Ventiquattro palestinesi uccisi nei raid aerei israeliani contro Gaza*

Al Jazeera e agenzie

10 maggio 2021- Al Jazeera

*Alle 00,17 di mercoledì 12 maggio le vittime palestinesi sono 28 di cui 10 bambini [ ndr]

Secondo il ministero della Salute palestinese, almeno 24 palestinesi sono stati uccisi a seguito dei raid aerei israeliani contro la Striscia di Gaza occupata, dopo che Hamas aveva lanciato dal territorio costiero dei razzi verso Israele.

Le forze israeliane hanno continuato a bombardare il territorio fino a martedì mattina, prendendo di mira siti a Khan Younis, nel campo profughi di al-Bureij e nel quartiere di al-Zaitoun.

All’alba sono morti almeno 3 civili, uccisi da un aereo da guerra israeliano che ha preso di mira una casa del campo profughi di al-Shati.

Raed al-Dahshan, portavoce della difesa civile di Gaza, ha detto ad Al Jazeera che fra i tre ci sono una donna e un disabile.

Il ministero della Salute palestinese di Gaza ha detto che, in seguito agli attacchi israeliani, il bilancio delle vittime è salito a 24 persone, inclusi nove bambini. Almeno altre 106 persone sono state ferite.

La maggior parte dei bambini apparteneva alla stessa famiglia. Due di loro, Ibrahim, undicenne, e il fratellino Marwan, di sette anni, erano gli unici figli di Yousef al-Masri.

In attesa dell’iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, i ragazzini stavano giocando davanti alle loro case a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, quando due esplosioni hanno fatto tremare la strada.

Lunedì, Eman Basher, insegnante, ha reso omaggio a Rahaf al-Masri,10 anni, uccisa durante gli attacchi.

Dopo il ferimento di centinaia di palestinesi da parte delle forze israeliane che hanno preso d’assalto il complesso della moschea di Al Aqsa che si trova nella Gerusalemme Est occupata, Hamas, l’organizzazione che governa a Gaza, ha lanciato decine di razzi contro Israele, incluso bombardamento che ha fatto scattare le sirene contro i raid aerei fino a Gerusalemme.

Hamas ha dato un ultimatum a Israele perché ritirasse le forze da Al Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam e anche per gli ebrei [come luogo su cui sorgeva il Secondo Tempio, ndtr.].

Le tensioni a Gerusalemme sono state alimentate dalle previste espulsioni forzate di famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e dai raid delle forze israeliane contro Al Aqsa, in una delle notti più sante del mese di Ramadan.

Israele avverte Hamas

In un discorso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha minacciato un’operazione di lunga durata contro Hamas, accusando il gruppo di aver varcato la “linea rossa” con gli ultimi lanci di razzi, promettendo una pesante reazione. “Chi ci attacca pagherà un prezzo altissimo,” ha detto.

Un soldato israeliano ha riferito che, nella parte sud del Paese un civile ha riportato leggere ferite dopo che un veicolo è stato colpito da un missile anticarro partito da Gaza.

Abu Obeida, portavoce dell’ala militare di Hamas, ha detto che l’attacco contro Gerusalemme è stato la risposta a quelli che lui chiama “crimini e aggressioni” israeliane nella città. “Questo è un messaggio che il nemico farebbe bene a capire”, ha aggiunto.

Ha minacciato altri attacchi se le forze israeliane ritorneranno nel complesso della moschea di Al Aqsa o espelleranno famiglie palestinesi da un quartiere di Gerusalemme Est.

Attacco contro Al Aqsa

All’inizio della giornata la polizia israeliana ha lanciato lacrimogeni, granate stordenti e usato proiettili ricoperti di gomma contro i fedeli palestinesi alla moschea di Al Aqsa.

Più di una decina di lacrimogeni e granate stordenti sono finite nella moschea, mentre la polizia ha attaccato i manifestanti all’interno delle mura che circondano il complesso.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese più di 300 palestinesi sono stati feriti dalle forze armate israeliane, incluse 228 persone ricoverate in ospedali e ambulatori per essere curati. La polizia israeliana ha dichiarato che sono stati feriti 21 agenti, tre dei quali sono stati portati in ospedale. Paramedici israeliani hanno detto che sono stati feriti anche sette civili israeliani.

Di conseguenza, e in un apparente tentativo di evitare ulteriori scontri, le autorità israeliane hanno cambiato il percorso pianificato di una marcia di israeliani dell’estrema destra ultra-nazionalista attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia per ricordare la “Giornata di Gerusalemme”, che celebra la conquista israeliana di Gerusalemme Est che non è riconosciuta dalla comunità internazionale come territorio israeliano.

Lo scontro di lunedì è stato l’ultimo dopo settimane di attacchi quasi ogni notte da parte di truppe israeliane nella Città Vecchia di Gerusalemme contro manifestanti palestinesi durante il sacro mese musulmano di Ramadan.

Sabato, più di 250 persone sono state ferite dopo l’ingresso di forze israeliane dentro Al Aqsa durante la Laylat ul-Qadr, una delle notti più sante dell’Islam.

Espulsioni forzate

Le tensioni nella Gerusalemme Est occupata sono state alimentate dalla prevista espulsione forzata di decine di palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, dove coloni israeliani illegali stanno cercando di occupare proprietà di famiglie palestinesi.

Abitanti del quartiere e attivisti della solidarietà locale e internazionale hanno recentemente tenuto veglie a sostegno delle famiglie palestinesi minacciate di sfratto.

Lunedì la Corte Suprema israeliana ha rimandato una sentenza definitiva sul caso, citando le “circostanze”.

La polizia di frontiera e le forze israeliane hanno attaccato i sit-in usando acqua maleodorante, lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti. Decine di palestinesi sono stati arrestati.

Nida Ibrahim, reporter di Al Jazeera da Ramallah, ha detto che in tutta la Cisgiordania occupata hanno avuto luogo “moltissime proteste spontanee” di sostegno.

Abbiamo sentito persone intonare slogan a sostegno di quelli di Gerusalemme Est e Sheikh Jarrah, inneggiando alla libertà, affinché i palestinesi non vengano cacciati dalle proprie case.”

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno manifestato profonda preoccupazione per gli scontri a Gerusalemme Est, esortando Israele a calmare la situazione e a non eseguire le espulsioni forzate. Anche gli alleati arabi di Israele e la Turchia hanno condannato le azioni di Israele.

Israele ha conquistato Gerusalemme Est, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza durante la Guerra dei Sei giorni nel 1967.

Ha poi annesso unilateralmente Gerusalemme Est e considera l’intera città quale sua capitale, una decisione non riconosciuta dalla vasta maggioranza della comunità internazionale. I palestinesi vogliono i territori occupati per uno Stato futuro con capitale Gerusalemme Est.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un “figlio” di Gaza che lascia il segno nel mondo  

Israa Mohammed Jamal

 

1 maggio 2021 – We Are Not Numbers

 

Al centro di Gaza City si trova piazza Palestine, luogo di ritrovo per famiglie in giro per compere, coppie a passeggio, operai in pausa pranzo. In mezzo ormai da anni c’è la Fenice, un aggraziato uccello di bronzo con le ali rivolte verso il cielo come fosse in procinto di spiccare il volo.

Qualunque passante incontriate nei pressi vi saprebbe spiegare che cosa significhi quell’uccello mitologico per il popolo palestinese. La leggenda vuole che la fenice sia risorta dalle ceneri nel bel mezzo della distruzione. Ma da chi e quando è stata creata quella statua?

A Gaza ormai poche persone se ne ricordano, ma l’artista è Iyad Ramadan Sabbah, uno dei più affermati figli della Striscia (e mio cugino da parte di madre), che vive in Belgio. Le sue opere sono esposte in tutto il mondo, in particolare in Francia, Italia, Portogallo, Repubblica Ceca, Egitto, Oman, Tunisia, Marocco, Cina, Turchia e Sud Corea. Però le radici di Sabbah, così come la sua ispirazione, restano a Gaza, Palestina, lì dove hanno avuto origine.

 

Nascita di un artista

La famiglia Sabbah è originaria del villaggio di Bareer, cittadina palestinese a nord di Gaza distrutta nel 1948 durante la Nakba (“catastrofe” in arabo, la distruzione di massa in cui gli abitanti diventarono profughi dopo la creazione di Israele). In seguito i suoi genitori si trasferirono per lavoro in Arabia Saudita, dove [Iyad] nacque nel 1973.

 

Dopo che la madre morì in un incendio e il padre di un attacco di cuore, Iyad andò a vivere a Gaza. Era il 1982 ed aveva solo nove anni. Scoprì la sua passione alcuni anni dopo, quando frequentava la prima media in una scuola dell’ONU.

“Il mio insegnante di matematica si chiamava Ibraheem Alssawalhi. Ricordo ancora il suo nome. Insegnava anche arte e ci mostrò tantissimi colori. Tutte quelle tonalità diverse mi fecero venire voglia di provarli,” mi dice Iyad su Messenger. “Un giorno ci chiese di dipingere il mercato rionale, e io lo feci. Quello che avevo disegnato gli piacque e lo mostrò a tutti gli altri studenti ed insegnanti a scuola. Fu quello a motivarmi.”

Nelle lezioni di arte imparò a realizzare semplici sculture di legno. Poi Iyad entrò in un circolo artistico e divenne il presidente del gruppo. In seguito ottenne una laurea in belle arti in Libia, dove all’epoca gli studi universitari erano gratuiti. In base al Protocollo di Casablanca firmato nel 1965 [accordo tra Paesi arabi riguardante lo status dei palestinesi, ndtr.] la Libia fu uno dei primi Paesi a consentire ai palestinesi di entrare e di avere accesso ad occupazione e istruzione alla pari dei suoi cittadini.

Una guida per gli altri

Iyad ritornò nel 1998 per insegnare arte all’Università Al-Aqsa di Gaza. Questo periodo coincise con la firma degli Accordi di Oslo [siglati nel 1993 tra il primo ministro israeliano Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Arafat, ndtr], che portò ad un’ondata di ottimismo e alla creazione di un nuovo governo. l’Autorità Nazionale Palestinese. I primi dirigenti [dell’ANP] si concentrarono sulla creazione di istituzioni quali scuole e ospedali. Fu in questo contesto che nel 2000 l’autorità municipale di Gaza organizzò un concorso pubblico per mutare l’aspetto della città. Fra i ventidue progetti presentati, vinse quello di Sabbah.

