Una fucilazione di massa sponsorizzata dallo Stato

Michael Schaeffer Omer-Man

7 aprile 2018, +972

Nel giorno in cui cecchini dell’esercito sparano a centinaia di manifestanti disarmati, l’esercito dichiara che “le circostanze in cui dei giornalisti sono stati feriti sono ignote.” Le circostanze non potrebbero essere più chiare.

La scorsa settimana tiratori scelti e cecchini dell’esercito israeliano hanno sparato a oltre 1.000 dimostranti palestinesi disarmati all’interno della Striscia di Gaza, uccidendo più di 30 persone. Lo scorso venerdì almeno sei giornalisti palestinesi sarebbero stati tra le persone colpite durante la “Grande Marcia del Ritorno”. Uno di loro, Yasser Murtaja, un fotografo di “Ain Media”[una televisione locale, ndt.], che a quanto si dice aveva un elmetto e un giubbotto che indicava chiaramente “Stampa” quando è stato colpito, è morto in seguito per le ferite riportate.

L’esercito israeliano non prende di mira i giornalisti,” ha affermato sabato un portavoce israeliano, citato da numerose pubblicazioni, aggiungendo che “le circostanze in cui giornalisti sono stati feriti, apparentemente da fuoco dell’esercito israeliano, sono sconosciute e sono in via di accertamento.”

Fermiamoci proprio su questo punto.

Le circostanze in cui i giornalisti palestinesi sono stati colpiti dal fuoco dell’esercito israeliano non potrebbero essere più chiare. Le circostanze sono che l’esercito israeliano ha sparato contro 1.000 manifestanti disarmati nell’arco di una settimana.

Le circostanze sono che l’esercito israeliano, che insiste nel dire di non prendere di mira giornalisti, ha un record veramente scoraggiante nel non rendere responsabili i suoi soldati, piloti e generali del fatto di aver colpito ed ucciso giornalisti a Gaza. Ciò include l’assassinio nel 2012 di due giornalisti che stavano viaggiando in un’auto su cui c’era chiaramente scritto “TV”, numerosi attacchi aerei contro media e sedi informative, ed altro.

Le circostanze sono che, una settimana dopo l’altra, le forze di sicurezza israeliane in modo sistematico non hanno fatto nessuna differenza tra i giornalisti palestinesi e le proteste e gli avvenimenti su cui stavano informando, utilizzando indistintamente la violenza contro entrambi. In innumerevoli casi, sia documentati che no, dei giornalisti sono stati chiaramente presi di mira dalle truppe – e l’esercito spesso difende sfacciatamente questa violenza.

In genere esito a fare qualunque tipo di previsione, ma ecco come vedo quello che succederà. L’esercito israeliano alla fine se ne uscirà con un comunicato in merito a come non possa arrivare a alcuna conclusione definitiva su chi abbia sparato a Yasser Murtaja, o sul perché sia stato colpito, ma sarà in grado di concludere in modo definitivo che l’esercito israeliano non prende di mira giornalisti – per cui è stato sicuramente colpito per errore. Una tragedia che può essere interamente attribuita ad Hamas (la colpa è sempre di Hamas).

Ma Murtaja non è stato l’unico giornalista a cui quel giorno i cecchini israeliani hanno sparato. Sparare alla persona sbagliata potrebbe ragionevolmente essere un caso. Sei giornalisti colpiti lo stesso giorno suggeriscono qualcosa di più sinistro.

Sappiamo già che nelle precedenti proteste a Gaza ai soldati non sono state praticamente fornite linee guida riguardo a chi colpire – solo di sparare alla gente. Sappiamo anche che nel passato importanti fonti ufficiali israeliane hanno giustificato il fatto di prendere di mira giornalisti palestinesi (puntualmente, sabato notte il ministro della Difesa israeliano ha pubblicamente giustificato l’uccisione di Murtaja). Sappiamo anche che raramente i soldati sono chiamati a rispondere per aver ferito giornalisti, soprattutto se palestinesi. E poi ci sono casi come le uccisioni del “Giorno della Nakba” nel 2014, quando uno scellerato cecchino in divisa semplicemente decise di iniziare ad uccidere persone.

Probabilmente non sapremo mai chi ha ucciso Yasser Murtaja.

La verità in merito è che, mentre è particolarmente vergognoso quando le forze di sicurezza colpiscono giornalisti, soprattutto se si è giornalisti, l’uso arbitrario di proiettili letali contro persone disarmate che manifestano dall’altro lato di un confine fortificato, indipendentemente da quello che stanno facendo in quel momento e da quale sia la loro professione o affiliazione politica, è semplicemente indifendibile.

È tempo di iniziare a chiamare tutto ciò per quello che è: una serie di fucilazioni di massa sponsorizzate dallo Stato, che ci possiamo aspettare si ripeteranno nelle prossime cinque settimane. Chiedere che l’esercito faccia un’indagine per l’uccisione di un giornalista non è abbastanza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




A Gaza Israele va oltre la sua consueta ferocia

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

Gli israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro dimostranti disarmati.

Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza: il sogno di un giovane scultore fermato da un cecchino israeliano

Patrizia Cecconi

1 aprile 2018, Pressenza

L’hanno ucciso così, con un colpo in fronte. Esecuzione senza processo detta pure assassinio. Era un artista. Aveva 28 anni, si chiamava Mohammed Abu Amr. Era scultore e gli piaceva realizzare alcune opere sulla spiaggia di Gaza. Come per tanti altri artisti palestinesi i temi delle sue creazioni  nascevano dalle particolari condizioni imposte dall’illegalità e dalla profonda ingiustizia subite da questo popolo da troppi decenni.
Usava la grafia araba in forma artistica Mohammed, e l’ultima delle sue opere, realizzata il giorno prima di essere assassinato, rappresentava il suo sogno, che poi è il sogno collettivo rivendicato nella “grande marcia del ritorno”che un popolo festoso ma determinato ha iniziato il 30 marzo, giornata della terra, e concluderà il 15 maggio, giornata della naqba, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Era il sogno del ritorno.
Manifestava a Shujaya a est di Gaza city, insieme a decine di migliaia di altre persone di ogni età, sesso e colore e di diverso credo religioso perchè – cosa che molti ignorano – in tutta la Palestina, Gaza compresa, i palestinesi sono sia cristiani, benchè in minoranza, che musulmani, e subiscono la stessa sorte.
La “grande marcia”, organizzata  da giovani palestinesi al di fuori dei partiti politici e quindi trasversale alle diverse fazioni,  aveva tutta l’aria di una grande festa di popolo, di questo popolo che viene spesso descritto in modo assolutamente opposto a quel che realmente è: un popolo che nelle avversità più incredibili riesce a trovare la capacità di vivere senza rinunciare, per quanto possibile,  alla gioia.
Non c’erano che tre o quattro internazionali nella Striscia a testimoniare l’evento, e le loro testimonianze coincidono tutte: una grande manifestazione pacifica, con bambini, vecchi, addirittura persone invalide, uomini e donne di ogni ceto sociale. La loro unica arma era la determinazione a marciare verso il border per dire agli assedianti che Gaza non ne può più, per ricordare al mondo le continue violazioni subite e, in particolare, per rivendicare il diritto al ritorno nelle loro case sancito dalla Risoluzione Onu 194, inapplicata da Israele come tante altre decine di Risoluzioni senza avere per questo alcuna sanzione.
Al solito, i media principali italiani hanno fatto a gara nel raccontare con grande sicurezza versioni lontane dalla realtà, pur non avendo i loro inviati nella Striscia. Tv e giornali hanno parlato per due giorni, quelli che ne hanno parlato, di scontri e battaglie  ed hanno aggiunto, come da velina israeliana pubblicamente diffusa, il tutto voluto dai vertici di  Hamas. Invece non si è trattato di battaglia, ma di un vero e proprio tirassegno a uomini, donne e bambini che manifestavano pacificamente e a mani nude.
Mohammed è stato uno dei primi martiri ad essere colpito. Potremmo dire vittima, e infatti lo è, ma le vittime degli oppressori sono testimoni del diritto a resistere e pertanto, anche etimologicamente, divengono martiri. I tiratori scelti che Israele aveva appostato lungo il border l’hanno colpito a distanza, e con mira perfetta lo hanno centrato sulla fronte. Le parole di Mohammed, consegnate alla memoria in seguito a un’intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, ora sembrano un monumento alla speranza. Il giovane scultore non avrà il futuro che sognava, i cecchini israeliani hanno fermato la sua vita e la sua carriera a soli 28 anni e Mohammed non sarà più un artista, perché da ieri è diventato un martire e un eroe. Aveva detto nell’ultima intervista “sii umano, sii ottimista, fissa un obiettivo nella tua vita e apriti agli altri…. possiamo realizzare nei sogni quello che non siamo riusciti a realizzare nella realtà…immaginiamo che i nostri sogni diventino noi stessi come una realtà incarnata e superiamo così alcune delle nostre difficoltà e dei nostri conflitti psicologici”. Questa era la sua filosofia, ora è il suo testamento ideale.
Adesso lo scultore Mohammed, insieme ad altri 16 ragazzi, alcuni quasi bambini, arricchirà la lista degli eroi. Gaza ha perso un artista ed ha guadagnato un testimone e questo Israele, sempre pronto a convincere il mondo del suo bisogno di sicurezza dovrebbe capirlo.
Soprattutto dovrebbero capirlo i Governi e le Istituzioni che sostengono questo Paese sempre più ricco di manifesta illegalità. Dovrebbero capirlo non solo per quel principio di giustizia che i palestinesi rivendicano e che la comunità umana avrebbe diritto a veder rispettato, ma anche per la stessa sicurezza del Paese loro amico il quale,  macchiandosi di crimini sempre impuniti, incrementa l’odio e non certo la sicurezza.  E il sogno di Mohammed Abu Amr e degli altri sognatori uccisi con lui, seguiterà  ad essere  il sogno dei palestinesi  l’incubo di Israele.




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il NYTimes nasconde le uccisioni di manifestanti non violenti sul confine di Gaza da parte di Israele

James North

30 marzo 2018, Mondoweiss

Nota redazionale: riteniamo interessante per il lettore italiano questo articolo in quanto non solo il New York Times è uno dei più importanti giornali al mondo, ma anche perché buona parte delle critiche qui proposte si può applicare ai tre principali quotidiani italiani, che hanno parlato degli ultimi avvenimenti a Gaza come di “guerra”, “guerriglia”, “sparatorie”, “Assedio alle frontiere”, “giorno di battaglia”, come se da entrambe le parti ci fosse stata un’aggressione armata. Infine, come nel caso del quotidiano statunitense, nessuno dei giornalisti di questi quotidiani era presente o ha cercato di intervistare i manifestanti palestinesi.

Oggi il NYTimes continua con la sua informazione di parte su Israele/Palestina, con un reportage scioccante a senso unico che cerca di nascondere come Israele abbia aperto il fuoco contro una protesta palestinese non violenta e di massa all’interno dei confini di Gaza.

La disonestà inizia dalla prima frase dell’articolo del Times, in cui si asserisce che le proteste “sono degenerate quasi subito nel caos e nel bagno di sangue”, con “almeno cinque palestinesi uccisi in scontri con i soldati israeliani.”

Si noti lo scaltro tentativo di usare l’indeterminatezza per nascondere il fatto che Israele ha sparato munizioni letali (“sono degenerate…in un bagno di sangue”), e “scontri” – insinuando che entrambe le parti siano in qualche modo responsabili dei cinque morti.

