Paura e ansia mentre Gaza sotto assedio conferma i primi 2 casi di coronavirus

Farah Najjar e Maram Humaid

22 marzo 2020 – Al Jazeera

Le autorità dell’enclave costiera hanno chiuso ristoranti e caffè, mentre sono state sospese anche le preghiere del venerdì.

Funzionari palestinesi hanno annunciato i primi due casi di COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, nella Striscia di Gaza assediata.

Il vice ministro della Sanità Youssef Abulreesh ha dichiarato sabato scorso che i due pazienti palestinesi sono tornati dal Pakistan attraverso il varco di Rafah tra Gaza e il vicino Egitto.

Durante una conferenza stampa Abulreesh ha detto che la coppia mostrava i sintomi della malattia, che comprendono tosse secca e febbre alta.

Ha aggiunto che al loro arrivo i due sono stati messi in quarantena e che ora si trovano in un ospedale da campo nella città di confine di Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Abulreesh ha esortato i quasi due milioni di residenti di Gaza a prendere misure precauzionali e a mettere in atto il distanziamento sociale rimanendo a casa, nel tentativo di arrestare la potenziale diffusione del virus.

Le autorità di Gaza, che è governata dall’organizzazione di Hamas, hanno deciso di chiudere i ristoranti, i caffè e le sale di ricevimento dell’enclave. Anche le preghiere del venerdì nelle moschee sono state sospese fino a nuovo avviso.

Nel frattempo il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), un’unità militare israeliana responsabile per le questioni civili nei territori occupati, ha annunciato che domenica, tutti i punti di accesso verso Israele da Gaza e dalla Cisgiordania occupata sono stati chiusi.

“I commercianti, i lavoratori e gli altri titolari di permesso non potranno entrare attraverso i valichi fino a nuovo avviso”, ha detto il COGAT sulla sua pagina Twitter, aggiungendo che alcune eccezioni possono applicarsi a infermieri e operatori sanitari, nonché in caso di situazioni sanitarie eccezionali.

I palestinesi sostengono che i permessi di accesso sono difficili da ottenere, anche per coloro che hanno un motivo sanitario o umanitario, poiché ogni domanda è accompagnata da un lungo processo burocratico, di solito con il pretesto del nulla osta da parte della sicurezza.

‘Abbiamo molta paura’

Il 15 marzo le autorità di Gaza hanno introdotto misure per collocare gli abitanti in arrivo nei centri di quarantena.

Ad oggi, secondo un rapporto pubblicato sabato dal ministero della salute dell’Autorità Nazionale Palestinese, ci sono 20 strutture apposite nel sud di Gaza, tra cui scuole, hotel e strutture mediche, che ospitano più di 1.200 persone.

I centri per la quarantena si trovano a Rafah, Deir al-Balah e nella città meridionale di Khan Younis. Secondo il rapporto, almeno altri 2.000 rimpatriati si sono auto-isolati nelle proprie case, prima che venissero implementate, la scorsa settimana, le procedure di quarantena obbligatoria.

Um Mohammed Khalil è tra coloro che sono stati messi in quarantena a Rafah.

La 49 enne, tornata da una breve visita in Egitto la scorsa settimana, era tra le 50 persone trasportate in autobus in una scuola con “bassi standard di igiene”, dove le camere singole condivise da sette persone.

Khalil racconta ad Al Jazeera che la notizia dei primi due casi positivi ha suscitato paura e ansia tra coloro che si trovano in quarantena nella scuola.

“Avevamo paura che tra noi ci fossero persone affette dal contagio”, afferma, “motivo per cui, soprattutto, abbiamo chiesto un miglioramento delle condizioni di quarantena”.

” Da questa mattina le nostre famiglie sono in contatto con noi e anche loro sono seriamente preoccupate. Gaza ha subito molte guerre e crisi, ma come può sostenere questa pandemia?” dice. “Abbiamo molta paura”.

Gaza sotto assedio

Il sistema sanitario di Gaza è in rovina e i suoi abitanti, martoriati dalla guerra, sono particolarmente vulnerabili poiché hanno vissuto sotto un assedio israelo-egiziano per quasi 13 anni.

Il blocco aereo, terrestre e marittimo ha limitato l’ingresso di risorse essenziali come attrezzature sanitarie, medicinali e materiali da costruzione.

Dal 2007 Gaza ha subito tre attacchi israeliani che hanno provocato la distruzione di infrastrutture civili, tra cui strutture sanitarie e una centrale elettrica.

Le case, gli uffici e gli ospedali di Gaza ricevono una media di 4-6 ore di elettricità al giorno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avvertito che il sistema sanitario di Gaza non sarebbe in grado di affrontare un’epidemia, dato che gli ospedali della Striscia sono sovraffollati e con risorse insufficienti.

Ayman al-Halabi, un medico dei laboratori gestiti dal ministero della Salute di Gaza, fa parte di un team di medici responsabili dei test sui campioni in arrivo.

“La routine di due settimane fa”, dice al-Halabi ad Al Jazeera, “consisteva nella raccolta dei campioni dai rimpatriati al confine di Rafah, sottoposti a un test basato sulla reazione a catena della polimerasi (PCR), il test di scelta utilizzato per diagnosticare COVID-19”.

Al Halabi aggiunge che attualmente vengono sottoposte al test altre centinaia di campioni di persone che potrebbero essere venute a contatto con i primi due pazienti.

Riferendosi alle limitate risorse di Gaza, al-Halabi dichiara: “Affrontare questa pandemia sarà estremamente impegnativo.

Se stanno avendo difficoltà i Paesi più grandi e potenti, in che modo Gaza dovrebbe farcela?”

‘La fine del mondo’

Secondo i dati raccolti dalla Johns Hopkins University, negli Stati Uniti, a livello mondiale sono risultate positive alla malattia altamente infettiva oltre 300.000 persone. Più di 13.000 persone sono morte a causa del virus, mentre circa 92.000 sono guarite.

Con l’incombente minaccia di un focolaio, molti sostengono che il virus potrebbe essere l’ultima goccia per gli esausti abitanti di Gaza.

Amira al-Dremly sapeva che sarebbe stata solo una questione di tempo prima che il virus raggiungesse Gaza.

Ma la notizia che sabato due persone sono risultate positive è stato percepita come “la fine del mondo”, afferma al-Dremly ad Al Jazeera.

“La più grande paura”, sostiene la 34enne “è che le risorse disponibili a Gaza non bastino ad opporre una resistenza temporanea [nei confronti della diffusione del virus]”.

“Ho molta paura per i miei figli. Sto prendendo misure per educarli sulla sterilizzazione e li ho ammoniti a non uscire di casa”, dice questa madre di quattro figli.

“Ma gli effetti psicologici sono pesanti, la mia famiglia e tutti intorno a me sono molto disorientati da questa notizia”, aggiunge.

Gaza, una delle aree più densamente popolate del mondo, ospita alcuni dei più grandi campi profughi palestinesi e al-Dremly fa notare che il distanziamento sociale è qualcosa che è “più facile a dirsi che a farsi”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un funzionario dell’ONU: Israele è giuridicamente responsabile della salute dei palestinesi

Redazione, Middle East Monitor, Reti sociali

21 marzo 2020 – Palestine Chronicle

Un importante funzionario dell’ONU ha annunciato che durante la lotta contro il coronavirus Israele è giuridicamente responsabile di fornire i servizi sanitari per garantire la salute dei palestinesi nei Territori Occupati.

Secondo il relatore speciale dell’ONU per la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Michael Lynk, “l’obbligo giuridico, stabilito dall’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, prevede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che ogni misura preventiva necessaria a sua disposizione venga utilizzata per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie’.

Link ha aggiunto: “Al centro dei tentativi da parte di Israele, dell’Autorità Nazionale Palestinese e di Hamas di contenere e bloccare questa pandemia deve essere messo in atto un approccio centrato sui diritti umani.”

Ha continuato: “Il diritto alla dignità prevede che ogni persona sotto la loro autorità debba godere di pari accesso ai servizi sanitari e dell’uguaglianza di trattamento.

In un comunicato che ha inviato giovedì, Lynk ha manifestato la propria preoccupazione per il fatto che i primi documenti informativi per incrementare la consapevolezza sulla diffusione del CODIV-19 diffusi dal ministero della Salute israeliano siano stati scritti quasi esclusivamente in ebraico.

Ciò significa che i palestinesi, in Israele o nei territori occupati, non hanno potuto usufruire di questo importante materiale.

In precedenza il relatore speciale aveva notato che Israele sta “violando in modo grave” i suoi obblighi internazionali riguardo al diritto alle cure mediche dei palestinesi che vivono sotto occupazione.

Relativamente alle sue preoccupazioni riguardanti Gaza, ha dichiarato:

Sono particolarmente preoccupato del potenziale impatto di COVID-19 su Gaza. Il suo sistema sanitario era al collasso anche prima della pandemia. Le sue scorte di medicinali essenziali sono cronicamente scarse.”

Gaza, con una popolazione di due milioni di persone, è sottoposta a un ermetico assedio israeliano dal 2006, quando il gruppo palestinese Hamas ha vinto le elezioni politiche democratiche nella Palestina occupata. Da allora Israele ha effettuato numerosi bombardamenti e diverse guerre su vasta scala che hanno provocato la morte di migliaia di persone.

“La verità è che a Gaza – né, francamente, nella Palestina occupata – nessuna ‘preparazione’ può bloccare la diffusione del coronavirus,” ha scritto il giornalista palestinese e redattore di “The Palestine Chronicle” Ramzy Baroud.

“Ciò di cui c’è necessità è un cambiamento fondamentale e strutturale che liberi il sistema sanitario palestinese dal terribile impatto dell’occupazione israeliana e dalle politiche del governo israeliano di continuo assedio e di ‘quarantene’ imposte per ragioni politiche – note anche come apartheid,” ha aggiunto Baroud.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il diritto condizionato alla salute in Palestina

Yara Asi

30 giugno 2019 – Al Shabaka

Nota redazionale: nonostante l’articolo che segue risalga al giugno 2019, riteniamo utile ed interessante proporlo ai lettori in quanto di evidente attualità riguardo all’emergenza sanitaria che si profila a causa dell’epidemia di coronavirus che rischia di espandersi anche nei territori palestinesi e di mettere in crisi un sistema sanitario, ma anche economico, sociale e politico già gravemente segnato all’occupazione e dall’assedio israeliani.

Salute e cure sanitarie nei TPO

L’attuale sistema sanitario dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), creato nel 1994 come parte degli accordi di Oslo, è un settore frammentato, formato dal Ministero della Salute palestinese (MdS), da Ong, dall’UNRWA [commissione ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.] e da strutture private. La qualità delle cure sanitarie varia in base alle possibilità della struttura di acquisire risorse ed avere accesso a servizi come elettricità ed acqua. Le differenze nell’accessibilità, esacerbate da ostacoli economici e di altro tipo alle cure come l’ineguale copertura sanitaria e la segregazione geografica, ha segnato per decenni il sistema palestinese delle cure mediche.

Nonostante un carente sistema sanitario, i palestinesi registrano uno dei migliori risultati rispetto ad altri Paesi arabi quanto agli indici di aspettativa di vita e mortalità materna, infantile e minorile. Gli alti livelli di scolarità nei TPO e gli sforzi del MdS, per quanto limitati, per garantire cure fondamentali come le vaccinazioni, sono i probabili fattori che, combinati con la diffusa corruzione del settore sociale e gli scarsi servizi sanitari offerti in tutto il Medio Oriente, spiegano questi risultati. Al contempo i palestinesi vivono in media 10 anni in meno rispetto agli israeliani, compresa la popolazione di coloni che vive nello stesso territorio. I palestinesi registrano una mortalità materna e infantile da quattro a cinque volte superiore a quella degli israeliani, che inoltre ricevono vaccinazioni, ad esempio contro la varicella e la polmonite, a cui i palestinesi generalmente non hanno accesso. Persino i palestinesi cittadini di Israele in genere stanno peggio rispetto alla popolazione ebraica, con un tasso più alto di malattie croniche.

Il blocco di Gaza ha portato a dati sanitari peggiori rispetto alla Cisgiordania, così come a un numero percentualmente minore di letti in ospedale, di infermieri e di medici. A Gaza buona parte delle carenze mediche hanno poco a che fare con la mancanza di risorse a disposizione e sono invece il risultato diretto di fattori politici. Per esempio, a parte una limitata quantità di cibo o di altre necessità umanitarie, Israele in genere non consente l’importazione di cemento o altri materiali necessari per la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate e degli edifici sanitari distrutti dagli attacchi israeliani. Persino l’importazione delle attrezzature necessarie è difficile, soprattutto per prodotti considerati da Israele potenzialmente pericolosi nelle mani di Hamas, come le attrezzature radiologiche o le batterie utilizzate per supportare i generatori degli ospedali durante le interruzioni di elettricità.

La carenza di batterie, insieme alla scarsità di combustibile e alle limitazioni imposte alla sua importazione, comporta anche il fatto che il personale ospedaliero debba fare molta attenzione nell’uso dell’energia. Nel settembre 2018 il direttore generale del complesso ospedaliero Al-Shifa a Gaza City ha segnalato che la mancanza di elettricità stava esaurendo le riserve di combustibile che l’ospedale usava per i generatori di energia per i pazienti in dialisi, con necessità di interventi chirurgici o che avevano bisogno di trattamenti intensivi. È frequente vedere presso l’unità di terapia intensiva neonatale (UTIN) di Al-Shifa diversi neonati raggruppati in incubatrici che dovrebbero ospitarne uno solo. I medici di Gaza raccontano che a volte non sono neanche in grado di lavarsi le mani per la mancanza di acqua o di elettricità.

Nel 2018 l’ospedale Durrah di Gaza City è stato obbligato a chiudere il servizio di rianimazione e i reparti ad esso collegati per massimizzare l’accesso all’elettricità, che a un certo punto era di sole quattro ore al giorno. Altre 19 strutture sanitarie a Gaza hanno dovuto chiudere a causa della mancanza di elettricità e della scarsità di combustibile per i generatori.

A Gaza le scorte e le medicine fondamentali necessarie a qualunque normale struttura sanitaria sono carenti, soprattutto con l’incremento di pazienti con traumi dovuti alla Grande Marcia del Ritorno. In tutti i TPO i medici avvertono che a causa della carenza di medicine sono possibili conseguenze catastrofiche, tra cui lo scoppio di “supervirus” resistenti agli antibiotici, in particolare quando siano accompagnati dalla mancanza di guanti, camici e pastiglie disinfettanti al cloro. A Gaza nei soli primi due mesi del 2018, a causa della mancanza di farmaci per le vie respiratorie, sono morti sei neonati.

Persino quando ci sono i fondi per una struttura di alto livello, gli ostacoli politici restano. Recentemente i donatori hanno raccolto milioni di dollari per l’ospedale universitario nazionale An-Najah a Nablus, il primo e unico ospedale universitario nei TPO, che dispone di una delle dotazioni di apparecchiature mediche più avanzate. Tuttavia Israele ha bloccato l’importazione di uno degli impianti per la TAC utilizzato per diagnosticare i tumori, per il quale erano già stati raccolti i fondi, sostenendo che ci fosse il rischio di un “uso improprio” da parte dei palestinesi. Inoltre l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che avrebbe dovuto pagare i costi operativi dell’ospedale, a causa della mancanza di fondi è in debito dei soldi del progetto. Con l’appoggio della Turchia, avrebbe dovuto essere costruito l’ospedale Al-Sadaqa come parte dell’università islamica di Gaza, ma è stato rimandato per anni a causa del blocco israeliano.