“La Fenice è stata la mia prima opera pubblica a Gaza e mi ha fatto conoscere alla gente,” ricorda Iyad. “È stata la prima di questo tipo – fatta di fibra di vetro, invece di uno stampo di cemento come era d’uso a quel tempo.”

Iyad continuò a creare molte altre opere di arte pubblica che fossero motivo di ispirazione ed orgoglio per la futura generazione di palestinesi. Sempre a Gaza City creò il Milite Ignoto, la Fontana della Sirena e una statua equestre che divenne il simbolo dell’Italian Complex [centro commerciale distrutto dall’aviazione israeliana durante l’attacco dell’agosto del 2014, ndtr]. Nella città meridionale di Khan Younis si trovava l’opera su commissione la Statua del Ritorno e nella vicina Rafah la Statua del Martire.

Oggi tutte le sue creazioni, ad eccezione di tre, sono scomparse – distrutte durante tre successive guerre con Israele fra il 2008 e il 2014, o smantellate con l’accusa di “idolatria” blasfema dal governo di Hamas dopo che assunse il potere nel 2006.

Le statue che rimangono sono la Fenice, la Statua del Ritorno ed una scultura per bambini disabili a Gaza City chiamata Lakfee Aldonya Makan, che in arabo significa “Hai un Posto nella Vita.”

“Vedere distruggere le mie creazioni mi ha causato frustrazione e dolore – soprattutto quando ciò è stato opera del mio stesso governo,” si rammarica.

Commemorare il dolore

Ciò nonostante Iyad non ha mai smesso di creare e donare alla sua gente. Quando Israele scatenò la guerra contro Gaza nel 2014, venne ucciso il figlio di un suo caro amico.

“Andai col mio amico in ospedale a cercare suo figlio, che faceva da guida ad alcuni giornalisti nel quartiere di Shuja’iyya. L’ospedale era stracolmo di morti e feriti,” ricorda, descrivendo la giornata di luglio in cui almeno 55 civili vennero uccisi nello spazio di 24 ore. “Trovammo il corpo del figlio del mio amico fra i morti.”

In ricordo di quel giovane Iyad creò Tahalok, che in arabo significa “esausto”. Nell’allestimento sette statue di argilla si trascinano da Shuja’iyya verso la spiaggia – sono uomini e donne, adulti e bambini dall’aspetto spossato, macchiati di rosso. Una delle statue è stata in seguito portata in Cisgiordania ed è esposta a Betlemme nel museo Banksy all’interno del Walled-Off Hotel [costruito lungo la barriera di separazione israeliana, è l’hotel del famoso artista Banksy, che lo pubblicizza come “l’albergo con la vista peggiore del mondo”, ndtr]. Le altre statue sono custodite nella sua casa di Gaza, dove attualmente vivono alcuni parenti. 

“Guerra e sradicamento sono temi perenni nella vita palestinese,” spiega Iyad.

Iyad aveva conseguito la laurea magistrale al Cairo nel 2006 e nel 2015 era andato in Tunisia per concludere un dottorato iniziato online. Quando in autunno venne invitato ad una mostra in Belgio, decise di chiedervi asilo e da allora quello è diventato il suo Paese di residenza.

“Però Gaza, la Palestina e la causa palestinese saranno sempre il fulcro della mia opera artistica,” dice Iyad.

Fa quello che può per sostenere chi è rimasto e lotta sotto l’occupazione. “Gli artisti di Gaza hanno tante idee ed esperienze, e hanno anche l’energia creativa per esprimersi, ma il blocco costituisce una grossa barriera fra loro e le esposizioni internazionali.”

La scarsità delle materie prime a Gaza costituisce un altro ostacolo significativo, specialmente per gli scultori. “È difficile trovare le fonderie, la lega di bronzo e i materiali speciali necessari per gli stampi,” spiega Iyad. Fa del suo meglio per aiutare gli artisti di Gaza a elaborare le loro opere e a condividerle con chi sta all’estero. Iyad ha aperto un canale YouTube per spiegare come crea la sua arte e condivide anche le opere di artisti gazawi sulla propria pagina Facebook.

Iyad è simile ad un uccello che è riuscito a fuggire da una grande gabbia. Nonostante lui sia libero, però, il suo cuore rimane laggiù, con gli altri uccelli in gabbia.

mentore: Pam Bailey

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




“Un golpe”: le fazioni palestinesi criticano il rinvio delle elezioni politiche

Al Jazeera e agenzie

30 aprile 2021 – Al Jazeera

Hamas afferma che la decisione del presidente Abbas “è un golpe contro il percorso verso la collaborazione politica e il consenso”.

Il movimento palestinese Hamas, che governa la Striscia di Gaza assediata, ha duramente criticato la decisione del presidente Mahmoud Abbas di rimandare le elezioni politiche previste il 22 maggio.

Giovedì notte il presidente Abbas ha annunciato il rinvio facendo riferimento al rifiuto israeliano di permettere che si tengano le elezioni a Gerusalemme est. Ha tuttavia sottolineato che una volta che Israele consenta di votare a Gerusalemme, le elezioni si terranno “entro una settimana”.

Abbiamo accolto con rammarico la decisione di Fatah (il partito) e dell’Autorità Nazionale Palestinese espressa dal loro presidente, Mahmoud Abbas, di interrompere le elezioni palestinesi,” ha affermato in un comunicato l’organizzazione Hamas.

Essa afferma di ritenere totalmente responsabili l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e Fatah del rinvio e delle sue ripercussioni, considerando questo passo “un golpe contro il cammino verso la collaborazione nazionale e il consenso.”

Il comunicato afferma che Hamas ha boicottato l’incontro [che ha preceduto la decisione di rinviare il voto, ndtr.], in quanto “sapeva già che l’ANP e Fatah stavano andando verso l’annullamento delle elezioni per calcoli diversi, non riguardanti Gerusalemme.” Anche il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, respingendo la decisione, ha chiesto l’osservanza degli accordi nazionali per tenere le elezioni, aggiungendo che cercherà in ogni modo di ribaltare la decisione di rimandare il voto. V

Anche il commissario dell’Unione Europea per la politica estera Josep Borrell ha condannato la decisione di rinviare il voto a lungo atteso.

La decisione di rimandare le previste elezioni palestinesi, comprese quelle legislative fissate originariamente per il 22 maggio, è molto deludente,” ha detto Borrell in un comunicato.

Incoraggiamo vivamente tutti gli attori palestinesi a riprendere gli sforzi basandosi sui colloqui fruttuosi tra le fazioni durante i mesi scorsi. Dovrebbe essere fissata senza indugio una nuova data per le elezioni.”

Il ritardo rischia di accentuare le tensioni  in una società palestinese politicamente divisa.

All’inizio di questa settimana il quotidiano “Al-Quds”, noto per essere vicino all’ANP, ha rivelato che Abbas è stato sottoposto a pressioni da parte araba e statunitense perché rinviasse il voto. Ha affermato che le pressioni erano dovute alla probabilità che Hamas vincesse le elezioni.

Proteste

Parlando con Al Jazeera prima della decisione, alcuni palestinesi nella Cisgiordania occupata hanno detto che se il governo palestinese avesse voluto realmente andare al voto avrebbe trovato una soluzione. “È facile trovare delle scuse,” ha detto un negoziante palestinese.

Dopo la decisione di Abbas, centinaia di palestinesi arrabbiati si sono riuniti nella città centrale di Ramallah e nella Striscia di Gaza per condannare la mossa.

C’è un’intera generazione di giovani che non sa cosa siano le elezioni,” ha detto all’agenzia di notizie AFP Tariq Khudairi, un manifestante di Ramallah. “Questa generazione ha il diritto di eleggere i propri dirigenti.”

Guadagnare tempo

Chi critica Abbas lo accusa di aver utilizzato la questione di Gerusalemme per guadagnare tempo in quanto le prospettive politiche di Fatah erano peggiorate.

Hamas è vista come meglio organizzata di Fatah e con buone prospettive di conquistare terreno in Cisgiordania.

Alcuni osservatori hanno anche visto il problema di Gerusalemme come un possibile pretesto per l’annullamento, perché una vittoria della profondamente divisa Fatah di Abbas è considerata incerta.

In recenti sondaggi, due terzi degli interpellati hanno manifestato scontento nei confronti del presidente. Abbas ha anche affrontato l’opposizione da parte di gruppi scissionisti di Fatah, tra cui uno guidato da Nasser al-Kidwa, nipote del leggendario leader palestinese Yasser Arafat, e un altro dal potente ex-capo dei servizi di sicurezza di Fatah, in esilio, Mohammed Dahlan.

Controsenso”

Durante le ultime elezioni palestinesi, gli abitanti di Gerusalemme est hanno votato nei dintorni della città e migliaia l’hanno fatto via posta, un’iniziativa simbolica accettata da Israele.

Questa settimana il ministero degli Esteri israeliano ha affermato che le elezioni sono una “questione interna dei palestinesi e che Israele non ha intenzione di interferire con esse o di impedirle.”

Ma non ha fatto alcun commento riguardo al voto a Gerusalemme, la città che descrive come sua “capitale indivisibile” e dove ora vieta ogni attività politica dei palestinesi.

Abbas ha detto ai dirigenti dell’OLP di aver ricevuto un messaggio da Israele in cui si dice di non poter dare indicazioni sulla questione di Gerusalemme perché lo Stato ebraico attualmente non ha un governo.

Lo stesso Israele è impantanato nella sua peggiore crisi politica di sempre, senza aver ancora formato un governo in seguito alle inconcludenti elezioni del 23 marzo.

Veto” israeliano

Parlando con alcuni inviati prima dell’annuncio di venerdì, la giornalista palestinese Nadia Harhash, critica con Abbas, ha detto che utilizzare Gerusalemme per giustificare un rinvio “non è affatto una mossa astuta per l’ANP.”

Harhash, candidata alle elezioni con una fazione contraria ad Abbas, ha sostenuto che ciò concede a Israele il potere di veto de facto sul diritto di voto dei palestinesi.

