A Betlemme, il luogo della nascita di Gesù, è tempo di lutto per i cristiani palestinesi

Laura Kingstaff

19 dicembre 2023 – Los Angeles Times

Betlemme, Cisgiordania – Non è [un articolo] sommesso. Né intende essere tale

Invece della visione bucolica della Natività il presepe mostra Gesù bambino avvolto in una kefiah palestinese a quadri, circondato da schegge di pietra, che evocano gli edifici bombardati nella Striscia di Gaza e i bambini sepolti sotto di essi.

Vedo Dio tra le macerie,dice Munther Isaac, il pastore palestinese di una storica chiesa luterana di Betlemme, la città della Cisgiordania celebrata dai cristiani come luogo della nascita di Gesù. E Cristo nacque sotto occupazione”.

Insieme ai parrocchiani ha allestito una scena di guerra, che rimarrà in chiesa per tutto il periodo natalizio. Anche se la visione è stridente, riconosce Isaac, non riesce a riassumere gli orrori quotidiani che accadono a sole 45 miglia di distanza, a Gaza.

I cristiani palestinesi, una minoranza in rapido calo in Terra Santa, questanno celebrano un Natale particolarmente cupo, cancellando i festeggiamenti natalizi in segno di solidarietà con i connazionali mentre la guerra di Israele contro i combattenti di Hamas continua.

In questo terzo mese di bombardamenti israeliani di Gaza, affiancati da unoffensiva di terra ad ampio raggio, entrambi scatenati dopo l’attacco di Hamas che ha ucciso centinaia di israeliani nelle loro case e dove si teneva un festival di musica allaperto, il bilancio delle vittime allinterno dellaffollata enclave costiera è, secondo i funzionari palestinesi, pari a più di 19.000, di cui circa due terzi donne e bambini.

A Betlemme, dove molti dei cristiani locali hanno parenti a Gaza, le ricorrenze natalizie saranno caratterizzate da preghiere, servizi religiosi e dalla processione annuale dei patriarchi cristiani, ma verranno evitati gli ornamenti tradizionali più festosi. Nessuna scintillante luce natalizia, nessun albero riccamente addobbato in Piazza della Mangiatoia, nessuna parata festosa con bande musicali.

“Come potremmo festeggiare?” chiede il sindaco della città, Hanna Hanania, il cui ufficio si affaccia su una Piazza della Mangiatoia quasi deserta. La piazza lastricata di fronte alla Chiesa della Natività, luogo di pellegrinaggio per i cristiani di tutto il mondo, in questo periodo dell’anno è solitamente animata, ma la maggior parte dei negozi di souvenir e dei ristoranti che la costeggiano sono sbarrati.

Betlemme, dove un tempo la maggioranza era cristiana e oggi tale comunità costituisce meno di un quinto della popolazione cittadina di circa 30.000 abitanti, è un microcosmo delle sofferenze della Cisgiordania. I posti di blocco la accerchiano e le pietrose colline terrazzate, dove di notte i pastori sorvegliavano le loro greggi, come recita il tradizionale canto natalizio, sono attraversate da unenorme barriera di sicurezza israeliana.

Circondata da insediamenti coloniali ebraici, la città ospita due campi profughi palestinesi ribollenti di malcontento, che vengono regolarmente attaccati dalle truppe israeliane.

Non è più la cittadina della Bibbia, dice il reverendo Mitri Raheb, rettore dellUniversità Dar al-Kalima di Betlemme. A 61 anni ricorda quando la visuale dalla vicina casa di famiglia era aperta sul versante di una montagna che diventava verde durante le piogge primaverili. Ora è interamente occupato da un insediamento coloniale, uno dei quasi 150 della Cisgiordania considerati illegali sulla base del diritto internazionale.

Per i cristiani palestinesi lattuale guerra segna una catastrofe nella catastrofe: il potenziale sradicamento di quella che era già una minuscola presenza cristiana a Gaza. Con meno di 1.000 su una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti, il declino numerico della comunità in tempo di guerra è avvertito in modo sproporzionato.

Molti cristiani della zona di Betlemme hanno parenti a Gaza e sono terrorizzati per la loro incolumità.

Secondo funzionari palestinesi, una dependance della più antica chiesa ancora attiva di Gaza City, San Porfirio, è stata colpita dai bombardamenti israeliani in ottobre, coll’uccisione di almeno 16 delle centinaia di persone che vi si rifugiavano. L’ex senatore repubblicano degli Stati Uniti Justin Amash, un palestinese americano, ha pubblicato dei commenti angosciati sui social media a proposito di diversi parenti cristiani uccisi o mutilati durante il bombardamento.

“La nostra famiglia sta soffrendo gravemente”, ha scritto su X, ex Twitter, il repubblicano del Michigan diventato indipendente. Possa Dio vegliare su tutti i cristiani di Gaza e su tutti gli israeliani e palestinesi che soffrono, qualunque sia la loro religione o credo”.

Lo scorso fine settimana, due donne cristiane che si rifugiavano in un complesso di una chiesa cattolica romana a Gaza City sono state uccise dal fuoco dei cecchini israeliani, ha riferito il Patriarcato latino di Gerusalemme. I parenti le hanno identificate come madre e figlia – Naheda Anton, 71 anni, e sua figlia, Samr Anton, 58 anni – e hanno detto che dopo che la donna più anziana è stata colpita, sua figlia ha cercato di portarla in salvo ed è stata colpita a sua volta.

Jawdat Hanna Mikhail, nipote di una delle due donne e figlia della sorella dell’altra, ha detto che diversi altri membri della famiglia all’interno del complesso della Sacra Famiglia hanno cercato di raggiungere la coppia e anche loro sono stati colpiti e feriti.

“I cecchini sono appostati intorno alla chiesa”, dice Mikhail, 27 anni, che vive a Beit Sahur, appena fuori Betlemme. Nessuno può muoversi”.

Papa Francesco ha condannato luccisione delle donne. Una deputata britannica, Layla Moran, ha postato sui social media dei commenti sui membri della sua famiglia allargata, compresi due gemelli di 11 anni, anch’essi intrappolati nel complesso.

Ora non sono più sicura che sopravviveranno fino a Natale, ha dichiarato alla BBC.

Alcuni esperti osservatori delle tendenze demografiche cristiane affermano che, dopo anni di difficoltà, la piccola e sofferente comunità di Gaza è sullorlo dellestinzione.

Temo che questa guerra segnerà la fine della presenza cristiana a Gaza”, dice Raheb, il preside del college. “È una ferita sanguinante”.

Laumento della violenza evidenzia anche la complessa interazione interna nei territori palestinesi occupati tra i cristiani e la stragrande maggioranza musulmana. Recenti sondaggi suggeriscono che la popolarità di Hamas tra i palestinesi è in aumento sia in Cisgiordania che a Gaza nonostante, o a causa, del devastante attacco transfrontaliero contro Israele del 7 ottobre che ha dato il via alla guerra.

Nel 2007, quando Hamas prese il controllo della stretta fascia mediterranea, la popolazione cristiana di Gaza contava circa 3.000 persone; circa due terzi di loro se ne sono andati negli anni successivi, prima dell’inizio di questa guerra.

Sebbene generalmente più ricchi e meglio istruiti della popolazione nel suo insieme i cristiani di Gaza hanno sopportato, o sono stati allontanati, a causa delle stesse privazioni degli altri palestinesi: disoccupazione diffusa, mancanza di opportunità, battaglie periodiche tra Israele e Hamas. Ma sono rimasti raggelati anche dallomicidio irrisolto, nei primi giorni del governo di Hamas, di un importante direttore di una libreria cristiana che prima della sua morte aveva ricevuto minacce da gruppi jihadisti.

