Un generale israeliano conferma che i cecchini hanno l’ordine di sparare ai bambini

Ali Abunimah

22 aprile 2018, electronicintifada

Un generale israeliano ha confermato che quando i cecchini stazionati lungo il confine di Israele con Gaza sparano ai bambini, lo fanno deliberatamente, con ordini chiari e specifici.

In un’intervista radiofonica, il generale di brigata (di riserva) Zvika Fogel descrive come un cecchino identifichi il “piccolo corpo” di un bambino e riceva l’autorizzazione a sparare.

Le dichiarazioni di Fogel potrebbero essere utilizzate come prova della premeditazione se i leader israeliani saranno mai processati per crimini di guerra alla Corte Penale Internazionale.

Venerdì un cecchino israeliano ha ucciso il quattordicenne Muhammad Ibrahim Ayyoub.

Il ragazzo, colpito alla testa a est di Jabaliya, è il quarto minore tra gli oltre 30 palestinesi uccisi durante le manifestazioni della Grande Marcia di Ritorno iniziate a Gaza il 30 marzo.

Più di 1.600 altri palestinesi sono stati colpiti con veri proiettili che hanno causato ciò che i dottori definiscono “orribili ferite”, che probabilmente lasceranno molti di loro con disabilità permanenti.

Come hanno confermato testimoni oculari e video, quando è stato ucciso il piccolo Muhammad Ayyoub non rappresentava alcun possibile pericolo per le forze di occupazione israeliane. pesantemente armate, collocate a decine di metri dietro le recinzioni e le fortificazioni di terra dall’altra parte del confine di Gaza.

Persino il solitamente timido inviato ONU del processo di pace, Nickolay Mladenov, ha dichiarato pubblicamente che l’uccisione è stata “vergognosa”.

Mirare ai bambini

Sabato, il generale di brigata Fogel è stato intervistato da Ron Nesiel sulla rete radio nazionale israeliana Kan.

Fogel è l’ex capo di stato maggiore del “comando meridionale” dell’esercito israeliano, che comprende la Striscia di Gaza occupata.

Ahmad Tibi, un parlamentare palestinese nel parlamento israeliano, ha in un tweet attirato l’attenzione sull’intervista.

Una registrazione dell’intervista è online. L’intervista è stata tradotta per The Electronic Intifada da Dena Shunra e la trascrizione completa segue questo articolo.

Il conduttore Ron Nesiel chiede a Fogel se l’esercito israeliano non debba “ripensare all’uso dei cecchini” e suggerisce che chi impartisce gli ordini “abbia abbassato l’asticella nell’utilizzo delle pallottole vere”.

Fogel difende a spada tratta tali metodi, affermando: “A livello tattico, qualsiasi persona si avvicini alla barriera, chiunque possa rappresentare una futura minaccia al confine dello Stato di Israele e dei suoi residenti, deve pagare il prezzo della sua trasgressione. ”

E aggiunge: “Se un bambino o chiunque altro si avvicina alla recinzione per nascondervi un ordigno esplosivo o per controllare se ci siano zone senza copertura o per tagliare la recinzione in modo che qualcuno possa infiltrarsi nel territorio dello Stato di Israele per ucciderci …”

Quindi viene punito con la morte?” interviene Nesiel.

“Viene punito con la morte”, risponde il generale. “Per quanto mi riguarda, sì, se puoi sparargli alle gambe o a un braccio solo per fermarlo – benissimo. Ma se è qualcosa di più allora sì, andiamo a vedere quale sangue è più importante, il nostro o il loro.

Fogel descrive quindi l’accurato processo con cui gli obiettivi – compresi i bambini – vengono identificati e uccisi:

“So come vengono dati questi ordini. So come fa un cecchino a sparare. So di quante autorizzazioni ha bisogno prima di ricevere l’ordine di aprire il fuoco. Non è il capriccio di un cecchino qualsiasi che identifica il piccolo corpo di un bambino e decide che sparerà. Qualcuno gli indica molto bene l’obiettivo e gli dice esattamente perché deve sparare e perché quell’individuo rappresenti una minaccia. E purtroppo, a volte quando spari a un corpicino con l’intenzione di colpire un braccio o la spalla, finisci col colpire più in alto.

Per dire “finisce più in alto”, Fogel usa un’espressione idiomatica ebraica che significa anche “costa anche di più”.

Con questa agghiacciante affermazione, in cui un generale parla di cecchini che prendono di mira il “piccolo corpo di un bambino”, Fogel dice inequivocabilmente che questa politica è deliberata e premeditata.

Presentando dei bambini palestinesi disarmati come pericolosi terroristi che meritano la morte, Fogel descrive i cecchini che li uccidono a sangue freddo come la parte innocente e vulnerabile che merita protezione.

“Ci sono i soldati lì, i nostri ragazzi, che sono stati mandati lì e ricevono istruzioni molto accurate su chi uccidere per proteggerci. Dobbiamo sostenerli”, dice.

Politica letale

Le dichiarazioni di Fogel non sono un’aberrazione ma rappresentano la politica israeliana.

“I funzionari israeliani hanno detto chiaramente che le norme sull’aprire il fuoco permettono di sparare per uccidere chiunque tenti di danneggiare la recinzione, e persino chi si avvicini a 300 metri”, ha affermato il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem in una recente analisi dell’illegale metodo israeliano di prendere di mira civili disarmati che non rappresentano alcuna minaccia.

“Ciononostante, tutti i funzionari statali e militari si sono fermamente rifiutati di cancellare quegli ordini illegali e continuano a promulgarli – e a giustificarli”, aggiunge B’Tselem.

B’Tselem ha invitato i singoli soldati a opporsi a questi ordini illegali.

In seguito all’inchiesta sulle uccisioni “pianificate” di manifestanti disarmati il 30 marzo, primo giorno delle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno a Gaza, Human Rights Watch ha concluso che la repressione letale era stata “programmata ai più alti livelli del governo israeliano “.

Due settimane fa, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale ha rilasciato un avvertimento senza precedenti ai leader israeliani, che potrebbero essere processati per le uccisioni di manifestanti palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza.

I potenziali imputati starebbero facendo un gran regalo a qualsiasi pubblico ministero con l’aperta ammissione che uccidere in un territorio occupato persone disarmate che non rappresentano una minaccia oggettiva costituisca la loro politica e le loro intenzioni.

Resta da chiedersi se qualcosa possa finalmente infrangere lo scudo di impunità di cui Israele ha goduto per 70 anni.

(Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestina, recentemente pubblicato da Haymarket Books. Ha anche scritto One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse)

Trascrizione integrale dell’intervista

Il Generale di Brigata (di riserva) Zvika Fogel intervistato sul programma Yoman Hashevua della radio israeliana Kan, il 21 aprile 2018.

Ron Nesiel: Buongiorno al Generale di Brigata (di riserva) Zvika Fogel. L’esercito israeliano non dovrebbe riconsiderare l’uso dei cecchini? C’è l’impressione che qualcuno abbia abbassato l’asticella per l’uso di pallottole vere e questo potrebbe essere il risultato?

Zvika Fogel: Ron, proviamo a considerare questo problema su tre livelli. A livello tattico, che piace a tutti, il livello locale, e anche a livello dei valori, e se credi, arriveremo anche al livello strategico. A livello tattico, qualsiasi persona si avvicini alla barriera, chiunque possa rappresentare una futura minaccia al confine dello Stato di Israele e dei suoi residenti, deve pagare il prezzo della sua trasgressione. Se un bambino o chiunque altro si avvicina alla recinzione per nascondervi un ordigno esplosivo o per controllare se ci siano zone senza copertura o per tagliare la recinzione in modo che qualcuno possa infiltrarsi nel territorio dello Stato di Israele per ucciderci …

Nesiel: Quindi viene punito con la morte?.

Fogel: Viene punito con la morte. Per quanto mi riguarda, sì, se puoi sparargli alle gambe o a un braccio solo per fermarlo – benissimo. Ma se è qualcosa di più allora sì, andiamo a vedere quale sangue è più importante, il nostro o il loro. È chiaro che se una persona del genere riuscisse ad attraversare la recinzione o a nascondervi un ordigno esplosivo …

Nesiel: Ma ci è stato detto che il fuoco è usato solo quando i soldati si confrontano con un pericolo immediato.

Fogel: Dai, passiamo al livello dei valori. Supponiamo di aver compreso il livello tattico, poiché non possiamo tollerare un attraversamento del nostro confine o una violazione del nostro confine, saliamo al livello dei valori. Io non sono Ahmad Tibi [politico israeliano arabo-musulmano leader del Movimento Arabo per il Cambiamento, un partito arabo nel parlamento israeliano, ndtr.] sono Zvika Fogel. So come vengono dati questi ordini. So come fa un cecchino a sparare. So di quante autorizzazioni ha bisogno prima di ricevere l’ordine di aprire il fuoco. Non è il capriccio di un cecchino qualsiasi che identifica il piccolo corpo di un bambino e decide che sparerà. Qualcuno gli indica molto bene l’obiettivo e gli dice esattamente perché deve sparare e perché quell’individuo rappresenti una minaccia. E purtroppo, a volte quando spari a un corpicino con l’intenzione di colpire un braccio o la spalla, finisci col colpire più in alto. Non è una bella immagine. Ma se questo è il prezzo che dobbiamo pagare per preservare la sicurezza e la qualità della vita dei residenti nello Stato di Israele, allora questo è il prezzo. Ma ora, se permetti, saliamo di livello e consideriamo il quadro generale. Ti è chiaro che al momento Hamas sta combattendo con consapevolezza. È chiaro a te e a me…

Nesiel: Non è dura per loro? Non gli stiamo fornendo abbastanza argomenti per questa battaglia?