Anche Hamas ha affermato che un ritardo rappresenta una resa al “veto dell’occupazione israeliana.” Le elezioni sono state in parte viste come un tentativo unitario da parte di Hamas e Fatah per rafforzare la fiducia a livello internazionale sulla capacità di governo dei palestinesi prima della possibile ripresa dell’attività diplomatica guidata dagli USA con il presidente Joe Biden, dopo quattro anni di Donald Trump, che hanno visto Washington appoggiare obiettivi fondamentali di Israele.

Alcuni analisti hanno affermato che Abbas sperava che le elezioni consentissero a Fatah e Hamas di continuare a condividere il potere, ma si è sentito minacciato dall’emergere di forti fazioni scissioniste e dal sorgere di nuovi gruppi critici nei confronti della sua leadership.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il ruolo del Quartetto è di minare la democrazia palestinese

Motasem A. Dalloul*

13 aprile 2021 – Monitor de Oriente

Il 23 marzo ho ricevuto una mail da Murad Bakri, responsabile della comunicazione strategica e dell’informazione pubblica dell’Ufficio del Coordinatore Speciale ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente. Bakri voleva farci sapere che il “Quartetto per il Medio Oriente” continua ad esistere ed è disposto a riprendere la sua mediazione per la pace tra Israele e i palestinesi.

Gli inviati del Quartetto per il Medio Oriente dell’Unione Europea, della Federazione Russa, degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite si sono riuniti da remoto per discutere il ritorno a negoziati significativi che portino a una soluzione dei due Stati, compresi passi concreti per migliorare la libertà, la sicurezza e la prosperità di palestinesi e israeliani, cosa che di per sé è importante,” afferma il comunicato ufficiale.

Ricordo le riunioni infinite tra il Quartetto e i funzionari israeliani e palestinesi dal 2002, quando venne creato, al 2014, quando i colloqui di pace fallirono. Durante quel periodo il Quartetto si sforzò in apparenza di raggiungere una soluzione, che significava fondamentalmente la creazione di uno Stato palestinese disarmato e con frontiere permanenti accanto a Israele.

In realtà non si ottenne niente, e il Quartetto rilasciò la sua ultima dichiarazione il 22 luglio 2017. Un anno prima, il 7 luglio 2016, aveva pubblicato un rapporto che affrontava le minacce al processo di pace e formulava raccomandazioni per progredire nella soluzione a due Stati. Il rapporto accusava i palestinesi di continuare con la violenza rappresentata dalla messa in pratica di “atti di terrorismo contro gli israeliani e istigazione alla violenza.”

Il rapporto non citava le migliaia di palestinesi assassinati dagli israeliani dalla formazione del Quartetto (e, di fatto, dalla creazione di Israele stesso) né l’uso di forza letale da parte di Israele contro i civili palestinesi. Non citava neppure le migliaia di palestinesi, tra cui minorenni, che subivano dure condizioni nelle carceri israeliane né le centinaia di palestinesi che sono detenuti per mesi e anni senza accuse né processo. Prima della lunga ibernazione, il Quartetto disse che Israele doveva fermare l’espansione delle colonie e togliere le restrizioni imposte alla Striscia di Gaza assediata. Accusò anche Israele del mancato sviluppo adeguato nei territori occupati.

Benché il Quartetto abbia segnalato il COVID-19 per giustificare la propria resurrezione, credo che la vera ragione sia agire in nome di Israele e degli Stati Uniti per sabotare la democrazia palestinese, il suo principale obiettivo da quando esiste. Nathalie Tocci, politologa italiana esperta in relazioni internazionali specializzata nel ruolo dell’Unione Europea nelle questioni internazionali e nel mantenimento della pace, ha detto in uno studio pubblicato nel 2011: “Tutte le iniziative del Quartetto… sono state risposte a stimoli provenienti da USA e Israele.”

Il Quartetto venne creato quando la Seconda Intifada palestinese – rivolta popolare contro l’occupazione israeliana – era diventata più feroce. Il gruppo spacciò la “roadmap verso la pace” degli Stati Uniti nel tentativo di coinvolgere i palestinesi nelle conversazioni di pace e far loro cambiare idea riguardo al loro diritto alla resistenza, legittimato dalle leggi e convenzioni internazionali. Era chiaro che il Quartetto non era altro che uno strumento di Washington al servizio di Israele, un sofisticato randello con cui colpire i nemici di Israele.

“Disgraziatamente le attività (del Quartetto) hanno rispecchiato i tentativi infruttuosi dell’UE di inquadrare le iniziative statunitensi in un contesto multilaterale oppure i tentativi fruttuosi degli Stati Uniti di dare una copertura multilaterale alle azioni unilaterali,” spiega Tocci. Ciò chiarisce il ruolo del Quartetto.

Possiamo dire con convinzione che le posizioni degli Stati Uniti sulla Palestina in genere riflettono quelle di Israele. Prendiamo per esempio la posizione di Washington su Hamas, la principale fazione palestinese. Nel suo rapporto aggiornato al mese scorso il Servizio Ricerche del Congresso [USA] dice: “Storicamente gli Stati Uniti hanno cercato di rafforzare il presidente dell’OLP e dell’ANP Mahmoud Abbas contro Hamas.” Il rapporto afferma che, in seguito alle elezioni parlamentari del 2006 vinte da Hamas, “Israele, gli Stati Uniti e altri membri della comunità internazionale hanno cercato di neutralizzare o marginalizzare Hamas.” In base alle conclusioni di Tocci, il Quartetto deve aver adottato questo punto di vista, e in effetti è ciò che è accaduto.

Hugh Lovatt, del Consiglio Europeo degli Affari Esteri, il mese scorso ha affermato che L’UE e gli Stati Uniti furono all’inizio strenui difensori della democrazia palestinese, e furono una forza che promosse le ultime elezioni parlamentari palestinesi che si tennero nel 2006, incitando Hamas e Al Fatah a partecipare in modo costruttivo al processo elettorale. “L’UE e gli Stati Uniti si mostrarono meno a loro agio quando, in seguito alla vittoria di Hamas, il risultato democratico fu contrario ai loro interessi,” aggiunge.

“Secondo tutti gli indicatori le elezioni del 2006 furono libere e giuste,” afferma Lovatt, e la UE definì il voto “una pietra miliare nella costruzione delle istituzioni democratiche.” La UE disse anche: “Queste elezioni hanno visto l’impressionante partecipazione degli elettori in un processo elettorale aperto e corretto che è stato organizzato efficacemente da una Commissione Elettorale Centrale Palestinese professionale e indipendente.”

Tuttavia Lovatt evidenzia: “Essendosi aspettati che le elezioni dessero più potere ad Abbas e ad Al Fatah, gli Stati Uniti risposero alla vittoria elettorale di Hamas in modo avventato, spingendo rapidamente per l’isolamento internazionale e la pressione sul governo di Haniyeh [Hamas]”. Gli Stati Uniti hanno portato avanti la loro politica attraverso le condizioni imposte ai palestinesi dal Quartetto.”

Secondo Tocci “immediatamente dopo la schiacciante vittoria elettorale di Hamas, il 30 gennaio, il Quartetto ribadì la sua posizione.” Una dichiarazione rilasciata in seguito alla vittoria del movimento nel 2006 diceva che “il Quartetto considera che tutti i membri di un futuro governo palestinese dovranno impegnarsi alla nonviolenza, al riconoscimento di Israele e all’accettazione degli accordi e obblighi precedenti.”

Queste sono in realtà le condizioni degli Stati Uniti per una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese. Queste condizioni alimentarono il conflitto interno palestinese, che nel 2007 provocò una divisione interna che continua tuttora. Lovatt descrive quanto avvenuto: “Le forze di Hamas cacciarono dalla Striscia di Gaza le forze di sicurezza dell’ANP controllate da Fatah anticipando lo stesso piano di Al Fatah, appoggiato dagli Stati Uniti, per spodestare Hamas.” In altre parole, un colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti.

Con i palestinesi impegnati in elezioni politiche che si dovrebbero tenere il prossimo mese, gli Stati Uniti e Israele hanno risuscitato il Quartetto perché si opponga a una possibile vittoria di Hamas. “È probabile che il ricordo storico della sorprendente vittoria di Hamas nelle ultime elezioni dell’ANP che si sono celebrate – quelle del 2006 – influisca nei calcoli dei diversi partiti… Alla luce delle conseguenze delle elezioni del 2006 l’amministrazione [USA] sta procedendo con cautela riguardo alle elezioni dell’ANP,” ha evidenziato nel suo rapporto il Servizio Ricerche del Congresso degli Stati Uniti.

Il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken e il suo omologo israeliano Gabi Ashkenazi hanno condiviso chiaramente la loro preoccupazione per la possibile vittoria di Hamas nelle prossime elezioni palestinesi. Il Dipartimento di Stato ha reiterato le condizioni del Quartetto secondo cui chi partecipa a qualunque elezione palestinese “deve rinunciare alla violenza, riconoscere Israele e rispettare gli accordi precedenti.”

Quindi è abbastanza ovvio che l’affermazione del Quartetto per il Medio Oriente secondo cui si sta preparando a tornare a “negoziati significativi” è semplicemente una premessa alla ripetizione dello stesso gioco giocato dopo le elezioni palestinesi del 2006. Minò la democrazia palestinese e l’opzione elettorale del popolo allora e si prepara a fare altrettanto adesso.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

* [Motasem A. Dalloul è un giornalista palestinese che vive a Gaza, ndtr.].

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 16 – 29 marzo 2021

Il 19 marzo, durante una protesta settimanale svolta vicino al villaggio di Beit Dajan (Nablus), un palestinese di 45 anni, che stava lanciando pietre contro le forze israeliane, è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso.

A quanto riferito, i soldati coinvolti sarebbero stati chiamati a rapporto. Con questa uccisione sale a tre il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dall’inizio dell’anno. Nei pressi di Beit Dajan, dieci persone sono rimaste ferite nel corso di proteste che, da sei mesi, si svolgono ogni venerdì contro la costruzione di un nuovo avamposto colonico su un terreno di proprietà del villaggio.

