevo una sensazione surreale, quasi come se fossi in un incubo.

Il primo giorno di lavoro fu complicato. Ero sola, un piccolo sottotetto senza finestre con il soffitto basso e mi avevano incaricata di testare i software. Fu un gran sollievo quando arrivarono le 5, ora di andarmene, ma di nuovo la paura mi attanagliò lo stomaco.

Sull’autobus per casa guardavo fuori dai finestrini mentre avanzavamo lentamente attraverso il traffico dell’ora di punta. Le insegne e i cartelli stradali erano tutti in ebraico. C’erano solo alcuni ristoranti con insegne in arabo. Le conversazioni intorno a me erano in ebraico. Altri soldati salirono, sgomitando per farsi posto nell’autobus affollato. Fu in quel momento che una sensazione di gelo attanagliò il mio cuore. Non ero neIla Palestina dei miei sogni.

Il 14 maggio sperimentai il mio primo anniversario dell’Indipendenza d’Israele. Gli israeliani sventolavano bandiere, facevano feste e barbecue su quella che era la terra palestinese. Il Paese rimase tappezzato di bandiere per settimane, prima e dopo, anche più del solito. C’era veramente bisogno di una bandiera nella piscina di Nahariya, nello sporco caffeuccio vicino alla stazione degli autobus, al terminal degli autobus e ancora, ogni poche centinaia di metri, sul lungomare?

Quel giorno ero così depressa che decisi semplicemente di restare a casa.

Al villaggio la situazione era ancora più deprimente. Oltre la metà dei palestinesi in Israele viveva sotto la soglia di povertà. La maggior parte del budget dello Stato per le infrastrutture e lo sviluppo economico andava alle comunità ebraiche. Noi non avevamo iniziative imprenditoriali, nessuna industria o fabbrica. Molte delle nostre amministrazioni locali erano insolventi e la maggior parte doveva raccogliere fondi per conto proprio per installare infrastrutture essenziali come reti idrauliche e fognarie.

La maggior parte delle famiglie del mio villaggio guadagnava circa la metà di una famiglia ebrea media. Le nostre comunità avevano un’aspettativa di vita più bassa e un numero maggiore di persone soffriva di malattie collegate allo stress, come diabete e ipertensione. E per aggiungere al danno la beffa, il termine ebraico avoda aravit, o “lavoro arabo”, si usava comunemente per definire un lavoro di qualità scadente o fatto alla carlona, nonostante la triste ironia che quasi tutto Israele fosse stato costruito da mani palestinesi.

Non era più facile per chi aveva un’istruzione, il villaggio era pieno di laureati frustrati in attesa di colloqui di lavoro che non arrivavano mai. Uno dei miei cugini si era laureato al Technion, l’Istituto israeliano di tecnologia. Scoprii che c’erano parecchie materie che i palestinesi non potevano studiare con il pretesto della “sicurezza”, come, per esempio, certi campi della fisica, della scienza nucleare e dell’addestramento piloti. Sul lavoro erano completamente esclusi, fra le altre, dalle industrie della difesa e dell’aviazione. Per evitare di non trovare lavoro molti studenti si rivolgevano alle libere professioni, come legge, architettura del paesaggio, odontoiatria e altre professioni mediche in cui potevano aprire i propri studi.

Un weekend andai a Ramallah a trovare Raja e Sawsan, vecchie amiche dell’università. Eravamo strafelici di rincontrarci. “L’unica cosa buona di Oslo,” risero, “è che siamo riuscite a rivederti.”

Le mie amiche erano bloccate in Cisgiordania. Prima degli accordi potevano viaggiare liberamente nel Paese. “Semplicemente ci mettevamo in macchina e partivamo,” mi dissero. “Per Haifa, Gerusalemme, per le spiagge di Giaffa.” Ora c’erano checkpoint israeliani a tutti i varchi per Israele e i palestinesi avevano bisogno di permessi per attraversarli. Inoltre non si poteva usare l’aeroporto di Tel Aviv, a soli trenta minuti. Per viaggiare all’estero si doveva andare in Giordania e partire da Amman, perdendo altro tempo e soldi.

La sovranità palestinese stabilita dagli accordi era una mera facciata. I documenti di identità e i passaporti rilasciati dall’autorità avevano bisogno dell’approvazione israeliana, come se rilasciati dalle forze di occupazione israeliane. Tutti i valichi di frontiera erano controllati da Israele. Peggio, la nuova forza di polizia palestinese era diventata uno strumento per il coordinamento con Israele per la sicurezza, inseguendo e consegnando chi era impegnato nella resistenza. Nessuno avrebbe potuto immaginare uno scenario simile.

Gli oppositori alle nuove disposizioni finivano esclusi dagli impieghi e dai privilegi di far parte dell’Autorità [palestinese] o imprigionati. “Stiamo vivendo in un incubo peggiore di prima,” mi diceva Raja. Gli accordi avevano asservito economicamente, politicamente e in ogni aspetto della vita i palestinesi a Israele. Quando furono firmati gli accordi di Oslo si presupponeva che l’attività di colonizzazione da parte di Israele nel territorio palestinese sarebbero cessate immediatamente e che, tre anni dopo, sarebbero iniziati i negoziati su temi significativi, tra cui rifugiati, colonie e confini, mirando a un totale ritiro di Israele entro cinque anni. Ma Israele aveva già buttato i suoi impegni alle ortiche.

Benjamin Netanyahu, neo eletto primo ministro con il partito di destra Likud, si oppose allo Stato palestinese e al ritiro di Israele dai territori occupati. Il suo governo continuò a occupare terre per espandere illegalmente le colonie ebraiche e costruire strade di collegamento riservate solo agli israeliani. Invece di fermarsi, le attività coloniali israeliane si moltiplicarono.

Gli accordi di Oslo furono presto visti dai palestinesi come forieri né di pace né di libertà e le tensioni sobbollivano tra l’Autorità Palestinese, che era dominata da una fazione politica, Fatah, e dalla sua rivale, Hamas. Israele faceva pressioni su Arafat per tenere a freno il terrorismo, come loro definivano ogni atto di resistenza, ed egli, sebbene con riluttanza, spesso obbediva. Nella nuova situazione le mie amiche erano arrabbiate e insicure. Sapevano come fosse diversa la vita in Israele. I decenni di occupazione avevano danneggiato la loro società, impossibilitata a raggiungere gli stessi livelli di vita.

Mentre i palestinesi ritornavano e cercavano di ricostruire le proprie vite in Cisgiordania e a Gaza, io avevo lo stesso arduo compito di provare a trovare il mio posto in Israele. Fino a quel momento non avevo quasi avuto rapporti con israeliani.

Non parlavo ebraico. Mi dividevo tra il mio villaggio e un appartamento con delle ragazze palestinesi ad Haifa e lavoravo in una ditta palestinese. Quando scendevo a pranzo tutti i negozi di falafel e shawarma erano di palestinesi. Quando salivo sull’autobus o compravo qualcosa al supermarket, e c’erano un autista o una cassiera israeliani, pescavo dei soldi e Ii porgevo senza capire l’ammontare che mi avevano chiesto, guardavo il registratore di cassa per vederlo. Loro mi davano il resto e tutto finiva lì. Vedevo israeliani ovunque, ma avevo un’esistenza completamente separata e parallela rispetto a loro, ero colpita da una sensazione penosa, che da allora non mi ha più abbandonata: ero una straniera nel mio Paese.

Per fortuna, mia cugina Rania abitava ad Haifa, andava all’università e lavorava part-time. Mi chiamava spesso per incontrarci. Qualche volta andavamo fuori, passeggiavamo nel quartiere Hadar [quartiere commerciale della città, ndt.] e compravamo gli abiti o i cosmetici economici che potevamo permetterci con i nostri pochi soldi. La città mi opprimeva. Dopo la Nakba, solo 3.000 dei 70.000 palestinesi erano rimasti ad Haifa. Furono ricacciati in alcuni quartieri dove vivevano in condizioni difficili.

Il governo israeliano decise di cambiare completamente il carattere della città, distruggendo molte delle proprietà palestinesi, impossessandosi di altre per darle agli ebrei, sostituendo i nomi arabi delle strade con quelli ebraici e cancellando il patrimonio culturale palestinese che era stato cosi ricco e vibrante prima della rovina di Haifa. Ovunque andassimo le case sopravvissute mi osservavano come fantasmi di un’altra era.

Il mio unico sollievo era quando andavamo nei centri commerciali, che erano scollegati dalla realtà esterna. Ma anche là tutto era in ebraico. Non c’era nessun cartello in arabo, anche se era la seconda lingua ufficiale dello Stato e molti dei clienti erano palestinesi. I cartelli stradali in arabo nel Paese erano pieni di marchiani errori di ortografia e i nomi ebraici delle città erano trascritti in arabo invece di usare i nomi arabi originali.

All’ingresso di ogni centro commerciale, ufficio governativo o edificio pubblico guardie e metal detector erano la norma. Se si dimenticava una borsa su un autobus o in una stazione ferroviaria o se qualcuno abbandonava il proprio bagaglio per un minuto e si allontanava per andare a prendere qualcosa, diventava un’emergenza. La gente si guardava intorno in preda al panico e, se non si trovava il proprietario, le cose potevano rapidamente precipitare. Alla stazione centrale assistei proprio a una scena simile: suonarono le sirene di allarme, la zona fu evacuata e una squadra di artificeri fu chiamata a disinnescare un oggetto sospetto che si rivelò una borsa con dei vestiti. La sensazione di costante allarme era palpabile, eppure considerata normale.

Dopo aver cambiato 3 lavori in meno di due anni, avevo bisogno di un vero cambiamento. Per tre mesi mi chiusi in casa a studiare ebraico, con un atteggiamento impersonale e ignorando i miei sentimenti. Alla fine di quel periodo sapevo parlare, leggere e scrivere in un ebraico elementare. Cominciai a far domande in ditte di software. Passarono settimane senza una risposta. Poi arrivò una chiama da una grande impresa ad Haifa. La signora mi parlò in ebraico e io ero molto nervosa, ma riuscii a organizzare l’appuntamento per il mio colloquio.

Quel giorno quando trovai il palazzo, passata la sicurezza, mi irrigidii. Fino ad allora non avevo quasi avuto interazioni con israeliani. Quando un cordiale giovanotto mi venne incontro alla porta e mi strinse la mano cominciai a sudare leggermente.

C’erano altre due persone nella stanza. Mi fecero molte domande e per fortuna risposi ad alcune in inglese. Sfogliando il mio CV, mi chiesero, in ulteriori dettagli, del mio lavoro a Cipro. Ero felice e lo presi come un segno di interesse.

Bene, grazie,” il gentile giovane finalmente mi sorrise. “Oh, e un’ultima cosa. Possiamo avere il suo numero dell’esercito?”

Mi sentii sprofondare. “Ehm, non ce l’ho …”

OK,” il sorriso rimase, fisso. “Grazie. Ci metteremo in contatto con lei.”