La parzialità continua nel secondo paragrafo dell’articolo del Times, in cui sostiene – senza virgolette – che “migliaia di palestinesi stavano provocando disordini in sei località lungo il confine.” Al contrario, sia il Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndt.] che la BBC [televisione pubblica inglese, ndt.] nei loro reportage presentano le parole “provocando disordini” tra virgolette, e l’attribuiscono chiaramente all’esercito israeliano, sottolineando che si tratta della versione di una parte, non di un fatto dimostrato. Ecco la versione della BBC: “L’esercito israeliano ha informato di ‘disordini’ in sei luoghi ed ha affermato che stava ‘sparando contro i principali sobillatori.’”

La disonestà continua. Il Times descrive Hamas come “il gruppo di miliziani islamisti che domina Gaza ed è noto per la sua resistenza armata.” Va bene, piuttosto tendenzioso, ma dov’è la descrizione di Israele come “un governo che ha massicciamente attaccato Gaza per tre volte dal 2008, uccidendo migliaia di persone, per lo più civili e molti bambini?”

Poi il Times cita il blocco israeliano di Gaza, “che Israele definisce una necessità assoluta per la sicurezza.” Ma non leggerete l’altra versione, cioè che molti altri, palestinesi ed alcuni israeliani, controbattono che Israele continua con il blocco essenzialmente non per proteggere se stesso, ma per soffocare e screditare Hamas, che ha vinto le elezioni a Gaza nel 2006.

Poi ancor più di parte. Il Times: “Preparandosi alla violenza, Israele ha praticamente raddoppiato le sue forze lungo il confine, schierando cecchini, unità speciali e droni…” Ma c’è un’altra, molto più corretta, versione della vicenda: “Israele, per affrontare una sconfitta propagandistica in quanto migliaia di gazawi avevano lanciato una pacifica protesta di massa, ha fatto tutto il possibile per provocare la violenza e screditare la manifestazione ed intimidire ancora una volta i gazawi.”

Nascosta nell’articolo del Times c’è solo una minima cosa su quello che è realmente avvenuto, una citazione di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: B’Tselem “in un comunicato ha avvertito che ogni politica di ‘sparare per uccidere’ contro manifestanti disarmati sarebbe illegale…”

Quello che è sconvolgente e vergognoso nell’articolo del Times è che finora non c’è nessun reportage di prima mano da Gaza. Un giornale realmente interessato alla verità avrebbe mandato dei giornalisti sul confine a Gaza e avrebbe chiesto a qualcuno delle migliaia di manifestanti palestinesi cosa gli sia realmente successo – invece di ripetere solo [quello che ha detto] l’esercito israeliano.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le forze israeliane uccidono 16 persone a Gaza mentre i palestinesi manifestano nel “Giorno della Terra”

MEE ed agenzie


Venerdì 30 marzo 2018, Middle East Eye

Più di 1.000 manifestanti feriti mentre i palestinesi rivendicano il diritto al ritorno e la fine del furto di terra.

Secondo le autorità venerdì le forze israeliane hanno ucciso almeno 16 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, mentre decine di migliaia manifestavano nei territori occupati e in Israele nel “Giorno della Terra”.

Il giorno della Terra” nasce nel 30 marzo 1976, quando forze israeliane uccisero sei palestinesi con cittadinanza israeliana durante una protesta contro la confisca di terre. I palestinesi hanno celebrato questo giorno negli scorsi 42 anni per denunciare le politiche israeliane di appropriazione della terra palestinese.

Quest’anno ciò è avvenuto sulla scia di mesi di rabbia contro la decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, generalmente percepita come il rifiuto da parte degli Stati Uniti delle rivendicazioni palestinesi su Gerusalemme est come loro capitale nel contesto della soluzione dei due Stati.

Nella Striscia di Gaza, dove 1.3 dei 2 milioni di abitanti del piccolo territorio sono rifugiati, gli organizzatori della protesta hanno promosso sei settimane di manifestazioni chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” lungo il confine tra l’enclave palestinese assediata e Israele, che iniziano con il “Giorno della Terra” e culmineranno il 15 maggio con il “Giorno della Nakba”, che segna l’espulsione dei palestinesi da Israele nel 1948.

Mentre il discorso politico israeliano con il primo ministro Benjamin Netanyahu si sposta ulteriormente a destra, i palestinesi sono diventati sempre più scettici riguardo alla possibilità di negoziati o di un miglioramento delle loro condizioni di vita a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nello stesso Israele.

Il ministero [della Salute di Gaza, ndt.] ha aggiunto che, alla fine del pomeriggio, più di 1.000 manifestanti sono stati feriti. Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE di stimare che circa 800 manifestanti di Gaza siano stati colpiti da proiettili veri.

Secondo il ministero della Salute, ore prima delle proteste un carrarmato israeliano ha ucciso un contadino gazawi e ne ha ferito un altro.

Omar Samour, 27 anni, è stato ucciso da martire e un altro abitante è stato ferito a est del villaggio di Qarara in seguito al fatto che i contadini sono presi di mira,” ha detto un portavoce del ministero della Salute di Gaza. Abitanti del villaggio a sud della Striscia di Gaza hanno detto che Samour era andato a raccogliere erbe.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato l’incidente: “Durante la notte due sospetti si sono avvicinati alla barriera di sicurezza, hanno iniziato a muoversi in modo sospetto e il carrarmato ha sparato verso di loro,” ha affermato il portavoce.

Il portavoce di Antonio Guterres ha affermato in un comunicato che il segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto un’inchiesta indipendente e trasparente sulle morti e feriti venerdì a Gaza.

Ha anche fatto appello a quanti sono coinvolti per evitare ogni atto che possa portare ad ulteriori vittime, e in particolare ogni misura che possa mettere in pericolo i civili,” ha detto il portavoce ONU Farhan Haq.