Mentre le strutture private specializzate spesso riescono ad importare apparecchiature avanzate per le diagnosi, molti palestinesi non possono permettersi di pagare quei servizi, oppure i macchinari non funzionano a causa della manutenzione carente e della difficoltà di ottenere permessi per i pezzi di ricambio. Gli ospedali governativi possono offrire servizi a più cittadini, ma mancano comunque delle risorse per conservare o rinnovare la tecnologia che importano. Uno studio del 2018 degli ospedali pubblici di Gaza ha rilevato che dei sette apparecchi per la Tac a disposizione nel territorio assediato molti erano regolarmente fuori servizio e solo due ospedali avevano ricevuto il permesso da Israele di ricevere le apparecchiature. Un rapporto del 2018 di Medici per i Diritti Umani sostiene che questa mancanza di manutenzione trasforma gli ospedali in semplici “stazioni di transito per il trasferimento in altri ospedali”.

La mancanza di personale addestrato, soprattutto di specialisti, contribuisce significativamente alla scarsità di cure mediche e di risultati nei TPO, dove ci sono solo quattro scuole di medicina. Con una popolazione di tre milioni di abitanti, sei oncologi, più altri sette a Gerusalemme est, hanno in carico tutta la Cisgiordania. A Gaza ce ne sono tre. Lo scarso numero di oncologi nei TPO si traduce in una media di 250 nuovi casi di tumore per oncologo. Con meno del doppio della popolazione dei TPO, Israele conta 250 oncologi, con 116 nuovi casi di tumore per oncologo. Stati con una popolazione di dimensioni simili a quella dei TPO, come l’Irlanda, con 113 casi per oncologo, registrano tassi comparabili a quelli di Israele. 1

Le politiche dell’occupazione rendono difficile ai palestinesi esercitare la professione di medico. Per esempio, la divisione dell’università di Al Quds tra i campus di Abu Dis e Gerusalemme est ha portato ad una annosa battaglia amministrativa tra l’università e gli organismi israeliani di certificazione riguardo al riconoscimento delle lauree in medicina. Benché la questione sia alla fine stata risolta in tribunale, nel solo 2016 30 laureati in scienze infermieristiche hanno presentato un ricorso alla procura generale dello Stato in quanto il ministero dell’Educazione israeliano aveva rifiutato di riconoscere la loro laurea.

Anche la separazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ha ridotto le possibilità di formazione medica. Nel 1999 l’università di Al-Azhar a Gaza ha creato un dipartimento di studi medici come sede staccata dell’università di Al-Quds a Gerusalemme est. Quando durante la Seconda Intifada il passaggio sicuro tra i due territori è stato bloccato, è finita anche la collaborazione tra le università.

Queste difficoltà portano ad una fuga di cervelli, in quanto i medici palestinesi emigrano per avere una formazione migliore o migliori opportunità di carriera. I dottori giovani a Gaza devono lavorare 70 ore alla settimana per guadagnare solo 280 dollari al mese, e il personale medico e gli addetti alla manutenzione non possono andare a fare corsi di aggiornamento per le nuove tecnologie sanitarie o per altre opportunità professionali. Dottori affermati ricevono meno di metà del loro salario a causa delle sanzioni dell’ANP. Quando, dopo due anni senza percepire lo stipendio, il famoso cardiochirurgo Marwan Sadeq è emigrato per lavorare in una clinica universitaria austriaca, ha affermato: “Se volessi stare a Gaza, mi trasformerei … da cardiochirurgo a uno che si preoccupa solo di come dar da mangiare ai propri figli.” Nel 2018 fonti locali a Gaza hanno stimato che se ne siano andati tra 100 e 160 medici e docenti di medicina; molti di questi non torneranno. Una ricerca del 2008 in tutti i TPO sui professionisti dell’educazione superiore e della salute ha rilevato che circa il 30% desiderava emigrare, principalmente a causa della situazione politica e della sicurezza.

In Cisgiordania le ambulanze devono fare i conti con i posti di blocco militari israeliani e altre interruzioni delle strade e con le limitazioni agli spostamenti. Uno studio del 2011 ha scoperto che ogni anno dal 2000 al 2007 il 10% delle donne incinta è stato bloccato al checkpoint, provocando nei posti di blocco 69 nascite, 35 bambini morti e cinque decessi in conseguenza del parto. I media e le ong hanno reso pubblici i dati di pazienti morti in seguito a ritardi o blocchi nell’attraversamento dei checkpoint. I pazienti della Cisgiordania che abbiano bisogno di cure a Gerusalemme est devono prendere un’ambulanza palestinese a uno dei posti di controllo e poi essere trasferiti su un’ambulanza israeliana per continuare il viaggio, e anche i pazienti palestinesi che muoiono negli ospedali israeliani devono essere spostati da un’ambulanza all’altra durante il viaggio per tornare ed essere sepolti in Cisgiordania. Questo procedimento è noto come trasferimento “consecutivo”, e al 90% delle ambulanze [palestinesi] che sono entrate a Gerusalemme est nel 2017 veniva richiesto di seguire questa procedura.

La procedura richiesta per ottenere un permesso per ragioni di salute e ricevere cure specializzate in Israele o in uno Stato limitrofo è complessa ed arbitraria. A Gaza un medico manda ogni paziente che necessiti di queste cure all’Unità per l’Ottenimento di un Servizio, dove inizia il procedimento di presentazione delle domande per un permesso di ingresso in Israele. Esso può essere negato in qualunque momento senza spiegazione, e, anche se viene approvato, i membri della famiglia del paziente, in alcuni casi i genitori di minorenni malati, potrebbero non ricevere il permesso per accompagnarli. I pazienti devono rifare tutta la procedura per le visite di controllo. Nel 2017 l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha scoperto che solo il 54% delle richieste dei pazienti da Gaza è stato approvato, il livello più basso da quando nel 2011 l’organizzazione ha iniziato a raccogliere i dati. Quell’anno cinquantaquattro pazienti, principalmente bisognosi di cure per tumori, sono morti in attesa di un permesso di sicurezza.

I pazienti della Cisgiordania che hanno necessità di cure in Israele devono superare un procedimento simile, che richiede il rinvio allo specialista da parte del MdS insieme a un permesso di viaggio. I pazienti devono anche attraversare vari checkpoint e cambiare veicolo per completare il viaggio. Questi permessi sono concessi molto più spesso che a Gaza, ma non sono garantiti. Nel 2016 il 20% dei palestinesi della Cisgiordania che hanno fatto richiesta di un permesso per accedere agli ospedali a Gerusalemme est o in Israele è stato respinto. L’ANP ha anche rilasciato un numero inferiore rispetto agli anni precedenti di voucher per il rimborso delle cure a quei pazienti, una condizione indispensabile per fare richiesta di rilascio di un visto di viaggio da parte di Israele. Tredici pazienti, sei dei quali minorenni, sono morti nel 2017 in attesa dell’approvazione dei loro voucher.

Recentemente l’ANP ha detto che non invierà più pazienti palestinesi negli ospedali israeliani, accusando Israele di far pagare cifre maggiorate per le cure mediche e di dedurre quei fondi dalle tasse che raccoglie per conto dell’ANP. L’ANP ha sottolineato che continuerà ad inviare i pazienti della Cisgiordania agli ospedali di Gerusalemme est e lavorerà anche per mandarne altri agli ospedali negli Stati vicini, come Giordania ed Egitto.

Benché la legge umanitaria internazionale preveda notevoli garanzie per le cure sanitarie in zone di conflitto, nei TPO le forze israeliane continuano ad attaccare ospedali, ambulanze ed equipe mediche. La comunità internazionale non è riuscita ad impedire tali aggressioni.

Poche azioni concrete hanno fatto seguito alle ripetute risoluzioni ONU e agli appelli per l’assistenza da parte dei presidenti di organizzazioni come Medici senza Frontiere o della Commissione Internazionale della Croce Rossa. Nel 2017 i TPO hanno subito 93 attacchi al sistema sanitario, secondi solo alla Siria. In quasi tutti gli esempi la risposta dell’esercito israeliano è stata che l’episodio è stato accidentale o giustificato da attività terroristiche.

Casi particolarmente gravi come quello di Razan Al-Najjar [giovane paramedica palestinese uccisa da un cecchino israeliano nel giugno 2018 a Gaza, ndtr.] e di Tarek Loubani, medico canadese-palestinese che le forze israeliane hanno colpito a una gamba nel maggio 2018 sul confine di Gaza, hanno riportato questi problemi all’attenzione dell’opinione pubblica. Recentemente anche alcuni gruppi per i diritti umani hanno documentato molteplici casi di violenze contro ambulanze e personale medico, così come irruzioni in strutture sanitarie.

Durante i periodi di particolare violenza, come nella guerra del 2014 a Gaza, gli ospedali sono stati direttamente colpiti. Dopo il bombardamento dell’ospedale Shuhada al-Aqsa di Gaza, in cui cinque persone, fra cui tre minorenni, sono rimasti uccisi, le autorità israeliane hanno giustificato l’attacco sostenendo che c’erano munizioni sospette “immagazzinate nelle immediate vicinanze dell’ospedale”. Nella stessa guerra l’ospedale El-Wafa, dove si trovava l’unico centro di riabilitazione di Gaza, è stato totalmente raso al suolo. A causa delle restrizioni all’importazione di materiale da costruzione, l’ospedale rimane distrutto e il personale dell’ospedale ha fornito le cure condividendo lo spazio con un ospedale geriatrico.

Il ruolo del governo locale

La principale ragione delle disastrose condizioni delle cure mediche per i palestinesi nei TPO è l’occupazione israeliana. Tuttavia anche il governo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza svolge un ruolo [nella situazione].

Nel 2017 le difficoltà finanziarie hanno portato il governo palestinese a tagli ad un programma che dal 2000 forniva l’assicurazione sanitaria ai cittadini disoccupati. Con un tasso di disoccupazione intorno al 30% nei TPO, una cifra stimata di 250.000 persone beneficiava del programma. A Gaza anche famiglie che solitamente erano in grado di pagare per essere curate in strutture private o per l’assicurazione sanitaria pubblica hanno fatto ricorso alla richiesta di esenzione dal pagamento dell’assicurazione sanitaria, che a una famiglia di 4 persone costa meno di 300 dollari all’anno. A partire dal febbraio 2018 sono state esaminate circa 70.000 richieste del genere. I dati di quell’anno mostrano che circa il 40% dei finanziamenti per la salute nei TPO è pagato di tasca propria. Con l’aumento della povertà e della disoccupazione, soprattutto a Gaza, e con l’ANP che deve fare i conti con la continua riduzione degli aiuti e con lo strangolamento dello sviluppo, la crisi del sistema dell’assicurazione sanitaria aumenterà.

Il taglio degli aiuti USA ha esacerbato la situazione. Soggetti coinvolti come OMS e Medical Aid for Palestinians hanno affermato che si faranno carico di alcune delle carenze determinate dai tagli USA, ma, se i benefici degli aiuti devono arrivare al suo popolo, l’ANP deve cambiare il proprio modo di pensare riguardo alle priorità.

Dei 5 miliardi del bilancio dell’ANP approvato nel 2018 il 30-35% è andato al settore della sicurezza, mentre soltanto il 9% è stato destinato alla salute. Del bilancio totale, 775 milioni di dollari (il 15,5%) era previsto arrivassero da aiuti dall’estero, in genere divisi tra il sostegno alla sicurezza, finanziamenti per l’UNRWA e denaro per progetti di USAID [agenzia governativa USA per aiuti all’estero, ndtr.]. Benché gli USA abbiano fatto drastici tagli agli aiuti, che colpiscono le possibilità per milioni di palestinesi di avere accesso a cure mediche, educazione e cibo, politici israeliani ed USA si sono affannati a garantire una parte del pacchetto di aiuti: quella per la sicurezza. Ciò che era iniziato come un accordo “prima di tutto la sicurezza” si è trasformato in una strategia “solo la sicurezza”.

L’ANP sta anche affrontando una crescente crisi di legittimità, con l’80% dei palestinesi nei TPO recentemente interpellati convinto che le istituzioni dell’ANP siano corrotte e più di metà (il 53%) secondo cui l’ANP è diventata un peso per il popolo palestinese. Scarsi controlli, tangenti, malversazioni, nepotismo e altre forme di corruzione sono in crescita nei servizi sociali, come nel servizio sanitario. Questa corruzione non si limita al livello statale. Per esempio, è ben noto che le bustarelle agevolano autorizzazioni per permessi sanitari, soprattutto nella Striscia di Gaza.

Anche la lotta interna tra Hamas e l’ANP ha portato a ridurre le risorse per la salute. Mentre l’ANP accusa Israele di fare leva sui servizi sociali palestinesi per imporre negoziati, a Gaza è l’ANP che utilizza la sua posizione contro Hamas. Nel gennaio 2018 a Gaza era esaurito il 40% dei farmaci essenziali, un approvvigionamento della cui gestione è responsabile l’ANP. Nello stesso anno il ministero della Salute a Gaza, insieme alle associazioni palestinesi per i diritti umani, ha avvertito che la carenza di medicine aveva raggiunto un livello pericoloso ed ha sollecitato il MdS dell’ANP a “garantire l’afflusso libero e sicuro” a Gaza dei beni sanitari necessari. In risposta, l’ANP ha mandato 38 camion con 4 milioni di prodotti. Tuttavia l’assistenza sporadica non può sopperire a un sistema sanitario che da molto tempo è stato indebolito dalla mancanza di personale e di prodotti.

Mentre Israele controlla il valico di Erez sul confine settentrionale di Gaza, l’Egitto controlla quello di Rafah a sud. Da quando è iniziato il blocco anche l’Egitto ha ridotto in modo significativo a persone o cose l’autorizzazione a entrare. Mentre per casi umanitari è possibile chiedere un permesso per attraversarlo, in pratica per molti anni il valico è stato chiuso praticamente ogni giorno, persino per ragioni di salute. Per esempio, nel 2017 in totale Rafah è stato aperto per 36 giorni, permettendo solo a 1.400 pazienti di attraversarlo. Nonostante dal 2018 l’apertura del confine sia più frequente, rimane una lista d’attesa di decine di migliaia di persone che sperano di uscire. Benché non controlli alcun valico, anche Hamas ha sfruttato il proprio potere, vietando pure l’ingresso di beni inviati dall’esercito israeliano, come flebo, disinfettanti e carburante, con l’accusa che Israele stesse “cercando di migliorare la sua immagine negativa”.

Strategie per migliorare il sistema sanitario

Con un margine ridotto come non mai nei decenni per un processo di pace realistico e giusto, i palestinesi non possono attendere un accordo politico per avere l’accesso garantito a cure mediche sicure, di alta qualità e affidabili. Ci sono una serie di settori in cui si può agire nell’immediato per sostenere questo accesso.

1. L’ANP deve rifiutare di concentrarsi sul finanziamento della sicurezza per dare fondi alla salute, destinando più risorse al sistema sanitario. Il suo dialogo con i donatori deve essere strategico e dovrebbe includere: 1) particolare attenzione per le principali priorità condivise dalle parti interessate; 2) una particolare attenzione alla costruzione e conservazione di risorse interne; 3) un approccio che riduca le inefficienze e le diseguaglianze del sistema. In questo modo la necessità più urgente – garantire la solidità delle strutture mediche esistenti e incoraggiarne l’ampliamento – diventerà una priorità. Queste strategie possono anche contribuire a far sì che il sistema vada oltre la sua attuale capacità di rispondere solo alle emergenze, cosa che gli impedisce di essere in grado di migliorare la salute della popolazione al di là di ferimenti e rischi di morte legati a traumi.