Terminate le scuole, ogni giovane israeliano/a deve finire il servizio militare. Poi si aprono le porte di prestiti per studiare, lavori e mutui generosi. I palestinesi in Israele sono esonerati e pochi si arruolano. Ma completarlo è un requisito indispensabile per molti lavori e sussidi sociali.

Uscii sconfitta. Avevo fatto ricerche sulla compagnia, mi ero preparata per il colloquio e avevo comprato un vestito nuovo. Mi ero entusiasmata per l’opportunità. Ma nessuno mi chiamò, e neanche altre tre aziende che mi avevano offerto un colloquio. Lottando contro il panico, cominciai a chiedermi cosa fare. Che farmene della laurea che avevo ottenuto con lode in scienze informatiche, i soldi spesi da mio padre per una delle migliori università britanniche? Perché qui era così difficile?

Finalmente riuscii a trovare un buon lavoro come tester in un’azienda di software. Gli uffici erano in un parco tecnologico a Tefen, una zona industriale a circa 20 minuti dal mio villaggio in Galilea. Era perfetto. Finalmente l’insicurezza e lo stress degli ultimi due anni erano alle mie spalle. Mi ci vollero pochi giorni per rendermi contro che, su un personale di 30 persone, io ero l’unica palestinese.

C’era un muro tra me e i miei colleghi che avevano le loro case, i loro lavori, le loro vite: pochi si soffermavano a pensare da dove fosse venuta la terra dove vivevano o lavoravano. Fu questa sensazione frastornante di essere in un enorme cimitero dove tutti gli altri ignoravano le lapidi, che cominciò a divorarmi e che avrebbe finito per spezzare il mio infelice tentativo di integrarmi.

Diventai amica di Lisa, funzionaria alle risorse umane. Era un’amicizia curiosa. Lei era sui 50, io avevo 24 anni, ero più giovane di sua figlia. Ma ci piaceva chiacchierare in inglese. Lisa era ebrea ed era emigrata dalla Gran Bretagna da ragazzina e aveva sposato un israeliano del posto. Spesso si presentava sulla porta del mio ufficio per fare due parole dopo aver preparato il tè nella vicina cucina.

Un giorno Lisa apparve per la nostra solita chiacchierata. Grata, sollevai gli occhi dallo schermo. Ma lei era agitata. “Sono un po’ preoccupata di tornare a casa in macchina in questi giorni,” esclamò.

Perché?” Lisa viveva ad Atzmon, una comunità ebraica in Galilea.

A causa dei recenti disordini. Alcuni arabi gettano pietre lungo la strada.”

Arabi, notai, non palestinesi. Lo Stato aveva faticato a negare la nostra identità e non aveva usato la parola ‘palestinesi’ fino a dopo gli accordi di Oslo e, anche successivamente, solo per riferirsi ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, non ai suoi cittadini.

Era la prima volta che Lisa parlava di noi. “Disordini?” ripetei.

Alcuni ragazzi arabi hanno lavorato per un po’ ad Atzmon, ma delle persone si sono arrabbiate e li hanno costretti ad andarsene. Ora da alcuni giorni tirano pietre alle nostre auto mentre passiamo. È veramente stressante!”

Perché sono stati licenziati?” chiesi.

Oh, sai … ” sembrava a disagio, agitando una mano. “Alcuni proprio non vogliono che gli arabi lavorino nel kibbutz.”

Oh.” deglutii. Molte comunità ebraiche non permettevano ai palestinesi di lavorarci e la maggior parte nemmeno di viverci. Uno dei miei cugini faceva il tuttofare in un kibbutz, ma erano pochi quelli come lui. La maggior parte di queste comunità aveva una procedura per vagliare le domande tramite una “commissione di ammissione”, la cui decisione era inappellabile. Alcune cominciarono persino a chiedere a chi si presentava di giurare lealtà ai principi sionisti. Alcuni palestinesi erano andati in tribunale a protestare, ma raramente avevano vinto.

Allo stesso modo era impensabile per un ebreo vivere in un villaggio palestinese. Quelli che lo facevano, per mandare un messaggio, di solito non erano benvenuti nelle comunità palestinesi e per lo più evitati dalle loro. Ma di nuovo, erano molto pochi.

Guardai Lisa chiedendomi quale fosse la sua posizione sull’argomento. Ma era così agitata che sembrava ignara dei miei pensieri. “Telefono a mio marito per dirgli di star pronto in caso avessi bisogno di aiuto.”

Annuii. Mi salutò in fretta e se ne andò.

Tornando a casa pensai alle sue parole mentre oltrepassavo una colonia ebraica con le sue file di villette curate, giardini lussureggianti, fontane e ampi marciapiedi.

La differenza tra comunità palestinesi ed israeliane, spesso l’una accanto all’altra, erano così marcate che chiunque poteva distinguerle. Fondi statali per le comunità israeliane garantivano che avrebbero offerto un livello di vita tale da attrarre immigranti. Centinaia di località ebraiche erano state costruite da Israele dalla sua fondazione, ma non fu creato neppure un nuovo villaggio o paesino palestinese e quelli esistenti furono soffocati. In ogni villaggio palestinese che avevo visitato, vidi ghetti trascurati e sovraffollati, strade strette piene di buche, mancanza di spazi attrezzati, nessun parco o spazi pubblici e un’atmosfera pesante, depressa.

I villaggi palestinesi si sono sviluppati per centinaia di anni, prima dell’attuale zonizzazione e dei piani comunali. Le nuove comunità ebraiche sono state costruite in modo pianificato e metodico, le loro case copie esatte una dell’altra, come i quartieri in Occidente. Sembravano cadute dal cielo al posto dei villaggi distruttti. In tutta quella bellezza e ordine io vedevo solo bruttezza perché con la mente ripensavo a come erano state costruite.

Questo è un estratto editato da Stranger in My Own Land: Palestine, Israel and One Family’s Story of Home di Fida Jiryis, pubblicato da Hurst e disponibile dal guardianbookshop.co.uk

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I disordini di Nablus mettono in questione il futuro dell’ANP

Ramzi Baroud

26 settembre 2022 – Arab News

L’arresto la scorsa settimana da parte della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese di due attivisti palestinesi, tra cui un importante militante, Musab Shtayyeh, non ha rappresentato la prima volta in cui il noto Servizio di Sicurezza Preventiva ha arrestato un palestinese ricercato da Israele.

Questo servizio è strettamente legato a continui arresti e torture di attivisti contrari all’occupazione israeliana. In passato molti palestinesi, il più recente dei quali è stato Nizar Banat, torturato a morte lo scorso giugno, sono morti in conseguenza della violenza del Servizio di Sicurezza Preventiva. L’uccisione di Banat ha provocato una rivolta popolare contro l’ANP in tutta la Palestina.

Per anni varie associazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno criticato, molto spesso all’interno degli stessi rapporti sui diritti umani critici contro l’occupazione militare israeliana della Palestina, le pratiche violente dell’ANP contro i palestinesi dissenzienti. Anche il governo di Hamas a Gaza ha ricevuto una giusta dose di critiche.

Nel suo “Rapporto sul mondo 2022”, pubblicato in gennaio, Human Rights Watch ha affermato che “l’Autorità Nazionale Palestinese…arresta e tortura sistematicamente e arbitrariamente i dissidenti.” Questa non è la prima volta né sarà l’ultima in cui un’associazione per i diritti umani solleva una simile accusa. Il rapporto tra la violenza israeliana e quella palestinese contro i dissidenti politici e gli attivisti è chiaro alla maggioranza dei palestinesi.

A un certo punto alcuni palestinesi possono aver creduto che il ruolo dell’ANP fosse di fungere da transizione tra il loro progetto di liberazione nazionale e la piena indipendenza e sovranità sul terreno. Tuttavia circa 30 anni dopo la formazione dell’ANP questa idea si è dimostrata una pia illusione. Non solo l’ANP non è riuscita a ottenere il desiderato Stato palestinese, ma si è trasformata in un apparato totalmente corrotto la cui esistenza è funzionale principalmente a una piccola classe di politici e uomini d’affari palestinesi – e, nel caso della Palestina, si tratta sempre dello stesso gruppo.

Oltre alla corruzione dell’ANP e alla conseguente violenza, ciò che continua a irritare molti palestinesi è che col tempo l’autorità è diventata un’altra incarnazione dell’occupazione israeliana, che riduce la libertà di espressione dei palestinesi e procede ad arresti per conto dell’esercito israeliano. Tristemente molti di quanti vengono arrestati dall’esercito israeliano in Cisgiordania sono stati arrestati anche dagli scagnozzi dell’ANP.

Le scene di violenti disordini a Nablus in seguito all’arresto di Shtayyeh hanno ricordato rivolte contro le forze di occupazione israeliane nella città del nord della Cisgiordania e altrove nella Palestina occupata. A differenza di precedenti scontri tra palestinesi e polizia dell’ANP – ad esempio in seguito all’uccisione di Banat -, questa volta la violenza è stata generalizzata ed ha coinvolto manifestanti delle organizzazioni politiche palestinesi, compresa la fazione di Fatah, che è al governo.

Il governo dell’ANP, forse inconsapevole del massiccio cambiamento psicologico collettivo avvenuto in Palestina negli ultimi anni, ha cercato disperatamente di contenere la violenza. Conseguentemente il comitato che rappresenta l’unità delle fazioni palestinesi a Nablus ha dichiarato di aver raggiunto una “tregua” con le forze di sicurezza dell’ANP in città. Il comitato, che include importanti personalità palestinesi, ha detto all’Associated Press e ad altri media che l’accordo esclude ogni futuro arresto di palestinesi a Nablus, a meno che siano implicati nella violazione delle leggi palestinesi, non di quelle israeliane. Questa clausola di per sé implica la tacita ammissione da parte dell’ANP che gli arresti di Shtayyeh e Ameed Tbaileh siano stati motivati dalle priorità israeliane e non da quelle palestinesi.

Ma perché l’ANP dovrebbe cedere così in fretta alle pressioni provenienti dalla piazza palestinese? La risposta riguarda il cambiamento del clima politico in Palestina.

In primo luogo, per anni il risentimento nei confronti dell’ANP è andato aumentando. Un sondaggio dopo l’altro ha indicato la scarsa considerazione che la maggior parte dei palestinesi ha nei confronti dei propri dirigenti, del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e in particolare del “coordinamento per la sicurezza” con Israele.

In secondo luogo, la tortura e la morte del dissidente politico Banat lo scorso anno hanno tolto di mezzo qualunque forma di sopportazione dei palestinesi nei confronti della loro dirigenza, in quanto hanno dimostrato loro che l’ANP non è un alleato ma una minaccia.

Terzo, la cosiddetta Intifada dell’Unità del maggio 2021 ha rinfrancato molti segmenti della società palestinese nei Territori Occupati. Per la prima volta da anni ora i palestinesi si sentono uniti intorno a un unico slogan e non sono più ostaggio della conformazione della politica e delle fazioni. Una nuova generazione di giovani palestinesi ha avviato un dialogo ben al di là di Abbas, dell’ANP e della loro sconfinata e inefficace retorica politica.