Brutale violazione”

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato che almeno 16 manifestanti palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane sul confine con Israele, ed ha identificato alcune delle vittime: Mohammad Kamel Najjar, 29 anni, ucciso nei pressi di Jabalia, a nord di Gaza; Mahmoud Abu Muammar, 38 anni, nei pressi di Rafah, a sud; Mohammad Abu Amro, noto artista della Striscia di Gaza; il sedicenne Ahmad Odeh, a nord di Gaza City; Jihad Farina, 33 anni, a est di Gaza City; Mahmoud Rahmi, 33 anni; Ibrahim Abu Shaer 22 anni, nei pressi di Rafah; Abd al-Fattah Bahjat Abd al-Nabi, 18 anni; Abd al-Qader al-Hawajra, 42 anni, ucciso nella zona centrale di Gaza; Sari Abu Odeh; Hamdan Abu Amsha, nei pressi di Beit Hanoun, nel nord di Gaza.

L’ong per i diritti umani “Adalah” ha denunciato l’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili letali come una “brutale violazione degli obblighi legali internazionali nella distinzione tra civili e combattenti,” ed ha chiesto un’inchiesta sulle uccisioni. In un comunicato l’esercito israeliano ha annunciato di aver dichiarato l’area di confine della Striscia di Gaza una zona militare chiusa – intendendo che ogni palestinese che si trovi vicino alla recinzione di confine può rischiare di essere colpito.

La marcia ha raggiunto i suoi obiettivi, ha scosso i pilastri dell’entità (Israele), ed ha posto il primo mattone sulla via del ritorno,” ha detto a MEE Ismail Haniyeh, uno dei principali dirigenti politici di Hamas mentre visitava un campo della protesta a Gaza.

Secondo il mezzo di informazione israeliano di sinistra “+972 Magazine”, un gruppo israeliano noto come la “Coalizione delle Donne per la Pace”, pensa di unirsi alla protesta sul lato israeliano.

La distanza tra quello che stiamo sentendo sugli eventi dall’interno di Gaza e l’istigazione [alla violenza] che stiamo sentendo nei media israeliani è enorme e non lascia dubbi sulle intenzioni violente delle autorità israeliane. Speriamo che i nostri timori di una risposta militare violenta si dimostrino sbagliati, ma indipendentemente da ciò sabato saremo presenti in appoggio ai manifestanti, che hanno il diritto di chiedere i propri diritti e la propria libertà,” ha detto Tania Rubinstein, una coordinatrice del gruppo.

A settecento metri da quei soldati c’è il mio diritto e il diritto del popolo palestinese a tornare a casa dopo 70 anni di espulsione. Non aspetteremo altri 70 anni,” ha detto a MEE Alaa Shahin, un giovane uomo palestinese che stava festeggiando il suo matrimonio in un campo di protesta nei pressi di Jabaliya.

Conservo ancora i documenti originali della nostra terra a Nilya, che ho ereditato da mio padre,” ha detto Yousef al-Kahlout, un insegnante di storia in pensione che venerdì ha partecipato ad una delle manifestazioni di Gaza insieme a cinque dei suoi nipoti. “Oggi spiego ai miei nipoti che loro hanno il diritto di riprenderne possesso se io non fossi più vivo per realizzare il mio sogno di tornare.”

Mentre gli organizzatori di Gaza hanno insistito che le manifestazioni sarebbero state pacifiche, vari incidenti di gazawi arrestati dopo essere entrati in Israele negli scorsi giorni – compresi tre palestinesi che stavano portando armi – hanno visto le forze israeliane ansiose di dimostrare il proprio controllo della situazione.

In un comunicato l’esercito israeliano ha confermato che stava usando “mezzi per disperdere disordini” – un termine regolarmente utilizzato in riferimento a gas lacrimogeni e a bombe assordanti – così come sparando ai “principali istigatori” della protesta.

La “Grande Marcia del Ritorno” ha anche visto le forze israeliane utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeni sui manifestanti – una tecnologia che è stata usata solo poche volte a Gaza dalle forze israeliane.

Mercoledì il capo dell’esercito israeliano ha detto che più di 100 cecchini sono stati schierati sul confine di Gaza in vista delle previste manifestazioni di massa nei pressi della frontiera. Pesanti pale meccaniche hanno costruito cumuli di terra sul lato israeliano del confine ed è stato collocato filo spinato come ulteriore ostacolo contro qualunque tentativo dei dimostranti di violare il confine nel territorio israeliano.

Proteste del “Giorno della Terra” in Israele e in Cisgiordania

Nel contempo venerdì i palestinesi hanno manifestato anche in Israele e in Cisgiordania per commemorare il “Giorno della Terra”. Nella città a maggioranza palestinese di Arraba, nella regione della Galilea, nel nord di Israele, migliaia di persone, compresi parlamentari palestinesi della Knesset israeliana, sindaci e personalità religiose, sono scesi in strada.

Prima del corteo membri dell’”Alta Commissione di Verifica per i Cittadini Arabi di Israele” della Knesset si sono recati alle tombe dei sei palestinesi cittadini di Israele che vennero uccisi durante la prima marcia del “Giorno della Terra” nel 1976, nei cimiteri di Arraba, Sakhnin e Deir Hanna.

Israele sta ancora rubando e confiscando le nostre terre, e l’oppressione continua contro il nostro popolo all’interno del ’48, nella diaspora e a Gaza,” ha detto in un discorso il sindaco di Arraba Ali Asleh, utilizzando una perifrasi per riferirsi alle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948.

Secondo mezzi d’informazione palestinesi ci sono stati scontri in alcune città della Cisgiordania, comprese

Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE che l’organizzazione ha curato almeno 63 manifestanti in Cisgiordania, la maggior parte per aver inalato gas lacrimogeno, mentre almeno 10 sono stati feriti da proiettili di metallo rivestito di gomma.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele pensa di revocare la residenza ai deputati palestinesi di Hamas

Lee Yaron, Jack Khoury

20 marzo 2018 Haaretz

L’iniziativa del ministro dell’interno in base alla nuova legge farebbe perdere a 12 palestinesi coinvolti nel terrorismo il proprio status giuridico; quattro di loro sono membri del parlamento di Hamas.