2. L’ONU e altre organizzazioni umanitarie devono chiedere l’accesso totale e concreto ai beni umanitari per i palestinesi. L’ANP deve anche far prevalere la vita dei palestinesi rispetto alle manovre politiche e garantire che ai cittadini, soprattutto a Gaza, vengano forniti medicinali ed altri prodotti necessari a garantirne la salute. Per esempio l’ANP può lavorare per esentare i beni sanitari dal protocollo di Parigi, che rallenta per mesi l’importazione di forniture mediche, dato che l’importazione dipende da permessi e altre forme di autorizzazione.

3. Dovrebbe essere formata un’agenzia autonoma che controlli le attività dell’ANP e chiami a rispondere i singoli, compreso il MdS, delle pratiche corruttive. Anche la società civile, i media e i gruppi di sostegno locali ed internazionali dovrebbero fare pressione sulle istituzioni dell’ANP perché forniscano risultati tangibili, come conservare scorte di farmaci essenziali e intervenire per ridurre l’uso di trasferimenti “consecutivi” in ambulanza per i pazienti che devono entrare a Gerusalemme est o in Israele.

4. Sono fondamentali strategie per ridurre al minimo la necessità per i pazienti di uscire dal Paese per aver accesso alle cure. La formazione sanitaria all’interno dei TPO può ridurre la carenza di medici ed infermieri, con una particolare attenzione a programmi per palestinesi che intendano rimanere a lavorare all’interno dei territori. Il MdS, insieme ad organizzazioni come l’International Medical Education Trust [Ong inglese che si occupa della formazione di personale sanitario nelle zone di crisi, ndtr.], ha sviluppato opportunità di formazione a distanza, telemedicina e addestramento di specialisti per superare le limitazioni agli spostamenti. In alcune facoltà di medicina i piani di studio hanno incluso innovazioni tecnologiche, come simulazioni cliniche, consulenze via computer e video conferenze per mettere in contatto tra loro e con colleghi di altre parti del mondo gli studenti palestinesi di corsi di carattere sanitario. Queste iniziative dovrebbero essere ulteriormente sviluppate. Anche i palestinesi della diaspora potrebbero essere incoraggiati a fornire formazione o a fare tirocinio nei TPO per contribuire a ricostituire una comunità funzionante di personale medico palestinese.

5. Gli attori internazionali dovrebbero intraprendere una campagna di pressione perché Israele riveda il suo sistema poco trasparente di permessi per ragioni di salute. Le autorità israeliane dovrebbero motivare il rifiuto del permesso, e dare anche ai pazienti la possibilità di presentare ricorso. Anche i permessi dovrebbero essere controllati in modo efficiente. All’inizio del 2019 le organizzazioni israeliane per i diritti umani Gisha, Physicians for Human Rights e HaMoked hanno chiesto che Israele approvi più rapidamente le richieste di permessi per ragioni di salute, ma l’Alta Corte di Giustizia [israeliana, ndtr.] ha bocciato la richiesta. Questo tipo di tentativi dovrebbe continuare in linea con la posizione dell’OMS, secondo cui Israele è obbligato a “consentire l’accesso immediato per 24 ore al giorno e sette giorni su sette ai pazienti palestinesi che richiedono cure specialistiche.” Anche l’Egitto dovrebbe consentire più ingressi umanitari dal confine di Rafah con Gaza.

6. Le autorità israeliane devono giustificare ogni caso di pazienti palestinesi o ambulanze a cui venga negato il passaggio a un checkpoint con un sistema trasparente monitorato da un controllore esterno. Un ritardo o un rifiuto a un posto di blocco che abbia come conseguenza la morte o danni permanenti dovrebbe essere investigato e considerato una possibile violazione delle leggi umanitarie e dei diritti umani internazionali, non un problema logistico.

7. Tutte le parti, dalle organizzazioni umanitarie agli Stati che hanno relazioni con Israele, devono chiedere indagini approfondite ed indipendenti sugli attacchi contro l’assistenza sanitaria non gestita dalle autorità israeliane. Mentre attacchi contro strutture sanitarie non sono una caratteristica esclusiva dei TPO, è significativo che la frequenza sia così alta in una situazione che non è caratterizzata da violenza attiva, come in Siria, e il cui principale responsabile è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Ciò potrebbe permettere di esercitare una forte pressione su Israele per evitare simili episodi. Oltretutto dovrebbero essere imposte sanzioni a quanti violino la protezione garantita alle strutture e al personale sanitario.

Anche se queste misure indubbiamente aiuterebbero a sostenere il sistema sanitario palestinese e i suoi risultati, l’ANP deve fondamentalmente impegnarsi ad affrontare le cause politiche sottostanti che limitano l’accesso dei palestinesi a un adeguato sistema sanitario. Un sistema sanitario non dovrebbe essere in balia di un occupante militare o dipendere dall’aiuto estero e dalle mutevoli motivazioni e priorità dei donatori. Finché esisterà il modello palestinese di “quasi Stato”, continuerà anche la dipendenza dei servizi sociali dagli aiuti. Questo è un modello insostenibile e ingiusto per un sistema sanitario. Solo affrontando le ingiustizie fondamentali e la violenza quotidiana dell’occupazione israeliana il sistema sanitario palestinese e l’accesso ad esso possono veramente migliorare.

Nota

1. Il cancro è la seconda causa principale di morte nei TPO e molti più casi probabilmente non sono diagnosticati a causa della mancanza di laboratori specializzati in oncologia, così come del limitato numero di strutture diagnostiche e radiologiche, soprattutto per i palestinesi che non possono ricevere un permesso medico per essere curati altrove. Solo sei ospedali pubblici, sparsi tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sono attrezzati per trattare i pazienti oncologici.

Yara Asi

Componente della direzione di Al-Shabaka, Yara Asi ha conseguito un dottorato in Politiche Pubbliche all’università della Florida centrale, con particolare attenzione a ricerche e gestione del sistema sanitario. La sua tesi di dottorato ha esaminato le misure per la qualità della vita in Cisgiordania e in Giordania. Il lavoro di Yara prende in considerazione principalmente la salute, l’educazione e lo sviluppo in popolazioni colpite dalla guerra, anche se ha tenuto conferenze e scritto articoli anche su altri argomenti, come sicurezza e sovranità alimentare nei territori palestinesi, ruolo delle donne nelle crisi umanitarie e politiche di aiuto dall’estero in Stati vulnerabili. Ha anche lavorato su ricerca e divulgazione con Amnesty International USA e con il Palestinian American Research Center [Centro Palestinese Americano di Ricerca].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Quarantadue ginocchia in un giorno”: cecchini israeliani parlano apertamente del fatto di aver sparato contro i manifestanti a Gaza

Nota della redazione di Chronicle de Palestine

Non è senza esitazione che abbiamo deciso di tradurre e pubblicare questo documento. Per parafrasare Annah Arendt, “la banalità del male” dimostrata da questi racconti è terribilmente scioccante e prova una volta di più a che punto i palestinesi siano disumanizzati dai loro oppressori israeliani. Ma il paradosso è che siano quei “tiratori scelti” israeliani ad essere  quasi sempre privi di sentimenti umani, e la realtà che si impone è che il loro comportamento è apprezzato, è la “norma”, e che non c’è alcun contrappeso da parte della società israeliana, anch’essa profondamente corrotta da un’ideologia colonialista, razzista e segregazionista.

Neppure il lavoro giornalistico realizzato in questo documento va al fondo delle cose ed evita allo stesso modo di fare il possibile per evocare la moltitudine di uccisioni deliberate tra i manifestanti di Gaza. È la ragione per la quale abbiamo inserito una serie di foto [ nella traduzione ne abbiamo inserite solo alcune, ndtr.] che ricordano in modo molto diretto che le truppe d’occupazione hanno come missione uccidere, mutilare, terrorizzare, e che qualsiasi compiacimento a questo riguardo equivarrebbe ad esserne complici.

Bisogna tuttavia riconoscere che l’autore mette il dito su un sintomo che illustra la gravità del male: i soldati israeliani di una volta potevano ogni tanto avere ed esprimere delle remore di fronte al lavoro sporco che gli veniva richiesto, mentre oggi si lamentano di non aver potuto uccidere o mutilare quanto avrebbero voluto…Un segno dei tempi.

Hilo Glazer

6 marzo 2020 – Chronique de Palestine [traduzione di un articolo di Haaretz Magazine]

Oltre 200 palestinesi sono stati uccisi e circa 8.000 sono rimasti feriti durante quasi due anni di proteste settimanali sul confine tra Gaza e Israele. I cecchini dell’esercito israeliano raccontano le loro storie

So esattamente quante ginocchia ho colpito, dice Eden, che ha finito sei mesi fa il servizio militare nelle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] come cecchino nella brigata di fanteria “Golani”. Per la maggior parte del tempo è stato schierato lungo il confine della Striscia di Gaza. Il suo compito: respingere manifestanti palestinesi che si avvicinavano alla barriera [tra Gaza e Israele, ndtr.].

Ho tenuto i bossoli di tutti i colpi che ho sparato,” dice. “Ce li ho nella mia stanza. Così non devo fare un calcolo approssimativo, lo so: 52 colpi precisi.”

Ma ci sono anche colpi “non precisi”, vero?

Ci sono stati episodi in cui il proiettile non si è fermato ed ha colpito anche il ginocchio di qualcuno che stava dietro (quello a cui ho mirato). Sono errori che capitano.”

Cinquantadue sono molti?

Non ci ho per niente pensato. Non sono centinaia di eliminazioni come nel film “American Sniper” [“Cecchino americano”, film USA di Clint Eastwood ambientato in Iraq, ndtr.]: stiamo parlando di ginocchia. Non la prendo alla leggera, ho sparato ad esseri umani, eppure…”

Come sei messo in graduatoria rispetto ad altri che hanno fatto il servizio militare nel tuo battaglione?

Dal punto di vista dei tiri, sono quello che ne ha di più. Nel mio battaglione direbbero: ‘Guarda, arriva il killer.’ Quando tornavo dal campo mi chiedevano: ‘Beh, quanti oggi?’ Devi capire che prima che arrivassimo noi le ginocchia erano la cosa più difficile da accumulare. C’è una storiella su un cecchino che in totale aveva [sparato a] 11 ginocchia, e la gente pensava che nessuno potesse superarlo. E allora io sono arrivato a sette-otto ginocchia in un giorno. In poche ore ho quasi demolito il suo record.”

Vedere per credere

Le dimostrazioni di massa sul confine tra Israele e la Striscia sono iniziate nel marzo del 2018 in occasione del Giorno della Terra [in cui i palestinesi ricordano una manifestazione di palestinesi cittadini israeliani contro l’esproprio delle loro terre nel 1976 che venne repressa nel sangue dalle forze israeliane, ndtr.], e sono continuate ogni settimana fino allo scorso gennaio. Secondo l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari questi continui scontri per protestare contro l’assedio israeliano a Gaza sono costati la vita a 215 dimostranti, mentre 7.996 sono stati feriti da proiettili veri. Nonostante il grande numero di vittime, le tristi manifestazioni e la repressione lungo il confine sono continuate senza sosta per circa due anni, finché si è deciso di ridurne la frequenza a una volta al mese. Eppure anche nell’immediato il violento rituale del venerdì pomeriggio ha provocato scarso interesse nell’opinione pubblica israeliana. Allo stesso modo le condanne internazionali – dalle denunce per l’uso di una forza sproporzionata alle accuse che Israele stava perpetrando un massacro – sono svanite come neve al sole.

Fare luce su questo recentissimo pezzo di storia implica parlare con i cecchini. Dopo tutto sono stati la forza prevalente e più significativa nella repressione delle manifestazioni nei pressi della barriera. I loro obiettivi sono andati dai giovani palestinesi che cercavano di infiltrarsi in Israele o che lanciavano bottiglie molotov contro i soldati a manifestanti disarmati considerati i principali istigatori [delle proteste]. Ad entrambe le categorie si è risposto allo stesso modo: proiettili veri sparati alle gambe.

Delle decine di cecchini che abbiamo avvicinato, sei (tutti congedati dalle IDF) hanno accettato di essere intervistati e di descrivere quale sembrasse loro la situazione attraverso il mirino dei fucili.

Cinque sono di due brigate di fanteria – due a testa della Golani e della Givati, uno della Kfir – più uno dell’unità antiterrorismo Duvdevan. I loro nomi sono stati modificati. Non parlano per “rompere il silenzio” [riferimento al gruppo di militari ed ex-militari israeliani “Breaking the silence” che denuncia i crimini dell’esercito nei territori palestinesi occupati, ndtr.] o per fare ammenda delle proprie azioni, ma solo per raccontare quello che è successo dal loro punto di vista. Nel caso di Eden, persino il fatto che abbia anche ucciso un manifestante per errore non lo sconvolge: “Penso che ero dalla parte giusta e che ho fatto la cosa giusta,” insiste, “perché se non fosse stato per noi i terroristi avrebbero cercato di attraversare la barriera. Per te è ovvio che sei là per un motivo.”

Eden afferma di aver battuto il “record di ginocchia” nella manifestazione avvenuta il giorno in cui è stata inaugurata la nuova ambasciata USA a Gerusalemme, il 14 maggio 2018. Lo ha fatto in compagnia: in genere i cecchini lavorano in coppia, insieme a un localizzatore, che è anch’egli per formazione un cecchino, il cui compito è di fornire ai suoi colleghi dati precisi (distanza dal bersaglio, direzione del vento, etc.).

Eden: “Quel giorno il nostro collega ha raggiunto il maggior numero di colpi, 42 in totale. Il mio localizzatore non avrebbe dovuto sparare, ma gli ho concesso una pausa, perché stavamo arrivando alla fine del nostro turno e non aveva ancora colpito neanche un ginocchio. Alla fine te ne vuoi andare con la sensazione che hai fatto qualcosa, che non sei un cecchino solo durante l’addestramento. Così, dopo che ho sparato qualche colpo, gli ho suggerito di darci il cambio. Direi che ha colpito circa 28 ginocchia.”

Eden ricorda chiaramente il suo primo ginocchio. Il suo bersaglio era un manifestante sulle spire di filo spinato a circa 20 metri di distanza. “In quel periodo (all’inizio delle proteste) eri autorizzato a sparare a uno dei principali incitatori delle proteste solo se stava in piedi immobile, “afferma. “Ciò significa che, anche se stava andando in giro tranquillamente, era proibito sparargli, quindi non avremmo mancato il bersaglio e sprecato munizioni. Comunque, questo incitatore è sul filo spinato, io ho l’arma rivolta verso la barriera e non c’è ancora l’autorizzazione ad aprire il fuoco. Ad un certo momento lui sta di fronte a me, mi guarda, mi provoca, mi dà un’occhiata come dire ‘vediamo se ci provi’. Allora arriva l’autorizzazione. In piedi sopra di me c’è il comandante del battaglione, alla mia sinistra c’è il suo vice, a destra il comandante della compagnia – dei soldati tutti attorno a me, insieme alle loro mogli il mondo intero sta osservando il mio primo tiro. Molto stressante. Ricordo la vista del ginocchio nel mirino, scoppiato.