Fogel: Glieli stiamo fornendo ma…

Nesiel: Perché non ci fanno molto bene, quelle immagini diffuse in tutto il mondo.

Fogel: Senti, Ron, siamo persino peggio di così. Non c’è niente da fare, David appare sempre migliore contro Golia. E in questo caso, noi siamo Golia. Non David. Questo mi è del tutto chiaro. Ma consideriamo la cosa al livello strategico: tu ed io e buona parte degli ascoltatori sappiamo perfettamente che questo non finirà con le dimostrazioni. È chiaro a tutti noi che Hamas non può continuare a tollerare il fatto che i suoi missili non riescano a ferirci, i suoi tunnel stanno intaccando …

Nesiel: Sì.

Fogel: E non ha un mucchio di suicidi con l’esplosivo che continuano a credere alla favola delle vergini che li aspettano lassù? Ci trascinerà in una guerra. Non voglio essere dalla parte che viene trascinata. Voglio essere dalla parte che prende l’iniziativa. Non voglio aspettare il momento in cui troverà un punto debole e mi attaccherà. Se domani mattina entrerà in una base militare o in un kibbutz e ucciderà delle persone e prenderà prigionieri di guerra o ostaggi, chiamali come vuoi, ci troveremmo in una sceneggiatura completamente nuova. Voglio che i leader di Hamas si sveglino domattina e vedano per l’ultima volta nella loro vita i volti sorridenti dell’IDF. Questo è quello che voglio far succedere. Ma siamo trascinati [in un’altra scena]. Quindi stiamo usando i cecchini perché vogliamo preservare i valori a cui siamo stati educati. Non possiamo sempre scattare una sola foto e metterla davanti al mondo intero. Ci sono i soldati lì, i nostri ragazzi, che sono stati mandati lì e ricevono istruzioni molto accurate su chi uccidere per proteggerci. Dobbiamo sostenerli.

Nesiel: Generale di Brigata (di riserva) Zvika Fogel, ex capo del comando militare meridionale, grazie per le tue parole.

Fogel: Che tu possa sentire solo buone notizie. Grazie.

(traduzione di Luciana Galliano)

 




Nuove prove di crimini di guerra a Gaza inviate alla CPI

Ali Abunimah

30 aprile 2018, Electronic Intifada

Secondo Tareq Zaqoot, un ricercatore del gruppo per i diritti umani “Al-Haq”, almeno 28 palestinesi hanno perso un arto inferiore in conseguenza del fatto che cecchini israeliani hanno sparato contro i partecipanti alle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” nei pressi della frontiera di Gaza con Israele.

Zaqoot, che si trova a Gaza, e la sua collega Rania Muhareb nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, hanno raccontato a “the Real News” [sito nordamericano indipendente di notizie, ndt.] come stiano documentando i crimini israeliani per ottenere giustizia a favore delle vittime.

Muhareb ha rivelato che “Al-Haq”, insieme al “Centro Palestinese per i Diritti Umani” e ad “Al Mezan”, ha già “presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale in cui indica i nomi delle vittime e delle uccisioni perpetrate dalle forze di occupazione israeliane dal 30 marzo.”

Non solo abbiamo specificato i nomi degli uccisi, abbiamo anche evidenziato l’intenzione di uccidere e di sparare per uccidere manifestanti palestinesi, il che rappresenta un crimine di guerra di omicidio premeditato,” ha aggiunto Muhareb.

Muhareb cita come esempio di tali prove la recente intervista tradotta da “Electronic Intifada” in cui il generale israeliano Zvika Fogel spiega l’accurato processo attraverso il quale i cecchini ricevono l’autorizzazione di sparare al “piccolo corpo” di un bambino.

Questi gruppi per i diritti umani avevano consegnato in precedenza dei dossier di prove alla CPI in cui documentavano crimini contro palestinesi nella Cisgiordania occupata e durante i precedenti attacchi israeliani contro Gaza.

All’inizio di questo mese il procuratore generale della CPI ha emanato un avvertimento pubblico senza precedenti, secondo cui i dirigenti israeliani potrebbero dover affrontare un processo per la violenza contro civili palestinesi disarmati a Gaza. Nelle ultime due settimane durante le proteste lungo il confine le forze di occupazione israeliane hanno ucciso almeno 39 palestinesi, compresi cinque minori e due giornalisti.

I manifestanti chiedono la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi ed esclusi dalle loro terre in Israele perché non sono ebrei.

Si ha notizia che domenica altri tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione in seguito ad incidenti in cui secondo l’esercito israeliano i palestinesi avrebbero cercato di aprire una breccia nella barriera di confine con Gaza.

Parvenza di legalità

Lunedì l’Alta Corte israeliana ha tenuto un’udienza sulle richieste di vari gruppi per i diritti umani che chiedono la revoca delle regole dell’esercito per aprire il fuoco, che hanno portato all’impressionante bilancio di morti e feriti a Gaza.

La politica dell’esercito israeliano che consente di aprire il fuoco contro manifestanti a Gaza è palesemente illegale,” ha affermato Suhad Bishara, avvocatessa di uno di questi gruppi, “Adalah”. “Questa politica concepisce i corpi umani (palestinesi) come un oggetto sacrificabile, senza valore.”

Il gruppo [israeliano] per i diritti umani “B’Tselem” ha invitato i soldati a sfidare questi ordini illegali di sparare per uccidere e mutilare.

Prima dell’udienza, i militari israeliani si sono rifiutati di rendere pubblici gli ordini di aprire il fuoco, sostenendo che sono riservati.

Israele ha cercato di presentare le proteste di massa a Gaza come un complotto orchestrato da Hamas per coprire attività “terroristiche”.

Israele non è stato in grado di mostrare alcuna prova di attività armate durante le proteste e i suoi portavoce hanno fatto ricorso a montature – come false accuse secondo cui un video diffuso in rete mostra una ragazza di Gaza che dice degli israeliani “li vogliamo uccidere.”

Lunedì, durante l’udienza, pubblici ministeri dello Stato di Israele hanno continuato a insistere con questo discorso, sostenendo che “informazioni di intelligence riservate” mostrano che le proteste fanno “parte delle ostilità di Hamas contro Israele.”

La Corte israeliana ha aggiornato la seduta senza prendere una decisione, tuttavia storicamente il suo ruolo è stato quello di fornire una parvenza di legalità alle sistematiche violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e di contribuire a far passare Israele a livello internazionale come uno Stato che rispetta il principio di legalità, nonostante decenni di impunità senza controlli e di comportamenti illegali.

Contro le prove

Durante il fine settimana il quotidiano [israeliano] Haaretz ha citato la dichiarazione di un anonimo ufficiale dell’esercito israeliano secondo cui “la maggior parte delle uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito israeliano durante le proteste sul confine di Gaza sono state causate da cecchini che miravano alle gambe dei manifestanti, mentre la morte è stato un risultato non intenzionale perché il manifestante si è chinato, un cecchino ha sbagliato il colpo, un proiettile è rimbalzato o circostanze simili.” Secondo l’ufficiale, ha affermato Haaretz, “gli ordini di aprire il fuoco sul confine consentono ai cecchini di sparare solo alle gambe di persone che si avvicinano alla frontiera, e che il petto di una persona può essere preso di mira solo in presenza di un’evidente volontà dell’altra parte di utilizzare armi e di minacciare la vita di israeliani.”

Ma ciò è in netto contrasto con le prove raccolte da ricercatori per i diritti umani e l’affermazione potrebbe indicare che alcuni ufficiali israeliani sono preoccupati delle conseguenze internazionali della politica di uccisioni e mutilazioni premeditate e calcolate. La scorsa settimana Amnesty International ha dichiarato che nella maggior parte dei casi mortali che ha preso in considerazione “le vittime sono state colpite alla parte superiore del corpo, compresi testa e petto, alcune alle spalle.”

Testimoni oculari, prove video e fotografiche suggeriscono che molti sono stati uccisi o feriti deliberatamente mentre non rappresentavano alcun pericolo immediato per i soldati israeliani,” ha aggiunto Amnesty.

Allo stesso modo “Adalah” ha sostenuto che “il 94% dei feriti a morte sono stati colpiti nella parte superiore del corpo (testa, collo, volto, petto, stomaco e schiena).”

Sono stati feriti più di 5.500 palestinesi, di cui 2.000 da proiettili veri.

Nessun israeliano risulta essere stato ferito in seguito alle proteste a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I Gandhi di Gaza: Gaza sanguina da sola mentre i “liberal” e i “progressisti” rimangono in silenzio

Ramzy Baroud

2 maggio 2018,The Palestine Chronicle

Altri tre palestinesi sono stati uccisi e 611 feriti lo scorso venerdì, quando decine di migliaia di gazawi hanno ripreso le loro proteste, per lo più non violente, sul confine tra Gaza ed Israele.

Eppure, mentre il conto delle vittime continua ad aumentare – circa 45 morti e oltre 5.500 feriti –, continua anche l’assordante silenzio. Significativamente molti di quelli che hanno a lungo rimproverato i palestinesi perché facevano uso della resistenza armata contro l’occupazione israeliana sono irreperibili, mentre tutti, ragazzini, giornalisti, donne e uomini, sono presi di mira da centinaia di cecchini israeliani che punteggiano il confine di Gaza.