In Cisgiordania, oltre ai dieci di cui sopra, altri 53 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane: quarantatré in scontri occorsi nel quartiere Kafr ‘Aqab di Gerusalemme Est; cinque a Beit Ummar (Hebron) e Bir Nabala (Gerusalemme), in due operazioni di ricerca-arresto; quattro a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nelle proteste settimanali contro l’espansione degli insediamenti; uno nell’area di Tulkarm, mentre cercava di entrare in Israele attraverso una delle brecce nella Barriera. Dei [63]feriti complessivi, 40 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 16 sono stati colpiti da proiettili di gomma e sette sono stati aggrediti fisicamente o colpiti da candelotti lacrimogeni. Inoltre, a Gerico, un pastore palestinese è rimasto ferito dall’esplosione di un residuato bellico che stava maneggiando.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 128 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 115 palestinesi, compresi cinque minori. Il governatorato di Ramallah ha registrato il maggior numero di operazioni (27), seguito da Tulkarm (21) ed Hebron (18). A Beit Kahil (Hebron), in una sola un’operazione sono stati arrestati 21 palestinesi.

L’ingresso dei palestinesi nell’Area [residenziale chiusa] H2 della città di Hebron è risultato rallentato per lunghi periodi a causa della reintroduzione, da parte delle forze israeliane, di pesanti restrizioni al checkpoint di accesso al quartiere Tel Rumeida. Al checkpoint, le forze israeliane hanno imposto ai residenti palestinesi di passare attraverso i metal detector; tale disposizione non era più in uso da diversi anni.

In Area C e in Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi edilizi, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 26 strutture di proprietà palestinese, sfollando 34 persone, di cui 15 minori, e creando ripercussioni su circa 40 [seguono dettagli]. Il 17 marzo, in quattro Comunità dell’Area C, sono state prese di mira ventidue strutture, comprese otto tende sequestrate a Khirbet Tana (Nablus), sfollando 18 persone. Nella Comunità beduina di An Nuwei’ma Al Fauqa (Gerico), sono state demolite 11 case disabitate: 21 persone ne sono state colpite. A Gerusalemme Est sono state demolite quattro strutture, di cui tre ad opera dei proprietari: dodici le persone sfollate.

Coloni israeliani, noti o ritenuti tali, hanno ferito due palestinesi e danneggiato alcune centinaia di alberi di proprietà palestinese. Entrambi i palestinesi feriti sono stati aggrediti fisicamente, uno vicino alla Comunità di Susiya (Hebron) e l’altro vicino ad Al Khader (Betlemme), mentre lavorava la propria terra. Residenti nei villaggi di Jalud, Khirbet Sarra e Tell in Nablus, e Ras Karkar e Deir Nidham in Ramallah, hanno riferito che erano stati vandalizzati circa 300 alberi e alberelli [citati sopra]. A Beit Iksa (Gerusalemme) e Kafr ad Dik (Salfit), persone note come coloni, o ritenuti tali, hanno vandalizzato una casa, tre strutture agricole e tre veicoli. Ancora coloni, nella zona di Al Baq’a (Hebron), hanno iniziato a devastare con bulldozer terra privata palestinese. Nei pressi di Tubas coloni hanno bloccato una sorgente, impedendone l’accesso ai pastori palestinesi. A Tuqu’ e Kisan (Betlemme) coloni hanno eretto tende su terreni appartenenti a residenti dei villaggi. A Kisan, alla fine, hanno rimosso le tende, e a Tuqu’ le autorità israeliane hanno ordinato loro di rimuoverle entro il 4 aprile.

Autori, ritenuti palestinesi, hanno colpito con pietre veicoli israeliani in viaggio su strade della Cisgiordania: secondo fonti israeliane dieci veicoli hanno subito danni.

In aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale o al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 17 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]; non sono stati registrati feriti. In due occasioni, le forze israeliane hanno spianato il terreno vicino alla recinzione, all’interno di Gaza; non sono stati segnalati feriti.

Da Gaza è stato lanciato un razzo verso il sud di Israele; a quanto riferito sarebbe caduto in un’area aperta senza provocare feriti o danni. Israele ha compiuto alcuni attacchi aerei che, viene riferito, hanno colpito siti militari a Gaza, causando danni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




“Spaccata a metà”: la lunga attesa della madre di Gaza per riunirsi ai suoi figli in Cisgiordania

Maha Hussaini da Gaza

29 marzo 2021 – Middle East Eye

Le organizzazioni per i diritti affermano che la “politica di separazione” israeliana sta mantenendo separate decine di famiglie.

Niveen Gharqoud ha visto solo uno dei suoi cinque figli. È rimasta separata dagli altri da quando li ha mandati a vivere con il padre a Qalqilya, una città nella Cisgiordania occupata a circa 100 chilometri di distanza.

Gharqoud, 39 anni, che vive con i propri genitori e con il figlio più giovane nel villaggio di Juhr al-Deek, nel centro della Striscia di Gaza, ha presentato dal 2018 alle autorità israeliane cinque distinte richieste di permesso di uscita nella speranza di riunirsi a suo marito e ai figli in Cisgiordania.

Non glien’è stata concessa nessuna.

Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho visto i miei figli. Prima dormivo con loro in cinque su un letto, e ora non riesco a vederli se non attraverso lo schermo di un cellulare”, ha dichiarato Gharqoud a Middle East Eye.

“È doloroso accettare l’idea che i miei quattro figli si prendano cura di se stessi senza una madre, mentre il padre lavora per la maggior parte del tempo”.

Politica di separazione

Gli abitanti della Striscia di Gaza assediata hanno bisogno di permessi di uscita da parte delle autorità israeliane per entrare nella Cisgiordania occupata attraverso il confine controllato da Israele a Erez, l’unico valico per le persone che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto dei territori palestinesi occupati.

Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni legislative, Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Israele ha subito imposto all’enclave costiera un blocco soffocante, limitando il movimento di persone e merci dentro e fuori Gaza, in base a quella che il governo israeliano chiama “la politica di separazione”.

Secondo il governo israeliano la politica mira a limitare i viaggi tra Gaza e la Cisgiordania per evitare il passaggio di “una rete di terroristi” fuori dalla Striscia.

“Anche se il governo israeliano vuole ridurre quello che chiama il passaggio di terroristi nei territori palestinesi occupati, la sua politica di separazione imposta a oltre due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza è semplicemente una punizione collettiva, proibita dal diritto internazionale umanitario”, ha detto a MEE Mohammed Emad, Il direttore del dipartimento legale dell’organizzazione per la difesa [dei diritti umani] Skyline International for Human Rights, con sede a Stoccolma.

“Tali restrizioni sono imposte ai civili in modo casuale e arbitrario e portano alla separazione di dozzine di famiglie”. Famiglie come i Gharqoud.

Una famiglia divisa

Niveen ha sposato Sami Gharqoud a Gaza 18 anni fa. Nel corso del loro matrimonio lui ha svolto vari lavori di manovalanza in Israele.

“Si spostava tra Gaza e la Cisgiordania”, dice Niveen. “Lavorava lì e veniva a trovarmi ogni tanto.

Non ha assistito a nessuna delle nascite dei nostri cinque figli, e non mi ha mai visto incinta se non nelle foto e attraverso le videochiamate”, racconta Niveen a MEE.

Andavo in ospedale con mia madre, trascorrevo da sola tutto il dolore [del travaglio], partorivo e tornavo a casa. Sarebbe venuto a trovarci solo dopo il parto di ogni bambino, sarebbe rimasto un paio di settimane e poi sarebbe partito di nuovo per la Cisgiordania”.

Ma dall’inizio dell’attuale blocco, Sami ha fatto visita alla sua famiglia a Gaza solo una volta.

“Prima dell’ultima guerra a Gaza [nel 2014] sono andata a trovarlo in Cisgiordania, sono rimasta per circa sei mesi e sono rimasta incinta del mio ultimo figlio, Ameer”, dice Niveen. Questa è risultata essere l’unica volta in cui ha potuto far visita a Sami.

Poi sono dovuta tornare a Gaza, perché le [autorità israeliane] mi hanno permesso di portare con me in Cisgiordania solo due dei miei quattro figli. Non mi hanno consentito deliberatamente di portare tutti e quattro i bambini. Volevano costringermi a tornare a Gaza. Quindi sono stata obbligata a rientrare “.

Sami non ha mai incontrato il suo figlio più piccolo, Ameer, che ora ha sei anni.

Niveen ha cercato di ricongiungersi al marito dalla nascita del loro ultimo figlio, nel 2014, ma le autorità israeliane non le hanno permesso di recarsi in Cisgiordania.

Nel 2016 ha deciso di mandare i suoi figli dal padre in anticipo, dopo che i suoi parenti e amici le avevano detto che questo l’avrebbe aiutata a ottenere in seguito un permesso per riunirsi a loro.

Mio padre ha preso i miei quattro figli e ha viaggiato attraverso il confine di Rafah [con l’Egitto] fino alla Giordania. Ma li ha lasciati al ponte Allenby [che collega la Giordania alla Cisgiordania] perché non poteva attraversarlo – la sua carta d’identità dichiara che vive a Gaza, a differenza dei miei figli e del loro padre, i cui documenti indicano che vivono in Cisgiordania.

Ora non posso mandare Ameer a ricongiungersi con i suoi quattro fratelli. La mia figlia più grande, che ora ha 17 anni, si assume già la responsabilità dei suoi tre fratelli e si prende cura di loro. È ancora una bambina, ma è sommersa da tutte quelle responsabilità “.

I quattro figli di Niveen a Qalqilya vedono il padre appena una o due volte a settimana a causa del suo lavoro e trascorrono il resto della settimana da soli. Ogni volta che hanno bisogno di qualcosa, i bambini chiamano la madre a Gaza.

“Circa due anni fa mia figlia mi ha chiamato urlando”, ricorda Niveen Gharqoud. “Ha detto che dell’acqua bollente era caduta sul viso del fratello minore mentre lei stava cuocendo alcune uova per dargliele da mangiare. Non sapevo cosa fare – ho chiamato la loro vicina e l’ho pregata di andare ad aiutarli”.

“Questa non è stata l’ultima volta in cui è successa una cosa del genere”, continua Niveen. “Qualche giorno fa, Malak [la sorella maggiore] mi ha chiamato spaventata. Mi ha detto che qualcuno stava cercando di aprire la porta del loro appartamento. Non potevo fare altro che dirle di chiudere bene la porta e di accendere la televisione per fare rumore”.