Razan Al-Najjar di 21 anni uccisa il 1 giugno 2018 da un cecchino mentre prestava soccorso ad un ferito
(Oumma)

Roy”, che ha fatto il servizio militare come cecchino nella brigata Givati fino al suo congedo un anno e mezzo fa, dice che il colpo che ricorda più vividamente è quello che ha attirato la maggior attenzione degli spettatori. “C’era pressione perché il comandante di battaglione era sul posto e tutti si occupavano di noi. C’era un palestinese che sembrava avere circa 20 anni, che non smetteva di andare in giro. Maglietta rosa, pantaloni grigi. Quello che fanno è correre continuamente e poi arrivare sul filo spinato. Era veramente bravo a farlo. In quella situazione puoi ucciderlo o colpire qualcuno dietro di lui. Ricordo chiaramente di aver temuto di mancare la sua gamba e poi di essermi sentito sollevato per aver centrato il bersaglio.”

Sollievo è anche quello che [ha provato] Itay, un ex-haredi [ebreo ultraortodosso, ndtr.] che era un cecchino del battaglione Netzah Yehuda (composto da ultraortodossi, l’equivalente della brigata Nahal): “Ho visto un giovane che stava per dar fuoco a una bottiglia molotov. In un caso simile non fai calcoli. Ho parlato alla radio, ho descritto il bersaglio e ho avuto l’autorizzazione. La pressione è assurda. Tutto quello che hai imparato e per cui sei stato addestrato è riassunto in un momento. Ti concentri, ti ricordi di prendere il respiro e poi, boom. Ho sparato al ginocchio ed è caduto. Mi sono accertato che tutto fosse a posto, di aver sparato nel posto giusto.”

Questa specie di verifica è parte delle regole d’ingaggio?

Itay: “L’ordine è di continuare a guardare dopo lo sparo per vedere se l’obiettivo è stato raggiunto. Fai rapporto su un colpo dopo un ulteriore controllo. Guardare dopo è la parte più facile, o, più correttamente, è la parte che ti dà sollievo. Perché in questo caso specifico il terrorista era a meno di 100 metri dai miei compagni e avrebbe potuto finire male.”

E dopo che hai guardato una seconda volta e vedi la ferita, anche quello è facile?

Non devi vedere una grande perdita di sangue, perché nella zona del ginocchio e delle ossa non ci sono molti capillari. Se vedi sangue non è un buon segno, perché probabilmente hai sparato troppo in alto. La scena normale dovrebbe essere che tu colpisci, rompi un osso – nel migliore dei casi rompi la rotula –, nel giro di un minuto arriva un’ambulanza per portarlo via e dopo una settimana ha una pensione di invalidità.”

Ma Shlomi, un cecchino della Duvdevan, dice che neppure colpire la rotula è raccomandabile: “L’obiettivo è provocare all’agitatore il minimo danno, in modo che smetta di fare quello che sta facendo. Così, quanto meno io, cerco di colpire in un punto più grasso, nella regione muscolare.

Puoi essere più preciso?

Shomi: “Sì, perché il Ruger (un tipo di fucile utilizzato per lo più durante le manifestazioni) è pensato per un uso a 100, 150 metri. Da quella distanza vedi la gamba persino a occhio nudo e con il mirino che aumenta la visuale di 10 volte puoi davvero vedere i tendini.”

Giovani con i megafoni

Chi viene considerato come un principale istigatore durante queste manifestazioni? I criteri sono piuttosto vaghi.

Un principale agitatore è un principale agitatore,” taglia corto Amir. Comandante di una squadra di cecchini della Golani che è entrato in azione durante la prima ondata di disordini lungo la barriera, spiega che “non è così complicato capire chi stia organizzando e incitando (gli altri manifestanti). Lo identifichi per esempio dal fatto che sta di schiena rispetto a te e guarda verso la folla. In molti casi ha anche un megafono.”

L’impressione di Itay è che “i principali agitatori siano per esempio persone che vanno in giro nelle retrovie, organizzando le cose. Non sono necessariamente un bersaglio, ma, per far loro sapere che vediamo quello che stanno facendo, potrei sparare in aria attorno a loro. Sai, quello che incita gli altri non rappresenta un pericolo immediato per me, almeno non direttamente, ma fa in modo che le cose accadano. Per cui colpirlo è un problema, ma lo è anche non colpirlo. Questa è la ragione per cui nel momento in cui si stanca di attivare gli altri e inizia a partecipare al caos è il primo che colpiamo, perché è il più importante rispetto al gruppo attorno a lui. È fondamentale per bloccare la fase acuta.”

Aggiunge: “Non colpisci quelli che incitano la folla per quello che stanno facendo. Non deriva da uno stato emotivo del tipo ‘È quello che sta provocando la rivolta, quindi abbattiamolo.’ Questa non è una guerra, sono disordini del venerdì pomeriggio. L’obiettivo non è di abbatterne il più possibile, ma di far cessare questa cosa al più presto.”

Secondo le regole d’ingaggio delle IDF un minorenne non è classificato come un agitatore importante. Secondo Eden, “ci sono età limite, e quindi tu non le colpisci.”

È veramente possibile definire la differenza tra un uomo smilzo e un adolescente ben piantato nel bel mezzo di una manifestazione? “Cerchi di capirlo in base al linguaggio del corpo,” afferma Amir. “Il modo in cui tiene una pietra, se sembra che sia stato trascinato nella situazione o che la stia dirigendo. Quelle manifestazioni assomigliano un po’ a un movimento giovanile, dal loro punto di vista. Anche se tu non conosci il loro ‘grado’ preciso, puoi dire in base al carisma chi sia il leader del gruppo.”

Roy sostiene che “nel 99,9% dei casi, l’identificazione è esatta. Ci sono un sacco di immagini del bersaglio e di mirini concentrati su di lui. Un drone sopra, vedette, il cecchino, i suoi comandanti. Non sono solo una, due o tre persone che lo stanno guardando, per cui non ci sono dubbi.”

Shlomi è un po’meno sicuro: “A volte è veramente difficile dire la differenza (tra minori e adulti). Guardi i tratti del volto, il peso, la massa corporea. Anche il vestito è un indicatore certo. I più giovani sono in genere vestiti con una maglietta. Ma senti, anche un sedicenne ti può causare un danno. Se rappresenta una minaccia il parametro dell’età non è necessariamente rilevante.”

Itay è d’accordo: “L’obiettivo è non colpire minorenni, ma una bottiglia molotov è una bottiglia molotov e non sa se la persona che la tiene in mano è un uomo di 20, un adolescente di 14 o un bambino di 8.”

Amir ricorda di aver affrontato un dilemma simile: “Per esempio, c’era un ragazzino il cui comportamento giustificava il fatto di sparargli, ma abbiamo valutato che avesse 12 anni e deliberatamente non lo abbiamo fatto – non solo per come sarebbe apparso sui media, ma per delle nostre considerazioni personali. Abbiamo deciso che lo avremmo veramente spaventato ed abbiamo colpito la persona vicino a lui. Per noi non era una cosa urgente. Sarebbe stato lì anche la settimana successiva.”

Niente “prima sparare e poi piangere”

Sono passati 53 anni dalla pubblicazione di “Il Settimo giorno”, una raccolta di testimonianze di soldati provenienti da kibbutz che esprimevano il proprio disagio emotivo dopo aver assistito ai combattimenti durante la guerra dei Sei Giorni [guerra preventiva di Israele contro i Paesi arabi nel 1967, ndtr.]. È un testo fondamentale per il modo in cui descrive Israele come una società che “prima spara e poi piange”. Più di mezzo secolo dopo il lamento dei soldati tornati dal campo di battaglia si può ancora sentire, ma, almeno secondo le voci qui citate, le loro basi ideologiche ed etiche sono state rovesciate. L’introspezione sul prezzo di sangue è stato sostituito dalle critiche per la debolezza dell’esercito e dalla sensazione che stia legando le mani ai suoi combattenti.

Ho visto sobillatori che attraversavano la barriera e non ho potuto fare niente, “dice Roy. “L’hanno saltata e ci hanno provocati, e poi sono tornati indietro. Ovviamente non hai l’autorizzazione a sparargli. Perché? Perché una volta che sono in territorio israeliano non sono considerati ostili se non hanno con sé un coltello o un fucile. Le limitazioni nei nostri confronti sono vergognose. Devi capire: anche se c’è un ventenne davanti a me che incita altri e dà fuoco a un copertone, prima devo informare il comandante di compagnia, che informa il comandante di battaglione, che parla con il comandante di brigata, che comunica con il comandante di divisione. Ci sono stati alcuni casi ridicoli. Durante quel lasso di tempo il bersaglio si è già spostato o si è nascosto.”

Amir descrive la catena di comando in questo modo: “Per ogni cecchino c’era un comandante a livello inferiore (un sottufficiale) come me, e anche un comandante superiore – un comandante o un vice comandante di compagnia. L’ufficiale superiore chiede l’autorizzazione a sparare al comandante della brigata di settore. Lo chiama alla radio e chiede: ‘Posso aggiungere un altro ginocchio per questo pomeriggio?’”

L’impressione che ne ha ricavato Daniel, un soldato solitario [“lone soldier”, sono ebrei stranieri che vanno in Israele da volontari per fare il servizio militare, ndtr.] immigrato dagli Stati Uniti e arruolato nella brigata Givati, è che le procedure fossero più flessibili di così: “Come ogni cosa nelle IDF, non era del tutto chiaro, almeno non quando ci sono stato io. Ma in generale per sparare devi chiedere l’autorizzazione al tuo ufficiale superiore e lui chiede l’autorizzazione al comandante di compagnia o di battaglione. Se funzionasse come si suppone, ci vorrebbero meno di 10 secondi. I comandanti non erano particolarmente restrittivi nelle autorizzazioni a sparare. Si fidavano di te quando dicevi di aver identificato un obiettivo giustificato.”

Secondo Eden con il passar del tempo il filo della catena di comando si è allentato: “Se tu guardi indietro alle prime manifestazioni, quattro o cinque anni fa, prima dell’ondata degli ultimi due anni, scoprirai che era molto difficile avere un’autorizzazione. Allora dicevano che ogni ginocchio era una questione veramente importante. Nel periodo in cui le proteste si sono fatte molto più accese è diventato più facile avere il permesso. Nel mio periodo veniva dal livello del comandante di battaglione o di compagnia, a seconda della situazione.”

La richiesta di avere l’autorizzazione per ogni sparo di cecchino da parte del comandante di brigata ha avuto un peso sul numero di vittime palestinesi? I dati indicano che il numero degli uccisi è sceso drasticamente solo dopo il passaggio al Ruger, circa un anno dopo che sono scoppiati i disordini settimanali. Il Ruger è considerato meno letale di altri fucili. Eden, un veterano della zona di Gaza, dice di aver usato un fucile M24 e un Barak (HTR-2000): “Con il Barak, se tu spari a qualcuno al ginocchio, non lo rendi disabile, gli stacchi la gamba. Potrebbe morire dissanguato.”

Lo scorso luglio, dopo 16 mesi di scontri presso la barriera con Gaza, le IDF hanno cambiato le regole d’ingaggio per i cecchini nel tentativo di ridurre il numero di vittime. Un importante ufficiale ha spiegato le modifiche in un articolo della corrispondente militare della Kan Broadcasting Corporation [rete informativa pubblica israeliana, ndtr.] Carmela Menashe: “All’inizio abbiamo detto loro di sparare alle gambe. Abbiamo visto che in quel modo puoi rimanere ucciso, per cui abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo diramato un ordine più preciso e abbiamo dato istruzioni di sparare alle caviglie.”

Eden lo conferma: “C’è stata una fase in cui l’ordine è stato proprio di mirare alle caviglie,” nota. “Non mi è piaciuto quel cambiamento. Devi avere fiducia nei tuoi cecchini. Mi è sembrato che stessero cercando di renderci la vita più difficile senza ragione.”

In che senso?

Eden: “Perché è chiaro che la superficie del corpo tra il ginocchio e la pianta del piede è molto più larga che tra la caviglia e il piede. È la differenza tra colpire 40 cm e colpirne 10.”

Roy, che ha finito il servizio militare prima che venissero aggiornate le regole d’ingaggio, afferma che in genere mirava in ogni caso più in basso: “Durante il tempo in cui sono stato in servizio era consentito sparare ovunque dal ginocchio in giù, ma io miravo alle caviglie, per non colpire più in alto, dio non voglia, o si sarebbe scatenato l’inferno. Preferivo così. Non avevo pietà per i sobillatori, ma sapevo che non sarei stato appoggiato dall’esercito. Non voglio essere un secondo Elor Azaria (il cosiddetto sparatore di Hebron, che è stato detenuto dopo essere stato condannato per aver ucciso un aggressore palestinese non più in grado di nuocere). Ho pensato meno al bersaglio e più a me stesso e alla mia famiglia, in modo che non dovesse subire la stessa sorte della famiglia di Elor.”

Saif al-Din Abou Zayd di 15 anni ucciso da una pallottola alla testa
(MaanImages)

Amir aggiunge: “Se tu per sbaglio compisci un’arteria principale della coscia invece della caviglia, allora o avevi intenzione di sbagliare o non avresti dovuto essere un cecchino. Ci sono cecchini, non molti, che ‘scelgono’ di sbagliare (e mirano più in su). Però il numero non è alto. (Per fare un confronto) ci sono giorni in cui conti 40 ginocchia nell’intero settore. Queste sono le proporzioni.”

Secondo Amir, la discussione su dove sparare – coscia, ginocchio o caviglia – è fuori tema: “Fammi raccontare una storia. Un giorno c’era molto lavoro da fare, un vero caos. Uno dei miei soldati voleva abbattere uno dei principali agitatori che rispondeva a tutti i criteri. Ha chiesto l’autorizzazione, ma il comandante di compagnia l’ha rifiutata, perché il tizio era troppo vicino a un’ambulanza.”

Una minima deviazione, anche se avesse solo colpito un fanale, e ci sarebbero stati articoli di giornale secondo cui le IDF avevano sparato a un’ambulanza. Il mio soldato ha sentito il rifiuto dell’autorizzazione, ma ha comunque sparato. Ha colpito la caviglia, come era previsto, un colpo preciso, chirurgico. Per cui da un lato ha disubbidito a un ordine, ma dall’altro ha portato a termine la sua missione.” (In seguito il soldato è stato punito e assegnato a un lavoro di pulizia).

E tu hai capito il suo ragionamento?

Amir: “Ovviamente. Per un soldato come quello, quel colpo è il suo obiettivo, la sua autodefinizione. Sono ragazzi di 18 anni, per lo più di un contesto socioeconomico molto povero. Il fatto che tu li metta in un corso per cecchini non significa che li trasformi in persone sensibili e mature. Al contrario li hai trasformati in macchine, hai fatto sì che pensino in modo limitato, hai ridotto le loro possibilità di scelta, hai sminuito la loro umanità e personalità. Nel momento in cui trasformi uno in un cecchino, questa è la sua essenza. Quindi ora vuoi anche portargliela via? Può sembrare radicale, perché sono un comandante, ma c’è un posto dentro di me che dice: ‘Ehi, mi hai disubbidito, è vero, ma ne sei uscito da uomo, hai dimostrato che il tuo ruolo (di cecchino) funziona.’”

Amir, che alle superiori si è diplomato in teatro e si definisce un “boyscout del nord”, descrive un altro caso di violazione delle norme avvenuto nella sua compagnia. “Anche quando non ci sono manifestazioni e tutto sembra calmo, ti fanno andare di corsa alla barriera con la pattuglia quando vi si avvicinano i pastori. Devi capire che non si tratta di pastori innocenti, lavorano per Hamas e per la Jihad Islamica per farti impazzire. Superano la linea perché tu risponda. Prendi un veicolo e vai a minacciarlo? Prima che tu arrivi lì se n’è già andato. Spari in aria? Non gliene può importare di meno. E a causa di questa insensatezza non dormi e tutta la compagnia diventa il burattino del pastore,” dice Amir.