A Betlemme un decreto dellAutorità Nazionale Palestinese al governo della Cisgiordania impone che il sindaco, il vicesindaco e la maggioranza del consiglio comunale della città debbano essere cristiani. In precedenza, ha raccontato il sindaco, la maggioranza del consiglio era detenuta da una coalizione sostenuta da Hamas, che oltre a possedere un braccio armato si configura anche come movimento politico.

Sono i nostri vicini”, dice il sindaco.

Nella Chiesa della Natività, lantica basilica in pietra calcarea venerata dai cristiani come luogo della nascita di Cristo, i tempi duri hanno contribuito a smorzare le tensioni fra i tre ordinamenti cristiani che condividono il controllo dei locali.

Negli anni passati gli scontri giurisdizionali su angoli e fessure dei recessi bui e profumati di incenso della chiesa a volte si sono trasformati in alterchi fisici.

Padre Issa Thaljieh, un parroco greco-ortodosso di 40 anni presso la Chiesa della Natività, afferma che ora c’è una relativa armonia tra gli ordinamenti, e le loro controversie ampiamente oscurate dalla guerra.

Padre Issa, nato e cresciuto a Betlemme, dice che fin dall’infanzia ha sentito la potente attrazione della bellezza spirituale connessa non solo alla basilica ma alla città stessa, anche se il conflitto in corso con Israele ha sfigurato il paesaggio biblico che circonda Betlemme.

Anche se potrebbe vivere e lavorare altrove, dice che sente il dovere di restare e amministrare il suo gregge sempre più piccolo.

Il profondo dolore per la morte e la distruzione di Gaza pervade la ricorrenza, afferma il sacerdote, ma egli vede questo periodo anche come un faro di speranza tanto necessaria.

Questi sono tempi molto, molto tristi, dice. Ma il messaggio di Betlemme e il messaggio del Natale, che è il messaggio di pace, è più importante che mai”.

Laura King è una giornalista che lavora a Washington, DC per il Los Angeles Times. Membro dello staff Estero/Nazionale, si occupa principalmente di affari esteri. In precedenza ha ricoperto il ruolo di capo redazione a Gerusalemme, Kabul e Il Cairo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele: la fame utilizzata come arma di guerra a Gaza

Rapporto HRW

18 dicembre 2023 – Human Rights Watch

Ci sono prove che ai civili è deliberatamente negato l’accesso a cibo e acqua.

  • Nella Striscia di Gaza il governo israeliano sta utilizzando la fame dei civili come metodo di guerra, il che costituisce un crimine di guerra.

  • Governanti israeliani hanno fatto dichiarazioni pubbliche, che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, in cui hanno manifestato la loro intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante.

  • Il governo israeliano dovrebbe smettere di attaccare beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, togliere il blocco della Striscia di Gaza e riattivare [le forniture di] elettricità e acqua.

(Gerusalemme) – Oggi Human Rights Watch ha affermato che nella Striscia di Gaza occupata il governo israeliano sta affamando i civili come metodo di guerra. Le forze israeliane stanno deliberatamente bloccando l’erogazione di acqua, cibo e carburante impedendo nel contempo deliberatamente l’assistenza umanitaria, distruggendo chiaramente zone coltivate e privando la popolazione civile di beni indispensabili alla sopravvivenza.

Da quando combattenti di Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre 2023 importanti dirigenti israeliani, tra cui il ministro della Difesa Yoav Gallant, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben.Gvir e quello dell’Energia Israel Katz, hanno fatto dichiarazioni pubbliche che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, manifestando l’intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante. Altri politici israeliani hanno pubblicamente affermato che l’aiuto umanitario a Gaza sarebbe stato condizionato o al rilascio degli ostaggi illegalmente detenuti da Hamas o alla distruzione di Hamas.

Per oltre due mesi Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo ed acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da governanti israeliani di alto livello e che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra,” ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch. “I leader mondiali dovrebbero esprimersi contro questo abominevole crimine di guerra, che ha effetti devastanti sulla popolazione di Gaza.”

Human Rights Watch ha intervistato 11 profughi palestinesi di Gaza tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Essi hanno descritto le loro gravissime difficoltà per garantirsi le necessità fondamentali. “Non abbiamo cibo, elettricità, internet, assolutamente niente,” ha detto un uomo che ha lasciato il nord di Gaza. “Non sappiamo come siamo riusciti a sopravvivere.”

Nel sud di Gaza gli intervistati hanno descritto la scarsità di acqua potabile, la mancanza di cibo che ha portato a negozi vuoti, lunghe code e prezzi esorbitanti. “Sei alla costante ricerca delle cose necessarie per sopravvivere,” ha detto il padre di due figli. Il 6 dicembre il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (WFP) ha informato che 9 su 10 nuclei familiari nel nord di Gaza e 2 su 3 nella parte meridionale di Gaza avevano passato almeno un giorno e una notte di seguito senza cibo.

Il diritto umanitario internazionale e la legislazione di guerra vietano di affamare i civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente civili “privandoli di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’impedimento intenzionale ai soccorsi” è un crimine di guerra. L’intenzione criminale non richiede l’ammissione da parte dell’aggressore, ma può anche essere dedotta dal complesso delle circostanze della campagna militare.

Inoltre il continuo blocco israeliano di Gaza, così come i più di 16 anni di assedio, rappresentano una punizione collettiva della popolazione civile, un crimine di guerra. In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, come potenza occupante a Gaza Israele ha il dovere di garantire che la popolazione civile disponga di cibo e medicinali.

Il 17 novembre il WFP ha avvertito dell’“immediata possibilità” di carestia, evidenziando che l’approvvigionamento di cibo ed acqua era in pratica inesistente. Il 3 dicembre ha informato di un “grave rischio di carestia”, segnalando che il sistema alimentare di Gaza era sull’orlo del collasso. E il 6 dicembre ha dichiarato che il 48% dei nuclei famigliari nel nord di Gaza e il 38% delle persone sfollate nel sud aveva registrato “gravissimi livelli di carenza di cibo”.

Il 3 novembre il Consiglio Norvegese per i Rifugiati ha annunciato che Gaza era alle prese con “catastrofiche carenze di acqua, sanità e igiene.” Strutture per la sanificazione e desalinizzazione hanno chiuso le attività a metà ottobre a causa della mancanza di carburante ed elettricità, e secondo l’Autorità Palestinese per le Acque da allora sono rimaste inattive. Secondo l’ONU anche prima del 7 ottobre Gaza non aveva praticamente acqua potabile.

Prima dell’attuale conflitto si stimava che 1.2 milioni dei 2.2 milioni di abitanti di Gaza stessero affrontando una grave insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dall’aiuto umanitario.

Israele mantiene un controllo complessivo su Gaza, anche sul movimento di persone e beni, sulle acque, sullo spazio aereo e sulle infrastrutture del territorio da cui Gaza dipende, così come sull’anagrafe. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto per 16 anni a un blocco illegale, praticamente del tutto dipendente da Israele per l’accesso al carburante, all’elettricità, alle medicine, al cibo e a altre risorse essenziali.

Dopo l’imposizione di un “blocco totale” a Gaza il 9 ottobre, le autorità israeliane il 15 ottobre hanno ripristinato l’approvvigionamento idrico a zone del sud di Gaza e, il 21 ottobre hanno consentito l’arrivo di un ridotto aiuto umanitario attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 18 ottobre ha detto che Israele non avrebbe consentito assistenza sanitaria “in forma di cibo e medicinali” a Gaza attraverso i suoi valichi “finché i nostri ostaggi non saranno riconsegnati.”

Il governo ha continuato a bloccare l’ingresso di carburante fino al 15 novembre, nonostante avvertimenti riguardo alle gravi conseguenze di ciò, che hanno portato alla chiusura di forni per il pane, ospedali, stazioni di pompaggio delle acque reflue, impianti di desalinizzazione e pozzi. Queste strutture, che sono state rese inutilizzabili, sono indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile. Benché in seguito sia stato consentito l’ingresso di limitate quantità di carburante, il 4 dicembre la Coordinatrice Umanitaria per i Territori Palestinesi Occupati dell’ONU Lynn Hastings le ha definite “assolutamente insufficienti”. Il 6 dicembre il gabinetto di guerra di Israele ha approvato un “minimo” incremento nelle forniture di carburante al sud di Gaza.