“Ho i numeri dei vicini per i casi di emergenza perché qui sono impotente, mentre il padre è assente per la maggior parte del tempo”.

Gharqoud spera ancora di riuscire a raggiungere i suoi figli e il marito a Qalqilya, ma dice che le autorità israeliane “non rispondono nemmeno alle mie domande per il permesso di uscita, le lasciano in sospeso”.

Quando un permesso di uscita viene negato o resta sospeso, i palestinesi della Striscia di Gaza devono aspettare tre mesi prima di poter presentare un’altra richiesta.

Una lunga storia di separazioni

Nel luglio 2003 il parlamento israeliano ha approvato una legge che impedisce il ricongiungimento familiare dei cittadini israeliani sposati con palestinesi dei territori palestinesi occupati.

Secondo Amnesty International la legge costituisce un “ulteriore passo nella politica israeliana di lunga data volta a limitare il numero di palestinesi a cui sia consentito di vivere in Israele e a Gerusalemme est”.

Israele è stato a lungo criticato per aver separato i bambini palestinesi dalle loro famiglie, compresi quelli della Striscia di Gaza che vengono inviati per cure mediche nei territori palestinesi occupati.

I dati raccolti dalla ONG Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani, ONG no profit che utilizza medicina e scienza per documentare e difendere contro le atrocità di massa e le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] hanno rivelato che più della metà delle domande presentate nel 2018 da genitori che cercavano di accompagnare i propri figli per cure mediche nei territori palestinesi occupati sono state respinte.

Nel 2019 circa un quinto dei bambini inviati per cure mediche dalla Striscia di Gaza ha viaggiato senza i genitori.

Un rapporto pubblicato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha nel 2020 affermava che nell’isolare la Striscia di Gaza e nell’imporre ai palestinesi restrizioni di movimento tra città e villaggi, Israele ha “perseguito una strategia del divide et impera” per ostacolare le possibilità da parte dei palestinesi di mantenere unite la vita sociale e familiare.

Le autorità israeliane al momento attuale non hanno risposto ad una richiesta di commento.

Separazione traumatica

Il figlio più giovane dei Garqouds, Ameer, ha accompagnato suo nonno e i fratelli al valico di confine di Rafah quando aveva tre anni. Una volta arrivati al confine, si è reso conto che il suo fratello più vicino d’età, Muhammed, e altri tre fratelli se ne stavano andando senza di lui. A differenza di loro, Ameer era troppo giovane per viaggiare senza un genitore.

“Quando è tornato a casa, era così scioccato che è svenuto”, ha detto Niveen. “Da allora ha tanta paura di essere lasciato solo da non recarsi neppure a scuola.

“Qualche mese fa sono andata al matrimonio di un parente. Quando sono uscita [da casa] Ameer ha iniziato a urlare ed è svenuto, pensando che tutti gli mentissero e che io fossi andata in Cisgiordania abbandonandolo”.

Per evitare di lasciarlo solo a scuola e temendo che la sua ansia possa peggiorare Gharqoud ora gli impartisce le lezioni a casa.

“Da quando ha visto i suoi fratelli andarsene, è diventato così bisognoso di attenzioni che mi segue ovunque, per assicurarsi che non lo abbandoni”.

“Manca la cucina della mamma”

“Tua sorella mi ha detto che l’altro giorno non sei andato a scuola, perché?” Niveen ha chiesto a Muhammed, il figlio di 10 anni, nel corso di una videochiamata.

“Mi sono svegliato, ho cercato i miei pantaloni e non sono riuscito a trovarli, quindi non ho potuto andare”, ha risposto.

“Se avesse una madre al suo fianco questo non sarebbe mai accaduto”, dice a MEE Niveen, seduta nel suo soggiorno.

Con Sami ancora in quarantena dopo essere risultato positivo al coronavirus, Niveen si assicura anche che i suoi figli abbiano mangiato il loro pranzo.

Di solito mangiamo panini o ordiniamo il cibo a domicilio perché non abbiamo nessuno che cucini per noi. Ma Malak a volte chiama mamma e chiede alcune ricette per sfamarci”, racconta a MEE Muhammed, 10 anni, il quarto figlio dei Gharqoud.

Niveen dice che evita di inviare foto di riunioni di famiglia ai suoi figli in modo che non si sentano abbandonati o desiderino “cibo che non possono avere”.

“Malak cucina bene”, afferma Muhammed, “ma mi mancano i piatti di mamma, che solo lei sa preparare bene”.

Malak, che ha festeggiato il suo 17° compleanno a febbraio, ha assunto il ruolo di sua madre: tenere sotto controllo gli studi dei fratelli e assisterli nelle loro necessità quotidiane.

“Qualche settimana fa, il suo vicino di casa di 23 anni ha chiesto la sua mano in matrimonio”, riferisce Niveen. “In una situazione normale, non accetterei mai l’idea di permettere a mia figlia di sposarsi a quell’età. Ma dal momento che non ha nessuno che si prenda cura di lei voglio che si senta emotivamente stabile con qualcuno su cui può fare affidamento.

“Inizialmente eravamo d’accordo sul suo fidanzamento, ma Malak si rifiuta ancora di procedere finché non potrò unirmi a loro e incontrare il [suo] ragazzo.”

Niveen dice che i suoi figli potrebbero facilmente tornare a Gaza, ma lei si rifiuta di riportarli a vivere lontano dal padre. Non è sicura, nel caso tornassero, che potrebbero ottenere un permesso per ripartire, e il viaggio attraverso la Giordania e l’Egitto è troppo costoso.

I miei figli stanno crescendo e hanno bisogno del padre nella loro vita. Sono spaccata a metà; li voglio qui con me, ma voglio anche che vivano in un ambiente sano con me e il loro padre insieme”, ha confidato a MEE.

“Cosa c’è di così difficile nel permettere a me e a mio figlio di sei anni di riunirci con la nostra famiglia?”

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Ingerenze straniere nelle elezioni palestinesi

Adnan Abu Amer

21 Marzo 2021 Al-Jazeera

Mentre i palestinesi iniziano il conto alla rovescia per le loro elezioni legislative e presidenziali rispettivamente in maggio e luglio, sembra crescere l’interesse tra soggetti stranieri nel manipolare il loro esito. Questo ha iniziato a preoccupare la leadership palestinese.

Il 16 febbraio il general maggiore Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah, ha dichiarato alla televisione palestinese che alcuni Paesi arabi hanno cercato di interferire pesantemente nelle elezioni palestinesi e nei colloqui di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Tre giorni dopo Bassam al-Salhi, segretario generale del Partito del Popolo Palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), in un’intervista sul sito web Arabi21 ha detto: “Molti Paesi invieranno ingenti quantità di denaro perché vogliono influenzare il Consiglio Legislativo. Siamo di fronte ad interferenze da parte di molti Paesi, arabi e stranieri.”

Benché questi dirigenti palestinesi non abbiano fatto i nomi dei soggetti stranieri a cui si riferiscono, sembra che siano preoccupati soprattutto per le pressioni di Egitto, Giordania e Emirati Arabi Uniti (EAU). Tutti loro hanno parecchie poste in gioco nelle elezioni e preconizzano determinati risultati in linea con i loro interessi regionali e interni.

Interessi stranieri

Non è un segreto che indire le elezioni da parte del presidente (dell’ANP) Mahmoud Abbas non è stata una decisione volontaria o dovuta a iniziative arabe, ma il risultato di pressioni americane ed europee. L’Unione Europea ha persino minacciato di interrompere il supporto finanziario che fornisce a Ramallah se fossero state cancellate le elezioni. Sia Bruxelles che Washington vogliono che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) riconquisti legittimità prima di procedere con le loro trattative con i palestinesi. Le elezioni sono anche appoggiate da altri due importanti attori regionali: la Turchia e il Qatar.

Tuttavia l’annuncio delle votazioni non è stato ben accolto da alcune capitali arabe, soprattutto Il Cairo e Amman. Entrambe temono il ripetersi delle elezioni del 2006, quando Hamas riportò una netta vittoria a Gaza, che condusse ad un conflitto armato con Fatah. Se ciò accadesse di nuovo, potrebbe avere un effetto destabilizzante sugli affari interni sia dell’Egitto che della Giordania.

In particolare il regime egiziano considera Hamas un ramo della Fratellanza Musulmana, che ha cercato di sradicare fin dal colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi nel 2013. Una vittoria potrebbe rendere Hamas più sordo alle pressioni del Cairo, dal momento che otterrebbe una legittimazione elettorale. Potrebbe anche ridare vigore alla Fratellanza (Musulmana) in Egitto.

Anche la Giordania teme un rafforzamento di Hamas, ma è preoccupata anche da una possibile instabilità post-elettorale, che potrebbe provocare agitazioni all’interno della vasta popolazione palestinese che vi abita.

Gli Emirati Arabi Uniti mostrano altresì un serio interesse nelle elezioni palestinesi. Guidando l’azione della normalizzazione araba con Israele, hanno tentato di strappare la questione palestinese ai suoi sponsor tradizionali – Egitto e Giordania – per rinsaldare ulteriormente le relazioni con Israele ed assicurarsi l’appoggio USA.

Neanche Israele è stato felice all’annuncio delle nuove elezioni palestinesi. Anche se i suoi propri cittadini sono stati chiamati a quattro elezioni in due anni, Israele preferisce che i palestinesi non vadano affatto alle urne perché vuole mantenere lo status quo. Israele vuole che Abbas resti al potere e continui a collaborare con i servizi di sicurezza israeliani, consentendo ad Israele di espandere costantemente l’occupazione e l’apartheid. Perciò chiunque formi il governo israeliano dopo le elezioni del 23 marzo probabilmente auspicherà una vittoria di Fatah (specialmente della componente vicina a Abbas) e cercherà di indebolire Hamas.

Le forze israeliane hanno già cercato di intimidire i membri di Hamas in Cisgiordania, arrestando alcuni loro leader e attaccandone altri per scoraggiarli dal partecipare alle elezioni.

Diplomazia della pressione

La prima avvisaglia che le elezioni palestinesi non sarebbero state una questione interna è giunta il 17 gennaio, meno di 48 ore dopo che Abbas ha emesso il decreto presidenziale con l’annuncio della data delle elezioni, con i capi dell’intelligence egiziana e giordana, Abbas Kamel e Ahmed Hosni, arrivati a Ramallah.