Un giorno uno dei sottufficiali mi ha detto: ‘Ne ho abbastanza, non possiamo continuare così, abbattiamo una delle pecore, vale qualche centinaio [di euro, ndtr.].’ Pensa cosa porta un soldato, un musicista di una buona scuola superiore, l’ultimo ragazzo che diresti essere assetato di sangue, a dire via radio alla vedetta: ‘Vedi una pecora, a nord? Stai per vederla cadere.’ Dopodiché il pastore non è tornato. Qual è la conclusione? La deterrenza ha funzionato.”

Amir dice che questi due episodi devono essere compresi alla luce della natura dell’attività del suo battaglione sul confine con Gaza: “Anche prima che iniziassero le manifestazioni, eravamo in agguato da due mesi interi,” racconta. “Abbiamo osservato una squadra che cercava di improvvisare una bomba e di attaccarla alla barriera. C’era qualcosa che non andava in tutto ciò, l’ordigno non era esploso e ci siamo resi conto che stavano venendo a prenderla. Ma è andato avanti per un bel po’. Ogni giorno si avvicinavano e neppure quando il capo del gruppo era proprio sopra la bomba abbiamo avuto l’autorizzazione a sparare. Perché? Solo a causa della sensibilità dei media. Finché non avesse realmente preso l’ordigno era impossibile dimostrare al di là di ogni dubbio che avesse a che fare qualcosa, quindi vai poi a capire che tipo di narrazione Hamas avrebbe ricavato da ciò. Pensa quanto sia frustrante per i soldati. Siamo stati là nella pioggia per due mesi e non abbiamo fatto niente.”

E la frustrazione giustifica l’insubordinazione in base ad altre circostanze?

Amir: “No, ma quel caso illustra il paradosso delle regole d’ingaggio. Un terrorista che merita di morire sta davanti a me ma, poiché dobbiamo giustificarci con Haaretz o con la BBC, se la cava senza un graffio. Si crea una vigliaccheria che scende verso il basso. Così invece tu vai e fai fuori le ginocchia durante le manifestazioni. Non solo questo non è efficace, ma questa gente non merita neppure di perdere le proprie ginocchia. Mi identifico realmente con quello che una volta ha detto (l’ex-capo di stato maggiore delle IDF) Ehud Barak, che se fosse un palestinese sarebbe diventato un terrorista. Ciò mi ha colpito solo quando sono stato nei territori. Vedi bambinetti piangere quando prendi a pugni il loro padre, e ti dici: ‘Non mi posso aspettare nient’altro da loro.’”

Rapporto con lo sport

Ci sono cecchini che hanno avuto difficoltà a riprendere la loro vita dopo essere stati congedati?

Tuly Flint, un ufficiale dei servizi per la salute mentale della riserva e operatore sociale clinico specializzato in traumi, ha curato cecchini che hanno partecipato alla repressione di manifestazioni a Gaza durante gli ultimi due anni. I cecchini, dice, manifestano singolari caratteristiche quando si tratta di stress post-traumatico.

Se fossi uno dei trenta soldati che sono nella zona e sparassi una raffica, non saprei necessariamente se ho ucciso qualcuno,” dice, mentre il cecchino sa quando colpisce il suo bersaglio. “Il secondo tratto distintivo deriva dal fatto che al cecchino viene richiesto di non girare lo sguardo. Attraverso il mirino vede la persona a cui sta sparando e l’impatto del colpo, e ciò può fissare l’immagine nella sua memoria.”

Flint descrive un cecchino di un’unità d’élite che ha mirato al ginocchio di un manifestante ma ha colpito troppo in alto, e il dimostrante è morto dissanguato. “Quel soldato, un cecchino molto impegnato nella sua missione, descrive l’immagine del manifestante che muore dissanguato. Non può dimenticare l’uomo che grida di non lasciarlo solo. Ricorda anche in modo vivido quando hanno portato via il corpo e le donne che piangevano su di lui. Da allora non pensa ad altro e non sogna altro. Dice: ‘Non sono stato mandato per difendere lo Stato, sono stato mandato per uccidere.’ Anche il pensiero della fidanzata della persona che ha ucciso continua a perseguitarlo. Il risultato è che ha rotto con la propria fidanzata con cui stava da due anni. ‘Non merito di averne una’, dice.”

Daniel ha un vivido ricordo dei suoi colleghi dopo un colpo perfetto. “Le persone sembrano malate o scioccate. Il significato di ciò, sul momento, non li colpisce sul vivo. Un secondo dopo, un minuto dopo che ho sparato a qualcuno, mi metto a mangiare matza [pane azzimo, ndtr.] con cioccolato? Cosa cavolo sta succedendo qui?”

Aggiunge: “Ci sono storie orribili, tremende di soldati che hanno preso di mira un manifestante e colpito qualcun altro. Conosco uno che ha preso di mira uno dei leader delle manifestazioni, che stava su una cassa e incitava la gente ad avanzare. Il soldato ha mirato alla sua gamba, ma all’ultimo momento l’uomo si è spostato e la pallottola lo ha mancato. Ha colpito invece una ragazzina, uccisa sul colpo. Quel soldato oggi è un rudere. È continuamente sorvegliato perché non si suicidi.”

Cecchini con il peso di esperienze come questa sono la minoranza. Da parte sua Amir dice che il tipo di sensazione che molti cecchini hanno è totalmente diversa, e richiama il mondo dello sport: “La zona dei disordini è come un’arena sportiva, una situazione in cui puoi vendere i biglietti,” dice. “Gruppo contro gruppo, con una linea nel mezzo e un pubblico di tifosi da entrambi i lati. Puoi assolutamente raccontare la storia di un incontro sportivo.”

In prima linea, continua, “ci sono i sobillatori: segnano la linea di partenza da cui le persone partono di corsa, da sole o in gruppo. Tutto è coordinato e pianificato in anticipo. Ci sono quei buchi nel terreno (per nascondersi) e ciò permette loro di giocare con noi. Possono correre 100 metri senza che io sia in grado di colpire i loro piedi. Sono anche abili a zizzagare. Due di loro saltano fuori, si nascondono, uno lancia una pietra in modo che l’altro possa andare avanti. Usano con te tattiche diversive. Sai, è una specie di gioco.”

Qual è lo scopo di questo gioco?

Amir: “Guadagnare punti. Se riescono a mettere la bandiera sulla barriera, vale un punto. Una bandiera piena di esplosivo è un punto. Lanciare indietro lacrimogeni è un punto. Persino anche solo toccare il muro, intendo la barriera, è un punto. C’è una battaglia in corso qui, ma non si sa quando verrà decisa, nessuno ha idea di come vincere la coppa, ma nel frattempo entrambe le parti continuano a giocare la partita.”

Un gioco per la cronaca. Le forze non sono esattamente equamente ripartite.

Vero. E non stiamo usando neppure un quarto della forza che potremmo esercitare.”

In altre parole, potremmo colpirli con un ko, ma preferiamo vincere ai punti?

Non stiamo neppure vincendo ai punti. Dopo un po’ di tempo là, in un rapporto ho detto: ‘Lasciatemi solo per una volta abbattere un ragazzino di 16, anche 14 anni, ma non con un proiettile alle gambe, lasciate che gli spari alla testa di fronte a tutta la sua famiglia e a tutto il suo villaggio. Lasciatemi spargere sangue. E allora forse per un mese non dovrò prendermi altre 20 ginocchia.’ Questo è un calcolo scioccante al limite dell’inimmaginabile, ma quando non usi le tue potenzialità non è chiaro che cosa stiamo cercando di fare là. Mi chiedi quale fosse il compito? Mi risulta difficile risponderti. Cosa ho considerato un successo dal mio punto di vista? Persino il numero di ginocchia che ho preso non è dipeso da me, ma dal numero di ‘anatre’ che hanno scelto di attraversare la linea.”

Ma uccidere un ragazzino a caso, pensi davvero che questa sia la soluzione?

Ovviamente non dovremmo far fuori ragazzini. Lo stavo dicendo per fare il punto della situazione: se tu ne uccidi uno ne devi risparmiare altri 20. Se tu mi riportassi a quegli appostamenti di due mesi e mi lasciassi agire, avrei fatto fuori quel figlio di puttana che stava sulla bomba, anche se ciò avrebbe significato che sarebbe tornato in seguito nei miei sogni. Anche oggi la situazione per cui ci sono da 5 a 10 persone che rimarranno invalide per il resto della loro vita, alle quali il mio nome è in qualche modo collegato, è una merda. E non solo nel senso che ciò mi pesa o meno sul cuore. Pensaci: là c’è un’intera generazione di minorenni che non sarà in grado di giocare a pallone.”

Solo ragazzi

Sembra che la presenza di minorenni alle manifestazioni desti le risposte più fortemente emotive tra i cecchini.

Un giorno c’era una bambina, penso che avesse probabilmente 7 anni, che portava una bandiera di Hamas ed è corsa verso di noi,” dice Shlomi di Duvdevan. “Mi sono accertato attraverso il mirino che non ci fosse niente di sospetto in lei, che la sua camicetta non avesse sporgenze, che non ci fossero segni di fili o bombe, e abbiamo gridato per fermarla. Fortunatamente si è spaventata ed è corsa via. Mi era chiaro che non le avrei sparato neppure se avesse attraversato il confine, ma mi ricordo di aver pensato: spero proprio che non continui ad avanzare.”

Abdullah al-Anqar colpito  da una pallottola esplosiva che gli ha causato l’amputazione dell’arto sinistro
(Hosam Salem/Al Jazeera)

Daniel: “Dal posto di guardia vedi un militante di Hamas, la sua faccia è di fronte a te e tu pensi tra te e te: spero davvero che faccia qualcosa in modo che gli possa sparare. Ma con i manifestanti il quadro diventa complicato, perché molti di loro sono solo adolescenti. Sono esili, piccoli, non ti senti minacciato da loro. Devi ricordare a te stesso che quello che stanno facendo è pericoloso.”

Come alcuni degli altri intervistati, Daniel sottolinea la rabbia dei soldati nei confronti dei genitori: “Una madre che porta il proprio figlio a una manifestazione come quella è una madre terribile,” dice. Amir afferma che può capire quei bambini: “Si guadagnano la vita in quel modo e non devo dirti io quanto sia difficile la situazione economica a Gaza. Ma i loro genitori non li capisco. Perché li trascini lì? Mandali a sgattaiolare (in Israele) di nascosto e a lavorare nell’edilizia, rovescia il governo di Hamas, qualunque altra cosa, solo non questo.”

Roy, che si identifica come di destra, è d’accordo che “non sono loro che dobbiamo combattere, ma Hamas, i terroristi, quelli che organizzano gli autobus per portare la gente e gli gettano qualche dollaro in modo che brucino pneumatici. Ho pietà di loro (i minori), sono veramente sfortunati. Mi ricordano dei bambini del quartiere che giocano con i mortaretti. Ero anch’io come quei ragazzini, per cui in questo senso mi identifico con loro.”

Ma, pur manifestando obiezioni contro il fuoco indiscriminato, Itay, del [battaglione di ultraortodossi, ndtr.] Netzah Yehudah pensa ancora che il numero di palestinesi feriti da proiettili veri sul confine durante oltre due anni in realtà dimostri che i soldati non hanno avuto il grilletto facile. “Ogni venerdì ci sono migliaia di manifestanti,” nota, “e se moltiplichi quel numero per 52 e poi lo raddoppi, hai centinaia di migliaia di persone. Rispetto a questi, 8.000 sono una piccola percentuale.”

Tuttavia aggiunge che “il potere che hai quando qualcuno entra nel tuo mirino, la consapevolezza che dipende da te se sarà in grado di camminare o meno, è terribile. Dal mio punto di vista, non è un potere che mi eccita. Non mi piace, ma è impossibile ignorarlo. È lì tutto il tempo. Dopo che sono stato congedato ho capito che è una cosa che non voglio provare mai più. Sono andato subito direttamente all’università e non a fare qualche lavoro nella sicurezza, cosa che avrei potuto ottenere per i miei trascorsi in combattimento.”

È il tuo destino”

Non tutti riescono a contenere la sensazione di esaltazione. Un video che ha circolato nel 2018 mostrava un palestinese che si avvicinava alla barriera e veniva colpito da un cecchino, mentre i soldati festeggiavano il colpo diretto con grida di “Bel colpo!” e “Che video favoloso!” Roy dice che la risposta dei soldati attesta una mancanza di professionalità e troppo entusiasmo, benché egli non abbia visto niente del genere nella sua squadra.

D’altra parte penso sia umano,” dice. “Quando hai un certo obiettivo, persino se stai sparando frecce a un bersaglio, ovviamente sei contento di aver fatto centro. L’errore dei soldati è stato nel loro comportamento. Che ridano un po’ di nascosto, ma non farci un video. È anche una questione di immagine.”

Anche Amir distingue tra la soddisfazione personale e le manifestazioni pubbliche che non stanno bene in un video: “I cecchini nella squadra che abbiamo sostituito erano una leggenda. Erano campioni delle IDF e avevano due o tre fighissime X (sui loro fucili) per essersi occupati della frontiera a Gaza. Abbiamo sentito la storia delle X e anche noi le volevamo. È la tua professione, il tuo destino, il significato del tuo esistere dal momento in cui ti alzi a quando vai a letto. Ovviamente vuoi mostrare le tue capacità.”

Devi festeggiare? Non c’è nessun altro modo?

Amir: “No. Prendi il tizio più scimmiesco che conosci, ed è quello che le IDF fanno, trasformano i ragazzi in babbuini, e cerca di farlo smettere di raccontare della sua prima volta. C’è il caos là, tutti sparano, ottengono grandi successi – ti aspetti che non aprano una bottiglia di champagne? Lui si è realizzato proprio in quel momento, è un attimo particolare. In realtà più lo fa e più diventa indifferente. Non sarà più particolarmente felice, o triste. Sarà normale.

I commenti dell’esercito

L’ufficio del portavoce delle IDF ha inviato questo comunicato ad Haaretz: “La risposta operativa ai violenti disordini e all’attività terroristica ostile che le IDF hanno dovuto affrontare dal marzo 2018, così come l’uso di proiettili veri, è adeguata in modo appropriato alla minaccia rappresentata da questi incidenti, in un tentativo di ridurre per quanto possibile il ferimento di quanti hanno provocato i disordini. Negli ultimi due anni la risposta operativa è stata influenzata dall’intensità degli eventi, dai cambiamenti nell’uso della violenza da parte di quanti hanno disturbato l’ordine pubblico, dal fumo che hanno diffuso e via di seguito.

Alla luce del cambiamento che è avvenuto nella natura dei disordini si è deciso di dotare le forze anche di proiettili Ruger, che provocano meno danni. Riguardo all’uso di fucili M24, facciamo notare che è un fucile usualmente in uso dei cecchini. In generale, nel quadro degli eventi in questione, non sono stati utilizzati fucili da cecchino Barak. Siamo stati informati di un uso eccezionale e specifico di questi ultimi, che è stato riportato e indagato. I risultati sono stati inviati all’unità dell’avvocatura di Stato militare per un ulteriore esame.

Le affermazioni attribuite a un ufficiale superiore riguardo alle regole d’ingaggio non riflettono la politica operativa delle IDF. L’ufficiale intendeva spiegare che, quando ci sono state informazioni di ferite non intenzionali da arma da fuoco che non erano al di sotto del ginocchio, in alcune circostanze il comandante di settore ha deciso di rendere più vincolanti le regole d’ingaggio e di dare istruzioni ai cecchini di mirare alle caviglie.