Il primo dicembre, immediatamente dopo il cessate il fuoco di sette giorni, l’esercito israeliano ha ripreso i bombardamenti contro Gaza ed ha esteso la sua offensiva di terra, affermando che le sue operazioni militari nel sud avrebbero comportato “altrettanta forza” che nel nord. Mentre politici degli Stati Uniti hanno affermato di aver sollecitato Israele a consentire l’ingresso a Gaza di carburante e aiuto umanitario allo stesso livello di quanto visto durante il cessate il fuoco, il Coordinatore delle Attività Governative del Ministero dell’Interno [israeliano] nei territori il primo dicembre ha affermato di aver bloccato ogni ingresso di aiuti. Il 2 dicembre la consegna di aiuti limitati è ripresa, ma sempre a livelli molto insufficienti, secondo l’ufficio per il coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA).

Insieme al devastante blocco, gli estesi bombardamenti dell’esercito israeliano sulla Striscia hanno comportato vasti danni o distruzioni di beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile.

Il 16 novembre esperti dell’ONU hanno affermato che i gravi danni “minacciano di rendere impossibile la continuazione della vita dei palestinesi a Gaza”. Significativamente, come ha evidenziato l’OCHA, il bombardamento da parte delle forze israeliane il 15 novembre dell’ultimo mulino per cereali in funzione a Gaza ha fatto sì che nel prossimo futuro a Gaza non sarà reperibile la farina prodotta in loco. Inoltre l’ufficio dell’ONU per i Servizi di Progettazione (UNOPS) ha affermato che la distruzione della rete viaria ha reso ancora più difficile alle organizzazioni umanitarie distribuire aiuti a quanti ne hanno bisogno.

Forni per la panificazione e mulini, l’agricoltura e le strutture idriche e di depurazione sono stati distrutti, “ ha detto il 23 novembre alla Associated Press Scott Paul, un importante consigliere per le politiche umanitarie di Oxfam America.

Le azioni militari israeliane a Gaza hanno avuto un effetto devastante anche sul settore agricolo. Secondo Oxfam i massicci bombardamenti, accompagnati dalla carenza di combustibile e acqua, insieme all’espulsione di oltre 1.6 milioni di persone verso il sud di Gaza, hanno reso praticamente impossibili le attività agricole. In un rapporto del 28 novembre l’OCHA ha affermato che nel nord il bestiame sta morendo di fame a causa della mancanza di foraggio e acqua, e che i campi sono sempre più abbandonati e danneggiati per la mancanza di carburante per pompare acqua per l’irrigazione. I problemi esistenti, come la scarsità di acqua e l’accesso ridotto alla coltivazione della terra nei pressi della barriera di confine, hanno aggravato le difficoltà che gli agricoltori locali, molti dei quali sono stati sfollati, dovevano già affrontare. Il 28 novembre l’Ufficio Centrale di Statistica palestinese ha affermato che Gaza sta soffrendo una perdita nella produzione agricola di almeno 1.6 milioni di dollari al giorno.

Il 28 novembre il Settore della Sicurezza Alimentare Palestinese, guidato dal WFP e dalla FAO, hanno informato che oltre un terzo dei terreni agricoli nel nord [di Gaza] è stato danneggiato dalle ostilità. Immagini satellitari esaminate da Human Rights Watch indicano che dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana il 27 ottobre terreni agricoli, compresi orti, serre e coltivazioni nel nord di Gaza sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane.

Il governo israeliano dovrebbe smettere immediatamente di affamare i civili come metodo di guerra, afferma Human Rights Watch. Dovrebbe attenersi al divieto di attacchi contro beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile e togliere il blocco della Striscia di Gaza. Il governo dovrebbe ripristinare l’accesso all’acqua e all’elettricità e consentire l’ingresso di cibo, medicinali e carburante disperatamente necessari a Gaza, anche attraverso il valico di Kerem Shalom.

I governi coinvolti dovrebbero chiedere a Israele di porre fine a queste violazioni. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Canada, la Germania e altri Paesi dovrebbero anche sospendere l’assistenza militare e la vendita di armamenti a Israele finché le sue forze continueranno a commettere impunemente gravi e massicce violazioni che rappresentano crimini di guerra contro i civili.

Con l’uso crudele della mancanza di cibo come arma di guerra il governo israeliano sta aggravando la punizione collettiva dei civili palestinesi e il blocco degli aiuti umanitari,” ha affermato Shakir. “La crescente catastrofe umanitaria a Gaza richiede una risposta urgente e concreta da parte della comunità internazionale.”

Il contesto

Gli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre hanno ucciso almeno 1.200 israeliani e cittadini di altri Paesi, e più di 200 persone sono state prese in ostaggio, azioni che rappresentano crimini di guerra. Il bombardamento e l’offensiva di terra di Israele che ne sono derivati hanno provocato, secondo le autorità di Gaza, più di 18.700 palestinesi uccisi, tra cui più di 7.700 minorenni.

L’OCHA ha informato che al 10 dicembre il bombardamento della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha distrutto più di metà delle infrastrutture civili, comprese più di 50.000 unità abitative, come affermato dal ministero dei Lavori Pubblici e dell’Edilizia a Gaza, così come ospedali, scuole, moschee, panetterie, reti idriche, fognarie ed elettriche. Secondo l’OCHA nella Striscia di Gaza solo il 4 e 5 novembre sette strutture idriche, tra cui serbatoi d’acqua a Gaza City, nel campo profughi di Jabalia e a Rafah, sono state direttamente colpite ed hanno subito gravissimi danni.

I ripetuti e palesemente illegali attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari hanno ulteriormente distrutto il settore medico-sanitario di Gaza, colpendo quindi la possibilità per la popolazione di accedere a cure salvavita, compresa la prevenzione di malattie, deperimento e morte legati alla malnutrizione, esacerbando le terribili conseguenze della mancanza di cibo. “Se non riusciamo a rimettere in piedi questo sistema sanitario vedremo più persone morire di malattie che per i bombardamenti,” ha affermato il 28 novembre Margareth Harris, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Conseguenze sul piano umanitario

Il 13 ottobre le autorità israeliane hanno emanato un ordine impossibile da rispettare di evacuazione dal nord di Gaza entro 24 ore a più di un milione di persone. Da allora, e mentre le condizioni nel nord peggioravano, centinaia di migliaia di persone sono state sfollate nei governatorati di Rafah e Khan Younis nel sud, dove è diventato sempre più difficile garantire i mezzi di sopravvivenza. In base alle leggi umanitarie internazionali l’evacuazione deve essere attuata in condizioni che garantiscano che gli sfollati abbiano accesso senza impedimenti all’aiuto umanitario, compresi cibo e lavoro sufficienti. In caso contrario ciò rappresenta un’espulsione forzata.

Le conseguenze umanitarie delle azioni militari di Israele a Gaza sono state molto gravi. Durante le prime otto settimane di ostilità il nord di Gaza è stato il centro dell’intensa offensiva di terra e aria dell’esercito israeliano. Salvo che durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre, durante il quale convogli dell’ONU hanno portato ridotte quantità di farina e gallette ad alto contenuto energetico, l’arrivo degli aiuti al nord è stato in gran parte interrotto. Secondo l’OCHA tra il 7 novembre e almeno fino al 15 novembre nessuna dei forni per il pane del nord era in funzione a causa della mancanza di carburante, acqua, farina di frumento e per danni strutturali.