Le fonti ufficiali israeliane sono categoriche. Gente del calibro del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, percepisce questa guerra contro manifestanti disarmati come una guerra contro il terrorismo. Egli crede che “non ci siano innocenti a Gaza”. Mentre l’atteggiamento mentale israeliano non è per niente sorprendente, è incoraggiato dalla mancanza di una reazione significativa o dal totale silenzio internazionale riguardo alle atrocità che avvengono al confine.

La Corte Penale Internazionale (CPI), al di là delle frequenti dichiarazioni intrise di un ambiguo linguaggio giuridico, finora è stata totalmente inefficace. Fatou Bensouda, procuratore generale, in una recente dichiarazione si è fatta beffe delle uccisioni da parte di Israele, ma ha anche distorto i fatti cercando un “linguaggio imparziale”, per il diletto dei media israeliani.

La violenza contro i civili – in una situazione come quella che prevale a Gaza – potrebbe costituire un crimine in base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale…

come lo potrebbe essere l’uso della presenza di civili con lo scopo di fare da scudo ad attività militari,” ha detto.

Incoraggiato dal comunicato di Bensouda, Israele sta sfruttando l’opportunità di distogliere l’attenzione dai propri crimini. Il 25 aprile un gruppo giuridico israeliano, “Shurat Hadin”, ha cercato di denunciare tre dirigenti di Hamas alla CPI, accusando Hamas di utilizzare minori come scudi umani nelle proteste sul confine.

È tragico che molti trovino ancora difficile comprendere il concetto che il popolo palestinese è in grado di mobilitarsi, resistere e prendere delle decisioni indipendentemente dalle fazioni palestinesi.

Infatti, a causa della quasi decennale faida tra Hamas e Fatah, dell’assedio israeliano contro Gaza e attraverso le varie guerre devastanti, i gazawi sono stati ignorati, spesso visti come vittime sventurate della guerra e della divisione tra fazioni, e privi di qualunque autonomia d’azione umana.

Shurat Hadin”, come Bensouda, si basa totalmente su questo discorso disumanizzante.

Insistendo sul fatto che i palestinesi non sono in grado di agire al di fuori dei limiti delle fazioni politiche, pochi sentono la responsabilità politica o morale di correre in aiuto dei palestinesi.

È una reminiscenza della predica non richiesta dell’ex presidente USA Barack Obama ai palestinesi durante il suo discorso del Cairo al mondo musulmano nel 2009.

I palestinesi devono abbandonare la violenza,” disse. “La resistenza attraverso la violenza e le uccisioni è sbagliata e non ottiene risultati.”

Poi offrì la sua discutibile versione personale della storia, di come ogni Nazione, compreso “il popolo nero d’America”, le Nazioni del Sud Africa, dell’Asia sud-orientale, dell’Europa dell’est e dell’Indonesia abbiano lottato e conquistato la propria libertà solo con mezzi pacifici.

Questo approccio umiliante –confrontare i presunti fallimenti palestinesi con i successi degli altri – è sempre inteso a mettere in luce che i palestinesi sono diversi, esseri inferiori incapaci di essere come il resto dell’umanità. È interessante notare che ciò è proprio al centro della narrazione sionista sui palestinesi.

Il concetto stesso è frequentemente presentato con la domanda “Dov’è il Gandhi palestinese?” La domanda, posta in genere da cosiddetti liberal e progressisti, non è affatto tale, ma è un giudizio – e assolutamente scorretto.

Affrontando la domanda poco dopo l’ultima guerra contro Gaza nel 2014, Jeff Stein scrisse su Newsweek: “La risposta è stata spazzata via nel fumo e nelle macerie di Gaza, dove l’idea di una protesta non violenta sembra altrettanto antiquata di “Peter, Paul and Mary” [gruppo musicale USA degli anni ’60, ndt.]. I palestinesi che hanno predicato la non-violenza e guidato manifestazioni pacifiche, boicottaggi, sit-in e simili sono per lo più morti, in carcere, marginalizzati o in esilio.”

Eppure, sorprendentemente, sono di nuovo risorti, nonostante i numerosi ostacoli, la rabbia inimmaginabile e le sofferenze continue.

Decine di migliaia di manifestanti, con bandiere palestinesi continuano a tenere i loro cortei di massa sul confine di Gaza. Nonostante l’alto numero di morti e le migliaia di mutilati, tornano ogni giorno con lo stesso impegno alla resistenza popolare che si basa sull’unità collettiva, al di là delle fazioni e delle differenze politiche.

Ma perché sono ancora in gran parte ignorati?

Perché Obama non twitta in solidarietà con i gazawi? Perché Hillary Clinton non prende la parola per opporsi all’incessante violenza israeliana?

È politicamente comodo criticare i palestinesi come se nulla fosse, e assolutamente sconveniente dar loro fiducia, persino quando dimostrano simile coraggio, audacia e impegno per un cambiamento pacifico.

Quelli come la famosa scrittrice J.K. Rowling [autrice dei romanzi di Harry Potter, ndt.], hanno un bel criticare il pacifico movimento palestinese di boicottaggio, che intende rendere responsabile Israele per la sua occupazione militare e per la violazione dei diritti umani. Ma è rimasta in silenzio quando i cecchini israeliani hanno ucciso ragazzini a Gaza mentre si rallegravano quando un bambino cadeva [si riferisce ad un video il cui soldati israeliani festeggiavano il fatto che un loro collega avesse colpito un ragazzino lungo il confine con Gaza, ndt.].

Il cantante Bono, del gruppo “U2”, ha dedicato una canzone al defunto presidente israeliano Shimon Peres, accusato di numerosi crimini di guerra, ma la sua voce sembra essere diventata roca quando un ragazzino di Gaza, Mohammed Ibrahim Ayoub, di 15 anni, è stato colpito da un cecchino israeliano mentre protestava pacificamente sul confine.

Comunque da tutto ciò si ricava una lezione. Il popolo palestinese non si deve aspettare niente da chi li ha costantemente delusi. Biasimare i palestinesi per aver fallito in questo o quello è una vecchia abitudine, intesa semplicemente a considerarli responsabili della loro sofferenza e ad assolvere Israele da ogni misfatto. Neppure il “genocidio progressivo” [definizione dello storico israeliano Ilan Pappe, ndt.] a Gaza cambierà questo paradigma.

I palestinesi devono invece continuare a contare su se stessi; a concentrarsi sulla formulazione di una corretta strategia che serva ai propri interessi a lungo termine, il tipo di strategia che superi le faziosità e offra a tutti i palestinesi una reale tabella di marcia verso l’agognata libertà.

La resistenza popolare a Gaza è solo l’inizio, deve servire come base per una nuova prospettiva, una visione che garantirà che il sangue di Mohammed Ibrahim Ayoub non sia stato versato invano.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e curatore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra 2018). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Mondiali e Internazionali all’Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Giro d’Italia: il ciclista palestinese ferito a Gaza ‘disgustato’ dalla gara a tappe in Israele

Maha Hussaini

Mercoledì 2 maggio 2018, Middle East Eye

Alaa Al-Dali, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito mentre protestava vicino alla barriera di confine di Gaza, afferma che la gara a tappe a Gerusalemme è un incoraggiamento agli abusi israeliani.

Un ciclista palestinese, che ha perso una gamba dopo che un cecchino israeliano gli ha sparato mentre manifestava vicino alla barriera di confine di Gaza, ha accusato gli organizzatori e i corridori del Giro d’Italia di incoraggiare la violenza israeliana accettando che la gara si disputi nel Paese.

Alaa al-Dali ha subito otto operazioni ed alla fine gli è stata amputata una gamba dopo essere stato colpito mentre partecipava alle proteste della “Grande Marcia per il Ritorno” il 30 marzo.

Il ventunenne era in lizza per gareggiare per la Palestina nei giochi asiatici a Giakarta in agosto, ed ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano ha “distrutto il suo sogno”.

Il Giro d’Italia, una delle corse di ciclismo più prestigiose, inizia a Gerusalemme venerdì ed Israele ospiterà altre due tappe prima che la gara ritorni in Italia, suscitando la condanna degli attivisti per i diritti dei palestinesi e dei partecipanti alla campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS).

Al-Dali ha fatto appello alla comunità internazionale perché imponga sanzioni ed un boicottaggio sportivo verso Israele, invece di permettergli l’“onore” di ospitare la gara.

“È molto triste sapere che la gente godrà del mio sport preferito nel Paese il cui l’esercito ha distrutto i miei sogni”, da detto al-Dali. “Non è bello. Sono scioccato e disgustato da questa notizia.”

La gara servirà solo a evidenziare il divario tra “l’occupante e l’occupato”, ha aggiunto.

“Questa è una contraddizione all’ennesima potenza. Simili eventi dovrebbero simboleggiare pace e umanità. Non riesco a vedere nulla di pacifico nello spararmi e rendermi disabile per essermi trovato a circa 200 metri dalla barriera di confine.”

Il fratello maggiore di Al-Dali, il venticinquenne Muhammed, ha detto a MEE che i medici hanno deciso di amputargli la gamba a causa dei danni alle ossa e ai tessuti.

Ma ha detto di credere che ci sarebbe stata una possibilità di salvare la sua gamba se Israele non gli avesse negato il permesso di farsi curare in Cisgiordania.