Quarto, la lotta armata in Cisgiordania è cresciuta in modo talmente rapido che questo mese [settembre, ndt.] il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi ha affermato che da marzo circa 1.500 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania e che sarebbero stati sventati centinaia di attacchi contro l’esercito israeliano.

Di fatto stanno crescendo le prove di un’Intifada armata nelle regioni di Jenin e Nablus. Ciò che è particolarmente interessante e preoccupante dal punto di vista di Israele e dell’ANP riguardo alla natura del fenomeno della nascente lotta armata è che essa è in buona parte guidata dall’ala militare del partito Fatah al governo, in collaborazione diretta con Hamas e altre fazioni armate islamiste e nazionaliste.

Per esempio, lo scorso mese l’esercito israeliano ha assassinato, insieme ad altri due, Ibrahim Al-Nabulsi, un importante comandante militare di Fatah. Come reazione, non solo l’ANP ha fatto molto poco per impedire alla macchina militare israeliana di condurre ulteriori assassinii di questo tipo, ma sei mesi dopo ha arrestato Shtayyeh, un compagno di lotta molto vicino ad Al-Nabulsi. Cosa interessante, Shtayyeh non è un membro di Fatah, ma un comandante di Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Benché Fatah e Hamas siano considerati rivali politici accaniti, in Cisgiordania le loro divergenze politiche non sembrano essere rilevanti per i gruppi armati.

Sfortunatamente è probabile che ne segua un’ulteriore violenza, per varie ragioni: la determinazione israeliana a stroncare ogni Intifada armata in Cisgiordania prima che si diffonda in tutti i Territori Occupati, l’imminente transizione al comando dell’ANP a causa dell’età avanzata di Abbas e la crescente unità tra i palestinesi riguardo alla questione della resistenza.

Mentre la risposta israeliana a tutto ciò può facilmente essere dedotta dal suo retaggio di violenza, la futura linea di azione dell’ANP probabilmente determinerà i suoi rapporti da una parte con Israele e i suoi sostenitori occidentali e dall’altra con il popolo palestinese. Da quale parte si schiererà l’ANP?

Ramzy Baroud scrive di Medio Oriente da più di 20 anni. È un editorialista di fama internazionale, consulente dei media, autore di vari libri e fondatore del sito PalestineChronicle.com.

Avvertenza: gli autori di questa sezione sono responsabili delle opinioni da loro espresse, che non riflettono necessariamente il punto di vista di Arab News.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cisgiordania: l’arresto di palestinesi ricercati da Israele scatena scontri con un morto

Shatha Hammad

20 settembre 2022 – Middle East Eye

Ucciso un palestinese durante un conflitto armato tra forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese e manifestanti

All’alba di martedì sono scoppiati scontri armati tra forze di sicurezza palestinesi e manifestanti dopo che, la sera prima, l’Autorità Palestinese (AP) aveva arrestato in un’imboscata a Nablus, nella Cisgiordania occupata, un importante dirigente di Hamas ricercato da Israele. 

Gli scontri sono continuati per tutta la mattinata e si sono conclusi con un morto, il palestinese Firas Yaish, 53 anni, e un ferito grave.

Poco prima della mezzanotte in un’imboscata in Faisal Street, a Nablus est, le forze dell’AP hanno arrestato Musab Shtayyeh che era stato il bersaglio di parecchi tentativi di assassinio da parte di Israele. Nello stesso attacco hanno anche arrestato Ameed Tabileh, un combattente palestinese vicino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista della resistenza armata palestinese, N.d.T.], anch’egli ricercato da Israele.

Shtayyeh aveva avuto stretti rapporti con Ibrahim Nabulsi, leader delle Brigate dei Martiri al-Aqsa, ala militare di Fatah, che era stato ucciso dalle forze israeliane ad agosto.

La famiglia di Shtayyeh ha chiesto il suo immediato rilascio e respinto le informazioni dell’AP secondo cui sarebbe stato consegnato alle forze di sicurezza. 

In un comunicato la famiglia ha detto: “Noi riteniamo le forze di sicurezza pienamente responsabili della vita del nostro figlio ed eroe, Musab Shtayyeh, degli eventi successivi e degli attacchi contro il nostro popolo,” e ha chiesto di vedere Shtayyeh per controllare le sue condizioni dopo le percosse ricevute durante l’arresto.

Hamas, da lungo tempo rivale di Fatah, primo partito dell’AP, ha condannato l’arresto di Shtayyeh definendolo un “rapimento… un delitto nazionale ” e una “macchia” sull’immagine dell’AP. 

A vantaggio di Israele

Centinaia di palestinesi radunatesi in cortei provenienti dai campi profughi della città, tra cui quelli di Balata, al-Ain e Askar, hanno chiesto il rilascio immediato dei detenuti. I manifestanti hanno bloccato le strade incendiando pneumatici e tirando pietre contro i veicoli blindati dell’AP. 

Nel frattempo palestinesi armati hanno partecipato a scontri contro le forze di sicurezza durati tutta la mattina durante i quali è stato ucciso Yaish.

Uomini armati hanno anche sparato verso il quartier generale distrettuale dell’AP in protesta contro le politiche dell’Autorità.

Talal Dweikat, portavoce dei servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, ha confermato con un comunicato la morte di Yaish aggiungendo che “si sta attendendo il referto medico” sulle circostanze del decesso.

Dweikat ha dichiarato che Yaish è stato ucciso “in una zona dove non era presente il personale della sicurezza”.

In informazioni non confermate alcuni testimoni oculari hanno detto che Yaish è stato ucciso dalla polizia dell’AP. 

Sono stati feriti anche quattro manifestanti palestinesi, tra cui Anas Abdel-Fattah, studente presso l’università al-Najah ed ex detenuto nelle carceri israeliane che, colpito allo stomaco, è in condizioni critiche. 

Khaled Mansour, leader dei Comitati di Resistenza Popolare [organizzazione armata che riunisce miliziani di varie formazioni palestinesi, N.d.T.], ha dichiarato a Middle East Eye: “Noi speravamo che la rabbia popolare si sarebbe scatenata contro l’occupazione israeliana, e ci eravamo impegnati affinché avvenisse, ma quello che le azioni dell’AP hanno fatto ha distrutto tutti i nostri sforzi.”.

Non ci saremmo mai aspettati gli eventi di cui siamo stati testimoni a Nablus dalla scorsa notte. Sono il risultato degli errori e delle prevaricazioni dell’AP e devono essere revocate,” ha aggiunto Mansour.

La calma non ritornerà fino a che l’Autorità non smetterà di incarcerare e perseguitare le persone ricercate da Israele.”

Mansour ritiene l’AP responsabile anche delle vittime.

“L’Autorità arresta i palestinesi e li insegue adempiendo ai suoi obblighi con Israele. Ma Israele viola tutti i trattati con i palestinesi e non ne rispetta nessuno,” ha detto. 

L’unico a trarre beneficio dagli eventi di oggi a Nablus è Israele e siamo noi, il popolo palestinese e la nostra resistenza, a perdere in seguito a questi sventurati eventi.”

Le ragioni’ dell’AP

L’AP non ha dato un resoconto chiaro dei disordini, ma nella sua dichiarazione Dweikat ha detto che Shtayyeh e Tabileh sono in carcere “per le ragioni della sicurezza dell’establishment che verranno rivelate successivamente”.

I detenuti “non correranno alcun pericolo” e “alle organizzazioni per i diritti umani sarà permesso di far loro visita immediatamente”, ha aggiunto.

La dichiarazione tenta di avere un tono tranquillizzante, ma definisce le proteste contro l’AP manipolate da “interessi stranieri”.

“In questo momento dovremmo serrare i ranghi e non farci trascinare in progetti dannosi,” ha detto Dweikat.

Il gruppo armato di Nablus Fossa del leone [gruppo armato palestinese da poco creato e la cui connotazione politica è ancora ignota, N.d.T.], fondato dopo l’assassinio di Nabulsi [combattente diciannovenne ucciso il 7 agosto], in varie dichiarazioni ha invocato l’escalation contro l’AP per l’arresto di Shtayyeh e la persecuzione da parte dell’Autorità di palestinesi sulla lista dei ricercati da Israele.

Il gruppo ha minacciato che alle forze di sicurezza dell’AP non verrà permesso di entrare a Nablus se Shtayyeh non verrà rilasciato.

Noi abbiamo mandato un messaggio urgente ai servizi di sicurezza: i figli della ‘Fossa del leone’, e tutte le altre fazioni politiche palestinesi a Nablus, non accetteranno che il più importante ricercato dell’occupazione (israeliana) sia detenuto nelle carceri dell’AP,” precisa il gruppo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Kafka a Gaza: come Israele ha trasformato un operatore umanitario palestinese in un “terrorista”

Antony Loewenstein

8 settembre 2022 – +972 Magazine

Nel processo di sei anni contro Mohammed Halabi tutte le prove erano “segrete” o non plausibili. Ciò non ha impedito a Israele di condannarlo a 12 anni di prigione.

Dopo uno dei processi più lunghi nella storia israeliana, che ha compreso più di 160 udienze in sei anni, il 30 agosto un tribunale israeliano ha condannato l’operatore umanitario palestinese Mohammed Halabi a 12 anni di prigione con l’accusa di aver dirottato denaro verso Hamas. A giugno Halabi, che era a capo dell’ufficio di Gaza dell’organizzazione umanitaria cristiana World Vision, è stato dichiarato colpevole dal tribunale distrettuale di Be’er Sheva di aver deviato 50 milioni di dollari dei fondi dell’organizzazione alle autorità di Hamas che governano la Striscia di Gaza bloccata.

Durante il processo kafkiano, condotto in quasi totale segretezza dal momento dell’arresto di Halabi nel giugno 2016, e condannato da diverse delle principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, il palestinese di 45 anni ha sempre proclamato la sua innocenza. È stato separato dai suoi cinque figli e dalla sua famiglia a Gaza dal momento in cui si è rifiutato di capitolare alle richieste di Israele di ammettere la sua colpevolezza e accettare un patteggiamento fraudolento.

World Vision, che ha sostenuto Halabi durante tutto il processo, ha continuato a difendere il proprio collaboratore dopo la condanna. “Non abbiamo verificato nulla che ci faccia mettere in dubbio le nostre conclusioni che Mohammed sia innocente da tutte le accuse”, ha scritto in una dichiarazione ufficiale.

Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, è stato più diretto, definendo la sentenza un “grave errore giudiziario”. Ha condannato Israele per aver “trattenuto Halabi per sei anni sulla base di prove segrete confutate da numerose indagini” aggiungendo: “Il caso Halabi mostra come Israele usi il suo sistema giudiziario per fornire una patina di legalità al fine di mascherare il suo orrendo sistema di apartheid nei confronti di milioni di palestinesi. “

Il caso di Halabi è l’ultimo esempio di un sistema giudiziario israeliano truccato ed impegnato in una discriminazione contro palestinesi e non ebrei. Ma la sua storia fornisce più di un semplice spaccato dell’occupazione israeliana. Oltre al silenzio assordante degli alleati di Israele che pretendono di sostenere la democrazia, la sentenza di Halabi è un paradigma di quanto lontano si possa spingere Israele nel suo assalto alla società civile palestinese.