Secondo il WFP a Gaza c’è un grave rischio di carenza di cibo e di carestia. Funzionari dell’ONU hanno affermato che 1.9 milioni di persone, oltre l’85% della popolazione di Gaza, sono sfollati interni, aggiungendo che in una zona meridionale sempre più ridotta nella Striscia di Gaza le condizioni potrebbe diventare “persino più infernali”.

Il 5 dicembre il capo dei servizi umanitari dell’ONU Martin Griffiths ha affermato che la campagna dell’esercito israeliano nel sud di Gaza ha portato a condizioni “apocalittiche”, rendendo impossibili significativi interventi umanitari.

Il 6 dicembre l’unico impianto di desalinizzazione nel nord di Gaza ha smesso di funzionare e l’acquedotto che fornisce acqua al nord da Israele è rimasto chiuso, accentuando i rischi di disidratazione e di malattie trasmesse dall’acqua derivanti dal consumo di acqua da sorgenti non sicure. Il 14 dicembre gli ospedali sono stati particolarmente colpiti, con solo un ospedale su 24 nel nord di Gaza in funzione e in grado di accettare nuovi pazienti, anche se fornendo servizi limitati.

Dall’11 ottobre in tutta Gaza la crisi umanitaria si è aggravata con una persistente interruzione della corrente elettrica, così come con una serie di blocchi delle comunicazioni che ha impedito alle persone l’accesso ad affidabili informazioni sulla sicurezza, sui servizi medici d’urgenza e ha ostacolato gravemente le operazioni umanitarie. Il 18 novembre l’OCHA ha affermato che l’interruzione delle telecomunicazioni tra il 16 e il 18 novembre, il quarto dal 7 ottobre, “ha portato a un quasi totale blocco della già problematica distribuzione di assistenza umanitaria, compresa l’assistenza salvavita a persone ferite o intrappolate sotto le macerie in conseguenza degli attacchi aerei e degli scontri”. Il 14 dicembre c’è stato un’altra interruzione delle telecomunicazioni. “

Immagini satellitari visionate da Huma Rights Watch indicano che fin dall’inizio dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano il 27 ottobre orti, serre e terreni coltivati sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane, aggravando le preoccupazioni per la gravissima insicurezza alimentare e la perdita di mezzi di sussistenza. Immagini satellitari indicano che la distruzione di terreni agricoli è continuata nel nord di Gaza durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre e terminato il 1 dicembre, quando l’esercito israeliano aveva il controllo diretto della zona.

Mentre durante il cessate il fuoco di 7 giorni terminato il primo dicembre per la prima volta dal 7 ottobre il governo israeliano ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza di un continuo e leggermente maggiore afflusso di aiuti umanitari, compreso gas da cucina, aveva in precedenza deliberatamente impedito l’ingresso di generi di soccorso nelle quantità necessarie per oltre un mese, imponendo un assedio che ha colpito tutta la popolazione civile. Ciò ha contribuito a una situazione umanitaria catastrofica con conseguenze di vasta portata, con oltre l’80% della popolazione sfollata internamente, molta della quale ospitata in condizioni di sovraffollamento, malsane e insalubri nei rifugi dell’ONU nel sud. Gli aiuti che sono entrati durante il cessate il fuoco “sono stati a malapena percepiti rispetto alle enormi necessità di 1.7 milioni di sfollati,” ha detto il 27 novembre il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric.

Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza circa 200 camion al giorno, comprese quattro cisterne che trasportavano 130.000 litri di carburante e quattro di gas da cucina. In confronto prima del conflitto entrava a Gaza ogni giorno una media di 500 camion di cibo e prodotti e 600.000 litri di carburante al giorno, necessari solo per far funzionare gli impianti per l’acqua e la desalinizzazione. Come sono ripresi i bombardamenti e le forze israeliane sono avanzate verso sud, l’accesso agli aiuti è stato di nuovo seriamente ostacolato. Il 5 dicembre per il terzo giorno consecutivo l’OCHA ha informato che a Gaza solo il governatorato di Rafah aveva ricevuto una ridotta distribuzione di aiuti. Ha affermato che nel vicino governatorato di Khan Younis la distribuzione di aiuti è stata largamente interrotta a causa dell’intensità degli scontri.

Testimonianze di civili a Gaza

Human Rights Watch ha parlato con 11 civili sfollati dal nord di Gaza verso la presunta sicurezza nel sud a causa dei pesanti bombardamenti, del timore di imminenti attacchi aerei o perché Israele ha ordinato loro di andarsene. Molti affermano di essersi spostati varie volte prima di arrivare a sud, mentre lungo il loro viaggio hanno lottato per trovare un rifugio adeguato e sicuro. Nel sud hanno trovato rifugi sovraffollati, mercati vuoti, prezzi alle stelle e lunghe file per ridotte quantità di pane e acqua potabile. Per proteggere la loro identità in tutte le interviste Human Rights Watch utilizza pseudonimi.

Devo camminare per tre chilometri per avere 4 litri (di acqua)” dice il trentenne Marwan, scappato il 9 novembre a sud con la moglie incinta e due figli. “E non c’è cibo. Se lo trovassimo, sarebbe in scatola. Nessuno di noi sta mangiando bene.”

Quello che abbiamo è tutto troppo poco,” dice Hana, 36 anni, scappata dalla sua casa nel nord a Khan Younis, nel sud con suo padre, la moglie di lui e suo fratello l’11 ottobre. Dice che nel sud non sempre hanno accesso ad acqua potabile e sono obbligati a bere acqua non potabile e salata.

Lavarsi è diventato un lusso, afferma, a causa della mancanza di mezzi per scaldare l’acqua, per cui devono andare a cercare della legna. Nelle situazioni disperate, dice, finiscono persino col bruciare vecchi vestiti per cucinare. Il processo di preparazione del pane presenta delle difficoltà a causa della scarsità di ingredienti che non possono permettersi. “Facciamo del pane cattivo perché non abbiamo tutti gli ingredienti e non possiamo comprarli,” afferma.

Majed, 34 anni, scappato a sud con la moglie e quattro figli sopravvissuti verso il 10 di novembre dice che, mentre la situazione nel sud è disastrosa, è incomparabile con quello che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare nel nord. Sono stati in una zona nei pressi dell’ospedale al-Shifa a Gaza City per oltre un mese dopo che il 13 ottobre la loro casa era stata bombardata uccidendo il figlio di sei anni di Majed:

In quei 33 giorni non abbiamo mangiato pane perché non c’era farina,” afferma. “Non c’era acqua, a volte compravamo acqua per 10 (dollari) a tazza. Non sempre era potabile. A volte (l’acqua che abbiamo bevuto) era del bagno e altre del mare. I mercati della zona erano vuoti. Non c’era neppure cibo in scatola.”

Taher, 32 anni, scappato con la sua famiglia l’11 novembre, descrive condizioni simili a Gaza City nelle prime settimane di novembre: “La città era priva di ogni cosa, di cibo e acqua,” dice. “Se trovavi cibo in scatola i prezzi erano altissimi. Abbiamo deciso di mangiare solo una volta al giorno per sopravvivere. Abbiamo finito i soldi. Abbiamo deciso di avere solo l’indispensabile, di avere meno di tutto.”

Standard internazionali e le prove di azioni deliberate

Affamare i civili come metodo di guerra è vietato in base all’articolo 54 (1) del Primo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo I) e dell’articolo 14 del Secondo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo II). Benché Israele non abbia aderito ai protocolli I e II, il divieto viene riconosciuto come riflesso del diritto umanitario consuetudinario internazionale sia in conflitti internazionali che non internazionali. Le parti di un conflitto non devono “provocare deliberatamente (una carestia)” o provocare deliberatamente “il fatto che la popolazione soffra la fame, in particolare privandola delle fonti o dei rifornimenti di cibo.”