Il sistema sanitario di Gaza è stato devastato da un blocco di 11 anni imposto da Israele dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, che ha gettato l’enclave in una crisi umanitaria.

‘Occhi chiusi di fronte alle nostre sofferenze’

“Gli organizzatori ed i partecipanti non solo chiudono gli occhi sulle nostre sofferenze, in quanto atleti a cui vengono negati i diritti fondamentali, ma stanno anche incoraggiando le autorità israeliane ad imporre ulteriori restrizioni ed a continuare nei loro soprusi contro di noi”, ha detto Alaa al-Dali.

Secondo Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Sanità palestinese a Gaza, dall’inizio delle proteste della Grande Marcia per il Ritorno, in cui i palestinesi stanno protestando per il loro diritto al ritorno nelle terre e nelle case occupate da Israele nel 1948 e nei successivi conflitti, almeno 44 palestinesi sono stati uccisi ed altri 7.000 feriti, comprese decine di persone rimaste disabili.

Venerdì la prima tappa del Giro d’Italia vedrà gli atleti correre una corsa a cronometro di 9.7 km. a Gerusalemme ovest, che terminerà sotto le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, nella Gerusalemme est occupata.

Poi Israele ospiterà tappe da Haifa a Tel Aviv e da Beer Sheva attraverso il deserto del Negev fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso.

La gara ospita alcuni dei più famosi ciclisti al mondo, compreso Chris Froome, che cerca di diventare il primo campione, nell’era del ciclismo moderno, a conquistare contemporaneamente tutti e tre i titoli dei grandi tour sportivi, il Tour de France, la Vuelta de España e il Giro d’Italia.

La gara ospita anche squadre sponsorizzate dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain.

La partenza della gara è particolarmente significativa poiché coincide con le celebrazioni del 70^ anniversario del giorno dell’indipendenza di Israele, e avviene solo pochi giorni prima che i palestinesi celebrino l’anniversario della Nakba, o catastrofe, in cui più di 750.000 persone furono espulse con la forza dalle loro terre nel maggio 1948.

Una mappa illustrata del percorso della gara pubblicata sul Twitter del Giro mostra la Città Vecchia di Gerusalemme e la moschea della Cupola della Roccia.

Il movimento BDS ha condotto una campagna perché la corsa venisse spostata fin da quando è stato annunciato il percorso l’anno scorso, avvertendo che far partire la gara in Israele avrebbe assunto il significato di un “timbro di approvazione” delle “violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi.”

“Proprio come sarebbe stato inaccettabile per il Giro d’Italia partire dal Sudafrica dell’apartheid negli anni ’80, è ora inaccettabile far partire la gara da Israele, in quanto questo servirà solo come sigillo di approvazione dell’oppressione di Israele sui palestinesi”, ha dichiarato il movimento sul suo sito web ufficiale.

In seguito alla comunicazione del percorso della gara lo scorso novembre, le associazioni per i diritti hanno emesso un comunicato congiunto chiedendo agli organizzatori di RCS Sport di spostare la partenza della gara da Israele, che, secondo loro, “accrescerà il senso di impunità di Israele.”

In risposta, RCS Sport, l’organizzatore del Giro, ha detto che la gara si sarebbe svolta in Israele come parte dell’“internazionalizzazione” dell’evento e come “un mezzo per esportare nel mondo tutto ciò che è italiano”.

A settembre il direttore della gara Mauro Vegni ha detto: “La realtà è che vogliamo che questo sia un evento sportivo e che si tenga lontano da ogni questione politica.”

Saied Timraz, vicepresidente di Palestinian Motorsport, Motorcycle and Bicycle Federation, ha affermato che è “irragionevole” tenere un evento così prestigioso in Israele allo stesso tempo in cui gli atleti palestinesi vengono privati dei loro diritti fondamentali dalle autorità israeliane.

“Israele usa lo sport per mascherare le sue flagranti violazioni contro i palestinesi. Ha un particolare interesse ad ospitare questo evento in quanto esso consente ai partecipanti di ammirare i luoghi e promuovere una immagine civilizzata di Israele”, ha detto Timraz a MEE.

“Benché lo sport e la politica debbano mantenersi separati, nulla può giustificare dare un premio agli oppressori.”

Secondo Timraz, lo scorso novembre le autorità israeliane hanno rifiutato a lui ed altri sei atleti palestinesi i permessi per uscire da Gaza per gareggiare nel campionato arabo di atletica del 2017, organizzato dalla Associazione Atletica Araba in Tunisia.

“Non è la prima volta che ci negano i permessi per partecipare ad eventi internazionali”, ha detto Timraz.

“Le autorità israeliane vogliono imporre severe restrizioni ai palestinesi che intendono partecipare ad eventi che darebbero voce alle loro sofferenze e mostrerebbero il vero volto dell’occupazione.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Il sentore di antisemitismo nel discorso di Abbas non cambia il suo appoggio alla soluzione dei due Stati

Amira Hass

2 maggio 2018, Haaretz

Il discorso del presidente davanti al Consiglio Nazionale Palestinese ha rispecchiato il suo stile autoritario e il suo rifiuto di ascoltare le critiche.

La storia degli ebrei è stata imposta ai palestinesi e quindi questi ultimi l’affrontano in ogni occasione. Tutti i palestinesi si vedono come legittimati, e in effetti lo sono, a proporre la storia della propria terra e del proprio popolo – come un contrappeso rispetto alla narrazione sionista.

Questo è quanto fa anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas nei suoi discorsi durante incontri pubblici, e lo ha fatto di nuovo lunedì pomeriggio all’apertura della 23^ sessione, attesa da tempo, del Consiglio Nazionale Palestinese, che dovrebbe essere il parlamento di tutti i palestinesi.

La sintesi di Abbas della storia di Israele è che la fondazione di uno Stato per gli ebrei è stato un progetto colonialista intrapreso da Nazioni cristiane e che i fautori del progetto erano antisemiti che non volevano che gli ebrei vivessero nei loro Paesi. Ma la legittima sintesi del presidente palestinese contiene imbarazzanti errori, importanti omissioni e anche un’opinione con un forte sentore di antisemitismo: in Europa gli ebrei erano odiati non per la loro religione, ma a causa delle loro attività che riguardavano l’usura e le banche.

Questa insistenza nel cadere nella trappola di dichiarazioni che aiutano l’hasbara (diplomazia pubblica) israeliana, che inoltre ignora totalmente i suoi importanti messaggi riguardanti il cammino verso la pace, rivela qualcosa riguardo all’uomo ed al suo stile di governo: è fermo sulle le sue posizioni, non ascolta le critiche e non si consulta con altri – oppure sceglie consiglieri che non gli dicano niente che lui non voglia sentire. Inoltre sceglie di essere aggiornato solo su quello che gli conviene.

Queste sono alcune delle caratteristiche di cui Abbas ha avuto bisogno per riuscire a diventare il leader autoritario di Fatah, dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.] e dell’Autorità Nazionale Palestinese, insieme al suo controllo delle finanze e all’appoggio che continua a ricevere dai Paesi europei grazie al fatto di rimanere legato agli accordi di Oslo. Queste caratteristiche gli hanno consentito di continuare con quello che aveva iniziato Yasser Arafat: svuotare l’OLP del suo contenuto che riuniva tutti i palestinesi e, in pratica, subordinarla all’ANP. 

In quanto unico governante, Abbas ignora costantemente le decisioni delle istituzioni rappresentative. Di conseguenza il coordinamento sulla sicurezza tra gli apparati di sicurezza palestinese e Israele continua, nonostante le decisioni di porvi fine prese negli scorsi anni da Fatah e dall’OLP.

La parte storiografica del discorso di Abbas di lunedì non è quella importante. La sua sottesa minaccia agli abitanti della Striscia di Gaza e ad Hamas di aver intenzione di non includerli più nel bilancio dell’ANP o di ridurre ulteriormente la quota che li riguarda, è molto più importante e ha preoccupanti conseguenze per il futuro.

Il presidente dell’ANP ha anche rilevato che “quelle che vengono chiamate Primavere Arabe” sono state notizie false, inventate dall’America come mezzo per smantellare i Paesi arabi. Una simile dichiarazione mostra un fondamentale, profondo disprezzo per le rivolte popolari e una sottovalutazione delle sofferenze dei civili sotto i loro regimi autoritari.

Data questa mancanza di rispetto, le affermazioni di Abbas secondo cui la strada per uno Stato palestinese passerà attraverso una lotta popolare (non armata) contro l’occupazione israeliana insieme ad iniziative diplomatiche possono essere interpretate come niente più che dichiarazioni di circostanza. Una lotta popolare è molto più di manifestazioni in aree di conflitto contro l’esercito israeliano e, come hanno detto importanti membri di Fatah, richiede un cambiamento fondamentale nell’atteggiamento dell’ANP verso gli accordi di Oslo. Il messaggio implicito dei giudizi di Abbas sulle Primavere Arabe è che, finché rimarrà al potere, un simile cambiamento non avverrà.

La sintesi storiografica di Abbas termina con questa conclusione: “Noi diciamo: non li espelleremo. Noi diciamo: vivremo insieme a voi sulla base dei due Stati.”