E nel caso in cui un combattente ha sparato a un capo-agitatore, benché non abbia ricevuto l’autorizzazione dal suo ufficiale superiore, lo sparo è avvenuto in accordo con le regole d’ingaggio con l’eccezione di questa trasgressione. Il caso è stato preso in considerazione a livello di comando e non è stato presentato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupi. Allo stesso modo il caso in cui una pecora è stata indebitamente colpita, questo incidente è stato gestito a livello di comando e non è stato inviato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupasse. Il vice-comandante di compagnia aveva cercato di infrangere la disciplina militare ed è stato condannato a sette giorni di detenzione.”

(traduzione dall’inglese e dal francese di Amedeo Rossi)




Raid e spari israeliani tra Gaza e Siria: tre membri del Jihad islamico uccisi

Redazione Nena News

Tensione alta nella Striscia dove ieri mattina i militari di Tel Aviv hanno ucciso e poi sollevato con un bulldozer un giovane militante della fazione palestinese. “Piantava un esplosivo al confine” afferma l’esercito. Razzi del Jihad verso il sud d’Israele. Nella notte la risposta dei jet israeliani: diversi feriti nell’enclave palestinese, 2 le vittime nell’area di Damasco

24 febbraio 2020 Nena News

Giornata ad altissima tensione quella vissuta ieri a confine tra la Striscia di Gaza e, nella notte, in Siria (a sud di Damasco) dove l’aviazione israeliana ha fatto sapere di aver colpito “decine di obiettivi” della fazione palestinese del Jihad Islamico in risposta ai suoi razzi lanciati nel pomeriggio di ieri verso il territorio israeliano.

L’esercito ha riferito di aver colpito nell’area di al-Adleyeh (Damasco) la principale base siriana del Jihad dove si sviluppano razzi. In questa zona, afferma Tel Aviv, avvengono anche le esercitazioni militari dei membri dell’organizzazione palestinese provenienti sia dalla Striscia di Gaza che da Libano e Siria. In un comunicato il Jihad Islamico ha riconosciuto l’uccisione di due suoi combattenti, Salim Salim (24 anni) e Ziad Mansour (23), e ha promesso che si vendicherà.

Israele ha inoltre fatto sapere che ieri pomeriggio il Jihad ha lanciato dalla Striscia di Gaza verso la parte meridionale del suo territorio circa 30 razzi e colpi di mortaio, gran parte dei quali stata intercettata dal sistema difensivo Iron Dome. Il lancio dei razzi era stata una risposta a quanto avvenuto ieri mattina al confine tra Gaza e Israele dove l’esercito ha ammesso di aver ucciso un membro del Jihad mentre “era intento a piantare un esplosivo lungo il confine”. “L’esercito risponderà in modo aggressivo alle attività terroristiche del Jihad islamico che mettono in pericolo i cittadini d’Israele e danneggiano la sua sovranità” si legge in una nota ufficiale dell’esercito. Quanto accaduto ad est di Khan Yunis (a sud della Striscia, assediata da oltre 10 anni dallo stato ebraico) però non può essere ridotto a questo scarno comunicato. In un video che ha fatto ben presto il giro della rete, infatti, si vede chiaramente come un bulldozer dell’esercito trascini e poi sollevi il corpo della vittima, Mohammad Ali al-Naim (27 anni). Una scena orribile che era stata preceduta poco prima dagli spari dei soldati israeliani verso almeno due palestinesi (rimasti feriti) che provavano a recuperare il corpo ormai senza vita di an-Naim.

L’esercito si è difeso: “Abbiamo notato due terroristi avvicinarsi alla barriera di sicurezza e che piazzavano una bomba lì vicino e pertanto i soldati hanno aperto il fuoco verso di loro”. Il Jihad, di cui an-Naim era membro, ha fatto sapere che “il sangue dei martiri non sarà vano”. Duro è stato il commento anche di Hamas che governa la Striscia da oltre 10 anni. Il suo portavoce Fawzi Barhoum ha detto che “il maltrattamento” del cadavere è “un altro odioso crimine che si aggiunge ai tanti orrendi crimini compiuti [da Israele] al popolo palestinese”. Il recupero del corpo senza vita di an-Naim rientra nel piano del ministro della Difesa israeliano Bennet di usare i corpi senza vita dei combattenti palestinesi come pedine di scambio nei negoziati per il rilascio di due israeliani e per riavere indietro i resti di due soldati israeliani che sono tenuti da Hamas. Come segno di vendetta per l’uccisione di an-Naim e per il barbaro trattamento del suo cadavere, il Jihad ha rivendicato gli attacchi di ieri verso il sud d’Israele (il primo lancio di razzi è avvenuto ieri verso le 17:30 ora locale, il secondo verso le 20, qualche altro razzo è stato poi sparato dopo le 21).

Nel pomeriggio della serata di ieri la tensione è salita alle stelle quando l’aviazione di Tel Aviv ha risposto ai razzi del Jihad colpendo più punti della Striscia di Gaza. I militari hanno detto che uno dei target era un sito dove i membri del Jihad si stavano preparando a lanciare razzi verso il territorio israeliano (il ministero della Salute di Gaza parla di 4 feriti nel raid). Secondo Israele, tra gli altri obiettivi colpiti ci sarebbero anche basi militari e depositi di armi del Jihad situati a Beit Lahiya (presa di mira la base di Hittin), Rafah (qui si riportano altri due feriti) e Khan Yunis.

La tensione resta alta al confine tra Gaza e il confine meridionale d’Israele al punto che l’esercito ha ordinato oggi la chiusura delle scuole nelle comunità israeliane vicino alla Striscia e nelle città di Ashkelon, Sderot e Netivot. Vietati anche raduni pubblici. Alla popolazione è permesso andare a lavorare solo se si trovano in prossimità di un rifugio anti-missile.

Gli attacchi di ieri dalla Striscia non hanno provocato feriti (solo qualche leggerissimo danno) perché la maggior parte di loro è stata intercettata dall’Iron Dome o è caduta in aree non abitate. Sirene di emergenza sono suonate diverse volte nell’area vicina al confine o non troppo lontana dalla Striscia. Migliaia di israeliani che vivono nella zona interessata si sono recati nei rifugi.

Il premier israeliano Netanyahu, il ministro della difesa Bennet e diversi membri dei servizi di sicurezza si sono incontrati nel quartier generale dell’esercito a Tel Aviv ieri notte per fare il punto della situazione e per programmare eventualmente un attacco di più ampia portata.

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Aggiungiamo come redazione di Zeitun  da Ruptly  il video del bulldozer che con la benna trascina il corpo del palestinese ucciso.




Nuovo servizio di salute mentale a Gaza: un progetto di controllo psicologico

Samah Jabr

14 febbraio 2020 – Middle East Monitor

In marzo nel nord della Striscia di Gaza, nei pressi del valico di Erez, inizierà ad operare un ospedale da campo costruito dal gruppo di soccorso israeliano “Natan” insieme all’organizzazione evangelica cristiana statunitense “Friend Ships” [Navi Amiche].

Le autorità della Ramallah occupata hanno affermato che il progetto, capeggiato da donatori filo-israeliani, è una copertura per operazioni americane e israeliane di intelligence. Il primo ministro dell’ANP Mohammed Shtayyeh ha accusato l’ospedale di essere funzionale al “piano per la pace” dell’amministrazione Trump; ma sfortunatamente le proteste hanno inteso danneggiare l’immagine pubblica delle autorità di Gaza più che analizzare e spiegare ai palestinesi, comprese le autorità di Gaza, il danno intenzionale di un tale progetto. Come reazione, il portavoce di Hamas, Hazem Qassim, è rimasto sulla difensiva, dicendo a Dunya Al-Watan [portale di notizie]: “Loro (l’Autorità Nazionale Palestinese) confondono quelli (i loro timori) con informazioni immaginarie.”

Ho visto inserzioni per cercare volontari internazionali, compresi professionisti della salute mentale, perché lavorino nel progetto e ho scoperto quanto segue:

Natan”, una “organizzazione umanitaria no-profit” israeliana con sede a Tel Aviv fa parte di questo progetto, che tra le varie cose fornisce cure psicologiche tramite persone con passaporto non israeliano contattate per fornire servizi sanitari a Gaza.

Friend Ships e Natan hanno anche collaborato per fornire cure mediche ai siriani sul lato controllato dalla Siria delle Alture del Golan occupate.

Nella sua inserzione per [la ricerca di] volontari Natan afferma: “Questo nuovo centro di salute può influenzare direttamente la sicurezza israeliana riducendo la minaccia di violenze da Gaza migliorandovi la qualità di vita dei civili.” L’organizzazione utilizza l’usuale linguaggio israeliano per descrivere i palestinesi come una minaccia che deve essere tenuta sotto controllo in ogni modo possibile: niente riguardo alla giustizia, all’occupazione o alla necessità di togliere l’assedio. In questo caso “migliorarvi la qualità di vita dei civili” è una strategia di controllo ed egemonia.

L’inserzione menziona in particolare un membro della direzione di Natan, il maggiore generale Matan Vilnai, ex vice capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, che viene consultato per garantire la sicurezza dei volontari. L’annuncio non cita tuttavia il fatto che quest’uomo è stato imputato di crimini contro l’umanità per il bombardamento di Gaza nel 2009. Né fa riferimento alle sue minacce di genocidio contro i gazawi “che attireranno su di sé una Shoà più grande perché useremo tutta la nostra potenza per difenderci,” utilizzando la parola ebraica normalmente riservata per fare riferimento all’Olocausto ebraico.

L’equipe e i volontari presso il nuovo centro medico entreranno nel campo da Israele e i pazienti del lato palestinese attraverso checkpoint controllati da forze di occupazione israeliane scelte in base ai criteri di Vilnai: altro che umanitarismo!

Le politiche americane sostenute da Israele hanno danneggiato il settore della salute, soprattutto a Gaza. C’è una grave carenza di cure mediche, medicinali e materiale sanitario che nessuno può negare. Apparentemente il settore delle cure mediche sembra un tentativo di mitigare questa situazione premeditata, ma di fatto è un modo per imporre ulteriore controllo e dipendenza per i palestinesi più vulnerabili.

Israele ha fatto accordi con i pazienti palestinesi che sperano di lasciare la Striscia di Gaza per trattamenti sanitari per trasformarli in informatori contro il loro stesso popolo in cambio di permessi di uscita per avere accesso a cure mediche. Ha anche impedito ai genitori di accompagnare i figli molto malati fuori da Gaza, lasciando che i minori morissero da soli negli ospedali di Gerusalemme.

Israele ha imposto un assedio, ha danneggiato infrastrutture e provocato una situazione umanitaria terribile a Gaza, lasciandola nell’assoluta necessità di aiuti e dipendente dagli interventi umanitari dall’estero. Ciò ha reso i governanti di Gaza incapaci di vedere il chiaro danno psicologico e morale di questo progetto, che consente a Israele di lavarsi le mani dopo tutto il sangue che ha versato nella Striscia ed essere sia chi perpetra [crimini] che chi guarisce, in una dinamica del trauma estremamente complessa.

Un centro di salute controllato dall’esercito israeliano è l’antitesi di un luogo sicuro richiesto per cure psicologiche; un terapista volontario che accetti le premesse di un progetto per rafforzare la sicurezza di “Israele” e controllare la “violenza” palestinese non ha la consapevolezza necessaria e l’empatia richiesta per essere un terapeuta per i gazawi; di fatto, e nel migliore dei casi, questo è un progetto per migliorare le pubbliche relazioni a favore di Israele e garantire un’esperienza professionale molto eccitante a volontari in una zona di trauma.

Ovviamente ci sono altri potenziali rischi politici e per la sicurezza nell’utilizzo di questo complesso sanitario: domare la Marcia del Ritorno e far perdere la sincera solidarietà internazionale che invia la Freedom Flottilla con una piccola quantità di aiuti sanitari a Gaza. In un precedente articolo ho affermato che “un rapporto della UN Disengagement Observer Force [Forza di Osservazione del Disimpegno dell’ONU] (UNDOF) ha rivelato che Israele ha collaborato con gruppi jihadisti salafiti nelle Alture del Golan occupate. Questa collaborazione non si è limitata ad offrire aiuto medico ai membri di Jabhat Al-Nusra feriti. Al contrario, ci sono rapporti che descrivono il trasferimento di materiale non specificato da Israele ai siriani, così come incidenti in cui i soldati israeliani hanno lasciato passare siriani che non erano feriti.”

Temo che questo progetto non solo faccia arrivare materiale ed equipaggiamento dal confine siriano a quello di Gaza, ma anche competenze nell’uso del rapporto terapeutico e rapporti medici confidenziali per spiare la popolazione, creare divisioni e reclutare informatori e collaborazionisti.

L’11 novembre 2018 otto agenti israeliani in incognito travestiti da membri di una famiglia palestinese sono entrati a Gaza con l’obiettivo di installarvi impianti di spionaggio nel sistema di comunicazioni private di Hamas. Un’inchiesta ha scoperto che l’unità israeliana utilizzava mezzi di spionaggio e un’attrezzatura per la perforazione entrati a Gaza con la copertura dell’organizzazione umanitaria internazionale Humedica, un ente con sede in Germania che fornisce aiuti a Gaza.

Il responsabile di zona, Joao Santos, con passaporto portoghese, ha abbandonato Gaza il giorno dopo che l’operazione è fallita. Sarebbe un volontario.

In un momento in cui la politica internazionale sta consentendo a Israele di avere il controllo totale su terra e risorse, l’aiuto umanitario viene utilizzato per consentire il controllo delle menti dei palestinesi.

L’aiuto umanitario può essere un mascheramento di intenzioni sadiche e per mantenere la dominazione degli israeliani sui palestinesi. La giusta risposta a tutto ciò sono la promozione dell’autosufficienza palestinese e la fine immediata della separazione tra Gaza e Cisgiordania. I professionisti e i servizi palestinesi della salute mentale in Cisgiordania sono ansiosi di fornire una risposta e di soddisfare le necessità degli abitanti di Gaza appena avremo la libertà di farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché l’Autorità Nazionale Palestinese non è in grado di mobilitare il suo popolo?

Mariam Barghouti

4 febbraio 2020 – Al Jazeera

Per decenni l’ANP ha represso le proteste palestinesi e minato la mobilitazione di massa palestinese.

Con l’annuncio il 28 gennaio dell’ “accordo del secolo” dell’amministrazione Trump, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è entrata in azione. A poche ore dalla cerimonia alla Casa Bianca, durante la quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha divulgato i dettagli del suo piano, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato “mille no all’accordo del secolo”.

L’ANP ha quindi proceduto a rilasciare una serie di minacce, tra cui ancora una volta quella di rompere gli accordi con i corpi di sicurezza israeliani, e un appello a manifestazioni di massa contro l’accordo proposto.

Nonostante tutti i suoi affanni retorici, tuttavia, la leadership palestinese non è riuscita a radunare una forte reazione all’oltraggiosa violazione dei diritti dei palestinesi che è in realtà la proposta di Trump. Non è riuscita nemmeno a mobilitare la propria gente. Perché?

Perché da oltre 20 anni l’ANP ha partecipato attivamente alla repressione del popolo palestinese, mantenendo uno stretto rapporto con le forze di sicurezza israeliane. Il suo atteggiamento, i suoi discorsi e le politiche passate e presenti sono sempre stati diretti non a proteggere i diritti e il benessere del popolo palestinese, ma a mantenere il potere a tutti i costi.

L’ “accordo del secolo” ha smascherato la duplicità dell’ANP e il costo che ha rappresentato per la mobilitazione di massa palestinese.