Israele sta prendendo in considerazione la revoca della residenza permanente a 12 palestinesi di Gerusalemme est, a causa del loro coinvolgimento in attività terroristiche. Tra i 12 vi sono quattro rappresentanti di Hamas nel Parlamento palestinese.

In una dichiarazione si afferma che il ministro dell’Interno Arve Dery ha iniziato a considerare questo passo dopo che la Knesset (Parlamento israeliano) due settimane fa ha approvato la legge necessaria. La nuova legge consente al ministro di togliere a tutti i residenti permanenti, inclusi i palestinesi di Gerusalemme est, i loro diritti di residenza, se coinvolti in attività terroristiche o in altre azioni contro lo Stato di Israele.

La legge è stata approvata in risposta ad una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia dello scorso settembre, che ha ribaltato una decisione, di oltre un decennio fa, di revocare la residenza permanente a quattro parlamentari. I quattro – Mohammed Abu Tir, Ahmed Atoun, Mohammed Totah e Khaled Abu Arafeh – hanno tutti ricoperto ruoli chiave nelle istituzioni di Hamas.

Dery sta anche considerando di revocare la residenza a Mohammed Abu Kef, Walid Atrash e Abed Dawiat, che hanno ucciso un israeliano quando, alla vigilia di Rosh Hashanah (uno dei tre capodanno religiosi ebraici, ndtr) del 2015, hanno preso a sassate la sua automobile a Gerusalemme. Nella lista compare anche Bilal Abu Ghanem, che nel 2015 ha compiuto un attacco su un autobus a Gerusalemme, uccidendo tre israeliani.

Avil Qassam, Asem Abbasi, Mohammed Odeh e Ali Abbasi sono nella lista perché facevano parte di una cellula coinvolta in diversi attacchi terroristici, compresa la bomba al caffè Moment di Gerusalemme nel 2002, che uccise 11 israeliani.

“L’uccisione di israeliani ed il coinvolgimento in attacchi contro civili è la più grave rottura della fiducia tra un residente e il suo Paese”, ha detto Dery. “Lo stesso vale per il coinvolgimento attivo e significativo in organizzazioni terroristiche. Residenti e cittadini che mettono a rischio la popolazione israeliana e costituiscono una minaccia alla sua sicurezza devono sapere che il loro status è in pericolo, al di là di altre punizioni previste dalla legge. Io lavorerò con tutte le mie forze e con tutti i mezzi a mia disposizione per combattere i terroristi e chiunque sia coinvolto o fiancheggi il terrorismo.”

L’avvocato Osama Saadi, che rappresenta i quattro parlamentari di Hamas, ha detto: “L’emendamento in questione è incostituzionale e persino il pubblico ministero vi si è opposto. Inoltre, la legge stabilisce che in ogni caso non è possibile revocare la residenza ai residenti di Gerusalemme est, che hanno uno status speciale, e lasciarli senza alcuna residenza.

Inoltreremo una petizione all’Alta Corte a favore di queste quattro persone che, come ricorderete, hanno condotto una battaglia legale contro la revoca della loro residenza fin dal 2006 ed hanno vinto la causa pochi mesi fa”, ha aggiunto. “Questo emendamento viola il diritto internazionale e le revoche cumulative, come sta avvenendo oggi, dimostrano che questa è una legge politica fatta da un governo folle.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Chi c’è dietro il tentativo di assassinare il primo ministro palestinese?

Amira Hass

14 marzo 2018, Haaretz

È facile incolpare Hamas dell’attacco avvenuto a Gaza, ma ci sono sospetti molto più probabili.

Hamas non ha e non potrebbe avere alcun interesse nell’attaccare importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese mentre andavano ad inaugurare un impianto di trattamento delle acque reflue che gli abitanti della Striscia di Gaza attendevano da molto tempo.

Hamas non ha neppure interesse a far finta di niente e a lasciare che qualcun altro attacchi i visitatori [arrivati] da Ramallah. Hamas si vuole dipingere come una potenza forte che governa e che desidera cedere la propria parte di potere perché preoccupata per il popolo, e non a causa dei propri fallimenti. Il fatto che non sia riuscita a impedire questo attacco indebolirà la sua posizione nei colloqui con Egitto e Fatah, la fazione dominante nell’ANP.

Data la continua e prevedibile situazione di stallo del dialogo per la riconciliazione tra Hamas e Fatah, questo è un compromesso che conviene ad Hamas: controlla di fatto Gaza, ma gli Stati donatori che lo boicottano continuano a costruire, attraverso l’ANP, le infrastrutture vitali ed urgentemente necessarie. Il successo di questi progetti infrastrutturali mitiga il disastro ambientale ed umanitario provocato dall’assedio israeliano. Probabilmente ridurranno le enormi sofferenze della popolazione, anche se solo un poco, e di conseguenza neutralizzeranno anche una delle principali ragioni della rivolta sociale contro Hamas.

Nel 2007 cinque persone annegarono nelle acque reflue che fuoriuscirono dalla vasca del vecchio ed inadeguato impianto di trattamento di Beit Lahia. Per anni acque fognarie non trattate si sono riversate in mare e sono penetrate nell’acquifero, con tutte le implicazioni note ed ignote che ciò comporta.

L’attuale impianto, il cui costo di 75 milioni di dollari è stato coperto da Svezia, Belgio, Francia, Commissione Europea e Banca Mondiale, dovrebbe servire circa 400.000 persone. Il Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia) e il dipartimento di Stato USA hanno tenuto i contatti con le autorità israeliane in modo che consentissero l’ingresso a Gaza dei materiali da costruzione e degli esperti necessari. Senza la loro assistenza probabilmente la costruzione sarebbe durata molti più anni.