Nelle sue considerazioni ha ripetuto alcune volte che “ci impegniamo” per questa soluzione del conflitto con Israele (cioè all’interno dei confini del 1967), con Gerusalemme est come capitale dello Stato di Palestina. Qui il suo autoritarismo consente ad Abbas di attenersi a una soluzione a lungo proposta che ha perso il suo senso e la sua logica, soprattutto agli occhi della generazione più giovane.

Abbas ha affermato di basare le proprie opinioni su autori ebrei, e persino sionisti, a iniziare da Arthur Koestler il “sionista,” ha sottolineato, e sulla tesi proposta nel libro di Koestler “La tredicesima tribù”, secondo la quale gli ebrei askenaziti sarebbero discendenti del popolo khazaro [vissuto tra il Caucaso e l’Ucraina orientale fino al XIII secolo e convertitosi nel VIII secolo all’ebraismo, ndt.]. Questo popolo non è semita, ha affermato Abbas: “Non hanno alcun rapporto con i (popoli) semiti o con i nostri signori Abramo e Giacobbe.”

Questi ebrei (in altre parole, i khazari convertiti), ha aggiunto, si sono spostati nell’Europa orientale ed occidentale e, ogni 10 o 15 anni, hanno patito un massacro in un Paese o nell’altro, dall’XI secolo fino all’Olocausto. “E perché ciò è successo? Diranno “perché siamo ebrei”. E io vorrei presentare tre ebrei in tre libri, e sono: Giuseppe Stalin…”

A questo punto del discorso di Abbas, che avrebbe dovuto spiegare che gli ebrei sono stati perseguitati a causa delle loro attività nell’usura e nelle banche, c’è stato un mormorio; qualcuno gli ha sussurrato che Stalin non era ebreo. Nel testo scritto del discorso di Abbas di lunedì, rilasciato dall’agenzia ufficiale di notizie palestinese Wafa, Stalin era di nuovo definito un “autore ebreo.”

In seguito nel testo erano citati i nomi di “Abraham e Yishaq Notsherd” – due personaggi che chi scrive non conosce. Durante lo sproloquio del presidente dell’ANP, diffuso dal vivo sul canale palestinese, sembra che egli abbia detto Isaac Deutscher, uno storico marxista.

Abbas ha anche sottolineato che la fondazione di uno Stato per gli ebrei in Palestina è nata come idea dei cristiani e di statisti come Cromwell e Napoleone, e del “console americano a Gerusalemme nel 1850.” Prima che Arthur Balfour stilasse la sua famosa dichiarazione [che impegnò l’impero britannico a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], ha detto Abbas, “egli aveva preso una decisione che avrebbe impedito l’ingresso degli ebrei in Gran Bretagna a causa del suo odio per loro” Si stava in realtà riferendo all’ “Aliens Act” [legge sugli stranieri] approvato nel 1905 dal parlamento inglese, quando Balfour era primo ministro. La legge limitava l’immigrazione da luoghi che non facessero parte dell’impero britannico ed intendeva essere una risposta all’immigrazione di massa di ebrei, in particolare dall’Europa orientale dal 1880 [in seguito a pogrom nell’impero zarista, ndt.]).

Tale interpretazione della dichiarazione Balfour e il suo rapporto con l’avversione di Balfour verso gli ebrei non è infrequente. Abbas non ha mancato di citare l’“Accordo di trasferimento” tra le autorità naziste e l’Agenzia Ebraica (o con la banca Anglo-Palestinese di Gerusalemme, come ha detto Abbas), che consentì ad ebrei benestanti di emigrare dalla Germania in Palestina.

Abbas non cambierà. Durante i quattro giorni di riunione del CNP, risulterà chiaro se i suoi critici si sono sbagliati quando hanno detto che egli aggraverà la divisione interna tra i palestinesi e, in pratica, seppellirà definitivamente l’OLP come organizzazione pluralistica e di tutti i palestinesi.

La sua implicita minaccia agli abitanti di Gaza e ad Hamas secondo cui intende smettere di includerli nel bilancio dell’ANP è più rilevante.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele contro Iran: Venti di guerra a Gerusalemme – con il sostegno di Washington

Amos Harel

1 maggio 2018, Haaretz

Israele è determinato a estromettere l’Iran dalla Siria, ma se sbaglia i calcoli, Hezbollah e Hamas potrebbero accettare la sfida. Netanyahu è pronto a correre dei rischi – a un passo dal gioco d’azzardo.

Dopo l’attacco alla Siria attribuito a Israele nella notte di domenica, perlomeno il quinto da settembre, sembra che non ci sia spazio al dubbio. Israele è determinato a sradicare la presenza militare iraniana dalla Siria.

Dopo il precedente attacco alla base aerea T4 vicino a Homs il 9 aprile, in cui morirono 14 persone inclusi sette membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Iran minacciò gravi ritorsioni. Lo stato maggiore di difesa israeliano si preparò di conseguenza, ma finora non era successo nulla. Invece, ora è stato inflitto un altro attacco agli interessi iraniani in Siria.

In base ai rapporti siriani, il raid [israeliano] sugli obiettivi militari tra Hama e Aleppo nel nord della Siria ha causato forti esplosioni – una fonte ha riferito che sembrava ci fosse un piccolo terremoto. Alcuni furono uccisi, apparentemente soldati siriani e miliziani sciiti pro-iraniani.

La scorsa settimana la rete televisiva CNN ha riferito che lo spionaggio americano e israeliano sta controllando i movimenti in Siria delle armi iraniane che potrebbero essere utilizzate per “chiudere i conti” con Israele. L’attacco di domenica notte – questa volta, con tanta forza – potrebbe rivelare che è stato colpito un grosso deposito di armi. E ciò potrebbe confermare il tentativo di sventare una potenziale reazione iraniana.

Con l’Iran a nord di Israele lo scontro è diretto: Israele ha tracciato un limite ed è pronto a farlo rispettare con la forza. Poiché gli iraniani si oppongono sia alla proibizione di Israele alla sua presenza che ai mezzi che Israele sta usando, in assenza di un mediatore tra le parti, questo conflitto potrebbe ancora intensificarsi. La settimana è appena all’inizio.

Paura di provocare Trump

Nell’ultimo anno, due tendenze sono diventate evidenti in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar Assad ha vinto la sanguinosa guerra civile in Siria e gli Stati Uniti stanno ridimensionando la propria presenza nella regione. Anche il loro recente attacco punitivo contro il regime di Assad è stato percepito come un gesto simbolico di addio. Nel frattempo, stanno prendendo forma altre due tendenze: lo sforzo di Israele di espellere l’Iran dalla Siria e Washington che si prepara a una risoluzione per abbandonare l’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze [occidentali], che dovrebbe avvenire intorno al 12 maggio.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra stabilire una relazione fra le ultime due tendenze. L’idea è che l’Iran si stia trattenendo dal reagire contro Israele per le ultime presunte mosse in Siria perché ha paura di commettere un errore che provocherebbe la rabbia degli Stati Uniti. Secondo questo punto di vista, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe rispondere all’escalation tra Iran e Israele abbandonando l’accordo nucleare ancora prima, e in seguito potrebbe persino attaccare i siti nucleari iraniani (il che sarebbe incalcolabilmente più grave di un ipotetico attacco israeliano). Le autorità di Teheran sono anche preoccupate per le varie minacce interne, dalla crisi finanziaria alle accese manifestazioni di protesta. Apparentemente la conclusione logica è che Israele possa continuare a colpire gli iraniani in Siria a suo piacimento.

In effetti, gli Stati Uniti agiscono in modo molto diverso rispetto ai giorni di Obama. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è venuto in Israele dopo aver assunto l’incarico ed è partito per la Giordania poco prima che arrivassero le prime notizie degli attacchi israeliani in Siria. Contemporaneamente, Trump e Netanyahu si sono parlati per telefono, discutendo, come riferito, anche dell’Iran. Si tratta chiaramente di un riconoscimento da parte di Washington dei venti di guerra che soffiano a Gerusalemme. Si potrebbe pensare che se Pompeo avesse potuto rimanere in Israele qualche ora in più, gli avrebbero suggerito di saltare in una cabina di pilotaggio e sparare lui stesso alcuni missili.

Nel frattempo, Netanyahu, come abbiamo scritto alcune settimane fa, è di un umore particolarmente trumpiano, molto diverso dal suo comportamento normale. L’attenzione agli incidenti riguardo alla sicurezza ha superato anche la preoccupazione per le lotte politiche all’interno della coalizione. È pronto ad affrontare rischi inediti, al limite del gioco d’azzardo. Stranamente, lo stato maggiore della difesa è con lui. Contrariamente all’acceso contrasto dell’inizio del decennio [2010] sul bombardamento dei siti nucleari in Iran, questa volta i capi della difesa israeliana portano avanti una linea dura e aggressiva riguardo alla presenza dell’Iran in Siria.

La seccante ma necessaria domanda di questa mattina è cosa succede se Israele sbaglia una mossa.

È vero, l’Iran adesso non vuole importunare gli Stati Uniti. È piuttosto occupato a proteggere il suo programma nucleare da ulteriori pressioni ed è interessato a esibire la sua capacità di colpire in Siria. Un combattimento in Siria non andrebbe bene nemmeno ai russi che sono intenzionati a ristabilire il regime di Assad.