Reprimere il dissenso palestinese

Dalla sua istituzione nel 1994 a seguito dei disastrosi accordi di Oslo, l’ANP ha fatto poco altro che aiutare Israele a pacificare i palestinesi mentre la loro terra, proprietà e risorse venivano confiscate dai coloni ebrei. Per garantirsi il potere, la leadership palestinese ha portato avanti una stretta cooperazione con Israele, torturando i dissidenti palestinesi e fornendo informazioni sugli attivisti palestinesi.

Ha anche represso violentemente qualsiasi protesta pubblica che minacciasse la sua stretta sul potere o fosse considerata una “minaccia” dagli israeliani. Ha ripetutamente schierato la guardia nazionale, la polizia antisommossa e gli scagnozzi fedeli a Fatah, il partito che controlla l’ANP, per reprimere il dissenso.

La mia prima esperienza con le maniere forti dell’ANP è stata nel 2011, durante una manifestazione in piazza Manara a Ramallah di solidarietà con le rivoluzioni dei vicini Paesi arabi. Centinaia di giovani si sono riuniti pacificamente, scandendo slogan politici, chiedendo l’unità tra Fatah e Hamas contro le regole di Oslo. Nel giro di poche ore siamo stati attaccati, malmenati e arrestati.

Nel 2012, siamo scesi in strada per una protesta contro la prevista visita a Ramallah del vice primo ministro israeliano Shaul Mofaz, un uomo accusato di aver commesso innumerevoli crimini contro i palestinesi, incluso il massacro di Jenin durante la seconda Intifada e l’assassinio di vari leader palestinesi.

Abbiamo considerato il suo incontro con Abbas un altro atto di complicità dell’ANP con il progetto di insediamento coloniale israeliano. Siamo usciti in massa per protestare, ma siamo stati duramente picchiati dalla polizia dell’ANP. Più tardi, l’intelligence dell’ANP ci ha seguiti e assaliti per strada, ha chiamato le nostre famiglie minacciandole. Peggio ancora, siamo stati calunniati dai lealisti dell’ANP sulle piattaforme dei social media come “traditori” che avrebbero lavorato per una “agenda straniera”.

Nel 2018, siamo scesi in strada per manifestare contro la complicità dell’ANP nel blocco israeliano su Gaza, che ormai ha reso la Striscia invivibile. L’ANP aveva tagliato lo stipendio ai dipendenti di Gaza, cancellato i trasferimenti per cure mediche e l’assistenza finanziaria a centinaia di famiglie bisognose. A causa dei loro meschini interessi di parte, due milioni di palestinesi soffrono condizioni di vita insopportabili. La nostra protesta è stata di nuovo brutalmente attaccata, siamo stati picchiati, trascinati per le strade di Ramallah e arrestati mentre cercavamo di farci curare le ferite in ospedale.

Questi sono solo alcuni esempi della campagna sistematica dell’ANP per mettere a tacere e placare i palestinesi in modo da fornire a Israele un “senso di sicurezza”. Questo non vuol dire che Hamas sia un attore senza colpe; anch’esso ha commesso la sua buona parte di repressione contro la popolazione palestinese a Gaza e ha cercato di mettere a tacere le critiche.

Basta leadership palestinese

Oltre a reprimere il dissenso palestinese, la leadership palestinese, sia in Cisgiordania che a Gaza, ha cercato anche di strumentalizzare la mobilitazione di massa per i suoi miopi obiettivi politici.

Ogni volta che c’è la dichiarazione di un organismo internazionale che minacci la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentante del popolo palestinese (e non è stata eletta), assistiamo a una serie di discorsi e dichiarazioni di politici palestinesi che chiamano alla protesta.

L’ANP e le altre fazioni e partiti politici palestinesi considerano la protesta palestinese un’arma che possono usare ogni volta che lo desiderano. Vogliono una mobilitazione di massa solo quando gli fa comodo, non quando è meglio per l’interesse del popolo palestinese.

Il problema è che questo atteggiamento, insieme ad anni di repressione del dissenso e angherie nei confronti della società civile, ha aggiunto un altro livello di repressione – oltre all’occupazione israeliana – lasciando i palestinesi disillusi e danneggiando la loro capacità di mobilitarsi efficacemente per la loro lotta.

Nel corso degli anni, molti hanno smesso di vedere una ragione per scendere in piazza, perché la loro protesta sarebbe stata brutalmente repressa o cooptata da forze politiche che considerano illegittime.

Non c’è da stupirsi quindi se, quando l’ANP ha chiesto la mobilitazione di massa nelle strade contro “l’accordo del secolo”, sono arrivati in pochi. Oggi l’ANP è in grado di mobilitare solo chi è fedele alle sue strutture politiche e al suo braccio armato – Fatah. Per radunare una folla a Ramallah, deve portare in bus le persone da fuori città.

Ormai molti palestinesi hanno perso fiducia nella loro leadership. Molti sanno che le minacce dell’ANP di tagliare i legami con le agenzie di intelligence israeliane sono false. L’ultima volta che l’ha fatto, nel 2017, è venuto poi fuori che il 95% del coordinamento per la sicurezza con Israele era stato mantenuto.

Ma nonostante il fallimento politico e morale dei loro leader, i palestinesi non sono disperati. Continuano la loro lotta per la giustizia, i diritti e la fine dell’occupazione israeliana e dell’apartheid. Continuano a mobilitarsi nonostante i loro leader e la loro complicità con Israele.

Lo spirito della piazza palestinese è vivo, ma non può più essere invocato da forze politiche disoneste. Si manifesterà solo in difesa della legittima lotta del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi non hanno altra scelta: restare e lottare

David Hearst

29 gennaio 2020 – Middle East Eye

Una nuova ondata di lotte deve ora iniziare per ottenere la parità dei diritti in uno Stato che comprenda tutta la Palestina storica

Per anni sulla strada dei piani messianici di Benjamin Netanyahu per stabilire lo Stato di Israele fra il fiume e il mare, c’è stata una trappola per elefanti.

Si tratta del dato demografico secondo il quale, in quello spazio, c’erano più palestinesi che ebrei. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica (CBS) del 2016 forniti alla Commissione di Difesa e Affari Esteri della Knesset israeliana, fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’erano 6,5 milioni di mussulmani e 6,44 milioni di ebrei, anche se quei dati ora sono superati. La commissione si riferiva ai musulmani, non ai palestinesi, escludendo perciò i palestinesi cristiani.

Ciò significa che il piano di annessione di Netanyahu da solo non può funzionare. Le enormi infrastrutture di calcestruzzo con cui Israele ha cosparso di cemento la Cisgiordania che occupa – colonie, muri, strade e tunnel – e lo stato di apartheid imposto, crudele e totale più di quello messo in pratica in Sud Africa, sono tutti palliativi – medicine con cui ridurre il dolore di uno Stato a maggioranza ebrea, senza eliminarne la causa.

Un’altra Nakba

Si può annunciare quante volte si vuole, come ha fatto ieri Donald Trump, che Israele occuperà la valle del Giordano e quindi circa il 30% della Cisgiordania e imporre la legge israeliana sulle colonie, ma senza spostare fisicamente numeri sempre maggiori di palestinesi fuori da uno Stato di Israele ingrandito, poco cambia. L’annessione diventa solo un’altra forma di occupazione.

Perciò al centro della “visione” di pace di Trump e Netanyahu sta un trasferimento di popolazione, in massa, un’altra Nakba o Catastrofe.

Questa è una pace per modo di dire. È il silenzio che si sente nei villaggi palestinesi nel 1948, a Beit Hanoun nel 2014, quando nel nord di Gaza Israele ha bombardato una scuola dell’ONU affollata di centinaia di civili sfollati, uccidendone 15 e ferendone 200, o ad Aleppo est o a Mosul, dopo averle bombardate, una dopo l’altra, fino a ridurle in macerie. È la pace creata dalla totale e completa sconfitta della lotta dei palestinesi per costruire uno Stato sulla propria terra.

Il piano segreto

Per me quindi il centro della visione apocalittica non sta nei discorsi suprematisti di Trump o Netanyahu, in cui entrambi proclamano “missione compiuta”, e la vittoria totale del movimento sionista sui palestinesi. Sta invece in un paragrafo ben sepolto nelle 180 pagine del documento, il documento più dettagliato, si vanta Trump, mai prodotto prima su questo conflitto. Esattamente.

È il paragrafo che dice che lo scambio di terre fatto dagli israeliani potrebbe includere le ” aree popolate e non popolate “. Il documento è preciso sulla popolazione a cui si riferisce, è la popolazione palestinese del 1948 del cosiddetto triangolo settentrionale di Israele – Kafr Qara, Baqa-al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia.

Il documento continua: “La Visione contempla la possibilità, soggetta all’accordo delle parti, che i confini di Israele vengano ridisegnati in modo che le comunità del Triangolo vengano a far parte dello Stato di Palestina. In questo accordo, i diritti civili degli abitanti delle comunità del Triangolo saranno assoggettate alle leggi, ove applicabili, e alle decisioni giudiziarie delle autorità competenti.”

Questa è la parte nascosta ma più pericolosa di questo piano. Il Triangolo ospita circa 350.000 palestinesi, tutti cittadini israeliani, abbarbicati sul confine nord-occidentale della Cisgiordania. Umm al-Fahm, la città principale, ha dato i natali ad alcuni dei più attivi difensori di Al Aqsa.

Yousef Jabareen, un membro della Knesset della Lista Araba Unita [formata da partiti arabi di Israele e terza forza nel parlamento israeliano, ndtr.] mi ha detto: “Umm al-Fahm è la mia città, Wadi Ara è la mia anima. Il Triangolo è la patria di centinaia di migliaia di cittadini arabo-palestinese che vivono sulla propria terra. Il programma di annessione e trasferimento di Trump e Netanyahu ci strappa dalla nostra patria e revoca la nostra cittadinanza; un danno esistenziale a tutti i cittadini della minoranza araba. Ora è il momento per gli ebrei e gli arabi che hanno a cuore democrazia e uguaglianza di schierarsi e lavorare insieme contro questo pericoloso piano.” 

‘Pulizia etnica’ ufficiale

Per anni i leader israeliani di centro o di destra hanno giocherellato con il “trasferimento statico” di queste popolazioni fuori da Israele. All’idea di uno scambio di popolazione e territori avevano alluso gli ex primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma è stato solo Avigdor Lieberman ad aver sposato la causa dell’espulsione dei palestinesi. 

Egli propugna di privare un numero ipotetico di 350.000 palestinesi del Triangolo della loro cittadinanza israeliana e costringere l’altro 20% della popolazione israeliana non ebrea a fare un “giuramento di lealtà” a Israele quale ” Stato Sionista Ebraico ” o affrontare l’espulsione in uno Stato palestinese.

Due anni fa Netanyahu aveva suggerito a Trump che Israele avrebbe dovuto liberarsi del Triangolo. Oggi questi piani di pulizia etnica sono stati suggellati in un documento ufficiale della Casa Bianca. 

Ayman Odeh, un membro palestinese della Knesset, ha twittato che l’annuncio di Trump dà “il semaforo verde alla revoca della cittadinanza a centinaia di migliaia di cittadini arabo- palestinesi che vivono nel nord di Israele”.

Sostegno a Trump

L’altro aspetto notevole dell’annuncio di martedì alla Casa Bianca è stata la presenza nell’uditorio degli ambasciatori degli Emirati, Bahrain e Oman. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno accolto il piano senza riserve. Anche il Qatar lo ha fatto, sebbene abbia aggiunto che lo Stato palestinese dovrebbe essere negoziato con i confini del 1967 e i palestinesi dovrebbero mantenere il diritto al ritorno.

Trump ha detto di essere stato stupito dal numero di chiamate che ha ricevuto dai leader di tutto il mondo a sostegno del suo piano, incluso il Primo Ministro britannico, Boris Johnson.

Buttando al vento quattro decenni di politica estera britannica sulla soluzione dei due Stati, Johnson ha sostenuto il piano di Trump con tutto il peso del Regno Unito. Anche il ministro degli esteri Dominic Raab ha dato appoggio all’accordo “chiaramente una proposta seria che riflette i grandi sforzi e il lungo tempo richiesto.” ha detto.

“Non riesco a credere alle dimensioni del sostegno ricevuto stamattina.” si è vantato Trump. “Mi hanno chiamato dei leader, Boris [Johnson] ha chiamato; così tanti hanno chiamato. Tutti mi dicono ‘cosa possiamo fare per aiutare’”.

Ci sono alcuni comunque che si sono resi conto del pericolo di questo piano. Il Senatore Chris Murphy è uno di loro. Ha twittato: “L’annessione unilaterale della valle del fiume Giordano e delle colonie esistenti, dichiarata illegale dalle leggi USA e internazionali, riporta indietro di decenni il processo di pace. E pone un rischio reale di violenze e un’enorme destabilizzazione in luoghi come la Giordania.”

 A casa da soli

Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata storica della dichiarazione appena fatta. La soluzione dei due Stati o l’idea che uno Stato palestinese contiguo sia attuabile e possa essere creato a fianco di uno Stato a maggioranza ebraica è morta. Ed era morta ben prima degli accordi di Oslo. 

Ai sostenitori arabi come il re di Giordania Hussein venne detto sia dai sovietici, Yevgeny Primakov, che da James Baker, l’allora Segretario di Stato, che non si sarebbe mai ottenuto uno Stato palestinese indipendente. E questo ben prima della conferenza di Madrid che precedette Oslo. Il re non aveva bisogno di presenziare al funerale del suo amico Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, per rendersene conto. Lo sapeva già. Ma adesso è veramente morto. 

Gli USA ora hanno dato il loro imprimatur ufficiale ai confini orientali dello Stato di Israele. La mappa (vedi map Middle East Eye published) dice tutto. Lo Stato palestinese immaginato dal piano sembra la TAC del cervello di una vittima dell’Alzheimer. Lo Stato palestinese è interamente divorato.

Il messaggio di questa mappa per i palestinesi di qualsiasi fazione è ora totalmente chiaro. Dimenticate le vostre divisioni, dimenticate cosa è successo tra Fatah e Hamas a Gaza nel 2007, accantonate pretese di colpi di stato e unitevi. Unitevi contro una minaccia esistenziale.

I palestinesi sono completamente soli. Tutti i punti fermi delle loro posizioni di negoziazione sono spariti. Non hanno Gerusalemme, niente diritto al ritorno, nessun rifugiato può ritornare, niente Alture di Golan e ora niente Valle del Giordano. Non hanno alleati arabi. La Siria è distrutta, l’Iraq diviso, Egitto e Arabia Saudita sono ora fantocci nelle mani di Israele. I palestinesi hanno perso il supporto della più popolosa e ricca Nazione araba.

Non hanno un posto dove fuggire. L’Europa è chiusa per ogni futura migrazione di massa. Hanno una sola alternativa: restare e lottare. Uniti possono annullare i piani israeliani suprematisti di pulizia etnica. L’hanno fatto in precedenza e lo possono fare di nuovo.

Una nuova lotta

Ora i palestinesi devono far fronte a questa situazione. Il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP nel 1993 è finalmente arrivato a fine corsa, come si poteva immaginare. Le leggi USA e internazionali e le risoluzioni ONU non sarebbero mai venute in loro soccorso e, ma solo in questo senso, il brutale piano di Trump ha fatto un favore ai palestinesi. Ha fugato fantasie durate decenni.

Quella che deve cominciare ora è una nuova ondata di lotte per l’uguaglianza dei diritti in uno Stato su tutto il territorio della Palestina storica. Questo comporterà una lotta enorme. Nessuno dovrebbe sottostimare cosa succederà se i palestinesi insorgeranno ancora una volta. Ma nessuno dovrebbe aver alcun dubbio sulle conseguenze dell’accettazione.