Secondo il comunicato stampa della Banca Mondiale, Israele e l’ANP hanno raggiunto un accordo temporaneo per la fornitura dell’energia elettrica necessaria per far funzionare l’impianto, senza la quale sarebbe stato una cattedrale nel deserto. Israele ha già accettato di attivare un’altra linea elettrica. Ma l’ANP ed Hamas devono ancora raggiungere un accordo su come pagare questa elettricità aggiuntiva.

La disputa sul finanziamento di servizi come l’elettricità per gli abitanti di Gaza è descritta come il principale ostacolo al progresso dei tentativi di riconciliazione tra Fatah ed Hamas. Ma queste discussioni di natura finanziaria – che avvengono nel momento in cui la popolazione di Gaza è sprofondata in una povertà e in una disperazione senza precedenti – sono semplicemente una copertura dell’inimicizia e della mancanza di fiducia tra i due principali movimenti palestinesi.

L’ANP sostiene di spendere una parte significativa del suo bilancio a Gaza, mentre Hamas non condivide le proprie entrate con L’ANP. Ma i gazawi affermano che una parte significativa di queste spese è coperta dai diritti di dogana che l’ANP riscuote sulle merci importate a Gaza via Israele.

Hamas chiede che l’ANP paghi i salari di circa 20.000 dipendenti pubblici che Hamas ha assunto durante i suoi anni al potere. Ramallah chiede che prima gli venga dato il controllo totale di ogni attività governativa a Gaza, compresa la riscossione delle tasse e dei versamenti.

Hamas continua a riscuotere imposte al consumo non ufficiali per finanziare la propria amministrazione nel territorio (le sue attività militari sono finanziate soprattutto con denaro dall’estero).

Hamas sta cercando di incrementare la quantità e varietà di beni importati attraverso l’Egitto, da cui ricava tasse. Gli abitanti di Gaza dicono che l’ANP ha fatto tutto quanto in suo potere per evitare che i prodotti arrivassero attraverso l’Egitto, proprio perché questi forniscono entrate ad Hamas. I gazawi sostengono anche che il governo del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha preparato ulteriori “misure punitive” contro Gaza – come il taglio del bilancio municipale e ulteriori tagli ai salari che Abbas eroga ai “suoi” lavoratori del pubblico impiego, che sono stati pagati per non lavorare fin da quando nel 2007 Hamas ha preso il potere a Gaza.

Che sia vero o no, quello che importa è che i gazawi accusano Abbas e Fatah di cercare di sottometterli economicamente in modo che Hamas rinunci alle proprie richieste di condivisione nell’assunzione di decisioni politiche e nelle istituzioni dell’OLP.

La richiesta di Abbas di “un solo governo, una sola forza armata” è logica e naturale, e tale è anche il suo timore che Hamas voglia rinunciare alle responsabilità sulle questioni civili e poi raccogliere un vantaggio politico, soprattutto tra i palestinesi della diaspora, dalla sua reputazione come “movimento di resistenza”. Ma al contempo Abbas non consente [che si tengano] nuove elezioni (in Cisgiordania e a Gaza), ha bloccato da 12 anni il Consiglio Legislativo Palestinese e controlla il sistema giudiziario.

A fine aprile il Consiglio Nazionale Palestinese, il parlamento dell’OLP, si dovrebbe riunire a Ramallah. I suoi parlamentari includono tutti i membri di Hamas eletti al consiglio legislativo nel 2006. Il solo fatto che si riunisca a Ramallah piuttosto che in un posto come Il Cairo o Amman è una chiara prova che Abbas e Fatah non sono interessati alla partecipazione di delegati di Hamas e di altri gruppi di opposizione, a cui Israele non vuol concedere di uscire da Gaza o di entrare in Cisgiordania.

In questa situazione persino le ragionevoli richieste politiche di Abbas ad Hamas sono viste come passi per consolidare il suo potere autoritario e conservare il controllo di Fatah sull’OLP e sull’ANP.

Prima di arrivare alla conclusione che Mohammed Dahlan, il rivale di Abbas, o gruppi salafiti siano dietro l’attacco di martedì contro il convoglio del primo ministro palestinese Rami Hamdallah, è altrettanto possibile immaginare un altro scenario, in cui i responsabili siano stati alcuni giovani, senza un progetto politico ma con accesso ad esplosivi, influenzati dalla descrizione di Fatah e dell’ANP come collaborazionisti che hanno abbandonato Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Stephen Hawking e Hamas: come uno scienziato ha preso la parola a favore dei palestinesi

Redazione di MEE

mercoledì 14 marzo 2018,Middle East Eye

Nel 2006 il fisico, morto mercoledì, incontrò il primo ministro israeliano Ehud Olmert, ma auspicò colloqui tra Israele ed Hamas dopo la guerra contro Gaza del 2008-09

Mercoledì si sono resi omaggi al famoso fisico inglese Stephen Hawking – ricordandolo non solo per la genialità della sua mente come scienziato, ma anche come appassionato attivista che ha prestato la propria impareggiabile voce a cause come il diritto dei palestinesi a resistere e per chiedere la fine della guerra in Siria.

Hawking, morto mercoledì mattina a 76 anni, raggiunse la fama internazionale in seguito alla pubblicazione nel 1988 di “Una breve storia del tempo”, il suo libro sulla ricerca di fisica teorica per una teoria unitaria che permettesse di risolvere [la contraddizione tra] la relatività generale e la meccanica quantistica.

Il libro arrivò a vendere più di 10 milioni di copie e trasformò Hawking in uno dei più rinomati scienziati al mondo.

A quel tempo Hawking era costretto su una sedia a rotelle e in grado di parlare solo tramite il suo particolare sintetizzatore vocale, poiché all’età di 22 anni gli venne diagnosticata una patologia neuronale.