Ma i calcoli di Israele potrebbero saltare se le fiamme in Siria divampassero fuori controllo, e se l’Iran decidesse, smentendo le ipotesi, di trascinare Hezbollah nel conflitto, per esempio dopo le elezioni libanesi del 6 maggio. Hezbollah ha acquisito in Siria un’esperienza largamente operativa. Ha un arsenale di oltre 100.000 fra missili e razzi. Hezbollah non è certamente più forte delle Forze di Difesa Israeliane, ma in caso di guerra, potrebbe provocare danni reali sul fronte interno israeliano, e i combattimenti a terra in Libano potrebbero costare cari all’esercito israeliano.

Un conflitto del genere potrebbe coinvolgere Hamas a Gaza, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ripetutamente segnalato (sembra esserci una discrepanza tra i toni sicuri espressi da Gerusalemme, tra cui quelli di Lieberman, in pubblico, e le loro reali paure). Finora Israele è riuscito a stabilire e mantenere un coordinamento con l’aviazione russa per prevenire qualsiasi attrito nei cieli siriani. Ma, a un certo punto, non potrebbe Mosca decidere che è stufa di ricevere diktat da Gerusalemme?

Israele ha uno scopo comprensibile in Siria. La presenza dell’Iran sta diventando potenzialmente pericolosa e potrebbe in futuro bloccare l’esercito israeliano. Eppure, stamattina, bisogna farsi alcune domande. L’obiettivo di espellere tutte le forze iraniane dalla Siria è davvero raggiungibile, come sembrano pensare il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo dello stato maggiore? Stanno considerando che le cose possano andare storte, sfociando in un conflitto più vasto dal costo molto più alto? Finora non c’è stata alcuna vera discussione in merito, né è emerso alcun dibattito sulla politica che sta prendendo forma al nord – non nel governo né tra i vertici della sicurezza.

( Traduzione di Luciana Galliano)




Come il Mossad compie i suoi omicidi

Ali Younes

22 aprile 2018, Al Jazeera

La sparatoria mortale in Malaysia rivela la politica dei servizi segreti israeliani di omicidi mirati degli attivisti palestinesi.

L’omicidio dello scienziato palestinese trentacinquenne Fadi al-Batsh nella capitale malese Kuala Lumpur ha rivelato il programma riservato di uccisioni mirate di palestinesi considerati da Israele una minaccia.

Al-Batsh studiava ingegneria elettrica a Gaza prima di iniziare il Dottorato di Ricerca nella stessa disciplina in Malaysia.

Era specializzato in sistemi elettrici e risparmio energetico, e aveva già pubblicato numerosi articoli scientifici sull’argomento.

Hamas, il partito leader a Gaza, ha affermato che al-Batsh era un membro importante del partito e ha accusato l’agenzia di intelligence Mossad di essere responsabile di quanto accaduto sabato.

Chiamandolo membro “leale”, Hamas ha definito al-Batsh uno degli “scienziati della gioventù palestinese” che ha offerto “importanti contributi” e partecipato a convegni internazionali nel campo dell’energia.

Parlando ad al Jazeera, il padre di al-Batsh ha concentrato i suoi sospetti sul Mossad come responsabile dell’uccisione di suo figlio e si è appellato alle autorità malesi affinché portassero quanto prima a termine le indagini sull’assassinio.

Secondo il giornalista investigativo israeliano Ronen Bergman, uno dei principali esperti di intelligence israeliano e autore del libro Rise and Kill First, [Muoviti e uccidi per primo]l’uccisione di al-Batsh presenta tutti i tratti di un’operazione del Mossad.

Il fatto che gli assassini abbiano usato una motocicletta per colpire il loro obiettivo, già usata in molte operazioni del Mossad, e il fatto che sia stato un colpo preciso e fuori da Israele, fa sospettare il coinvolgimento del Mossad”, ha detto Bergman ad al Jazeera in un’intervista telefonica.

Identificazione dell’obiettivo

All’interno del Mossad, la più vasta società di intelligence israeliana L’identificazione di un obiettivo da eliminare in genere coinvolge diversi elementi a livello istituzionale e organizzativo, e la leadership politica.

A volte l’obiettivo è identificato da altri servizi militari o degli interni israeliani.

Per esempio, al-Batsh potrebbe essere stato identificato come obiettivo da diverse agenzie di intelligence per mezzo di unità all’interno di organizzazioni israeliane militari e di spionaggio che controllano Hamas.

Al-Batsh potrebbe anche esser stato identificato attraverso altre operazioni di spionaggio israeliano o tramite la rete di spie israeliane in tutto il mondo.

Alcune fonti hanno confermato ad al Jazeera che i contatti tra Gaza, Istanbul (Turchia), e Beirut (Libano), sono strettamente monitorati dalla rete di spionaggio israeliana. Dunque, una prima “selezione” di al-Batsh potrebbe essere stata fatta attraverso questi canali.

Gli amici di al-Batsh che hanno parlato con al Jazeera in forma anonima hanno affermato che il dottorando non aveva mai nascosto i suoi legami con Hamas.

Era conosciuto nella comunità palestinese per i suoi legami con Hamas”, ha detto un amico.

La procedura dell’omicidio

Una volta che al-Batsh fosse identificato come obiettivo, il Mossad avrebbe valutato se fosse necessario ucciderlo, quali ne fossero i benefici, e il modo migliore per farlo.

Quando l’unità specializzata del Mossad ha terminato la sua ricerca sull’obiettivo, porta i suoi risultati alla dirigenza della Commissione per i Servizi di Intelligence, che comprende i direttori delle organizzazioni di spionaggio israeliani e sono conosciute con l’acronimo ebraico VARASH, Vaadan Rashei Ha-sherutim.

VARASH discute dell’operazione e apporta suggerimenti.

Tuttavia, non ha l’autorità legale per approvare un’operazione.

Solo il primo ministro israeliano ha l’autorità di prendere tale decisione.

Bergman ha affermato che i premier israeliani solitamente preferiscono non prendere da soli tali decisioni per ragioni politiche.

Spesso il primo ministro coinvolge uno o due ministri per approvare un’operazione del genere, e sovente comprende il ministro della difesa,”.

Una volta ottenuto il via libera, l’operazione torna al Mossad per la pianificazione ed esecuzione, che potrebbe richiedere settimane, mesi o addirittura anni, a seconda dell’obiettivo.

L’unità Cesarea

La Cesarea è un’unità sotto copertura del Mossad che si occupa di addestrare e gestire spie principalmente nei paesi arabi e in tutto il mondo.

L’unità fu fondata nei primi anni Settanta, e uno dei suoi creatori fu la famosa spia israeliana Mike Harari.

Cesarea utilizza la sua vasta rete di spie negli Stati arabi, e più diffusamente in Medio Oriente, per raccogliere informazioni e sorvegliare attuali e futuri obiettivi.

Harari ha poi fondato l’unità più spietata di Cesarea, nota in ebraico come Kidon (“la baionetta”), composta da killer professionisti specializzati in omicidi e sabotaggi.

I membri di Kidon spesso provengono da settori dell’esercito israeliano, comprese le forze speciali.

Probabilmente sono stati proprio membri di Kidon a uccidere al-Batsh a Kuala Lumpur, secondo alcune fonti di al Jazeera.

Il Mossad non punta solamente a leader e attivisti palestinesi, ma anche a siriani, libanesi, iraniani ed europei.

Gli omicidi mirati

Cesarea è l’equivalente del Centro di Attività Speciali (CAS), della CIA, che veniva definito Divisione Attività Speciali prima della sua riorganizzazione e cambio di nome nel 2016.

La CIA conduce le sue missioni paramilitari top-secret, compresi omicidi mirati, attraverso il Gruppo per le Operazioni Speciali, che è parte del CAS e ha alcune somiglianze con il Kidon.

Bergman scrive che, fino al 2000, anno della seconda Intifada nei Territori Occupati, Israele ha commesso più di 500 operazioni omicide, causandola morte di più di un migliaio di persone, compresi gli obiettivi e i passanti.

Durante la seconda Intifada, Israele ha condotto più di 1000 operazioni, di cui 168 con successo, ha scritto Ronen Bergman nel suo libro.

Da allora, Israele ha condotto almeno altre 800 operazioni con lo scopo di uccidere civili appartenenti ad Hamas e leader militari nella Striscia di Gaza e all’estero.

La cooperazione araba con il Mossad

Il Mossad mantiene collegamenti formali di tipo organizzativo e storico con un certo numero di servizi segreti arabi, in particolare con agenzie di spionaggio giordane e marocchine.

In tempi più recenti, in seguito a un mutamento nelle alleanze nella regione e alla crescente minaccia di attori non statali, il Mossad ha allargato i suoi legami con le agenzie di intelligence arabe, includendo un certo numero di Stati del Golfo arabo e l’Egitto.

Il Mossad ha la sua principale struttura organizzativa per le operazioni mediorientali nella capitale giordana Amman.

Quando il Mossad tentò di assassinare il leader di Hamas Khaled Meshaal ad Amman nel 1997, spruzzandogli una dose letale di veleno nell’orecchio, l’episodio ha rischiato di far revocare all’anziano re Hussein l’accordo di pace con Israele, e di far chiudere la sede dell’agenzia di spionaggio ad Amman, oltre che di interrompere i collegamenti tra il Mossad e la Giordania al punto che Israele fornì l’antidoto che salvò la vita di Meshaal.

Nel suo libro, Bergman cita fonti del Mossad per affermare che il Generale Samih Batikhi, il capo dello spionaggio giordano dell’epoca, si arrabbiò con il Mossad che non l’aveva tenuto informato sul tentato omicidio poiché voleva organizzare congiuntamente l’operazione.