Ho saputo da fonti palestinesi informate su questa prima visita che Kamel e Hosni hanno discusso con Abbas i dettagli procedurali delle elezioni, compresa la situazione politica di Fatah, che ha affrontato divisioni interne e potrebbe andare incontro a defezioni prima del voto.

Attualmente non vi è accordo all’interno del partito riguardo alla rielezione di Abbas e c’è la possibilità che emergano degli sfidanti. C’è un ormai crescente sostegno alla candidatura di Marwan Barghouti, un leader di Fatah che sta scontando diversi ergastoli in un carcere israeliano.

Inoltre all’interno di Fatah non c’è accordo nemmeno sui candidati al Consiglio Legislativo. Al momento si stanno predisponendo diverse liste elettorali che cercheranno di attrarre l’elettorato tradizionale di Fatah: una della cerchia di Abbas; una di Nasser al-Qudwa, nipote del defunto leader palestinese Yasser Arafat; e una di Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza di Gaza, espulso da Fatah nel 2011.

Questi disaccordi all’interno di Fatah prima delle elezioni sicuramente favoriranno Hamas, che è riuscito a garantire una coesione interna e avrà gioco facile nello sconfiggere il suo indebolito e diviso antagonista.

E’ per questo motivo che Egitto e Giordania vogliono assicurarsi che Fatah abbia una lista elettorale unica ed un candidato condiviso per l’elezione presidenziale. Ed è per la stessa ragione che stanno facendo pressione su Abbas perché si riconcili con Dahlan.

L’ex dirigente di Fatah è stato uno stretto alleato degli EAU, che negli ultimi dieci anni lo hanno appoggiato, sponsorizzato e sostenuto in tutti i modi. Alcuni osservatori ritengono che Abu Dhabi abbia formato Dahlan come futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò ha provocato molta ansia ad Abbas, che finora ha rifiutato di riammettere Dahlan nel partito.

Dahlan ed i suoi sostenitori non fanno mistero dell’appoggio politico, mediatico e finanziario che ricevono dagli Emirati per poter rientrare nella politica palestinese. Questo appoggio li ha messi in grado di creare alleanze con forze politiche palestinesi, compresi personalità di Fatah scontente di Abbas.

Hamas, contrario al ritorno di membri della fazione di Dahlan nella Striscia di Gaza a causa del loro ruolo nel conflitto armato del 2007, alla fine ha accettato di lasciarli tornare dopo aver ricevuto pressioni dall’Egitto. Questo ha permesso a Dahlan di annunciare diversi progetti umanitari per i palestinesi, compresa la distribuzione di vaccini anti Covid, senza coordinarsi con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Lo scopo finale di tutte queste attività è assicurare che qualunque nuova leadership palestinese venga eletta sarà facilmente influenzabile da quelle potenze straniere e spinta ad accettare qualunque nuova richiesta proverrà da Israele. Ciascuno di questi attori vuole giocare un ruolo importante nella questione palestinese, sperando di ingraziarsi gli USA e ottenere il loro appoggio.

Ma ciò che faranno queste ingerenze sarà minare il processo democratico in Palestina e sabotare ancora una volta l’autorità del volere del suo popolo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Adnan Abu Amer

Il dott. Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche all’università Ummah di Gaza. E’ ricercatore a tempo parziale presso molti centri di ricerca palestinesi ed arabi e scrive periodicamente per Al Jazeera, The New Arabic e The Monitor. Ha scritto più di 20 libri sul conflitto arabo-israeliano, sulla resistenza palestinese e su Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché non posso vivere con il trauma di Gaza

Tamam Abusalama

15 marzo 2021 – Electronic Intifada

Mio padre rispose a una telefonata che lo avvertiva che tutta la nostra famiglia doveva evacuare la nostra casa. Stava per essere bombardata.

La chiamata veniva da qualcuno che lavorava per il comitato internazionale della Croce Rossa. Arrivò un giorno durante l’operazione Piombo Fuso, una pesante offensiva israeliana contro Gaza tra la fine del dicembre 2008 e le prime settimane del gennaio 2009.

Non ricordo la data esatta della chiamata. In quel periodo tutti i giorni sembravano uguali.

Per le strade vuote non c’era gente. Ma erano piene di macerie degli edifici che erano stati distrutti o danneggiati.

Nell’aria si sentiva l’odore degli esplosivi.

Era inquietante, ma non silenzioso.

I carri armati e gli elicotteri israeliani erano estremamente rumorosi. Più rumorosi di qualunque altra cosa riuscissimo a sentire.

Al-Saftawi, il quartiere in cui vivevano a nord di Gaza, era buio e spaventoso. Non c’erano acqua, cibo e quasi per niente energia elettrica.

Panico

Il giorno in cui abbiamo ricevuto quella chiamata ha lasciato una cicatrice nella mia anima.

Ricordo mio padre gridare il mio nome e quelli dei miei fratelli e sorelle. Doveva avvertire anche le altre persone che vivevano nel nostro caseggiato.

Sentivo il panico nella sua voce.

Ricordo i vicini affrettarsi verso di noi per aiutarci.

Uno mi teneva per mano mentre correvo. Ero scalza.

Avevo riempito una borsa con quelle poche cose che io, allora quindicenne, consideravo preziose.

In quella borsa finirono i miei vestiti preferiti e il mio diario. Avevo anche messo delle cose che mi avrebbero ricordato i miei migliori amici.

Ma ho dovuto abbandonare la borsa.

Quando ho implorato mio padre di permettermi di portarla, mi disse di uscire immediatamente.

Tutti quelli che abitavano nel nostro edificio si rifugiarono in un altro davanti a casa nostra.

Aspettammo.

Aspettavamo che Israele bombardasse tutto quello che avevamo.

La nostra casa aveva cinque piani e un giardino paradisiaco, con olivi, limoni, fichi e palme. Era stata costruita dai miei genitori con soldi guadagnati duramente. Sul retro avevamo un’altalena. Da bambina mi faceva sentire una privilegiata.

In casa avevamo una foto incorniciata dei nostri nonni. Era un ricordo costante delle traversie della nostra famiglia, di come noi fossimo dei rifugiati perché i nostri nonni erano stati espulsi dai loro villaggi natii di Beit Jirja e Isdud [il primo era un villaggio distrutto dagli israeliani nel 1948, la seconda è l’attuale città israeliana di Ashdot, n.d.tr.] dalle forze sioniste nel 1948.

Le affiliazioni politiche della nostra famiglia erano ovvie dalle foto sui muri.

La fotografia dei miei nonni era appesa accanto a quella di George Habash, il fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista-leninista della resistenza palestinese, n.d.tr.].

La mia casa rappresentava tutto per me. Ora stavo aspettando che venisse fatta saltare in aria.

Aspettammo per quella che ci sembrò un’eternità. Non successe niente. Fortunatamente.

Non c’è tempo per rimarginare le ferite

L’operazione Piombo Fuso durò tre settimane, durante le quali Israele uccise circa 1400 palestinesi, principalmente civili, inclusi più di 300 minorenni.

Quando finì, avrei voluto che tutto si fermasse per alcuni giorni, così avremmo potuto elaborare quello che avevamo passato, la crudeltà a cui gli israeliani ci avevano sottoposto.

Ma non c’era tempo per metabolizzare. La vita doveva andare avanti.

I palestinesi a Gaza, me inclusa, devono fare i conti con paura e perdite fin da piccoli.

Dopo ogni evento traumatico si continua con le faccende quotidiane. Poi, inaspettato, si verifica un altro evento traumatico.

Dopo l’operazione Piombo Fuso ho fatto quello che ho potuto per vivere una vita ordinaria. Son tornata a scuola e ho fatto finta che tutto fosse a posto.

Ma non era così.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sfuggire a quello che era successo il primo giorno dell’operazione Piombo Fuso. Il rumore degli elicotteri israeliani ronzava ancora nella mia testa.

Io e mia sorella Shahd eravamo a scuola il giorno in cui gli israeliani hanno attaccato una località vicina.

Siamo scappate da scuola insieme, ma fuori ci siamo separate. Per la strada continuavo a chiamare Shahd, ma non riuscivo a trovarla.

Fortunatamente, ci siamo ritrovate dopo poco. Ma da allora mi ha accompagnata il pensiero che quel giorno Shahd sarebbe potuta essere uccisa.

Sono ancora perseguitata anche dall’immagine dei miei compagni di scuola che correvano di qua e di là cercando disperatamente riparo.

E non dimenticherò mai come la nostra famiglia dovette dare la terribile notizia a una nostra amica che allora stava a casa nostra. Anche suo padre stava con noi e fu ucciso durante un’incursione aerea israeliana mentre andava a fare la spesa.

Abbiamo dovuto informare la mia amica e i suoi fratelli della morte del loro padre.

Nessun futuro

Anche se non riuscivo a togliermi queste cose dalla testa, sono riuscita a vivere con un certo grado di normalità fino agli inizi del 2011. Poi sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia.

I giovani a Gaza sono stati ispirati da quelle rivolte. Ci spronavano a lottare per i nostri diritti.

Abbiamo iniziato a progettare le nostre proteste e abbiamo cominciato a mobilitarci sui social.

Le attività politiche mi distraevano dai miei studi. Passavo le mattine a scuola e il resto del giorno nelle proteste o organizzandole con gli altri attivisti.

Quell’anno a marzo, abbiamo protestato per tre giorni consecutivi prima che le autorità guidate da Hamas mettessero fine alla nostra protesta. Poliziotti in borghese ci hanno picchiati.

Quel poco di ottimismo nato dalla rivolta egiziana e tunisina a Gaza non è durato a lungo.

L’assedio imposto da Israele ed Egitto ha continuato ad avere un effetto soffocante sulle nostre vite.

I giovani hanno continuato ad essere disperati. La disoccupazione era ancora alta e quasi tutte le famiglie dipendevano da aiuti alimentari, particolarmente delle Nazioni Unite.

Alla fine del 2011 mi sono iscritta all’università di al-Azhar a Gaza City. Ho cominciato un corso di laurea in letteratura inglese e francese.

Andare all’università dovrebbe essere un’esperienza gioiosa ed emozionante. Eppure sentivo che né io né qualsiasi altro giovane avrebbe potuto avere un bel futuro a Gaza.