Alle parti in guerra è vietato anche attaccare i beni indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile, come cibo e medicinali, zone agricole e impianti dell’acqua potabile. Sono obbligate a fornire assistenza umanitaria rapida e senza restrizioni a tutti i civili in stato di necessità e a non bloccare deliberatamente gli aiuti umanitari o limitare la libertà di movimento del personale dell’assistenza umanitaria. In ognuna delle precedenti quattro guerre a Gaza dal 2008 Israele ha garantito il flusso di acqua potabile ed elettricità a Gaza ed ha aperto i valichi israeliani per la distribuzione di aiuti umanitari.

Le prove dell’intenzione di utilizzare deliberatamente la mancanza di cibo come metodo di guerra possono essere rintracciate nelle affermazioni pubbliche di politici coinvolti nelle operazioni militari. Ci si può aspettare che i seguenti politici israeliani di alto livello possano aver giocato un ruolo significativo nel definire le politiche rispetto a consentire o bloccare il cibo e altri beni di prima necessità per la popolazione civile.

Il 9 ottobre il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto: “Stiamo imponendo un assedio totale contro (Gaza). Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e dobbiamo agire di conseguenza.”

Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir il 17 ottobre ha detto in un tweet: “Finché Hamas non rilascerà gli ostaggi, l’unica cosa che dovrebbe entrare a Gaza sono centinaia di tonnellate di esplosivo dal cielo, neppure un grammo di aiuto umanitario.”

Il ministro dell’Energia Israel Katz, che ha raccontato di aver ordinato il taglio di elettricità e acqua, ha detto l’11 ottobre:

Per anni abbiamo fornito a Gaza elettricità, acqua e carburante. Invece di ringraziarci, hanno inviato migliaia di animali umani a massacrare, uccidere, violentare e rapire bambini, donne e anziani. Per questo abbiamo deciso di interrompere la fornitura di acqua, elettricità e carburante e ora l’impianto di produzione di energia locale è crollato e a Gaza non c’è elettricità. Continueremo a mantenere un rigido assedio finché Israele e il mondo non saranno liberati della minaccia di Hamas. Ciò che è stato non ci sarà più.”

Il 12 ottobre Katz ha detto:

Aiuti umanitari a Gaza? Neppure un interruttore verrà acceso, non verrà aperta neppure una valvola, neppure un camion di carburante entrerà finché gli ostaggi israeliani non torneranno a casa. Umanità contro umanità. Che nessuno ci dia lezioni di moralità.”

Il 16 ottobre ha detto:

Ho appoggiato l’accordo tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Biden per la fornitura di acqua al sud della Striscia di Gaza perché è in linea anche con gli interessi israeliani. Sono totalmente contrario a togliere il blocco e a lasciar entrare a Gaza prodotti per ragioni umanitarie. Il nostro impegno è verso le famiglie degli assassinati e gli ostaggi rapiti, non verso gli assassini di Hamas e la gente che li ha aiutati.”

Il 4 novembre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che “per nessuna ragione” deve entrare carburante a Gaza. Poi, come riportato dal Jerusalem Post, ha definito la decisione del gabinetto di guerra israeliano di consentire l’ingresso nella Striscia di una piccola quantità di carburante “un grave errore” e ha affermato: “Si ponga termine immediatamente a questo scandalo e si impedisca che carburante entri nella Striscia”.

In un video postato in rete il 4 novembre il colonnello Yogev Bar-Shesht, vice capo dell’Amministrazione Civile [ente militare che governa i territori occupati, ndt.] ha affermato in un’intervista da Gaza: “Chiunque torni qui, se ritornerà in seguito, troverà terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente. Non hanno futuro.”

Il 24 novembre, in un’intervista televisiva con la CNN, Mark Regev, consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha affermato che Israele ha privato Gaza di carburante dal 7 ottobre per rafforzare la posizione di Israele quando si tratterà di negoziare con Hamas il rilascio degli ostaggi. “Se lo avessimo fatto (consentire l’ingresso di carburante) … non avremmo mai avuto la restituzione dei nostri ostaggi,” ha detto.

Il 1 dicembre il coordinatore delle attività di governo nei territori del ministero dell’Interno, generale Ghassan Alian, ha affermato che l’ingresso di carburante e aiuti a Gaza era stato interrotto dopo che Hamas aveva violato le condizioni dell’accordo di cessate il fuoco. Il suo ufficio ha confermato la sua dichiarazione in risposta a una domanda del Times of Israel sostenendo: “”Dopo che l’organizzazione terroristica Hamas ha violato l’accordo e in più ha sparato contro Israele, l’ingresso di aiuti umanitari è stato bloccato nel modo previsto dall’accordo.”

Fin dal 7 ottobre altre fonti ufficiali hanno chiesto di limitare l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, affermando che ciò è utile agli obiettivi dell’esercito israeliano.

Il primo ministro Netanyahu il 5 dicembre ha risposto a una domanda riguardo al fatto che Israele potrebbe perdere un’arma di pressione contro Hamas se consentisse l’ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza affermando: “Gli sforzi bellici sono sostenuti da quelli umanitari… ciò perché seguiamo le leggi di guerra in quanto sappiamo che, se ci fosse un collasso – epidemie, pandemie e infezioni dovute alla falda freatica – ciò porrebbe fine alla guerra.”

Il ministro della Difesa Gallant ha affermato: “Ci viene chiesto di consentire il minimo dal punto di vista umanitario perché la pressione militare possa continuare.”

Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, ha detto il 17 novembre a una conferenza stampa: “Se c’è un’epidemia, i combattimenti finiranno. Se ci sono una crisi umanitaria e una protesta internazionale, in quelle condizioni non riusciremo a continuare a combattere.”

Il 18 ottobre l’ufficio del primo ministro ha annunciato che Israele non avrebbe impedito agli aiuti umanitari di entrare a Gaza dall’Egitto in seguito a pressioni degli USA e di altri alleati internazionali:

Alla luce della richiesta del presidente Biden Israele non ostacolerà soccorsi umanitari dall’Egitto finché si tratterà solo di cibo, acqua e medicinali per la popolazione civile del sud della Striscia di Gaza.”

Distruzione della produzione agricola e impatto sulla produzione di cibo

Durante le operazioni di terra nel nord di Gaza a quanto sembra le forze israeliane hanno distrutto la produzione agricola accentuando la carenza di cibo con effetti a lungo termine. Ciò ha incluso la distruzione di coltivazioni, campi e serre.

L’esercito israeliano ha affermato di condurre operazioni militari nella zona di Beit Hanoun, e anche in una zona agricola imprecisata a Beit Hanoun, per scoprire tunnel e altri obiettivi militari.

Campi e frutteti a nord di Beit Hanoun, per esempio, sono stati i primi ad essere danneggiati durante le ostilità in seguito alle operazioni di terra israeliane alla fine di ottobre. Bulldozer hanno scavato nuove strade, aprendo la via per veicoli militari israeliani.

Da metà novembre, dopo che le forze israeliane hanno preso il controllo della stessa area nel nordest di Gaza, immagini satellitari mostrano che frutteti, campi e serre sono stati sistematicamente distrutti, lasciando sabbia e polvere. L’8 dicembre Human Rights Watch ha chiesto un commento all’esercito israeliano, ma non ha ricevuto risposta.

Gli agricoltori della zona avevano piantato coltivazioni come alberi di agrumi, patate, pitaya [frutti originari dell’America centro-meridionale, ndt.] e fichi d’india, contribuendo al sostentamento dei palestinesi di Gaza. Altre coltivazioni includono pomodori, cavoli e fragole. Alcuni appezzamenti sono stati distrutti in un giorno. Gli alberi di agrumi, come i cactus della pitaya, richiedono anni di cure per maturare prima di dare frutti.

Immagini satellitari ad alta definizione mostrano che sono stati usati bulldozer per distruggere campi e piantagioni. Si vedono camion e montagne di terra sui limiti dei precedenti appezzamenti.