Tra quanti hanno postato sui social media omaggi alla sua memoria ci sono stati i militanti per i diritti dei palestinesi, che hanno ricordato il suo appoggio al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), che chiede il boicottaggio accademico di Israele.

Nel 2013 Hawking si è ritirato da una conferenza a Gerusalemme sul futuro di Israele, affermando di aver deciso di “rispettare il boicottaggio” in base al parere di accademici palestinesi.

Hawking è stato condannato da sostenitori di Israele ; un portavoce del ministero degli Esteri israeliano ha detto: “Mai uno scienziato di una tale importanza ha boicottato Israele.”

Israel Maimon, il presidente della conferenza, ha affermato: “Il boicottaggio accademico di Israele secondo noi è vergognoso e scorretto, sicuramente da parte di una persona per la quale lo spirito di libertà è alla base della propria missione umana e accademica.”

Nel gennaio 2009, parlando con Al Jaazera dell’invasione israeliana di Gaza, “Piombo fuso”, in cui vennero uccisi più di 1.000 palestinesi, Hawking disse: “Un popolo sotto occupazione continuerà a resistere in ogni modo possibile. Se Israele vuole la pace dovrà parlare con Hamas come la Gran Bretagna ha parlato con l’IRA (l’Irish Republican Army) [il gruppo armato degli indipendentisti irlandesi, ndt.].”

Hamas è il rappresentante democraticamente eletto del popolo palestinese e non può essere ignorato.”

In quel periodo la posizione di Hawking sulla Palestina sembrò essersi radicalizzata, dai tempi della visita di otto giorni in Israele nel 2006, quando si incontrò con l’allora primo ministro Ehud Olmert.

Durante quel viaggio Hawking tenne anche una lezione presso l’Università Ebraica di Gerusalemme e visitò l’università [palestinese] di Birzeit nella Cisgiordania illegalmente occupata.

Hawking ha anche utilizzato la sua pagina Facebook per appoggiare gli scienziati palestinesi, chiedendo lo scorso anno ai suoi followers di donare fondi per sostenere l’apertura di una seconda scuola palestinese di studi di fisica avanzata.

Nel 2014 Hawking ha anche fatto sentire la propria voce sulla guerra in Siria, come parte di una campagna di “Save the Children”, per ricordare quello che allora era il terzo anno del conflitto, dando voce alle esperienze dei bambini colpiti dagli scontri.

Hawking ha affermato: “Quello che sta avvenendo in Siria è un abominio che il mondo sta guardando impotente dall’esterno. Dobbiamo lavorare insieme per porre fine a questa guerra e per proteggere i bambini siriani.”

Nel 2003 Hawking si espresse anche contro l’invasione dell’Iraq guidata dagli USA.

Nel 2004, rivolgendosi ad un raduno contro la guerra, Hawking disse che la guerra era stata giustificata sulla base delle “due menzogne”, secondo cui l’Iraq possedeva ordigni di distruzione di massa e insinuazioni su legami tra il governo di Saddam Hussein e gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro gli USA.

È stata una tragedia per tutte le famiglie. Se questo non è un crimine di guerra, che cos’è?” disse Hawking. “Mi scuso per la mia pronuncia. Il mio sintetizzatore vocale non è stato impostato per i nomi iracheni.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I sogni rinviati della Striscia di Gaza

Mariam Abu Alatta

13 marzo 2017, Haaretz

Dopo aver lottato per sviluppare una carriera da architetto nella Striscia di Gaza, è cresciuta in me la consapevolezza che la promozione dei diritti delle donne era un altro modo di contribuire al miglioramento della mia comunità.

Sognavo di diventare architetto da quando ero una ragazza, cresciuta in Kuwait e poi in Iraq, figlia di palestinesi della Striscia di Gaza che furono espulsi con la forza nel1967. Mi sono trasferita di nuovo nella Striscia nel 2001 e ho studiato architettura all’Università Islamica di Gaza.

I miei genitori erano preoccupati che l’architettura potesse essere un settore difficile in cui avere successo, soprattutto per una donna. Mi incoraggiarono a studiare piuttosto qualcosa legato all’informatica. Ma il mio sogno di diventare un architetto perdurava. Sognavo di mettere le mani sul paesaggio e sui luoghi storici di Gaza, immaginando come avrebbe potuto essere la mia città, Gaza City, se solo ne avesse avuto la possibilità.

L’anno in cui mi laureai, il 2006, ci furono le elezioni nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ne derivò un periodo teso di rivalità politiche tra le fazioni palestinesi Hamas e Fatah, seguito da un’imponente operazione militare israeliana e dall’invasione di terra nella Striscia. Coloro che mi conoscevano personalmente quando ero studentessa possono confermare quanto fossi positiva e piena di energia, a quei tempi. Ero solita fare volontariato in diversi luoghi e le mie giornate erano febbrili di attività.

Quando compresi che la mia laurea non mi avrebbe assicurato un lavoro fisso nel campo dell’architettura, data l’incertezza politica e sociale della situazione, cominciai a deprimermi. Mi rivedo stesa sul letto, fissare il soffitto e pensare intensamente: “Cosa dovrei fare?”.

Laurearsi è un shock che porta a domande esistenziali sul futuro, e che diventa un peso tangibile nel cercare un lavoro. Laurearsi in una zona di guerra porta questa tensione all’estremo. Immaginate di non essere certi se sia prudente uscire; domandarsi ogni volta che uscite di casa se riuscirete a tornarci. Ecco, queste domande sono parte della quotidianità degli abitanti della Striscia.

Ho ricevuto la mia prima offerta di lavoro come architetto all’inizio del 2007, grazie a un progetto di promozione dei giovani che aiuta i laureati a trovare un impiego. Mi offrirono un contratto di sei mesi per lavorare alla costruzione di un nuovo edificio ad Al-Zahra, qualche chilometro a sud di Gaza City. Nonostante la vicinanza, era quasi impossibile arrivarci. C’erano numerosi posti di controllo della polizia locale che bloccavano il traffico tra le due aree a causa dei continui scontri tra le forze leali ad Hamas e quelle a Fatah.