Per le ragazze è ancora più difficile che per i loro coetanei maschi. Le autorità a guida Hamas non vedono di buon occhio, per usare un eufemismo, donne politicamente attive come me.

Decenni di colonizzazione israeliana hanno reso più pronunciata la cultura patriarcale a Gaza.

Il blocco totale imposto da Israele dal 2006 ci ha isolati dal resto del mondo.

Una conseguenza è che la società è diventata più conservatrice. L’uguaglianza di genere non è considerata come una priorità da molti nel momento in cui peggiorano le condizioni economiche.

Dopo meno di un anno all’università di al-Azhar, ho deciso di lasciare Gaza e trasferirmi in un posto più sicuro. Un posto dove avrei potuto vivere più libera.

Sono andata in Turchia, dove ho studiato giornalismo all’Università di Ankara.

Dalla Turchia ho fatto vari viaggi in Europa. Mi sono poi trasferita in Belgio, dove adesso studio francese.

Ora manco da Gaza da otto anni. Quasi la metà di questo periodo l’ho passato a Bruxelles, dove mi hanno concesso lo status di rifugiata.

Eppure gli orrori di cui sono stata testimone a Gaza non mi hanno abbandonata.

Ho spesso problemi a dormire. Quando riesco ad addormentarmi, spesso ho degli incubi.

Sono regolarmente assalita da paura e ansia. Mi sento insicura, instabile e incerta.

Ho dei flashback delle facce dei miei genitori quando ci hanno detto di andarcene di casa. Erano terrorizzati e impotenti, impossibilitati a compiere il loro dovere fondamentale di proteggere i loro figli.

Ho paura di perdere qualcuno che amo, o cose preziose che mi sono guadagnata con fatica.

Una sensazione di pericolo incombe su di me da molto tempo.

Sono ossessionata dal pensiero di programmare i giorni e talvolta persino le ore seguenti. Se le cose non vanno come avrei voluto, ho degli attacchi di panico.

Trauma complesso

Il trauma che ho subito è complesso e ho deciso che non posso conviverci.

La psicologia occidentale ha dei limiti quando si tratta di quello che i palestinesi hanno vissuto.

Spesso sentiamo che il disturbo da stress post-traumatico è prevalente a Gaza. Il prefisso “post” implica che il trauma è dietro di noi, mentre invece in realtà è costante.

Nonostante i limiti della psicologia occidentale, ho cominciato una terapia cognitivo-comportamentale in Europa occidentale.

Ho cominciato sapendo che il processo di guarigione sarebbe stato lungo e difficile, specialmente perché la violenza inflitta a Gaza sta continuando. Ma il processo è stato facilitato perché ho trovato la terapista giusta che ha capito che il mio trauma è simultaneamente personale e il risultato di quello che i palestinesi hanno vissuto per molte generazioni.

Il mio trauma è parte della memoria e della coscienza collettiva dei palestinesi.

Durante i miei incontri psicoterapeutici, ho imparato di più sull’origine di ognuna delle emozioni che provo.

Ciò mi ha aiutato a sviluppare una strategia. Cerco di affrontare, accettare ed esprimere le paure, invece di evitarle.

Sono costantemente conscia che devo vivere nel presente, invece di lasciare che i ricordi prendano il controllo.

La resilienza del mio popolo mi dà la forza e la speranza che mi servono per continuare.

Riconoscere il trauma che ho subìto mi ha fatta quello che sono oggi e ha modellato la mia consapevolezza delle altre ingiustizie nel mondo. Mi ha resa più forte.

Guerra psicologica

Israele combatte una guerra psicologica che fa parte dell’occupazione. È parte di una strategia deliberata.

Ariel Sharon, ex leader politico e militare israeliano, ha sviluppato una filosofia di quello che è stato definito “mantenere l’incertezza.”

L’analista Alastair Crooke ha scritto di come, implementando la filosofia di Sharon, Israele abbia “ripetutamente esteso e poi limitato lo spazio in cui i palestinesi possono operare attraverso un’imprevedibile combinazione di regolamenti mutevoli fatti rispettare in modo selettivo.”

La Palestina stessa è stata divisa con la costruzione di colonie israeliane e una rete di strade riservate per i coloni. Tutto ciò è inteso a indurre nei palestinesi un senso di “provvisorietà permanente,” scrive Crooke.

La guerra psicologica israeliana è diventata più estrema dopo l’operazione Piombo Fuso.

Durante i pesanti attacchi contro Gaza del 2012 e 2014, Israele ha adottato tattiche più possenti di quanto non ne abbia precedentemente impiegate per tormentare e perseguitare. Le forze israeliane hanno telefonato a palestinesi con messaggi ostili, lanciato da aerei volantini con contenuti intimidatori e interrotto programmi radiotelevisivi palestinesi per trasmettere propaganda israeliana.

La decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sui crimini nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza è significativa. Finalmente Israele potrebbe essere chiamato a rispondere di alcuni dei suoi crimini.

La decisione solleva anche domande.

Perché la CPI ha impiegato così tanto tempo ad arrivare a questa decisione?

Perché la CPI vuole indagare sulle attività sia di Israele che dei gruppi armati palestinesi? Perché sta trattando “entrambe le parti” – l’occupante e l’occupato – come se fossero uguali?

Perché l’indagine è limitata a eventi che sono successi dopo il giugno 2014? Ciò significa che molti dei crimini israeliani– inclusi quelli commessi durante l’Operazione Piombo Fuso – sono stati ignorati.

Finirà veramente mai l’impunità israeliana? Le vite dei palestinesi importeranno mai ai governi e alle istituzioni più potenti al mondo?

I palestinesi sanno molto bene che gli USA e l’Unione Europea sono complici dei crimini commessi contro di loro. Essi si presentano come avvocati dei diritti umani, eppure finanziano e consentono le violazioni israeliane dei diritti basilari dei palestinesi.

Alcuni dei protagonisti dell’operazione Piombo Fuso godono di una rispettabilità immeritata.

Gabi Ashkenazi, il generale che ha comandato l’offensiva, è ora ministro degli Esteri israeliano. Ciò significa che detiene la carica che Tzipi Livni ha occupato nel 2008 e agli inizi del 2009, quando incoraggiò le truppe israeliane a comportarsi con estrema violenza durante l’attacco contro Gaza.

Oggi, Livni siede nel consiglio di amministrazione dell’International Crisis Group [ong transazionale con sede a Bruxelles e che ha tra i fondatori George Soros, n.d.tr.]. Il sito web dell’International Crisis Group afferma che esso sta “lavorando per prevenire guerre e definire politiche che costruiranno un mondo più pacifico.”

Israele ha sempre agito come se fosse al di sopra del diritto internazionale. Sin dalla sua costituzione, Israele tratta i palestinesi fin dalla culla come una “bomba demografica ad orologeria”.

Sebbene Israele abbia sviluppato e messo in pratica una gamma di tecniche differenti per contenere e spezzare i palestinesi, noi non siamo andati via.

Come ha scritto Tawfiq Ziyad, uno dei nostri grandi poeti:

Qui noi rimarremo

Un muro sopra il nostro petto
affamati, nudi, cantiamo canzoni
riempiamo le strade
con dimostrazioni

e le prigioni con orgoglio
noi generiamo ribellioni
una dopo l’altra
come se fossimo una ventina di impossibilità restiamo

A Lydda, Ramleh, Galilea.

Tamam Abusalama è nata e cresciuta nella Striscia di Gaza. Ora vive in Belgio.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




La CPI[Corte Penale Internazionale] avvia un’inchiesta per crimini di guerra in Palestina

Maureen Clare Murphy

3 marzo 2021 – Electronic Intifada

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente nell’ambito dell’inchiesta della CPI verrà inquisito, ha definito la Corte “antisemita”.

Mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine formale sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’annuncio di Bensouda è stato accolto dalle associazioni palestinesi per i diritti umani che hanno guidato questi tentativi come “una giornata storica nella pluridecennale campagna palestinese per la giustizia internazionale e la definizione delle responsabilità.”

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente verrà sottoposto a indagine dalla CPI, ha definito l’inchiesta come “l’essenza dell’antisemitismo”.

L’annuncio di un’indagine da parte della CPI è giunto meno di un mese dopo che un collegio giudicante ha confermato che la giurisdizione territoriale della Corte si estende ai territori palestinesi sotto occupazione militare da parte di Israele.

Nel dicembre 2019 Bensouda ha concluso una lunga indagine preliminare affermando che i criteri per un’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza erano stati rispettati.

L’indagine della Corte Penale Internazionale riguarderà crimini commessi dal giugno 2014, quando la situazione in Palestina è stata presentata al tribunale internazionale.

Obbligato ad agire”

Bensouda ha affermato che il suo ufficio “definirà delle priorità” per l’inchiesta “alla luce dei problemi operativi che dobbiamo affrontare a causa della pandemia, delle risorse limitate a nostra disposizione e del pesante carico di lavoro attuale.”

Ha aggiunto che in situazioni in cui il procuratore definisce la fondatezza di un’indagine, l’ufficio della procura “è obbligato ad agire”.

Il prossimo passo della Corte sarà la notifica a Israele e alle autorità palestinesi, che consente a ogni Stato firmatario di condurre importanti indagini “su propri cittadini o altri che ricadano sotto la sua giurisdizione” riguardo a crimini di competenza della CPI.

In base al principio della complementarietà, secondo cui “gli Stati hanno la responsabilità primaria e il diritto di perseguire crimini internazionali”, la CPI rinvia a indagini interne del Paese, ove queste esistano.

Israele ha un sistema di auto-indagine, anche se esso è descritto da B’Tselem, principale organizzazione per i diritti umani del Paese, come un meccanismo di insabbiamento che protegge la dirigenza militare e politica dal rendere conto delle proprie azioni.

Alla fine del 2019 Bensouda ha affermato che “in questa fase” il giudizio del suo ufficio “riguardo alla portata e all’affidabilità” dei procedimenti interni di Israele “è ancora in corso”.

Tuttavia “ha concluso che i casi potenziali riguardanti crimini che si presume siano stati commessi da membri di Hamas e dei GAP (Gruppi Armati Palestinesi) sarebbero al momento ammissibili.”