Che si tratti di distruzioni deliberate, di danni dovuti alle ostilità o all’impossibilità di irrigare o lavorare la terra, nel nord di Gaza i terreni agricoli sono stati drasticamente ridotti fin dall’inizio delle operazioni di terra israeliane.

Anche nel sud di Gaza aziende agricole e contadini sono stati colpiti. Action Against Hunger [ong francese che lotta contro la fame nel mondo, ndt.] ha scoperto che delle 113 aziende agricole del sud di Gaza interpellate tra il 19 e il 31 ottobre il 60% ha affermato che le proprie attività o coltivazioni sono state danneggiate, il 42% di non avere accesso all’acqua per irrigare i campi e il 43% di non essere in grado di raccogliere i prodotti.

Rettifica

18/12/2023: Questo comunicato stampa è stato aggiornato per riportare la data di ottobre in cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che Israele non avrebbe consentito assistenza umanitaria a Gaza “nella forma di cibo e medicinali” attraverso i suoi valichi “finché gli ostaggi (israeliani) non saranno restituiti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le guerre nei campus USA. Un’ignobile campagna per sfruttare l’antisemitismo e reprimere le voci filo-palestinesi

Naftali Kaminski

14 dicembre 2023 – Haaretz

In quanto docente di Yale e israeliano figlio di sopravvissuti all’Olocausto, temo l’aumento dell’antisemitismo negli USA. Ma il furore orchestrato contro le rettrici delle università sta prendendo di mira i discorsi filo-palestinesi, non l’antisemitismo – ed è alimentato da una sinistra coalizione di fanatici antidemocratici.

Nella valanga di denunce, editoriali e post sulle reti sociali dopo le testimonianze al Congresso delle rettrici di tre prestigiose università, le successive dimissioni della rettrice dell’università della Pennsylvania Elizabeth MaGill e la risoluzione senza precedenti del Congresso che chiede alle rettrici di Harvard Claudine Gay e del MIT Sally Kornbluth di fare altrettanto, inizia ad emergere un quadro che mi ricorda minacciosamente una poesia letta quando ero ragazzino in Israele.

Scritta nel 1943 da Nathan Alterman, uno dei poeti israeliani più amati, la poesia utilizza l’affermazione del filosofo greco Archimede sulla legge della leva, “Datemi un punto di appoggio e solleverò la terra”, come metafora del ruolo dell’antisemitismo in politica. Egli suggerisce che demagoghi e tiranni usino l’antisemitismo come ultimo “punto di Archimede”, un punto d’appoggio che consente loro di raggiungere i propri obiettivi più indegni.

Penso che ciò sia quello a cui stiamo assistendo, ma ora il punto di appoggio di Archimede è l’affermazione secondo cui le rettrici universitarie “non stanno facendo abbastanza riguardo all’antisemitismo”. Viene utilizzato con l’immediata intenzione di reprimere le voci a favore dei palestinesi, così come con lo strategico e, come ora è stato detto più esplicitamente, vergognoso intento di lungo corso di tornare indietro rispetto ai progressi verso la diversità, l’equità e l’inclusione nelle università americane.

Sono consapevole che si tratta di una dichiarazione di vasta portata. In quanto israeliano, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, la storia della mia famiglia è di oppressione, discriminazione e genocidio. Prima di arrivare a Yale, i miei familiari hanno vissuto a Pittsburgh e facevano parte della congregazione Tree of Life [Albero della Vita], luogo dell’attacco più letale da sempre contro ebrei sul territorio statunitense.

Le atrocità di Hamas il 7 ottobre hanno prodotto timori e pensieri che non avrei mai creduto di provare. Ho trovato deprecabili le manifestazioni di appoggio o i tentativi di minimizzarle. Temo l’aumento di antisemitismo negli USA e credo che dovrebbe essere combattuto. Ho anche la sensazione che l’attuale furia contro le rettrici di istituzioni d’élite non stia prendendo di mira l’antisemitismo. E questa sensazione è segnata dalla mia stessa esperienza negli ultimi mesi.

Quando mi sono svegliato quella maledetta mattina di ottobre e ho sentito degli attacchi di Hamas sono stato immediatamente intrappolato in un flusso di comunicazioni, in quanto ho affannosamente cercato di confermare che amici e familiari in Israele stessero bene, per offrire aiuto, simpatia, raccapriccio e sostegno.

Ma poi ho ricevuto un diverso tipo di messaggio. Era di un docente ebreo americano di Yale. Non c’era alcuna espressione di preoccupazione o empatia, nessun tentativo di sapere se io o i miei amici o familiari stessimo bene. Invece parlava di “antisemiti a Yale” e chiedeva che “agissimo preventivamente” per “mettere in guardia” i dirigenti di Yale. Il messaggio suggeriva una campagna con invio di lettere. Mi risultava evidente l’intenzione di contribuire a promuovere un’atmosfera che avrebbe etichettato come antisemita ogni manifestazione a favore dei palestinesi.

Quel messaggio e quelli che sono seguiti sono stati profondamente angoscianti per me. Era come se presumessero che il rettore di Yale, lui stesso ebreo e molto legato a Israele, non avrebbe fatto alcunché finché non fosse stato blandito e sollecitato. Non c’era alcuna manifestazione di preoccupazione riguardo a me o ad altri israeliani nel campus, salvo che con un’ottica: lottare contro la minaccia percepita di antisemitismo utilizzando gli orrori per ottenere risultati dal punto di vista ideologico.

Nei giorni seguenti, mentre le incommensurabili dimensioni delle atrocità di Hamas venivano alla luce, la mia attenzione era concentrata sulle sofferenze e le uccisioni nella regione. Ho aiutato l’Ufficio per la Diversità, l’Equità e l’Inclusione della Scuola di Medicina di Yale a organizzare un evento di solidarietà in cui membri israeliani della comunità di Yale con familiari o amici vittime degli attacchi del 7 ottobre ne parlassero e condividessero la loro esperienza. L’evento è stato pubblicizzato e sostenuto dalla dirigenza, che vi ha anche partecipato.

Nei giorni successive sono stato impegnato in un giro di lezioni già previsto, cinque conferenze in dieci giorni in diverse istituzioni e luoghi di incontro. Sentivo di non poter parlare solo di scienza e medicina e ho deciso di iniziare ogni conferenza presentandomi come ebreo israeliano e dicendo: “Sono rimasto scioccato e infuriato dalle atrocità commesse la scorsa settimana nel sud di Israele, e sono anche profondamente preoccupato e orripilato dalla continua violenza e dalle minacce immensamente aumentate per i civili nella regione. Spero e prego che la violenza finisca, che gli ostaggi vengano liberati, le minacce per i civili finiscano e che tutta le persone della regione, indipendentemente dall’identità etnica o religiosa, possano finalmente vivere in pace, libertà e dignità.” Questa dichiarazione è stata accolta ovunque con applausi praticamente da tutti.

Nel contempo a Yale ci sono state manifestazioni filo-palestinesi, veglie filo-israeliane, così come eventi educativi. Non ho partecipato alla maggior parte di essi, e se l’avessi fatto probabilmente non sarei stato d’accordo con tutto quello che vi è stato detto, ma dubito che mi sarei sentito in pericolo. In effetti, nonostante i tentativi di alcuni provocatori, gli eventi sono stati decisamente non-violenti. Un venerdì, in piazza Beinecke a Yale, ci sono stati tre eventi contrapposti, tra cui una veglia per l’umanità di israeliani e palestinesi, a cui hanno partecipato israeliani e palestinesi del campus, ma non ci sono stati conflitti o litigi. Non ci sono stati appelli al genocidio o minacce di violenza.