Parlando da Gaza alla rivista +972 dopo la sentenza il padre di Mohammed, Khalil, ha detto che “continuerà a lottare prima nei tribunali [distrettuali] israeliani e poi appellandosi [alla Corte suprema israeliana]” per ottenere giustizia. “Dopodiché [si rivolgerà] ai tribunali dei Paesi europei e in America”, fino a quando Israele non avanzerà le sue scuse per aver arrestato Mohammed, aggiunge.

Khalil, che ha lavorato per anni presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro (UNRWA) a Gaza, ha affermato che i figli di Mohammed comprendono che il loro padre è innocente. Ho sollevato loro il morale fornendo delle spiegazioni. Dico sempre loro che nel procedimento contro il padre la giustizia prevarrà. Il mondo è con lui così come gli israeliani che amano la giustizia e la pace”.

Una totale mancanza di prove

Israele ha arrestato Halabi al valico di Erez tra Israele e la Striscia di Gaza assediata nel giugno 2016 e per settimane non si è saputo niente di lui. Due mesi dopo, Israele ha annunciato che Halabi avrebbe confessato di aver dirottato 50 milioni di dollari nelle casse di Hamas, mentre l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto riferimento all’arresto senza menzionare il nome di Halabi.

Organizzazioni umanitarie internazionali e Paesi donatori come la Germania e l’Australia hanno interrotto immediatamente tutti gli aiuti in denaro alla sede di World Vision a Gaza, lasciando migliaia di palestinesi in uno stato di incertezza sugli aiuti e centinaia senza lavoro. Da allora World Vision non è più stata in grado di operare a Gaza.

World Vision ha intrapreso una costosa verifica del suo lavoro a Gaza per determinare se mancasse del denaro. La società di revisione Deloitte e lo studio legale statunitense DLA Piper non hanno trovato prove di illeciti, azioni illegali e nessuna prova credibile che Halabi lavorasse per Hamas (in effetti, la sua famiglia era nota per l’opposizione al gruppo). L’organizzazione umanitaria ha anche affermato che il suo intero budget decennale per Gaza era di 22,5 milioni di dollari, ridicolizzando l’affermazione che El-Halabi avrebbe rubato 50 milioni di dollari.

L’Australia, uno dei principali finanziatori dei programmi di World Vision a Gaza, ha immediatamente condotto la propria indagine sulle gravi accuse di Israele. Anch’esso non ha trovato nulla.

L’allora capo di World Vision Australia, il ministro battista Tim Costello, ha detto a +972 che l’intero caso era un “insulto ai contribuenti australiani, alla nostra integrità. Il bilancio degli aiuti australiani è stato sottoposto ad un’indagine e tuttavia nessun denaro dei contribuenti è scomparso. Ci deve essere una risposta ufficiale del governo australiano, anche se a porte chiuse e in privato, per condannare la sentenza [contro Halabi]”.

Fino al momento in cui scrivo, il governo australiano è rimasto in silenzio, anche se tre senatori verdi del parlamento federale hanno condannato la sentenza. L’Australia è da molti anni uno degli alleati più fedeli di Israele.

È una decisione chiaramente ideologica”, dice Costello a +972. Israele vuole dire: siamo una democrazia con uguaglianza davanti alla legge, ma i palestinesi non godono di questa uguaglianza. Lascia che la giustizia scorra come un fiume” [ “Let justice roll on like a river” è una famosa frase, tratta dalla Bibbia, che Martin Luther King pronunciò nel 1963 a Washington, ndt.].

Confessione sotto costrizione

Halabi afferma di essere stato torturato dalle autorità israeliane durante la detenzione nel 2016, e di aver ricevuto tra l’altro un pugno alla testa che gli ha lasciato persistenti problemi di udito. È stato sottoposto forzatamente a prolungate posizioni di stress, privato del cibo e del sonno e rinchiuso in una cella con un informatore palestinese, un sedicente membro di Hamas. Tali tattiche coercitive non sono insolite: Israele ha una lunga storia di torture nei confronti dei palestinesi sotto custodia per costringerli a una falsa confessione e ad accettare un patteggiamento con una pena ridotta.

Dopo essere rimasto intrappolato per giorni in una stanza con quell’uomo Halabi ha detto al suo avvocato palestinese, Maher Hanna, che non poteva più sopportare quel trattamento. Halabi ha ammesso tutto ciò che volevano gli inquisitori dopo essere stato sottoposto a una coercizione intollerabile, ha detto Hanna. Diversi relatori speciali delle Nazioni Unite hanno ritenuto che la detenzione e l’interrogatorio di Halabi “potrebbero essere equiparati a tortura”.

Nel frattempo Halabi non credeva che nessun tribunale israeliano credibile avrebbe preso sul serio il processo, e così ha ritrattato la sua confessione. Ma per sei lunghi anni ha dovuto sopportare interminabili ritardi, mancanza di prove in aula e un sistema giudiziario israeliano che ha rifiutato di consentire l’audizione di testimoni credibili.

Per l’accusa israeliana il semplice fatto che i numeri non tornassero – che Halabi non avesse mai avuto accesso a nessun quantitativo di denaro che si avvicinasse a 50 milioni di dollari – era irrilevante. Avevano quella che sostenevano fosse un’ammissione da parte dell’operatore umanitario durante la sua detenzione, e questo era sufficiente. Niente di tutto questo è mai stato sottoposto a verifica in un tribunale equo e pubblico; al contrario, l’accusa è stata autorizzata a presentare tutte le sue cosiddette “prove segrete” nel corso di udienze a porte chiuse.

Durante questo processo-farsa la maggior parte della comunità internazionale è rimasta in silenzio o ha affermato di non poter intervenire fino alla sua conclusione, una posizione che andava a pennello per Israele.

Dopo la sentenza di fine agosto, ad esempio, il consolato britannico a Gerusalemme si è limitato a twittare di essere “preoccupato”, mentre la delegazione dell’Unione europea presso i palestinesi ha twittato che “si rammarica dell’esito“. L’UE è il principale partner commerciale di Israele, una solida relazione che sta crescendo nonostante la preoccupazione pubblica per i tentativi di Israele di schiacciare importanti organizzazioni della società civile palestinese, molte delle quali ricevono fondi da governi europei.

“Un moderno processo Dreyfus”

Il nocciolo della questione, come la scorsa settimana ha rilevato l’avvocato Maher Hanna a +972, è stata la riluttanza di Halabi ad ammettere un crimine che non ha commesso. Durante un’udienza del marzo 2017 un giudice del tribunale distrettuale israeliano lo ha incoraggiato a patteggiare perché avrebbe avuto “poche possibilità” di non essere ritenuto colpevole. “Ha letto i numeri e le statistiche”, ha continuato il giudice, alludendo ai tassi di condanna dei tribunali militari. “Sa come vengono gestite queste situazioni.”

“All’inizio gli sono stati offerti tre anni, poi quattro, poi sei e infine otto”, spiega Hanna da Gerusalemme. Ma Halabi ha rifiutato di accettare ognuna di queste offerte, e di conseguenza è stato condannato a 12 anni di carcere.

Nonostante la sentenza l’accusa ha minacciato di ricorrere in appello per ottenere una sentenza più severa. “È difficile capire il cambio di posizione dell’accusa”, dice Hanna. “Era disposta ad accontentarsi di una condanna a tre anni in caso di confessione, ma non ad accettare una condanna a 12 anni quando l’imputato si è dichiarato innocente per lo stesso presunto reato“.

Hanna aggiunge: “L’accusa, e anche la corte, ritengono importante trasmettere un messaggio a tutti i detenuti e prigionieri palestinesi secondo cui chiunque non accetti una pena detentiva in un patteggiamento e costringa il tribunale ad ascoltare la propria difesa sarà severamente punito”.

In un’indagine del 2019 per la rivista +972 Magazine ho dettagliato la serie dei motivi per cui il processo non è riuscito a soddisfare nemmeno i più elementari standard internazionali di equità. Lo stesso Halabi mi ha detto nello stesso anno che credeva che l’intero caso contro di lui fosse una battuta di pesca per tentare di accentuare l’assedio contro gli abitanti di Gaza. Non stavano attaccando soltanto me, ma l’intero sistema di aiuti umanitari a Gaza, di cui ero solo una parte”.

Hanna è rimasto scioccato dalla sentenza della corte e sconvolto dal fatto che i giudici abbiano respinto la maggior parte delle rimostranze di Mohammed. Hanno puntualmente ignorato tutte le incongruenze presenti nel caso come se quelle rimostranze non fossero state presentate. Sono rimasti molto sorpresi quando hanno ascoltato le rimostranze durante le argomentazioni per la condanna e hanno ammesso la possibilità di aver sbagliato, ma per loro “è necessario mantenere una coerenza”.

Israele sta attualmente conducendo una guerra più estesa contro la società civile palestinese, con la determinazione di chiudere le ONG principali e neutralizzare la loro autorevolezza nella battaglia davanti all’opinione pubblica globale. Come per il caso Halabi, in cui non esistono prove per dimostrare la sua colpevolezza, il governo israeliano spera che le sue false accuse di terrorismo contro le principali ONG palestinesi le metteranno a tacere e le dissuaderanno.

Intanto Hanna continua a nutrire delle speranze per Halabi. “A questo punto ci aspettiamo che la Corte Suprema annulli una simile sentenza”, afferma. “Questo è un moderno processo Dreyfus e lo Stato di Israele non può permettersi di portare una macchia del genere nel suo sistema giudiziario”.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente, autore di best seller, regista e co-fondatore di Declassified Australia [Rivista australiana progressista di giornalismo investigativo, ndt.]. Ha scritto per The Guardian, The New York Times, The New York Review of Books e molte altre testate. I suoi libri includono Pills, Powder and Smoke: Inside The Bloody War On Drugs, Disaster Capitalism: Making A Killing Out Of Catastrophe e My Israel Question. I suoi documentari includono Disaster Capitalism e i film inglesi di Al Jazeera: West Africa’s opioid crisis e Under the Cover of Covid. Ha lavorato a Gerusalemme Est dal 2016 al 2020. Il suo prossimo libro, in uscita nel 2023, è The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele uccide almeno 10 palestinesi nella nuova campagna di bombardamenti contro Gaza

Ahmed Al-Sammak, Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad da Gaza City, Palestina occupata

5 agosto 2022 – Middle East Eye

Un dirigente della Jihad Islamica è stato assassinato in un attacco che ha ucciso anche una bambina di 5 anni e ferito più di 55 civili

Nell’ultimo bombardamento contro la Striscia di Gaza di venerdì l’esercito israeliano ha ucciso almeno 10 palestinesi, tra cui una bambina di 5 anni e un importante leader militare.