Nei primi quattro mesi in cui lavoravo lì, ero riuscita a visitare il sito di costruzione dieci volte. Poi Hamas assunse il controllo della Striscia e fu irrigidita la chiusura da parte di Israele. Praticamente nulla e nessuno era autorizzato a entrare o uscire, compresi i materiali da costruzione. L’azienda di architettura per cui lavoravo chiuse due mesi prima della fine del mio breve contratto. Non riuscii mai a partecipare al completamento dell’edificio.

Nell’ottobre del 2008, quando fui assunta al municipio di Gaza City, pensai che il mio sogno di lavorare come architetto si fosse finalmente avverato. Poi nel marzo 2010, il progetto a cui stavo lavorando fu interrotto per problemi di finanziamenti. Qualche mese dopo, il Comune mise a bando il mio precedente impiego, e un’ulteriore assunzione a tempo pieno. Nonostante abbia preso parte al test, abbia ottenuto il punteggio più alto e sia stata raccomandata dal comitato consultivo la mia assunzione, entrambi i posti furono dati a due uomini, sorpassando me e un’altra candidata che aveva ottenuto un punteggio molto alto, anche se avevamo già alle spalle mesi di importante esperienza.

Ho trascorso quasi un anno riempiendo moduli di reclamo riguardo all’episodio, ma senza risultati. A quel tempo, me la presi come una questione personale. Fu solo più tardi che scoprii quanto la mia vicenda fosse comune tra le professioniste di Gaza.

Nonostante il blocco virtuale nel settore delle costruzioni a causa della chiusura imposta da Israele, continuavo a sperare che avrei trovato lavoro. Per gli architetti, come per altri lavoratori impiegati in molti settori che dipendono da materiali e attrezzature provenienti dall’esterno di Gaza, la chiusura portò le attività al minimo. Non c’è tempo per la pianificazione urbana se le case della gente sono in rovina. Le aziende di ingegneria civile nella Striscia furono costrette a ridurre la portata delle loro operazioni; molte furono chiuse negli anni seguenti, e nessuno assumeva. In seguito ad insistenti richieste da parte mia, mi consentirono di fare volontariato presso un grande studio di architettura, ma non c’era lavoro. Durante il mese in cui sono stata lì, non ho fatto altro che progettare un’unica rampa di scale.

Pensai di emigrare in un altro Paese e cercare un lavoro da un’altra parte. A un certo punto, mi offrirono un lavoro negli Emirati Arabi, ma dopo lunghe considerazioni, decisi di declinare l’offerta. Essendo cresciuta lontano da Gaza, avevo già fatto esperienza della vita da straniera. Ricordavo mio padre dire di non aver mai sentito di appartenere a nessun altro luogo. Quando tornai nella mia patria, promisi a me stessa che non me ne sarei mai più andata. Volevo contribuire alla mia società e alla mia comunità.

Quella decisione divenne molto significativa. Nel 2011 venni a sapere di un’organizzazione chiamata Aisha, che lavora per proteggere e legittimare le donne e i bambini marginalizzati. Anche se non mi ero mai immaginata di fare null’altro se non l’architetto, trovai una nuova motivazione nel lavoro di Aisha per dare voce ai meno fortunati. Iniziai a lavorare lì come project manager e organizzando raccolte fondi, e crebbe in me la consapevolezza che la promozione dei diritti delle donne era un altro modo per contribuire al miglioramento della mia comunità.

Ad Aisha ho imparato che il mio sforzo di realizzare il mio sogno non era un’esperienza singola. Come donna, la ricerca di un impiego a Gaza è estremamente difficile. Tanto per cominciare devi affrontare una considerevole mancanza di lavoro, così come preferenze discriminatorie a favore degli uomini, che sono visti come i principali percettori di reddito per le loro famiglie.

I tassi di disoccupazione sono cresciuti sensibilmente da quando Israele ha inasprito il blocco, toccando attualmente il livello del 35% per gli uomini e quasi del 66% per le donne. Persino coloro che sono calcolati tra quanti hanno un lavoro affrontano diverse difficoltà. La maggior parte dei contratti di lavoro, sia con agenzie governative, organizzazioni della società civile, o nel settore privato, sono per periodi da uno a cinque mesi, quindi non c’è nessuna sicurezza di un lavoro a tempo indeterminato. A coloro che trovano un lavoro, raramente concesse prestazioni di sicurezza sociale, e i pagamenti sono spesso ritardati di mesi.

La tremenda situazione economica sta causando la perdita di ogni speranza nei giovani laureati, portando all’aumento della tossicodipendenza, della violenza, della depressione e addirittura al suicidio. Non dovrebbe essere così. Il blocco [isrealiano] deve finire; le restrizioni dei nostri movimenti e del transito di beni da e per la Striscia devono essere rimosse.

La gente di Gaza, uomini e donne, meritano di vivere dignitosamente, guadagnarsi un salario, prosperare e realizzare i loro sogni. Il mio è ancora in sospeso.

Mariam Abu Alatta è project manager e organizzatrice di raccolte fondi presso Aisha, Associazione per la protezione della donna e del bambino, che lavora per raggiungere l’integrazione dei generi attraverso la legittimazione e il supporto psicosociale a donne bambini emarginati di Gaza. Ha contribuito al nuovo rapporto di Gisha [organizzazione israeliana che si batte per la libertà di movimento dei palestinesi, ndt.], dal titolo “I Sogni Rinviati: l’impatto della chiusura sulle donne nella Striscia di Gaza”, pubblicato in occasione della Giornata Internazionale della Donna 2018.

( Traduzione di Veronica Garbarini)