Questa è la prima volta dal 1948 che tutti i palestinesi possono unirsi per farlo. Devono cogliere questa opportunità o scomparire e diventare una nota a piè pagina della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le opinioni editoriali di Middle East Eye.




L’“accordo del secolo” di Trump non porterà la pace, e quello era previsto

Jonathan Cook

29 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Buona parte dell’“accordo del secolo” di Trump a lungo rinviato non è stata una sorpresa. Nel corso degli ultimi 18 mesi fonti ufficiali israeliane hanno fatto filtrare molti dei suoi dettagli..

La cosiddetta “visione per la pace” svelata martedì ha semplicemente confermato che il governo USA ha pubblicamente adottato ciò che da molto tempo è accettato da tutti in Israele: che quest’ultimo ha il diritto di tenersi per sempre le aree di territorio che ha illegalmente sottratto nel corso degli ultimi 50 anni negando ai palestinesi una qualunque speranza di avere uno Stato.

La Casa Bianca ha scartato la tradizionale posizione USA come “mediatore neutrale” tra Israele e i palestinesi. I dirigenti palestinesi non sono stati invitati alla cerimonia e non ci sarebbero andati se lo fossero stati. Questo è un accordo concepito più a Tel Aviv che a Washington – e il suo obiettivo era di garantire che non ci sarebbe stata nessuna controparte palestinese.

Cosa più importante per Israele, esso avrà il permesso di Washington per annettersi tutte le colonie illegali, ora disseminate in tutta la Cisgiordania, così come la vasta area agricola della Valle del Giordano. Israele continuerà ad avere il controllo militare su tutta la Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di portare il prima possibile davanti al suo governo un simile piano di annessione. Ciò rappresenterà senza dubbio l’asse centrale del suo tentativo di vincere le elezioni politiche molto incerte previste per il 2 marzo.

L’accordo di Trump approva anche la già esistente annessione di Gerusalemme est a Israele. Prevede che i palestinesi facciano finta che la loro capitale sia un villaggio della Cisgiordania fuori città, chiamando “Al Quds” [Gerusalemme in arabo, ndtr.] la loro capitale. Ci sono indicazioni con effetti fortemente provocatori che ad Israele sarà consentito di dividere il complesso della moschea di Al Aqsa per creare una zona di preghiera per ebrei estremisti, come è avvenuto ad Hebron.

Oltretutto sembra che l’amministrazione Trump stia prendendo in considerazione l’approvazione delle speranze di lunga data della destra israeliana di ridefinire gli attuali confini in modo tale da trasferire potenzialmente in Cisgiordania centinaia di migliaia di palestinesi che attualmente sono cittadini di Israele. Ciò rappresenterebbe quasi sicuramente un crimine di guerra.

Il piano non prevede nessun diritto al ritorno e sembra che il mondo arabo dovrebbe pagare il conto per indennizzare milioni di rifugiati palestinesi.

Una mappa USA distribuita martedì mostra enclave palestinesi collegate da un labirinto di ponti e tunnel, compreso uno tra la Cisgiordania e Gaza. L’unico incentivo concesso ai palestinesi sono le promesse USA di rafforzare la loro economia. Date le difficili condizioni finanziarie dei palestinesi dopo decenni di furto di risorse da parte di Israele, questa non è molto più di una promessa.

Tutto ciò è stato mascherato da “realistica soluzione dei due Stati”, che offre ai palestinesi circa il 70% dei territori occupati, che a loro volta rappresentano il 22% della loro patria originaria. Detto in altro modo, ai palestinesi viene richiesto di accettare uno Stato sul 15% della Palestina storica, dopo che Israele si è impossessato di tutte le migliori terre agricole e risorse idriche.

Come tutti gli accordi prendere o lasciare, questo “Stato” rappezzato, senza un esercito e in cui Israele controllerebbe la sicurezza, i confini, le acque territoriali e lo spazio aereo, ha una scadenza. Deve essere accettato entro quattro anni. In caso contrario Israele avrà la mano libera per iniziare a depredare ancora più territorio. Ma la verità è che né Israele né gli USA si aspettano o vogliono che i palestinesi collaborino.

Per questo il piano include, oltre all’annessione delle colonie, una miriade di precondizioni irrealizzabili prima che ciò che rimane della Palestina venga riconosciuto: le fazioni palestinesi devono deporre le armi, ed Hamas si deve sciogliere; l’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, deve elimnare i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici; i territori palestinesi devono essere reinventati come una Svizzera del Medio Oriente, una fiorente democrazia e una società aperta, tutto ciò sotto il dominio israeliano.

Al contrario il piano Trump pone fine alla farsa per cui il processo di Oslo, durato 26 anni, ha avuto come obiettivo nient’altro che la resa dei palestinesi. Gli Usa si allineano totalmente con i tentativi di Israele, perseguiti per molti decenni da tutti i suoi principali partiti, di porre le basi per un’apartheid permanente nei territori occupati.

Trump ha invitato per la presentazione sia Netanyahu, il primo ministro israeliano ad interim, che il suo principale avversario politico, l’ex-generale Benny Gantz. Entrambi erano ansiosi di esprimere il proprio appoggio incondizionato.

Tutti e due insieme rappresentano i 4/5 del parlamento israeliano. Il principale campo di scontro delle elezioni di marzo sarà chi dei due potrà sostenere di essere più in grado di mettere in atto il piano e quindi sferrare un colpo mortale ai sogni palestinesi di avere uno Stato.

Nella destra israeliana ci sono state manifestazioni di dissenso. Gruppi di coloni hanno descritto il piano come “lungi dall’essere perfetto”, un’opinione quasi sicuramente condivisa in privato da Netanyahu. L’estrema destra israeliana è contraria a qualunque discorso riguardo alla costituzione di uno Stato palestinese, per quanto illusorio.

Ciononostante Netanyahu e la sua coalizione di destra sarà ben contenta di cogliere i benefici offerti dall’amministrazione Trump. Nel contempo l’inevitabile rifiuto del piano da parte della dirigenza palestinese servirà d’ora in avanti come giustificazione per il furto da parte di Israele di altra terra. Ci sono altri, più immediati vantaggi dell’“accordo del secolo”.

Consentendo a Israele di raccogliere illeciti vantaggi dalla conquista nel 1967 dei territori palestinesi, Washington ha ufficialmente appoggiato una delle più grandi aggressioni coloniali dell’epoca contemporanea. L’amministrazione USA ha di conseguenza dichiarato una guerra aperta ai già deboli limiti imposti dalle leggi internazionali.

Anche Trump ne beneficia di persona. Ciò fornirà un diversivo dalle udienze per il suo impeachment così come una consistente offerta per corrompere, durante la corsa alle elezioni presidenziali, la sua base evangelica ossessionata da Israele e importanti finanziatori, come il magnate USA dei casinò Sheldon Adelson.

E il presidente USA è corso in aiuto a un utile alleato politico. Netanyahu spera che questo sostegno da parte della Casa Bianca possa promuovere la sua coalizione ultra-nazionalista al potere in marzo e intimidire i tribunali israeliani quando prenderanno in considerazione le accuse penali contro di lui.

Martedì è risultato evidente quanto egli preveda di ricavare un vantaggio personale dal piano di Trump. Ha rimproverato la procura generale di Israele per aver presentato le accuse di corruzione, sostenendo che è stato messo a repentaglio un “momento storico” per lo Stato di Israele.

Nel contempo Abbas ha accolto il piano con “un migliaio di no”. Trump lo ha messo totalmente in pericolo. O l’ANP abbandona il suo ruolo di subappaltante della sicurezza a favore di Israele e si scioglie, o continua come prima ma privato ora esplicitamente dell’illusione che si possa perseguire la sua trasformazione in uno Stato.

Abbas cercherà di resistere con le unghie e con i denti, sperando che Trump in questo anno di elezioni venga spodestato e che una nuova amministrazione USA ritorni alla finzione di far avanzare il processo di pace di Oslo ormai da molto tempo arrivato a scadenza. Ma se Trump vince le difficoltà aumenteranno rapidamente.

Nessuno, ancora meno l’amministrazione Trump, crede che questo piano porterà alla pace. Una preoccupazione più realistica è con quale rapidità preparerà la strada per uno spargimento di sangue ancora più grande.

– Jonathan Cook ha vinto il premio speciale di giornalismo “Martha Gellhorn”. Tra i suoi libri “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sparisce: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Trump rivela il suo piano per il Medio Oriente, rifiutato dai palestinesi

Al Jazeera

28 gennaio 2020 Al Jazeera

I palestinesi respingono la proposta di Trump in Medio Oriente, definendola una “cospirazione” che “non passerà”.

Dopo molti rinvii, martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esposto il suo piano per il Medio Oriente – una proposta che i leader palestinesi hanno definito una “cospirazione” che “non passerà”.

“Oggi Israele ha fatto un passo da gigante verso la pace”, ha dichiarato Trump con a fianco il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Il mio progetto presenta una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti”, ha affermato, aggiungendo che i leader israeliani hanno dichiarato che avrebbero appoggiato la proposta.

Prima che fosse annunciata, i palestinesi l’avevano dichiarata già morta, dicendo che si tratta di un tentativo di “liquidare” la causa palestinese.

In seguito all’annuncio di Trump, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato i suoi “mille no” al piano.

Nel frattempo, Netanyahu ha detto trattarsi di un “giorno storico” e ha ringraziato Trump per la sua proposta. Ha detto che se i palestinesi accettano il piano, Israele sarà disposto a negoziare “subito”.

Gerusalemme “capitale indivisa”

L’iniziativa di Trump, il cui autore principale è suo genero Jared Kushner, segue una lunga serie di sforzi per risolvere uno dei problemi più irresolubili del mondo. I colloqui di pace israelo-palestinesi sono falliti nel 2014.

I palestinesi si sono rifiutati di confrontarsi con l’amministrazione Trump e hanno condannato la prima fase della proposta – un piano di risanamento economico di 50 miliardi di dollari annunciato lo scorso giugno.

Il piano politico di 50 pagine riconosce la sovranità israeliana sui principali gruppi di colonie illegali nella Cisgiordania occupata, a cui quasi sicuramente i palestinesi si opporranno. Trump ha dichiarato che a Israele verrà concesso il controllo di sicurezza della Valle del Giordano nella Cisgiordania occupata.

Trump ha detto che Gerusalemme resterà “capitale indivisa” di Israele. Ma ha anche detto che, secondo il piano, “Gerusalemme est” sarebbe la capitale di uno Stato di Palestina. Non ha approfondito cosa intendesse per Gerusalemme est. In seguito ha dichiarato su Twitter che una capitale palestinese potrebbe essere da qualche parte a “Gerusalemme est”.

Trump aveva già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, trasferendovi l’ambasciata americana da Tel Aviv.

In replica al piano, Abbas ha dichiarato: “Gerusalemme non è in vendita; tutti i nostri diritti non sono in vendita e non sono un affare”.

Sami Abu Zhuri, funzionario di Hamas [portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza], ha affermato che la dichiarazione di Trump è “un’aggressione e scatenerà molta rabbia”.

“La dichiarazione di Trump su Gerusalemme è una sciocchezza e Gerusalemme sarà sempre terra dei palestinesi”, ha detto Zhuri all’agenzia di stampa Reuters . “I palestinesi si opporranno a questo accordo e Gerusalemme rimarrà terra palestinese”.

Martedì scorso, migliaia di palestinesi hanno manifestato nella Striscia di Gaza assediata per protestare contro l’atteso piano. Ci sono state proteste anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Marwan Bishara, capo analista politico di Al Jazeera, ha affermato che “In questo caso il diavolo non è nei dettagli “.

“Il diavolo è nei titoli”, ha detto Bishara. “Ciò che abbiamo qui è un riconfezionamento – ingegnoso, molto intelligente e diabolico – dei problemi cronici di Israele e in Palestina per promuoverli come soluzioni”.

Conseguenze pericolose”

La maggior parte dei leader della regione ha stracciato il piano, ma altri hanno prudentemente incoraggiato israeliani e palestinesi a sedersi al tavolo dei negoziati.

La Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi” con l’allarme del ministro degli esteri del regno per le “pericolose conseguenze di misure israeliane unilaterali che mirano a imporre nuove realtà sul terreno “.

Anche Numan Kurtulmus, vicepresidente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AK) al potere in Turchia, ha rigettato le dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, dicendo: “No, Trump! Gerusalemme è capitale dello Stato palestinese e cuore del mondo islamico!”

Secondo Al Manar TV, il movimento libanese Hezbollah ha definito la proposta “l’accordo della vergogna”, aggiungendo che si tratta di un passo molto pericoloso che avrebbe conseguenze negative sul futuro della regione,.

Ha dichiarato anche che non ci sarebbe stata questa proposta senza “complicità e tradimento” da parte di diversi stati arabi.

L’Egitto ha esortato israeliani e palestinesi a “studiare attentamente” la proposta. Il ministero degli Esteri ha affermato in una dichiarazione che il piano favorisce una soluzione che ripristina tutti i “diritti legittimi” del popolo palestinese attraverso la creazione di uno “Stato indipendente e sovrano sui territori palestinesi occupati”.

L’ambasciatore in USA degli Emirati Arabi Uniti ha dichiarato che gli Emirati Arabi Uniti credono che palestinesi e israeliani possano raggiungere una pace duratura e un’autentica convivenza con il sostegno della comunità internazionale.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato di essere impegnate ad aiutare israeliani e palestinesi a discutere la pace sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, degli accordi bilaterali e della visione di due Stati basati sui confini pre-1967. Una di queste risoluzioni delle Nazioni Unite è stata adottata dal Consiglio di sicurezza un mese prima dell’entrata in carica di Trump nel gennaio 2017. La risoluzione chiede la fine delle colonie israeliane, con 14 voti a favore e l’astensione dell’amministrazione dell’ex presidente americano Barack Obama.

Mediatore onesto?

I palestinesi avevano precedentemente affermato che gli Stati Uniti non possono essere un onesto mediatore per la pace nella regione, accusandoli di pendere a favore di Israele.

Oltre a spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, l’amministrazione Trump ha anche tagliato centinaia di milioni di dollari in aiuti umanitari ai palestinesi e riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate da Israele.

A novembre, con l’annuncio del segretario di Stato Mike Pompeo, che Washington non considerava più gli insediamenti israeliani sulle terre occupate della Cisgiordania come incompatibili con il diritto internazionale, l’amministrazione Trump ha ribaltato decenni di politica americana.

Kushner ha detto ad Al Jazeera che gli Stati Uniti credono che la proposta di Trump sia “l’ultima possibilità per i palestinesi di avere uno Stato”.

“È tempo [per i palestinesi] di lasciar andare le vecchie fiabe che a dirlo chiaramente non si realizzeranno mai”, ha aggiunto.

La proposta giunge proprio quando Trump e Netanyahu si trovano ad affrontare problemi politici in patria.

Trump ha ricevuto l’impeachment alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti il mese scorso ed è sotto processo al Senato per abuso di potere. Anche lui dovrà affrontare la rielezione a novembre. Netanyahu è accusato di corruzione e le elezioni nazionali saranno il 2 marzo, la sua terza volta in meno di un anno. Entrambi negano di aver commesso un illecito.

Il rivale elettorale di Netanyahu, Benny Gantz, anche lui a Washington questa settimana, ha affermato di aver lui pure appoggiato la proposta.

“Il piano di pace del presidente è una pietra miliare significativa e storica”, ha detto Gantz ai giornalisti lunedì.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)