Taiseer al-Jabari, capo della divisione nord delle Brigate di al-Quds (Saraya al-Quds), l’ala militare del movimento Jihad Islamica, è stato ucciso durante attacchi aerei che hanno colpito varie località di Gaza. Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno 55 persone sono rimaste ferite.

Gli attacchi iniziali hanno colpito tre diverse zone: Khan Younis nel sud della Striscia, Shujaiya a nord e un edificio residenziale nel centro di Gaza.

L’esercito afferma di aver preso di mira la Jihad Islamica con l’operazione denominata “Breaking Dawn” [Sorgere del sole].

Hamas, che governa di fatto Gaza, e la Jihad Islamica, la seconda più importante organizzazione armata della Striscia, hanno promesso una dura risposta all’aggressione israeliana. 

Ziad al-Nakhalah, capo della Jihad Islamica, ha affermato che non ci sono limiti in questa guerra e che Tel Aviv verrà presa di mira.

Non ci sono linee rosse in questa battaglia e Tel Aviv, come tutte le città israeliane, finirà sotto i razzi della resistenza,” ha affermato.

Gaza è stata colpita da attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. La Jihad Islamica ha affermato di aver sparato 100 razzi venerdì notte come risposta iniziale.

Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha detto che le fazioni della resistenza a Gaza sono unite e pronte a rispondere con “tutta la forza”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Yair Lapid ha affermato che il Paese “non consentirà alle organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza di dettare le regole” e che l’esercito israeliano continuerà ad agire contro l’organizzazione Jihad Islamica “per eliminare la minaccia che rappresenta per i cittadini di Israele.”

Un vero e proprio crimine”

Khalil Kanon vive al dodicesimo piano della Palestine Tower, un edificio nel centro di Gaza che è stato colpito venerdì durante il primo attacco aereo israeliano. Dice a MEE che il bombardamento ha ferito sua moglie e sua madre, ha terrorizzato i suoi figli e tutta la famiglia è stata macchiata di sangue.”

Stavo leggendo le notizie. Improvvisamente abbiamo sentito bombardamenti assordanti. Una mano di mia madre e una gamba di mia moglie sono state ferite, e i miei figli erano terrorizzati,” racconta Kanon.

Dopo il bombardamento, un vicino di Kanon è corso ad aiutare e ha portato fuori dall’edificio i suoi figli e sua moglie, mentre Kanon aspettava gli infermieri per aiutarli a portare via sua madre dallo stabile.

Eravamo tutti sporchi di sangue. Guarda, c’è una macchia di sangue sulla mia maglietta.

Non avrei mai pensato che questo edificio potesse essere bombardato. Che razza di vita abbiamo?”

Ahmed al-Bata, un giornalista, quando l’edificio è stato bombardato stava aspettando l’ascensore per salire al quattordicesimo piano della Palestine Tower, dove si trova il suo ufficio.

Improvvisamente ho sentito tre massicci, intensi bombardamenti,” racconta a MEE.

La scena è stata inimmaginabile. Dopo qualche minuto decine di abitanti hanno iniziato a scappare urlando. Quasi tutti erano bambini e donne. Decine di loro erano ferite. La scena era talmente orribile. È un vero e proprio crimine.”

Arresto di un leader della Jihad Islamica

L’attacco è giunto dopo giorni di blocco imposto dalle autorità israeliane agli abitanti che vivono nei pressi di Gaza, e il dispiegamento di truppe nella zona. Le misure hanno incluso la chiusura di strade e il blocco del servizio ferroviario vicino a Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato di averle messe in atto a causa del timore di attacchi di rappresaglia da parte della Jihad Islamica a Gaza dopo l’arresto nella città di Jenin, nella Cisgiordania occupata, di un importante dirigente dell’organizzazione, Bassam al_Saadi.

Nell’incursione in città è stato ucciso anche il diciassettenne palestinese Dirar al-Kafrayni, colpito a morte dalle forze israeliane. 

Nell’incursione è stato arrestato anche il genero di Saadi, Ashraf al-Jada. Durante l’arresto la moglie di Saadi è stata ferita e portata in ospedale per essere curata. Immagini di una telecamera di sorveglianza dell’arresto di Saadi mostrano soldati israeliani che trascinano sul pavimento il sessantaduenne. Sarebbe anche stato ferito da un cane dell’esercito israeliano.

Quando si sono diffuse notizie dell’incursione mortale, gruppi di persone si sono riuniti nel campo di rifugiati di Jenin e nella vicina città di Nablus, mentre sostenitori hanno espresso solidarietà a un personaggio molto rispettato. La Jihad Islamica, considerata la seconda milizia più importante della resistenza armata palestinese dopo Hamas, ha affermato di aver messo in allerta ovunque i propri combattenti.

Ameer Makhoul, un importante attivista e scrittore palestinese, dice a MEE: “Nessuno dovrebbe essere sorpreso dall’aggressione israeliana contro Gaza e del fatto che siano stati presi di mira i dirigenti delle brigate di al-Quds e i civili.”

Makhoul ha aggiunto che il massiccio schieramento dell’esercito sul e attorno al confine con Gaza non è stato “un’iniziativa difensiva” o per prevenire la risposta della Jihad Islamica all’arresto di Saadi.

Al contrario, l’arresto è avvenuto come parte della preparazione di una nuova aggressione con obiettivi e strategie, anche se di portata limitata,” ha affermato.

Meron Rapoport, un esperto commentatore israeliano, ha affermato che la tempistica dell’operazione israeliana è stata strana e che Israele ha essenzialmente punito l’organizzazione Jihad Islamica perché non attaccasse come rappresaglia per l’arresto di Saadi, dato che il gruppo armato ha lanciato razzi solo dopo che Israele ha iniziato attacchi aerei contro Gaza.

Israele arresta un importante membro della Jihad Islamica in Cisgiordania, e il gruppo non risponde,” continua Rapoport, in riferimento all’arresto di Bassam al-Saadi all’inizio di questa settimana a Jenin.

Ma poi “Israele ha imposto il coprifuoco a decine di migliaia di abitanti nelle zone adiacenti a Gaza in base al fatto che la Jihad Islamica progettava una risposta, poi uccide importanti membri dell’organizzazione e civili a Gaza, in base al fatto che pianificavano di attaccare Israele. Il risultato, dopo che Israele avrebbe tentato di impedire attacchi della Jihad Islamica, è che ora arrivano razzi, cosa che a quanto pare non sarebbe avvenuta se Israele non avesse attaccato per primo.”

Gli USA difendono Israele, l’ONU sollecita una riduzione della tensione

In risposta al bombardamento di Gaza da parte di Israele gli Stati Uniti hanno detto che il Paese ha il “diritto di difendersi”.

L’attacco giunge poche settimane dopo che il presidente USA Joe Biden ha visitato Israele. Prima del viaggio la sua amministrazione avrebbe chiesto a Israele di rimandare ogni escalation contro i palestinesi “a dopo la visita di Biden” a metà luglio.

La richiesta è stata condannata dagli attivisti palestinesi, che hanno detto a MEE che ciò è “indicativo della vera politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele,” in quanto gli USA non si preoccupano di come Israele tratta i palestinesi.

Nel contempo l’ONU ha emanato un comunicato più severo, affermando che non ci sono “giustificazioni” per gli attacchi contro i civili.

Sono profondamente preoccupato dalla continua escalation tra i miliziani palestinesi e Israele, compresa l’odierna uccisione mirata di un dirigente della Jihad Islamica palestinese all’interno di Gaza,” ha affermato venerdì sera in un comunicato Tor Wennesland, il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

La continua escalation è molto pericolosa,” ha affermato Wennesland.

Israele impone dal 2007 un durissimo blocco contro la Striscia di Gaza, che secondo le associazioni per i diritti umani rappresenta una punizione collettiva per i due milioni di abitanti dell’enclave. Israele impedisce l’importazione di materiali ed attrezzature a Gaza ed ha imposto rigide restrizioni alle esportazioni, che hanno portato a una condizione di “paralisi” in molti settori dell’economia di Gaza.  

Anche l’Egitto sostiene l’assedio, controllando i movimenti in entrata e in uscita da Gaza sulla propria frontiera.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza nel maggio dello scorso anno un attacco militare israeliano contro Gaza ha ucciso più di 260 palestinesi, tra cui 66 minorenni, e sfollato almeno 72.000 persone.

In un rapporto Human Rights Watch [prestigiosa ong per i diritti umani con sede negli USA, ndt.] ha affermato che gli attacchi aerei israeliani del 2021 hanno preso di mira zone nelle cui vicinanze non c’erano prove dell’esistenza di obiettivi militari, il che rappresenta un crimine di guerra.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Palestina: impunità per arresti arbitrari e tortura da parte dell’ANP e di Hamas e persistenti e sistematici abusi un anno dopo il pestaggio a morte di un famoso dissidente

30 giugno 2022 – Human Rights Watch

(Gerusalemme) – Le autorità palestinesi maltrattano e torturano sistematicamente i palestinesi in detenzione, inclusi dissidenti e oppositori, ha affermato oggi Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndt.] in un rapporto parallelo presentato al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura congiuntamente alla organizzazione per i diritti dei palestinesi Lawyers for Justice [Avvocati per la giustizia, ndt.]. La tortura, sia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) guidata da Fatah [organizzazione politica laica palestinese prevalentemente di sinistra, ndt.] in Cisgiordania che delle autorità di Hamas [organizzazione politica islamista, sunnita e fondamentalista, ndt.] a Gaza, può costituire crimine contro l’umanità, data la sua natura sistematica nel corso di molti anni.

Più di un anno dopo il pestaggio a morte da parte dell’ANP dell’eminente attivista e dissidente Nizar Banat mentre era in custodia detentiva e la repressione violenta di persone che chiedevano giustizia per la sua morte, incluse le retate per proteste pacifiche, nessuno è stato ritenuto responsabile. I pubblici ministeri hanno emesso dei capi d’accusa contro 14 agenti di sicurezza ma i dissidenti affermano che le autorità si stanno muovendo troppo lentamente e sono di parte, come nel caso di una decisione del 21 giugno da parte della procura militare di concedere all’imputato un periodo di libertà di 12 giorni.

“Più di un anno dopo il pestaggio a morte di Nizar Banat l’Autorità Nazionale Palestinese continua ad arrestare e torturare critici e oppositori”, afferma Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina. “Gli abusi sistematici da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e di Hamas costituiscono una componente fondamentale della repressione del popolo palestinese”.

Alla luce di questa serie di abusi altri Paesi dovrebbero tagliare l’assistenza alle forze di sicurezza palestinesi responsabili, inclusa la polizia dell’ANP che ha svolto un ruolo centrale nella recente repressione. La Procura della Corte Penale Internazionale dovrebbe indagare e perseguire le persone credibilmente implicate in questi gravi abusi.