Un altro paese arabo che ha forti legami con il Mossad fin dagli anni Sessanta è il Marocco, secondo le ricerche di Bergman.

Il Marocco ha ricevuto notevole assistenza di intelligence e tecnica da Israele, e in cambio, l’anziano re Hassan ha permesso agli ebrei marocchini di emigrare in Israele, e il Mossad ha avuto il diritto di stabilire un’agenzia permanente nella capitale Rabat, da cui spiare i paesi arabi”, scrive Bergman.

L’operazione raggiunse il suo apice quando il Marocco permise al Mossad di spiare le sale di riunioni e le camere private dei capi di stato arabi e dei loro comandanti militari durante il summit della Lega Araba nel 1965.

Il summit era stato convocato per organizzare il comando militare unificato.

I metodi della CIA e del Mossad

Diversamente dal Mossad e da altre organizzazioni di intelligence israeliane che hanno un certo margine di decisione nel decidere chi uccidere, la CIA americana utilizza uno strenuo processo legale a più livelli, coinvolgendo l’ufficio del consiglio generale della agenzia, il ministero di giustizia statunitense, e l’ufficio del consiglio legale della Casa Bianca.

L’esecuzione di un’operazione concernente un omicidio mirato da parte della CIA dipende dall’autorizzazione presidenziale, rilasciata con un documento legale spesso redatto dall’ufficio del consiglio generale della CIA e dal dipartimento di giustizia.

L’autorizzazione presidenziale fornisce autorità legale con cui la CIA può eseguire la sua missione di omicidio mirato.

Un processo di revisione che coinvolge diverse agenzie, condotto principalmente da giuristi del dipartimento di giustizia, dalla Casa Bianca e dalla CIA, deve aver luogo prima che il presidente firmi l’autorizzazione.

Si stima che Barack Obama, in qualità di presidente degli Stati Uniti, autorizzò circa 353 operazioni di omicidi mirati, soprattutto per mano di droni.

Il suo predecessore George W Bush ne autorizzò circa 48.

Il processo legale

Un ex ufficiale della CIA ha detto ad al Jazeera, in modo anonimo, che “la CIA non decide chi uccidere”.

Il processo legale rende davvero difficile alla CIA l’uccisione di qualcuno solo perché la CIA pensa che sia un nemico”, ha affermato.

La maggior parte degli omicidi mirati della CIA coinvolgono l’uso di droni e sono attuate su autorizzazione presidenziale.

Parlando con al Jazeera, Robert Baer, un ex funzionario operativo della CIA, ha detto: “la Casa Bianca deve firmare per ogni omicidio mirato, soprattutto se è un obiettivo molto pericoloso”.

È un caso diverso, tuttavia, se l’operazione è condotta sul campo di battaglia o durante un conflitto, come in Afghanistan o in Iraq, caso in cui gli ufficiali sul campo hanno più potere legale per portare a compimento i loro omicidi mirati”.

Per il Mossad, la legittimità dell’omicidio di unqualunque obiettivo è più larga e non coinvolge elementi legali simili a quelli della CIA, secondo fonti a conoscenza del procedimento.

Fa parte della politica nazionale”, ha concluso Baer, riferendosi alla politica israeliana degli omicidi mirati.

( Traduzione di Veronica Garbarini)




La copertura dei media: difendere Israele è una questione di politica

Ramzy Baroud

18 aprile 2018, Palestine Chronicle

Il termine “parzialità dei media” non rende giustizia del rapporto

che i mezzi di comunicazione occidentali hanno con Israele e la Palestina. Che è, infatti, molto peggio della semplice tendenziosità. Non è neppure una questione di ignoranza. È una campagna premeditata e di lunga durata, intesa a proteggere Israele e a demonizzare i palestinesi.

L’attuale scandalosa informazione sulle proteste popolari mostra come la posizione dei media tenda a cancellare la verità sulla Palestina, ad ogni costo e con ogni mezzo. La simbiosi politica, l’affinità culturale, Hollywood, la capillare influenza dei gruppi filoisraeliani e sionisti nei circoli politici e mediatici occidentali sono alcune delle ragioni che molti di noi hanno dato sul perché Israele sia spesso visto con occhi comprensivi e i palestinesi e gli arabi condannati.

Ma queste spiegazioni non sono ancora sufficienti, Attualmente ci sono vari canali di informazione che cercano di compensare lo sbilanciamento, molti dei quali mediorientali, ma anche di altre parti del mondo. Giornalisti, intellettuali e personalità della cultura palestinesi ed arabi sono presenti come mai prima sulla scena mondiale perfettamente in grado di fronteggiare, se non sconfiggere, il discorso filoisraeliano dei media.

Tuttavia sono in gran parte invisibili ai mezzi di comunicazione occidentali: è il portavoce israeliano che continua ad occupare il centro della scena, parlando, urlando, teorizzando e demonizzando a suo piacere.

Non è dunque una questione di ignoranza dei media, ma una politica.

Anche prima del 30 marzo, quando parecchi palestinesi di Gaza sono stati uccisi e migliaia feriti, i mezzi di comunicazione USA e britannici, per esempio, avrebbero dovuto quanto meno chiedere perché a centinaia di cecchini israeliani e carri armati dell’esercito sia stato ordinato di schierarsi sul confine di Gaza per affrontare manifestanti palestinesi.

Invece hanno parlato di scontri tra giovani di Gaza e cecchini, come se fossero forze equivalenti in una battaglia ad armi pari.

I media occidentali non sono ciechi. Se la gente comune è sempre più in grado di vedere la realtà riguardo alla situazione in Palestina, esperti giornalisti occidentali non possono ragionevolmente non vederla. Sanno, ma scelgono di rimanere in silenzio.

Il principio secondo cui la propaganda ufficiale israeliana, o “hasbara”, è troppo scaltra non basta più. Nei fatti non è neanche tanto vero.

Dov’è la scaltrezza nel modo in cui l’esercito israeliano ha spiegato l’uccisione di palestinesi disarmati a Gaza?

Ieri abbiamo visto 30.000 persone,” ha tweettato l’esercito israeliano il 31 marzo. ”Siamo arrivati preparati e con i rinforzi necessari. Niente è stato fatto per caso; tutto è stato accurato e misurato, e sappiamo dove è finito ogni proiettile.”

Se non bastasse, il ministro della Difesa di Israele, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, ha fatto seguito a questa auto-accusa dichiarando che “non ci sono persone innocenti a Gaza”, legittimando quindi il fatto di aver preso di mira ogni gazawi all’interno della Striscia assediata.

La scorretta informazione dei media non è alimentata dalla semplicistica nozione ”astuto Israele, arabi imprudenti.” I media occidentali sono attivamente coinvolti nella difesa di Israele e nella promozione della sua immagine in crisi, demolendo al contempo in modo accurato quella dei nemici di Israele.

Prendete per esempio l’infondata propaganda di Israele secondo cui Yasser Murtaja, il giornalista di Gaza che è stato ucciso a sangue freddo da un cecchino israeliano mentre informava sulle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” sul confine di Gaza, sarebbe stato un membro di Hamas.

All’inizio, “fonti ufficiali anonime” in Israele hanno affermato che Yasser era “un membro dell’apparato di sicurezza di Hamas.” Poi Lieberman ha offerto ulteriori dettagli (artefatti) secondo cui Yasser era sul libro paga di Hamas dal 2011 e “ricopriva un ruolo pari a quello di capitano”. Molti giornalisti hanno ripreso queste affermazioni e le hanno ripetute, associando continuamente ad Hamas ogni informazione sulla morte di Yasser.

Si è poi saputo che, secondo il Dipartimento di Stato USA, la nuova agenzia giornalistica di Yasser a Gaza aveva in realtà ricevuto un piccolo finanziamento da USAID [ente federale USA di cooperazione allo sviluppo, legata alla politica estera USA, ndt.], che ha sottoposto l’impresa di Yasser a un rigoroso processo di valutazione.

Ancora, un rapporto della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha affermato che Yasser era stato in realtà arrestato e picchiato dalla polizia di Gaza nel 2015 e che il ministero della Difesa israeliano stia costruendo una montatura.

A giudicare da ciò, l’apparato mediatico israeliano è inaffidabile e contraddittorio tanto quanto quello della Corea del Nord; ma non è questa l’immagine trasmessa dai media occidentali, che continuano a collocare Israele su un piedestallo mettendo al contempo in cattiva luce i palestinesi, indipendentemente dalle circostanze.

Ma nell’approccio dei mezzi di comunicazione occidentali alla Palestina e a Israele c’è di più della protezione ed esaltazione di Israele, con la demonizzazione dei palestinesi. Spesso i media lavorano per distrarre del tutto l’attenzione dai problemi, come oggi in Gran Bretagna, dove l’immagine di Israele sta rapidamente peggiorando.

Per impedire che si parli della Palestina, dell’occupazione israeliana e dell’incondizionato appoggio del governo britannico ad Israele, i principali media britannici hanno concentrato l’attenzione su Jeremy Corbyn, il popolare leader del partito Laburista.

Accuse di antisemitismo hanno perseguitato il partito fin dall’elezione di Corbyn nel 2015. Eppure Corbyn non è razzista, al contrario si è opposto al razzismo, a favore della classe operaia e di altri gruppi svantaggiati. La sua posizione fortemente favorevole ai palestinesi, in particolare, minaccia di imporre un cambiamento epocale su Palestina e Israele all’interno del rilanciato e rivitalizzato partito Laburista.