Nella sua dichiarazione di mercoledì Bensouda ha detto che il giudizio sulla complementarietà “continuerà” e ha suggerito che la materia venga definita da un collegio giudicante in una camera preliminare.

Dato che il processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele è indubitabilmente una politica statale sostenuta dai governanti al più alto livello, ciò sarà probabilmente uno dei principali obiettivi dell’indagine della CPI.

Come la questione della giurisdizione territoriale, la complementarietà sarà probabilmente un punto critico fondamentale dell’inchiesta della Corte sulla Palestina.

Massima urgenza”

Mercoledì, accogliendo positivamente l’annuncio di Bensouda, le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno raccomandato “che non ci siano indebiti ritardi e che si proceda con la massima urgenza.”

Ma Bensouda ha previsto un procedimento tutt’altro che rapido, affermando che “le indagini richiedono tempo e devono essere fondate in modo oggettivo su fatti e leggi.”

Ha invitato alla pazienza “le vittime palestinesi e israeliane e le comunità colpite,” aggiungendo che “la CPI non è una panacea.”

Alludendo a un’argomentazione da parte di alleati di Israele secondo cui un’inchiesta danneggerebbe futuri negoziati bilaterali, Bensouda ha affermato che “il perseguimento della pace e della giustizia dovrebbero essere visti come imperativi che si rafforzano a vicenda.”

Mercoledì Bensouda ha affermato che la Corte concentrerà “la sua attenzione sui presunti colpevoli più noti o su coloro che potrebbero essere i maggiori responsabili dei crimini.”

Nella sua richiesta alla camera preliminare sulla giurisdizione territoriale Bensouda ha citato la promessa di Netanyahu durante la campagna elettorale [del 2020] di annettere territori in Cisgiordania.

I media hanno informato che il governo israeliano ha una lista di centinaia di personalità che potrebbero essere indagate e perseguite dalla Corte, che giudica individui e non Stati.

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcuni Stati membri della CPI “hanno concordato di avvertire in anticipo Israele di ogni eventuale mandato di cattura” contro suoi cittadini al momento dell’arrivo nei rispettivi Paesi.

Far filtrare informazioni che potrebbero consentire a sospetti di sfuggire alle indagini o all’arresto violerebbe probabilmente l’obbligo che hanno gli Stati membri in base allo Statuto di Roma che ha fondato la CPI di collaborare con il lavoro della Corte.

Pressioni politiche

Mercoledì Bensouda ha detto che “contiamo sull’appoggio e sulla cooperazione delle parti (Israele e i gruppi armati palestinesi), così come su tutti gli Stati membri dello Statuto di Roma.”

Tuttavia la CPI verrà sottoposta a terribili pressioni politiche in quanto potenze come gli USA, il Canada e l’Australia si oppongono a qualunque inchiesta contro il loro alleato Israele.

Lo scorso anno il Canada ha minacciato in modo appena velato di ritirare l’appoggio finanziario alla CPI se dovesse procedere con un’inchiesta.

A Washington l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni economiche e restrizioni dei visti contro Bensouda e membri del suo staff.

Queste misure estreme pongono il personale della Corte accanto a “terroristi e narcotrafficanti” o a individui e gruppi che lavorano a favore di Paesi sottoposti a sanzioni da parte degli USA.

Mentre il presidente Joe Biden ha firmato una raffica di ordini esecutivi che annullano misure prese dal suo predecessore, il nuovo leader USA ha consentito che rimangano in vigore le sanzioni contro la CPI.

Di fronte a pressioni per togliere le sanzioni, la Casa Bianca ha solo promesso di “analizzarle attentamente.”

Durante la sua prima telefonata con il presidente Biden, Netanyahu lo ha esortato a lasciare in vigore le sanzioni.

Nel contempo Israele ha rivolto il proprio livore contro i difensori dei diritti umani dei palestinesi, in particolare contro quanti sono coinvolti nelle istituzioni della giustizia internazionale come la CPI.

Le sue tattiche hanno incluso “arresti arbitrari, divieti di spostamento e revoca della residenza, così come attacchi contro organizzazioni palestinesi per i diritti umani, comprese irruzioni [nelle loro sedi].”

Mercoledì Balkees Jarrah, direttore aggiunto di Human Rights Watch [importante Ong internazionale per i diritti umani con sede a New York, ndtr.], ha affermato che “gli Stati membri della CPI dovrebbero essere pronti a difendere tenacemente il lavoro della Corte da ogni pressione politica.”

Jarrah ha aggiunto che “tutti gli occhi saranno puntati sul prossimo procuratore, Karim Khan, perché prenda il testimone e proceda speditamente dimostrando una salda autonomia nel cercare di chiedere conto delle loro azioni anche ai più potenti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele imprigiona i politici palestinesi prima delle elezioni nell’Autorità Nazionale Palestinese

Tamara Nassar 

2 marzo 2021, ElectronicIntifada

In vista delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi che si terranno nei prossimi mesi Israele sta inasprendo il giro di vite su personalità della società civile e politica palestinese nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Israele ha condannato la parlamentare palestinese Khalida Jarrar a due anni di carcere, a una multa di 1.200 dollari [1000 € ca, ndtr.] e una pena sospesa di un anno.

Il suo crimine? Essere un membro di un partito politico di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera gruppi “terroristici” praticamente tutti i partiti palestinesi e le organizzazioni di resistenza, il che significa che qualsiasi persona politicamente attiva può essere arrestata.

“La scelta del momento non è casuale”, ha detto l’avvocato palestinese Yafa Jarrar della condanna di sua madre, riferendosi alle elezioni palestinesi.

Khalida Jarrar è stata arrestata con una imponente incursione militare notturna nella sua casa nell’ottobre 2019 e da allora è trattenuta senza accusa né processo.

La sua detenzione è avvenuta solo otto mesi dopo il suo rilascio da un precedente periodo di 20 mesi di detenzione amministrativa – senza accusa né processo.

È stata arrestata nell’ambito di quella che il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha affermato essere una campagna israeliana iniziata nella seconda metà del 2019 contro attivisti politici e studenti.

Addameer ha aggiunto che Israele ha falsamente accusato Jarrar di essere coinvolta nell’uccisione dell’adolescente israeliana Rina Shnerb.

Shnerb è stata uccisa nell’agosto 2019 da quello che i militari israeliani hanno stabilito essere un ordigno esplosivo improvvisato vicino all’insediamento di Dolev in Cisgiordania.

Ma lunedì il procuratore militare israeliano ha cambiato l’accusa contro Jarrar includendo solo le sue attività politiche, e le accuse di coinvolgimento nell’omicidio di Shnerb sono cadute.

Jarrar ha già trascorso anni nelle carceri israeliane e le è stato proibito viaggiare a causa della sua appartenenza al FPLP.

Il primo voto in 15 anni

Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste per maggio e luglio sarebbero le prime dalle elezioni legislative del 2006, quando Hamas vinse con una vittoria schiacciante battendo Fatah, fazione dell’Autorità Nazionale Palestinese al potere guidata da Mahmoud Abbas.

Tuttavia, il partito di Abbas, sostenuto da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e alcuni stati arabi, non ha permesso ad Hamas di assumere il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Invece, le milizie allineate con Fatah a Gaza, in accordo con gli Stati Uniti, hanno cercato di rimuovere Hamas dal potere con la forza.

Ma nel giugno 2007 Hamas si è preventivamente mosso contro di loro, espellendo da Gaza le forze di Fatah sostenute dagli Stati Uniti.

Il tentativo di golpe contro Hamas dopo la sua vittoria alle elezioni ha portato all’attuale divisione per cui l’ANP di Abbas sostenuta dall’occidente ha mantenuto il controllo in Cisgiordania mentre Hamas, isolata a livello internazionale, ha governato all’interno della Striscia di Gaza assediata.

Non vi è alcuna garanzia che si svolgeranno le elezioni, poiché negli ultimi anni sono state programmate numerose votazioni poi rinviate a tempo indeterminato.

Le elezioni sono largamente viste come un modo per rafforzare la legittimità dei principali partiti politici palestinesi a 15 anni dall’ultima votazione e alla luce della nuova amministrazione statunitense.

Come ha scritto di recente Ali Abunimah di The Electronic Intifada, non è chiaro perché Hamas si fidi che lo stesso partito di Abbas e Fatah che ha guidato il colpo di stato contro Hamas nel 2007 rispetterà ora i risultati.

“Qualsiasi riconciliazione o ‘unità nazionale’ può basarsi solo sul fatto che Fatah di Abbas abbandoni la collaborazione con Israele e che Hamas abbandoni la resistenza”, ha scritto Abunimah.

L’arresto dei membri di Hamas

Israele ha regolarmente incarcerato funzionari palestinesi eletti solo perché non approva il loro punto di vista, e ora sta incrementando tali arresti in vista delle elezioni programmate. Questo fa “parte dello sforzo israeliano in corso per sopprimere l’esercizio della sovranità politica e dell’autodeterminazione dei palestinesi”, ha affermato Addameer. Nelle ultime settimane Israele ha operato molti arresti di personalità appartenenti ad Hamas nella Cisgiordania occupata.

A febbraio le forze israeliane hanno arrestato Adnan Asfour e Yasser Mansour di Hamas e hanno disposto che Asfour fosse tenuto in detenzione amministrativa per sei mesi.

Mansour è anche membro del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas ha detto che l’arresto dei suoi politici in Cisgiordania “conferma il fatto che l’occupazione ha preso di mira il processo elettorale”.

Naif al-Rajoub, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha detto che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nella sua casa a febbraio e gli hanno intimato di non partecipare alle elezioni.

Al-Rajoub ha detto all’agenzia di stampa Shehab che le forze israeliane gli hanno detto di non candidarsi alle elezioni e di non partecipare alla campagna elettorale e che gli permetterebbero solo di andare alle urne.

Altre figure di Hamas arrestate da Israele nelle ultime settimane includono Khalid al-Haj, Abd al-Baset al-Haj, Omar al-Hanbali e Fazee al-Sawafta.

La scorsa settimana un tribunale militare israeliano ha prorogato di quattro mesi la detenzione amministrativa di Khitam Saafin, a capo dell’Unione dei Comitati delle Donne palestinesi. Saafin è stata arrestata insieme ad altri attivisti politici palestinesi a novembre e da allora è detenuta senza accusa né processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)