All’alba del 24 giugno 2021 più di una decina di agenti di sicurezza preventiva dell’ANP, che monitorano le attività politiche e le minacce alle autorità a livello nazionale, hanno arrestato e aggredito violentemente Banat. Egli era un famoso dissidente che l’Autorità Nazionale Palestinese aveva precedentemente tenuto in detenzione per il suo attivismo e che aveva pianificato di candidarsi con una lista indipendente durante le elezioni legislative palestinesi del 2021, prima che fossero rinviate.

E’ morto durante la custodia, soffocato dal sangue e dalle secrezioni che avevano riempito i suoi polmoni, ha concluso un’autopsia. Un rapporto congiunto del marzo 2022 dell’organismo di vigilanza legale palestinese, della Commissione indipendente per i diritti umani (ICHR) e dell’associazione palestinese per i diritti umani al-Haq, ha rilevato che a causare la morte di Banat è stato l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza dell’ANP.

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha formato un comitato ufficiale per indagare sul decesso, ma il suo rapporto, presentato cinque giorni dopo, nel giugno 2021, non è stato reso pubblico. Il processo contro gli accusati di aver partecipato all’uccisione di Banat è in corso. A maggio la famiglia Banat ha annunciato un boicottaggio del procedimento, adducendo preoccupazioni tra cui la concessione di privilegi agli imputati, come consentire loro di uscire di prigione per visitare la famiglia senza un ordine del tribunale.

Nei mesi successivi alla morte di Banat le forze di polizia dell’ANP hanno disperso violentemente le proteste popolari che chiedevano giustizia e hanno rastrellato decine di persone per aver protestato pacificamente. Jehad Abdo, 54 anni, ha detto a Human Rights Watch che agenti di polizia dell’ANP in abiti civili lo hanno arrestato nell’agosto 2021 mentre si stava recando ad una protesta. I pubblici ministeri lo hanno accusato di aver insultato “autorità superiori” e di “raduno illegale”, accuse che di fatto criminalizzano l’espressione e le manifestazioni pacifiche, e lo hanno rilasciato quattro giorni dopo con imputazioni ancora pendenti.

Hamza Zbeidat, 38 anni, ha riferito a Human Rights Watch di essere stato arrestato anche lui dalle forze di polizia dell’ANP mentre si recava a una manifestazione programmata nellagosto 2021 sul caso di Banat. I pubblici ministeri in seguito hanno accusato Zbeidat di aver insultato “autorità superiori, di “raduno illegale” e istigazione a “conflitti settari”. Ha detto di aver trascorso tre notti in una minuscola cella sovraffollata senza un’adeguata ventilazione e di essere risultato positivo al Covid-19 diversi giorni dopo essere stato rilasciato con accuse pendenti.

Fakhri Jaradat, 53 anni, afferma che le forze di polizia dell’ANP lo hanno arrestato a casa sua in due diverse occasioni nel luglio 2021 dopo la sua partecipazione a manifestazioni legate al caso Banat e lo hanno interrogato riguardo a dei post su Facebook, uno dei quali invitava il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas a “lasciare, andarsene.” I pubblici ministeri hanno accusato anche lui di insulti contro “autorità superiori”, “raduno illegale” e istigazione a “conflitti settari”, detenendolo tra i due arresti per circa una settimana in totale, prima di rilasciarlo con accuse ancora in corso.

Fadi Quran, 34 anni, afferma che le forze di polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese lo hanno arrestato nell’agosto 2021 mentre camminava nel centro di Ramallah, vicino al luogo di una manifestazione programmata a cui intendeva partecipare, ma il cui svolgimento era stato impedito dalle forze di sicurezza. Ha detto che la polizia lo ha interrogato sulle bandiere palestinesi che portava e sui post su Facebook, incluso uno che criticava il rinvio delle elezioni dell’ANP e il governo del presidente Abbas, e lo ha rilasciato dopo due giorni di detenzione senza accusa.

Human Rights Watch afferma che la morte durante la custodia detentiva di Banat e i rastrellamenti dei manifestanti nelle settimane successive riflettono la pratica sistematica delle autorità palestinesi di arresti arbitrari e torture impunite. Le forze di sicurezza dell’ANP e di Hamas maltrattano e minacciano regolarmente i detenuti, usano l’isolamento e le percosse, tra cui frustate ai piedi, e costringono i detenuti in posizioni forzate dolorose per periodi prolungati, tra cui lo stare appesi con le braccia dietro la schiena con cavi o corde, per punire e intimidire i dissidenti e oppositori e ottenere confessioni, come mostrano Human Rights Watch e Lawyers for Justice nel loro rapporto parallelo.

L’ANP e Hamas sostengono che gli abusi non sono altro che casi isolati su cui sono in corso delle indagini e per i quali i trasgressori sono tenuti a rispondere, ma anni di ricerca da parte di Human Rights Watch, incluso il suo rapporto di 147 pagine del 2018, Two Authorities, One Way , Zero Dissent” [Due autorità, un metodo, zero dissenso, ndt.], contraddicono queste affermazioni. Come documentato nel rapporto parallelo, le autorità palestinesi hanno costantemente omesso di ritenere responsabili le forze di sicurezza.

Nel 2021 l’ICHR ha ricevuto 252 denunce di tortura e maltrattamenti e 279 di arresti arbitrari contro le autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e 193 denunce di tortura e maltrattamenti e 97 di arresti arbitrari contro le autorità di Hamas a Gaza. Le autorità di Hamas hanno anche giustiziato 28 persone a Gaza da quando hanno preso il controllo politico nel giugno 2007, in un contesto in cui prevalgono le violazioni del giusto processo, la coercizione e la tortura, e hanno giustiziato sommariamente decine di altre persone senza alcun processo giudiziario, spesso con l’accusa di collaborazione con Israele.

Le autorità palestinesi dovrebbero rispettare i trattati internazionali sui diritti umani a cui hanno aderito e porre fine ai gravi abusi e all’impunità endemica assicurando i responsabili alla giustizia. Cinque anni dopo l’adesione della Palestina al Protocollo opzionale della Convenzione contro la tortura, che richiede l’istituzione di un “meccanismo nazionale di prevenzione” per monitorare in modo indipendente i centri di detenzione, anche con visite a sorpresa, il presidente Abbas a maggio ha emesso un decreto che istituisce la Commissione nazionale contro la tortura.

Tuttavia, il decreto prevede che il presidente dell’ANP nomini i membri della commissione, che saranno dipendenti del governo, e che la commissione operi come organo di governo. Ciò priverà la commissione di molta effettiva indipendenza, come hanno notato l’ICHR e una dichiarazione congiunta di 26 organizzazioni della società civile palestinese. Il presidente Abbas dovrebbe revocare il decreto e presentare un nuovo regolamento che crei un organismo pienamente indipendente.

Il rapporto parallelo di Human Rights Watch e Lawyers for Justice riguarda anche i maltrattamenti e le torture da parte delle autorità israeliane nei Territori Palestinesi Occupati e l’impunità per questi abusi. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti Public Committee Against Torture in Israel [Comitato pubblico contro la tortura in Israele, ndt.], nonostante le oltre 1.300 denunce di tortura presentate al Ministero della Giustizia israeliano dal 2001 a partire da atti presumibilmente commessi dalle autorità israeliane in Israele o in Cisgiordania, tra cui incatenamento in posizioni dolorose, privazione del sonno ed esposizione a temperature estreme, negli ultimi 20 anni queste denunce hanno portato a due sole indagini penali e nessun atto d’accusa.

Human Rights Watch afferma che nell’ambito dei suoi doveri ai sensi della Convenzione contro la tortura di “prevenire atti di tortura in qualsiasi territorio sotto la sua giurisdizione”, lo Stato di Palestina dovrebbe cessare ogni coordinamento di sicurezza con l’esercito israeliano che contribuisce a facilitare la tortura e altri gravi abusi, e smettere di consegnare i palestinesi, fintanto che persista per coloro che vengono consegnati un rischio reale di tortura e altri maltrattamenti proibiti.

“Molti governi affermano di voler sostenere lo stato di diritto in Palestina e tuttavia anno dopo anno continuano a finanziare le forze di polizia che lo minano attivamente”, afferma Shakir. Gli ostacoli costituiti da presunte preoccupazioni per la fragilità delle istituzioni palestinesi e altre scuse inconsistenti dovrebbero cadere. I governi donatori dovrebbero recidere i legami con la polizia e le forze di sicurezza palestinesi colpevoli di abusi e concentrare le loro politiche in Palestina e Israele sui diritti umani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Chi sono i vincitori e i vinti dell’israeliana Marcia delle Bandiere? 

Motasem A Dalloul

1 giugno 2022 – Middle East Monitor

Governo israeliano di occupazione, gruppi dell’opposizione e coloni ebrei dell’estrema destra avevano tutti scommesso che, durante il weekend, la provocatoria Marcia delle Bandiere avrebbe causato gravi disordini al suo passaggio attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme. I coloni hanno usato queste marce fin dal 1967 per celebrare l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est. L’attuale governo israeliano, guidato da Naftali Bennett, voleva utilizzare il grottesco sfoggio di razzismo sfacciato per rafforzare la propria sovranità sulla città santa e dimostrare che Israele ha ancora un deterrente contro la resistenza palestinese.

Il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, il cui partito, il Likud, ha il maggior numero di seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha cercato di sfruttare l’evento per scatenare incidenti che avrebbero potuto danneggiare il governo Bennett. Nel frattempo i coloni estremisti hanno insistito sul percorso della marcia proposto da loro e respinto ogni tentativo di deviarlo, nonostante forti pressioni da parte degli alleati di Bennett nel governo di coalizione. Hanno insistito che la marcia doveva svolgersi secondo il loro piano per dimostrare la sovranità di Israele sulla città santa occupata.

Bennett e alti ufficiali dell’esercito hanno insistito che si poteva tenere la marcia nonostante gli avvertimenti non solo da parte di veterani militari e politici, ma anche di gruppi della resistenza palestinese che avevano avvertito che avrebbero reagito contro Israele qualora fosse successo qualche incidente intollerabile.

“Se non fossimo passati per il percorso normale, di fatto non avremmo mai più potuto farlo. Sarebbe stata una rinuncia alla sovranità,” ha detto Bennett. “Abbiamo dimostrato che lo Stato di Israele agisce in base a ciò che è giusto e non in seguito a minacce.”

Netanyahu ha incoraggiato la partecipazione di due fanatici gruppi di ebrei israeliani, La Familia [ultras razzisti della squadra di calcio di Gerusalemme Betar, ndt.] e Lehava [organizzazione di estrema destra suprematista ebraica, ndt.], che per vari anni sono stati collegati a casi di violenze contro gli arabi in Israele e nella Cisgiordania occupata.