Purtroppo la contro-strategia di Corbyn è praticamente inesistente. Invece di rilasciare una dichiarazione di condanna di ogni forma di razzismo e di passare ad affrontare gli urgenti problemi in questione, compreso quello della Palestina, egli permette ai suoi detrattori di determinare la natura della discussione, se non di tutto il discorso. Ora è intrappolato in un dibattito senza fine, mentre il partito Laburista sta sistematicamente espellendo suoi membri per presunto antisemitismo.

Considerando che Israele e i suoi alleati nei media ed altrove confondono le critiche a Israele e alla sua ideologia sionista con quelle contro gli ebrei e l’Ebraismo, Corbyn non può vincere la sua battaglia.

Neppure gli amici di Israele sono interessati a vincere. Vogliono semplicemente prolungare un dibattito futile in modo che la società britannica rimanga invischiata in un diversivo e risparmi ad Israele ogni obbligo di rendere conto delle sue azioni.

Se i media britannici sono effettivamente ansiosi di denunciare il razzismo e di isolare i razzisti, perché allora si discute così poco sulle politiche razziste di Israele che prendono di mira i palestinesi?

Le acrobazie dei media continuano a fornire ad Israele i margini necessari per proseguire con le sue politiche violente contro il popolo palestinese, senza nessun costo morale. Rimarranno leali ad Israele, creando una barriera tra la verità e il pubblico.

Tocca a noi mettere in evidenza questo squallido rapporto e chiedere ragione ai media del fatto di nascondere i crimini di Israele, così come in primo luogo a Israele del perché li sta commettendo.

Ramzi Baroud è un giornalista, autore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo libro di prossima pubblicazione è “The Last Earth: A Palestinian Story” [“L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi Palestinesi all’università di Exeter ed è docente non residente presso l’“Orfalea Center for Global and International Studies” dell’università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




40 morti, 5.511 feriti: l’ONU pubblica i dati sulle vittime palestinesi delle manifestazioni di massa a Gaza nei pressi del confine con Israele

Jack Khoury

25 aprile 2018, Haaretz

Hamas afferma che le dimostrazioni continueranno persino dopo il 15 maggio il giorno della Nakba.

Martedì l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha pubblicato un rapporto secondo cui fin dal 30 marzo quaranta palestinesi sono stati uccisi e 5.511 feriti nella dimostrazioni di massa lungo la barriera di confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Da allora le manifestazioni sono avvenute ogni venerdì.

Le informazioni sulle vittime sono suddivise per data, tipologia della ferita, sesso ed età, nonché in base a dove la persona è stata curata.

2.596 feriti sono stati ricoverati in ospedali pubblici, 773 in quelli privati e i rimanenti sono stati curati sul posto. Di quelli portati in ospedali pubblici , 1.499 sono stati colpiti da pallottole vere, 107 da pallottole rivestite di gomma, 408 hanno sofferto per avere inalato gas lacrimogeni e 582 hanno subito altri tipi di ferite; 2.142 sono adulti e 454 minori.

Il rapporto afferma che “il settore della sanità a Gaza sta lottando per far fronte al grande flusso di feriti, dovuto ad anni di blocco, a divisioni interne e a una cronica crisi dell’energia che che a malapena consente di far funzionare i servizi essenziali.

Le informazioni si basano su dati provenienti dal ministero palestinese della Sanità di Gaza e l’OCHA afferma che essi sono solamente una fotografia preliminare e che si attendono ulteriori informazioni.

Mercoledì il ministero palestinese della sanità di Gaza ha annunciato la morte di Ahmed Abu Hassin, un fotoreporter colpito due settimane fa durante le proteste.

Le manifestazioni continueranno anche dopo il 15 maggio, giorno che i palestinesi ricordano come la Nakba (la Catastrofe), la nascita di Israele, ha detto mercoledì Ismail Haniyeh, capo dell’ ufficio politico di Hamas. “Il popolo palestinese manifesterà durante tutto il Ramadan per affrontare le molte sfide che si trovano di fronte a noi, prima fra tutte il piano di pace promosso dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, chiamato ‘l’Accordo del Secolo’” ha detto Haniyeh.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




È così che si fa, signorina Portman, ma è solo l’inizio

Gideon Levy

22 aprile 2018, Haaretz

Il rifiuto di Natalie Portman di prendere parte alla cerimonia del Premio Genesis è stato un grande colpo. Il suo chiarimento ha attenuato la portata del passo compiuto.

L’annuncio della decisione di Natalie Portman di boicottare la cerimonia del Premio Genesis è stato un colpo formidabile. Eccolo qui, che arriva dalla vetta del glamour, da un’innamorata di Israele quale lei è, ebrea, che parla ebraico, nata in Israele, cittadina di Israele e una fonte di orgoglio per Israele, e che ha molto da perdere. Non un’antisemita o una fondamentalista, non di estrema destra o della sinistra radicale, non Roger Waters, neppure una del BDS [movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndt.]. Proprio un colpo al centro, dal cuore del centro ebraico: una critica a Israele, le bibliche “ferite di un amico” [“Fedeli sono le ferite di un amico, ma ingannevoli sono i baci di un nemico” da Proverbi, 27:6, ndt.], persino una specie di boicottaggio.

Mentre artisti israeliani “di sinistra” hanno paura del rapper “The Shadow” [“L’ombra”, rapper israeliano di estrema destra, ndt.] e soprattutto della loro stessa ombra, un’artista del suo calibro arriva e fa una chiara dichiarazione su Israele. Insieme ad una coscienza, è necessaria una grande quantità di coraggio per un simile passo, soprattutto di fronte a una Hollywood ebraica, sionista, spietata, che non perdonerà Portman né se ne dimenticherà.

Né la perdonerà per questo la Destra israeliana: il ministro della guerra (contro il movimento BDS), cioè quello della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, ha subito pubblicato una lettera in cui spiega a Portman la situazione. Quello che sta succedendo a Gaza non è a causa nostra, è tutta colpa di Hamas. La solita propaganda insensata e menzognera, proprio nel giorno in cui i tiratori scelti dell’esercito israeliano hanno ucciso a sangue freddo un altro quindicenne e la foto di Mohammed Ayoub sanguinante sulla sabbia di Gaza è stata pubblicata in tutto il mondo. Si è subito scoperto che Erdan, come molti altri, era sicuro che il massacro di manifestanti a Gaza sia stato ciò che ha appiccato l’incendio nello stomaco di Portman. Ma non è stato così.

Il chiarimento di Portman ha attenuato la portata del passo compiuto: “Ho scelto di non partecipare perché non voglio apparire come una sostenitrice di Benjamin Netanyahu,” ha scritto. Un grande passo avanti e un piccolo passo indietro. Netanyahu è certamente un problema, ma non il problema su cui Portman, come persona di coscienza e sionista, deve far sentire la propria voce. Netanyahu è Israele.

Portman ha fatto molta strada, non solo dal suo primo film al suo Oscar, ma anche dalla lettera che pubblicò sull’ “Harvard Crimson” [“Harvard Cremisi”, giornale dell’università di Harvard, ndt.] 16 anni fa in difesa di Israele e negando la sua situazione di apartheid, al passo fatto venerdì.

Il cambiamento in lei, che a quanto pare è avvenuto in molti ebrei, è una buona notizia, come lo è il suo coraggio. Ma la strada è ancora lunga. Portman ha scritto che non sarebbe venuta a causa della “violenza, corruzione, disuguaglianza e abuso di potere.” Neppure una sola parola esplicita sul peccato originale, l’occupazione.

Né la protesta di Portman è diretta all’indirizzo giusto. È un’autodifesa incolpare Netanyahu di tutto. Come molti ebrei (e israeliani) progressisti, Portman considera Netanyahu la radice di ogni male. E cosa dire dei suoi predecessori, quelli che hanno seminato la distruzione e le uccisioni a Gaza e in Libano, che hanno imposto a Gaza un blocco crudele, che hanno rafforzato l’occupazione in Cisgiordania e triplicato il numero di coloni (lei ha stretto le loro mani, meno quella di Netanyahu)?

Il potere mediatico di Portman è enorme. Venerdì mattina la sua dichiarazione su Instagram aveva già riscosso 100.000 “mi piace”. Gli ebrei, come molti israeliani, hanno tirato un sospiro di sollievo. Portman è contro il BDS e contro Netanyahu, ma continua a onorare “il cibo, i libri, l’arte, il cinema e la danza israeliani”.

Con tutto il rispetto, signorina Portman, il cibo, la danza e il cinema israeliani sono anch’essi macchiati, in misura più o meno grande, dall’occupazione. Siamo tutti da condannare per questo. Il modo per porvi fine, che è la prima e fondamentale condizione per rendere Israele un Paese più giusto, passa da iniziative coraggiose come quella che lei ha preso, ma devono rivolgersi al cuore dell’inferno e non solo ai suoi margini; all’origine del tumore e non solo alle sue metastasi. Devono diventare iniziative concrete, come quelle che chiede il movimento BDS. È l’unico modo per scuotere Israele dall’autocompiacimento.

Mi tolgo umilmente il cappello di fronte a lei ed al suo coraggio, signorina Portman. La sua direzione è quella giusta; senza il vento in poppa da persone come lei, qui non cambierà niente. Ma è solo l’inizio.

(traduzione di Amedeo Rossi)