Durante una partita di football [americano] tra Yale e Harvard stavo andando a sedermi quando è scoppiata una protesta filo-palestinese. Gli studenti hanno sventolato bandiere, scandito i loro slogan, ma non c’era una sensazione di minaccia. Non c’è stato alcun appello al genocidio degli ebrei. Qualcuno tra la folla ha insultato i manifestanti e uno gli ha persino sputato contro, ma loro non hanno reagito e la protesta è finita con gli studenti contrari che se ne sono andati per protesta.

Quel giorno ho visto anche l’infame furgone che mostrava le foto di giovani studenti definiti i principali antisemiti ad Harvard o Yale. Ho pensato che si trattasse di un evidente e ignobile “tentativo di intimidire e attaccare” studenti, come ha detto il rettore di Yale.

Durante un dibattito sulle implicazioni per la salute pubblica della guerra tra Israele e Gaza alla Scuola di Salute Pubblica di Yale la discussione è stata concreta, professionale e sobria. Un disturbatore è stato rapidamente messo a tacere e il resto dell’evento è stato molto civile. Lo scorso sabato a New Haven un manifestante filo-palestinese ha per poco tempo appeso una bandiera palestinese su una Menorah di Hannukkah in un luogo pubblico. In seguito agli inviti di altri partecipanti alla protesta il dimostrante l’ha subito tolta. Questo avvenimento è stato accolto con la totale condanna da parte degli organizzatori della protesta, del rettore di Yale e dei politici locali, e come risposta in zona si sono tenute veglie.

Sulle reti sociali ho ricevuto innumerevoli manifestazioni di solidarietà da colleghi e amici, ebrei e musulmani, israeliani e palestinesi. Ho avuto qualche risposta antisemita, ma per lo più da risponditori automatici. Significativamente la maggior parte degli attacchi personali che ho subito sono stati di autoproclamati amici di Israele, persino miei colleghi, soprattutto quando ho manifestato sostegno al primo cessate il fuoco e rilascio di ostaggi, quando ho manifestato preoccupazione per il bilancio di civili di Gaza in seguito alla risposta di Israele o quando ho citato il fatto che i palestinesi in Cisgiordania sono bersaglio di un’ondata senza precedenti di violenti aggressioni da parte dei coloni ebrei.

Quando uno di questi conoscenti mi ha attaccato non mi sono tirato indietro e gli ho ricordato che, a differenza di lui, ho prestato servizio nell’esercito israeliano e come medico ho salvato la vita a israeliani. La discussione è finita lì, ma non ho potuto fare a meno di riflettere: se questo è il modo in cui sono stato trattato in quanto israeliano io, un docente universitario, come vengono trattati i palestinesi? Sono messi a tacere per timore di essere etichettati come antisemiti, per aver espresso la propria angoscia?

Non sto facendo questa digressione per smentire o minimizzare l’aumento dell’antisemitismo o minacce e isolamento che provano docenti, personale e studenti ebrei, ma per evidenziare come la mia stessa esperienza mi consente di comprendere che l’angoscia provata da studenti ebrei e dalle loro comunità sia stata utilizzata come arma per reprimere e delegittimare le voci filo-palestinesi.

Oltretutto, e peggio ancora, per alcuni gruppi questa è apparsa l’opportunità ideale per invertire i progressi che l’università americana ha fatto a favore di maggiore diversità, inclusione e equità. E ora questa coalizione di populisti, ricchi donatori, politici noti per essere nemici della scienza e della democrazia e altri fanatici sta febbrilmente sperando che il loro punto di Archimede gli darà un primo successo: il ribaltamento di uno dei più significativi risultati dell’eguaglianza delle donne nella recente vita accademica americana, obbligando alle dimissioni le rettrici di Penn, Harvard e MIT.

Vedere quell’audizione al Congresso è stato come rivivere le udienze pubbliche della Commissione del Camera per le Attività Antiamericane durante gli anni di McCarthy. Le rettrici hanno fatto dichiarazioni forti, hanno detto di essere rimaste scioccate per le atrocità di Hamas, hanno denunciato l’antisemitismo e descritto le iniziative prese nei campus. Ma quello che ne è seguito è stato un circo accuratamente orchestrato, con domande mirate intese a intrappolarle in risposte indifendibili. Agli occhi dell’opinione pubblica le cinque ore dell’audizione cristallizzate in 30 secondi di clip, diventate virali sulla base di travisamenti e mancanza di sfumature, hanno fatto sembrare le rettrici indecise e ambigue, mentre le loro precedenti dichiarazioni non lo erano state.

E quando ho visto la pubblica umiliazione di quelle donne incredibilmente competenti, una voce ha iniziato a risuonare nella mia testa, le parole dell’avvocato Joseph Welch a Joseph McCarthy: “Non ha il senso della decenza?”

Spero che la decisione di Harvard di mantenere al suo posto la rettrice Claudine Gay, nonostante la potente campagna e le false accuse contro di lei, verrà ricordata nello stesso modo in cui lo è ora l’affermazione di Joseph Welsh, un punto di svolta. Un momento in cui parli la ragione, venga rifiutato l’uso del giustificato timore per l’antisemitismo come punto di leva di Archimede e si consenta a tutti noi di concentrarci sul fare in modo che le nostre università e college siano più diversi, inclusivi e sicuri per tutti.

Naftali Kaminski è un medico ricercatore e docente di Medicina e Farmacologia presso la Scuola di Medicina all’università di Yale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guerra Israele-Palestina: il gabinetto di guerra israeliano “blocca la proposta del capo del Mossad” di riprendere i colloqui in Qatar

Redazione di MEE

14 dicembre 2023-Middle East Eye

David Barnea si è offerto di avviare i negoziati sugli ostaggi, ma secondo Channel 13 i ministri non vogliono che sia Israele a fare la prima mossa

Il capo del Mossad si è offerto di recarsi in Qatar per riavviare i negoziati per la liberazione dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza, ma secondo un rapporto pubblicato dall’ emittente israeliana Channel 13 il gabinetto di guerra israeliano ha rifiutato l’offerta,

Secondo fonti affidabili su questa questione, David Barnea non è stato inviato a Doha a causa della percezione [del governo israeliano, ndt.] che gli alti funzionari di Hamas in Qatar siano stati esautorati dai suoi leader a Gaza.

Il rapporto, pubblicato mercoledì sera, afferma che i ministri israeliani non proporranno un accordo né avvieranno colloqui, a meno che non siano convinti che Hamas intenda stringere un altro accordo.

Le fonti hanno detto a Channel 13 che il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il politico dell’opposizione Benny Gantz, che fa parte del gabinetto di guerra, sono tutti d’accordo sul fatto che Israele non dovrebbe prendere l’iniziativa per un accordo.

Il rapporto afferma inoltre che Netanyahu e Gallant sono favorevoli ad aspettare che Hamas faccia una mossa, mentre Gantz ritiene che i mediatori del Qatar dovrebbero essere spinti a portare avanti i negoziati.

Giovedì, Al-Araby al-Jadeed [sito di notizie noto anche come The New Arab, ndt.] citando fonti egiziane ha riferito che Israele si è rivolto all’Egitto per condurre negoziati su un accordo per il rilascio dei prigionieri.

Le fonti dicono che il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel ha parlato al telefono con Barnea domenica.

Il capo dell’ufficio politico di Hamas a Gaza, Basem Naim, ha negato che siano avvenuti nuovi negoziati sui prigionieri con i mediatori.

A Gaza sono ancora tenuti prigionieri circa 140 ostaggi

Alla fine di novembre una pausa di sette giorni ha dato una breve tregua ai palestinesi dell’enclave che erano stati sotto costante bombardamento israeliano. Ha inoltre aperto la strada al rilascio di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e di ostaggi tenuti prigionieri a Gaza.

Circa 240 palestinesi sono stati rilasciati dalle carceri israeliane in cambio di 105 ostaggi tenuti prigionieri a Gaza.