Il governo ha impiegato migliaia di agenti per far svolgere la marcia senza infrazioni e garantire che i coloni non avrebbero provocato i palestinesi, innescando così una risposta da parte dei gruppi della resistenza o suscitando critiche a livello internazionale. Ciononostante Netanyahu è riuscito a far sì che alcuni elementi dei gruppi ebrei più estremisti riuscissero comunque a provocare e attaccare i palestinesi e poi a svolgere le proprie cerimonie religiose nei pressi della moschea Al-Aqsa.

Secondo il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, La Familia e Lehava hanno monopolizzato la giornata. “Non possiamo accettare che queste siano le immagini che ci restano alla fine del Giorno di Gerusalemme,” ha detto. “La maggioranza israeliana deve riappropriarsi della Marcia delle Bandiere, di Gerusalemme e dello Stato di Israele. Noi siamo la maggioranza. Loro sono una minoranza estremista.”

È discutibile che la Marcia delle Bandiere “dimostri” la sovranità israeliana come sostiene Bennett. Dopotutto i coloni hanno avuto bisogno di migliaia di forze di sicurezza e del coprifuoco per proteggerli lungo il percorso. Nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di sventolare una bandiera israeliana e sfilare da solo lungo il percorso, nonostante le restrizioni imposte ai palestinesi e gli attacchi contro i fedeli nella moschea di Al-Aqsa.

I coloni ebrei avrebbero potuto restare per ore a Gerusalemme, presso la porta di Damasco e poi tornare a casa, mentre i palestinesi sventolavano le proprie bandiere, nonostante il grosso contingente di polizia israeliana impiegato per fronteggiarli, e loro sono ancora là nonostante l’imponente presenza della polizia. Cosa vuol dire sovranità, se lo Stato non è in grado di controllarla?

Secondo Amichai Attali, reporter per gli affari parlamentari di Yedioth Ahronoth [quotidiano di centro, uno dei più letti in Israele, ndt.]: “Non c’è sovranità a Gerusalemme durante l’era di Naftali Bennett. Non c’è stata tale sovranità con Netanyahu, Olmert, Sharon o tutti i loro predecessori. Gerusalemme non è mai stata unita perché i leader non hanno il coraggio di prendere decisioni.”

Inoltre qualsiasi fattore di deterrenza che Israele possa aver mai avuto è scomparso da tempo. La forte presenza della polizia, il coprifuoco e le limitazioni dei movimenti dei palestinesi sono tutte prove di questo fatto. Come lo è stato l’attivazione del sistema antimissilistico Iron Dome, [cupola di ferro] su tutto lo Stato occupato nel caso in cui i gruppi di resistenza avessero risposto alle provocazioni e al razzismo anti-arabo dei partecipanti alle marce. L’esercito è stato impiegato in una delle più imponenti esercitazioni militari per essere pronto a un massiccio attacco contro i palestinesi “per ogni evenienza”.

Il corrispondente militare dell’israeliano Channel 13 ha riferito che i soldati erano nascosti lungo la recinzione del confine formale con la Striscia di Gaza e dei veicoli militari vuoti erano parcheggiati in posti visibili per attirare il fuoco dei palestinesi, rendendo inefficace qualsiasi risposta da parte del popolo di Gaza. Dove starebbe in tutto ciò il fattore di deterrenza israeliano?

I gruppi della resistenza palestinesi possono ancora rispondere alle violazioni israeliane a Gerusalemme e durante la Marcia delle Bandiere: non penso che questo capitolo si sia concluso. “La resistenza deciderà come e quando reagire, a seconda delle informazioni che ha e al momento giusto,” ha detto Mohammad Hamada, portavoce di Hamas per gli Affari di Gerusalemme.

Noi sappiamo anche che Israele ha inviato mediatori qatarioti, egiziani e dell’ONU per chiedere a Ismail Haniyeh, leader di Hamas, di dire che il movimento non avrebbe reagito e che entrambe le parti potevano tornare a una vita normale. Il suo consulente per i media ha sottolineato che Haniyeh ha respinto tutte le richieste.

L’incitamento dei fanatici da parte di Netanyahu non è riuscito a raggiungere l’obiettivo e sarà quindi deluso dal risultato. A peggiorare le cose per l’ex primo ministro dell’estrema destra, Benny Gantz, ministro della Difesa israeliano, sta parlando di mettere La Familia e Lehava sulla lista israeliana delle organizzazioni considerate terroriste.

Perciò, per come la vedo io, gli organizzatori della marcia che volevano dimostrare la sovranità israeliana su Gerusalemme e i politici israeliani che pensavano che avrebbe contribuito a promuovere i propri interessi sabato hanno perso. I vincitori sono i gerosolomitani palestinesi le cui sofferenze sotto lo Stato neo-fascista di occupazione e di apartheid ancora una volta sono state evidenziate cosicché tutto il mondo vedesse; analogamente i palestinesi di Gaza hanno trionfato dato che i gruppi di resistenza hanno preso la saggia decisione di evitare la ben preparata offensive israeliana contro l’enclave costiera.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

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Effetti di un attacco israeliano a Gaza simili a quelli di armi chimiche, rileva il rapporto di una ONG

Bethan McKernan, Gerusalemme e Hazem Balousha, Gaza City

Lunedì 30 maggio 2022 – The Guardian

I proiettili sparati contro un magazzino agrochimico hanno creato una nube tossica che ha causato problemi di salute agli abitanti

Secondo un rapporto che analizza il bombardamento e i suoi effetti, un attacco aereo israeliano contro un magazzino agrochimico durante la guerra dell’anno scorso a Gaza ha rappresentato un equivalente dell’ “impiego indiretto di armi chimiche”.

Il 15 maggio dello scorso anno i proiettili incendiari sparati dalle Forze di difesa israeliane (IDF)  hanno colpito il grande magazzino di prodotti farmaceutici e agricoli di Khudair nel nord della Striscia di Gaza dando fuoco a centinaia di tonnellate di pesticidi, fertilizzanti, plastica e nylon. L’impatto ha creato una nube tossica che ha investito un’area di 5,7 kmq e ha lasciato i residenti locali alle prese con problemi di salute, tra cui due segnalazioni di aborti spontanei, e indicazioni di danni ambientali.

L’indagine approfondita, che ha comportato l’analisi di filmati di telefoni cellulari, droni e telecamere a circuito chiuso, dozzine di interviste con i residenti e l’analisi di esperti di munizioni e dinamica dei fluidi, ha utilizzato un modello in 3D del magazzino per determinare le circostanze dell’attacco.

È la prima pubblicazione da parte dell’unità investigativa di architettura forense della ONG palestinese per i diritti umani Al-Haq, una collaborazione unica nel suo genere in Medio Oriente con Forensic Architecture, un’agenzia di ricerca con sede presso la Goldsmiths University of London, che svolge analisi territoriali e dei media per le ONG e nei casi internazionali riguardanti i diritti umani.

Esperti legali hanno concluso in base alle risultanze di Al-Haq che, sebbene nell’attacco siano state usate armi convenzionali, il bombardamento del magazzino, con la consapevolezza della presenza all’interno di sostanze chimiche tossiche, equivale all’uso indiretto di armi chimiche. Tali atti sono chiaramente vietati… e perseguibili sulla base dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale”.

Chris Cobb-Smith, un esperto di munizioni, avrebbe affermato: Non c’è alcuna giustificazione militare per l’uso in quel luogo di [proiettili fumogeni avanzati]. Il loro impiego in un contesto urbano è intrinsecamente scorretto e inappropriato.

Duecentocinquantasei persone a Gaza e 14 in Israele sono morte nella guerra di 11 giorni del maggio dello scorso anno tra Israele e Hamas, il gruppo militante palestinese che controlla la striscia assediata. Al-Haq ha affermato che l’attacco al magazzino di Khudair è stato il primo di una serie di attacchi mirati deliberatamente alle infrastrutture economiche e industriali di Gaza, con il bombardamento sistematico di una mezza dozzina di altre fabbriche e magazzini.

Nel 2019 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha aperto un’indagine su presumibili crimini di guerra da parte delle forze israeliane e dei militanti palestinesi in territorio palestinese. Israele contesta la giurisdizione della CPI.

Le IDF hanno dichiarato che l’anno scorso in risposta alla serie di attacchi di Hamas Israele ha “effettuato una serie di bombardamenti contro obiettivi militari legittimi nella Striscia di Gaza” durante quella che in Israele è nota come Operazione guardiano delle mura.

Le IDF prendono tutte le precauzioni possibili per evitare di danneggiare i civili durante l’attività operativa”, ha detto un portavoce, aggiungendo che “l’evento in questione” è stato oggetto di indagine da parte di un’inchiesta interna delle IDF “per esaminare se ci fossero deviazioni dalle regole vincolanti e operare necessarie modifiche sulla base delle lezioni apprese”.

Israa Khudair, 20 anni, che vive con il marito e due figli a 40 metri dal sito del magazzino agrochimico, ha subito un aborto spontaneo al quinto mese di gravidanza, otto settimane dopo l’attacco.

“Per mesi l’odore è stato insopportabile, come quello del motore di un’auto misto con olio bruciato, liquame e gas da cucina, quindi ovviamente sapevamo che poteva essere dannoso”, ha detto suo marito, Ihab, 26 anni.

Da allora ho avuto eruzioni cutanee come la maggior parte delle persone qui. Abbiamo lavato la casa cinque volte, insieme ai mobili, ma l’odore è rimasto. Era come un olio sui muri… alla fine in inverno la pioggia ne ha spazzato via gran parte dalle macerie del magazzino.

Ora siamo preoccupati per la nostra salute. Di recente uno dei miei cugini, che ha solo 19 anni, e anche mia zia, si sono ammalati di cancro e pensiamo che sia correlato a quello che è successo qui”.

I combattimenti dell’anno scorso hanno costituito il ​​terzo conflitto su vasta scala tra lo Stato israeliano e Hamas da quando il gruppo ha preso il controllo di Gaza nel 2007, dopo di che Israele ed Egitto hanno imposto un blocco punitivo. Da allora le infrastrutture idriche, fognarie ed elettriche della striscia sono quasi collassate, lasciando i 2 milioni di abitanti di Gaza impegnati ad affrontare crescenti livelli di inquinamento dell’aria,  del suolo e dell’acqua.

Anche Al-Haq, che opera a Gaza e in Cisgiordania, è stata attaccata dalle autorità israeliane: l’anno scorso la ONG è stata una delle sei principali organizzazioni della società civile e dei diritti umani che operano nei territori palestinesi occupati ad essere designate come organizzazioni terroristiche. La decisione è stata ampiamente condannata dalle Nazioni Unite, dai governi occidentali e da importanti organizzazioni internazionali come Amnesty International.

Rula Shadeed, la responsabile del dipartimento di monitoraggio e documentazione di Al-Haq, ha dichiarato: Senza la nostra documentazione professionale basata su standard giuridici [i palestinesi] non possono chiedere accertamenti di responsabilità e giustizia. L’introduzione di nuove metodologie per migliorare e completare la documentazione standard e la presentazione del nostro lavoro è molto importante.

“Siamo molto orgogliosi del fatto che, nonostante gli attacchi illegali e i tempi difficili che la società civile palestinese sta affrontando, riusciamo ancora a continuare e ad avanzare nel nostro lavoro, grazie alla nostra ferma convinzione nell’importanza di denunciare le violazioni contro il nostro popolo e di chiamare a rispondere i colpevoli”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Pazienti vulnerabili a rischio per le divisioni palestinesi e il blocco israeliano

Israa Sulaiman e Khuloud Rabah Sulaiman

24 maggio 2022 – The Electronic Intifada

Ramadan Muhra, 39 anni, è morto dopo cinque mesi di malattia e deterioramento delle condizioni di salute.

Muhra aveva la talassemia. Se non trattata, può ucciderti. Ed è quello a cui è andato incontro Muhra dopo che gli ospedali di Gaza hanno esaurito i farmaci di cui aveva bisogno per mantenere sotto controllo la malattia.

E non è l’unico.

Secondo la Thalassemia Patients’ Friends Society di Gaza, un’organizzazione assistenziale, dall’inizio dell’anno sono morti in totale dieci pazienti affetti da talassemia.

Questa situazione è dovuta al fatto che a Gaza il trattamento di cui hanno bisogno è del tutto indisponibile, 15 anni dopo che Israele ha imposto un blocco punitivo sulla fascia costiera e le due principali fazioni palestinesi, Fatah e Hamas, si sono combattute a vicenda nell’ambito di una divisione politica ancora esistente tra Gaza e la Cisgiordania.

Muhra alla fine ha mostrato tutti i sintomi attesi dopo sei mesi di mancato trattamento. La sua pelle è diventata scura, il suo viso si è gonfiato e ha sviluppato un’osteoporosi. Sia il cuore che il fegato hanno subito gravi danni a causa di un eccesso di ferro nel suo organismo.

“Mio cugino era più forte di quanto immaginassimo”, ha detto Muhammed Muhra, 50 anni. “Ha combattuto la sua malattia fino al suo ultimo respiro e, anche se la sua salute stava costantemente peggiorando, non ha mai perso la speranza di ricevere la sua terapia e di riprendersi”.

La talassemia è una malattia congenita del sangue particolarmente diffusa nelle popolazioni dell’Asia meridionale, sudorientale, del mediterraneo e medio oriente. È causata da un’anomalia genetica che causa bassi livelli di emoglobina, con conseguente anemia e un eccesso di ferro nel sangue.

L’anemia viene trattata con trasfusioni di sangue, mentre viene utilizzata una medicina per controllare i livelli di ferro.

Uno dei farmaci più importanti per le persone con questa condizione è la deferoxamina, venduta a Gaza con il nome commerciale di Desferal.

Il Desferal aiuta a rimuovere l’eccesso di ferro causato dalle regolari trasfusioni di sangue di cui i pazienti talassemici hanno bisogno, proteggendo dai danni gli organi vitali.

Ma a Gaza le scorte di Desferal si sono esaurite all’inizio dell’anno, mettendo a rischio la vita dei malati di talassemia.

A quanto dice Muhammad, Ramadan Muhra è stato costretto a letto per mesi e non era in grado di camminare. Alla fine aveva perso molto peso e soffriva di spossatezza e costanti dolori addominali.

Muhammad, un tecnico satellitare, è arrabbiato perché la morte di suo cugino non doveva accadere. E’ stato, dice, “un omicidio deliberato”.

Non è morto come la maggior parte delle persone. È morto per mancanza di medicine causata da una lotta politica tra i due governi palestinesi”.

Occupazione e divisione

Ibrahim Abdallah, che è un coordinatore della Gaza Thalassemia Patients’ Friends Society, che organizza una serie di eventi sanitari e comunitari per i poco più di 300 pazienti di Gaza, ha anche accusato le autorità governative palestinesi divise.

Le restrizioni israeliane all’importazione di medicinali e al movimento dei pazienti hanno svolto un ruolo enorme. Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani, a febbraio ha scoperto che a Gaza le giacenze del 39 per cento dei farmaci vitali erano a zero, con meno di un mese di scorte rimanenti.

Ma oltre a queste restrizioni, la disponibilità di medicinali è notevolmente diminuita dal momento della separazione dei governi al potere nel 2007.

Secondo il ministero della Salute di Gaza l’Autorità Nazionale Palestinese nella Cisgiordania occupata, dominata da Fatah, fornisce ora a Gaza solo il 20% dei farmaci necessari. Il governo di Hamas nella Striscia di Gaza occupata fornisce un altro 20%, mentre gli enti di beneficenza cercano di colmare il deficit fornendo circa il 40%.

Non è abbastanza e Abdallah, pur affermando di capire la sua difficile posizione, sostiene comunque che Hamas deve affrontare questa situazione con urgenza poiché è responsabile di Gaza.

L’ANP di Fatah e il governo di Hamas nella Striscia di Gaza, prosegue, hanno contribuito tra loro a peggiorare la crisi sanitaria di Gaza e messo a rischio la vita delle persone, comprese quelle affette da talassemia.

Aggiunge che le scorte di Desferal si sono esaurite all’inizio dell’anno, mettendo a rischio decine di vite.

Nel frattempo l’associazione per la talassemia di Abdallah ha cercato di assicurarsi dei rifornimenti da altre parti.

Abbiamo ricevuto il primo lotto di 10.000 confezioni di Desferal da un’organizzazione di beneficenza in Kuwait. Il secondo lotto di 4.000 confezioni è previsto a breve”, afferma. “Questi dureranno per alcuni mesi, e poi torneremo alla stessa crisi”.

Abdallah, egli stesso affetto da talassemia, ha esortato entrambe le autorità palestinesi a mettere da parte le loro divergenze per affrontare la grave mancanza di medicine che sta “uccidendo i nostri pazienti”.

“Si incolpano l’un l’altro per questa crisi”.

Non è colpa nostra

Secondo i funzionari sia della Striscia di Gaza che della Cisgiordania, l’epidemia di COVID-19 ha esacerbato uno squilibrio finanziario paralizzante, impedendo loro di ottenere molte cure.

Secondo Alaa Helles, portavoce del ministero, la stretta finanziaria che il Ministero della salute di Gaza ha dovuto affrontare dopo il blocco gli ha impedito di ottenere e fornire tempestivamente la quantità necessaria di farmaci.

Con la diffusione della pandemia questa crisi non ha fatto altro che peggiorare.

Secondo Ossama al-Najjar, funzionario del Ministero della Salute a Ramallah, dall’anno scorso, quando l’azienda farmaceutica svizzera Novartis ha cessato le vendite all’Autorità Nazionale Palestinese a causa di debiti in sospeso, il Ministero non è stato in grado di distribuire un buon numero di medicinali.

“Siamo nel mezzo di un’orribile crisi finanziaria causata dai due anni della pandemia di COVID-19, che ci ha reso incapaci anche di acquisire le medicine più economiche”, aggiunge.

Ci sono aziende e fondazioni che acquistano regolarmente questi farmaci e ce li donano, spiega Al-Najjar, ma anche questo è bloccatoa causa della pandemia.

Ma respinge le accuse secondo cui Ramallah avrebbe in qualche modo sospeso deliberatamente la consegna delle medicine.

“Non appena il medicinale sarà presente nei magazzini”, ha detto, “sarà trasferito a Gaza”.

Lotta contro la malattia

Ashraf Humeid aveva 37 anni quando è morto lo scorso settembre per gravi complicazioni mediche dopo una lunga lotta contro la talassemia.

A causa della carenza di farmaci Humeid aveva ricevuto nei 14 anni prima della sua morte solo sei delle 12 somministrazioni al mese che avrebbe dovuto ricevere secondo il protocollo.

Poiché l’anno scorso l’economia palestinese si è ulteriormente deteriorata le somministrazioni sono state ridotte a due iniezioni al mese fino all’esaurimento completo delle scorte a Gaza.

Abdallah, che lo conosceva bene a causa della Friends Society, dice che le due somministrazioni erano del tutto insufficienti perché Humed potesse condurre una vita sana.

Ma lui non si è mai lamentato.

“Anche se la sua salute peggiorava e i farmaci erano finiti, ha lottato e ha tentato di nasconderci il suo dolore”, ha detto Abdallah. “Ma vedevamo quanto fosse sfinito.”

Alla fine a Humeid è stata diagnosticata un’insufficienza renale, con conseguente ingrossamento della milza e, infine, un’insufficienza cardiaca.

Nonostante la sua malattia e le significative complicazioni, si è impegnato fino alla fine per altri malati di talassemia come coordinatore per la Thalassemia Patients’ Friends Society.

“Ashraf sognava di proteggere le generazioni future da questa malattia, quindi ha deciso di lavorare con noi nell’associazione”, prosegue Abdallah.

“Era responsabile del programma di sensibilizzazione dell’associazione, che includeva lo svolgimento di eventi nelle università di Gaza e in altri luoghi pubblici per educare i giovani sull’importanza delle visite mediche prematrimoniali ai fini della riduzione dell’incidenza della talassemia”.

Secondo Abdallah tali eventi hanno contribuito a ridurre gradualmente negli ultimi dieci anni il numero di bambini nati con talassemia da 40 a quasi zero.

“Dopo la sua morte il progetto è stato intitolato a lui, in suo onore e per i suoi indimenticabili ed eroici sforzi a favore dei pazienti palestinesi”, afferma Abdallah.

Pazienti disperati

A Gaza molti malati di talassemia hanno perso le speranze di ricevere cure e temono di perdere la vita.

Sawsan al-Masri, 32 anni, è preoccupata di diventare la prossima vittima della carenza del farmaco Desferal.

Come Humeid, al-Masri ora riceve solo un’iniezione due volte alla settimana. Il suo viso è diventato pallido e i suoi muscoli si sono indeboliti, rendendola incapace di muoversi bene o di uscire di casa.

Inoltre soffre di epistassi occasionali e i suoi denti hanno iniziato a cadere. Il suo fegato è ora ingrossato e nel tempo ha sviluppato una cardiomiopatia, un indebolimento del muscolo cardiaco.

“Per me il Desferal è un miracolo perché mi fa sentire una persona normale che può fare tutto ciò che vuole“, ha detto a The Electronic Intifada. “Senza quel farmaco muoio lentamente.”

Da quando il Desferal è esaurito al-Masri assume un farmaco alternativo, ma finora non si è rivelato particolarmente utile. Nel giro di pochi mesi ha già perso a causa della malattia 10 dei suoi più cari amici.

“Prima di non essere più in grado di uscire di casa ho continuato ad andare in ospedale sperando di trovare le medicine e di tornare a una vita normale come tutti gli altri”, dice. Sono sempre rimasta delusa”.

E non ho idea di chi sarà il prossimo. Forse sarò io”.

Israa Sulaiman è una scrittrice di We Are Not Numbers [Non siamo dei numeri, progetto per giovani adulti della Striscia di Gaza, incoraggiati a scrivere e diffondere le loro storie personali, ndtr.]

Khuloud Rabah Sulaiman è una giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)