I palestinesi rilasciati erano donne e giovani. La CNN ha riferito che dei primi 150 palestinesi rilasciati, 98 non erano stati accusati di alcun reato.

Si ritiene che gli ostaggi liberati da Gaza fossero tutti civili, tra cui diverse donne e bambini. La stragrande maggioranza sono cittadini israeliani, anche se molti hanno la doppia nazionalità. Tra i liberati figurano 23 cittadini thailandesi. Si ritiene che circa altre 140 persone siano rimaste prigioniere a Gaza, secondo le stime ufficiali israeliane. Secondo Hamas, diversi prigionieri israeliani sono stati uccisi dai bombardamenti e dai raid israeliani.

La campagna di bombardamenti israeliana che dura da due mesi ha ucciso oltre 18.608 palestinesi a Gaza, tra cui oltre 7.000 minori.

Ciò è avvenuto dopo l’attacco a sorpresa di Hamas nel sud di Israele, che ha ucciso almeno 1.140 persone, per lo più civili.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




In segreto Israele ha permesso che Hamas ricevesse milioni di dollari al mese

Mark Mazzetti e Ronen Bergman

11 dicembre 2023 –The Sidney Morning Herald

Tel Aviv

Poche settimane prima del 7 ottobre, quando Hamas ha lanciato il suo attacco mortale contro Israele, il capo del Mossad è arrivato a Doha, Qatar, per un incontro con funzionari qatarini.

Per anni questo governo ha mandato a Gaza milioni di dollari al mese – soldi che hanno contribuito a sostenere l’amministrazione di Hamas. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha non solo tollerato, ma incoraggiato quei pagamenti.

Secondo varie persone a conoscenza delle discussioni segrete, durante i suoi incontri a settembre con funzionari qatarini, al capo del Mossad, David Barnea, è stata posta una domanda che non era all’ordine del giorno: Israele voleva che continuassero con i pagamenti?

Recentemente il governo di Netanyahu ha deciso di continuare con la stessa politica, quindi Barnea ha detto di sì. Il governo israeliano approvava ancora i soldi inviati da Doha.

Permettere i pagamenti – miliardi di dollari lungo circa un decennio – è stato un azzardo di Netanyahu che pensava che un flusso regolare di denaro avrebbe mantenuto la pace a Gaza, il luogo di partenza degli attacchi del 7 ottobre, mantenendo Hamas concentrato sul governare, non combattere.

I pagamenti qatarini, apparentemente un segreto, erano da anni ampiamente conosciuti e discussi sui media israeliani. I critici di Netanyahu li denigrano perché parte di una strategia per “comprare la tranquillità” e, dopo gli attacchi, questa politica è al centro di un’impietosa revisione. Netanyahu si è scagliato contro queste critiche definendo “ridicola” l’ipotesi che avesse cercato di rafforzare Hamas.

In interviste con oltre venti politici israeliani, USA, qatarini e di altri governi mediorientali, attuali e del passato, The New York Times ha scoperto nuovi dettagli sulle origini di questa politica, sulle controversie scoppiate nel governo israeliano e fino a dove Netanyahu si è spinto per proteggere i qatarini dalle critiche e per far continuare il flusso di denaro.

I pagamenti facevano parte di una serie di decisioni di leader politici israeliani, ufficiali dell’esercito e funzionari dell’intelligence – tutti basati sulla valutazione sostanzialmente errata che Hamas non fosse né interessata né capace di un attacco su larga scala. Il Times aveva in precedenza riferito di errori dell’intelligence e di altre supposizioni sbagliate all’alba degli attacchi.

Persino quando l’esercito israeliano ha ottenuto i piani di battaglia di un’invasione di Hamas e gli analisti hanno notato significative esercitazioni terroristiche subito al di là del confine con Gaza, i pagamenti sono continuati. Per anni funzionari dell’intelligence israeliana hanno persino scortato un addetto qatarino dentro Gaza, dove distribuiva soldi da valige piene di milioni di dollari.

Il denaro del Qatar aveva destinazioni umanitarie, come pagare i salari del governo a Gaza e comprare combustibile per alimentare una centrale elettrica. Ma ora i funzionari dell’intelligence israeliana credono che i soldi abbiano giocato un ruolo nel successo degli attacchi del 7 ottobre, quanto meno perché le donazioni hanno permesso ad Hamas di dirottare parte per proprio budget verso operazioni militari. Autonomamente l’intelligence israeliana ha da tempo ipotizzato che il Qatar usasse altri canali per finanziare segretamente l’ala militare di Hamas, un’accusa che il governo del Qatar ha respinto.

Un funzionario qatarino ha dichiarato: “Ogni tentativo di gettare un’ombra di incertezza sulla natura civile e umanitaria dei contributi del Qatar e sul loro impatto positivo è infondato.”

Un funzionario dell’ufficio di Netanyahu ha dichiarato che vari governi israeliani hanno permesso al denaro di arrivare a Gaza per motivi umanitari, non per rafforzare Hamas. Ha poi aggiunto: “Il primo ministro Netanyahu ha agito per indebolire significativamente Hamas. Ha condotto tre importanti azioni militari contro Hamas, nel corso delle quali sono stati uccisi migliaia di terroristi e comandanti di Hamas.”

Hamas ha sempre affermato pubblicamente la sua intenzione di eliminare lo Stato di Israele. Ma ogni pagamento testimoniava l’opinione del governo israeliano che Hamas fosse una seccatura di scarso rilievo, forse persino una risorsa politica.

Già nel dicembre 2012 Netanyahu aveva detto al noto giornalista israeliano Dan Margalit che era importante mantenere forte Hamas come contrappeso all’Autorità Palestinese in Cisgiordania. In un’intervista Margalit ha affermato che Netanyahu gli aveva detto che avere due fazioni forti antagoniste tra loro, fra cui Hamas, avrebbe alleggerito la pressione su di lui nei negoziati per creare uno Stato palestinese.

Un funzionario dell’ufficio del primo ministro ha detto che Netanyahu non ha mai rilasciato tale dichiarazione. Ma nel corso degli anni Netanyahu ha esposto quest’idea ad altri.

Se l’esercito israeliano e i leader dell’intelligence hanno ammesso errori che hanno condotto all’attacco di Hamas, Netanyahu si è rifiutato di affrontare tali temi. E con una guerra a Gaza, per il momento il regolamento di conti politico con l’uomo che ha ricoperto la carica di primo ministro per 13 degli ultimi 15 anni è sospeso.

I critici di Netanyahu dicono che al centro di questo suo approccio verso Hamas ci fosse un cinico piano politico: tener tranquilla Gaza per restare al potere senza risolvere la minaccia di Hamas o il ribollente scontento palestinese.

Per oltre un quindicennio l’idea di Netanyahu è stata che, se compri la tranquillità e fai finta che il problema non esista, puoi aspettare che svanisca,” dice Eyal Hulata, consigliere della sicurezza nazionale israeliana dal luglio 2021 fino all’inizio di quest’anno.

Cercare l’equilibrio

Netanyahu e i suoi assistenti della sicurezza hanno cominciato lentamente a riconsiderare la loro strategia verso la Striscia di Gaza dopo parecchi, sanguinosi e inconcludenti conflitti militari contro Hamas.

Tutti ne avevamo abbastanza di Gaza,” dice Zohar Palti, ex direttore dell’intelligence per il Mossad. “Abbiamo tutti detto ‘Dimentichiamoci di Gaza’, perché sapevamo che eravamo a un punto morto.”

Nel 2014, dopo uno dei conflitti, Netanyahu ha tracciato un nuovo corso – enfatizzare una strategia per cercare di “limitare” Hamas mentre Israele si concentrava sul programma nucleare iraniano e sui suoi eserciti per procura, incluso Hezbollah.

Questa strategia è stata sostenuta da ripetute valutazioni dell’intelligence secondo cui Hamas non era né interessata né capace di lanciare un grande attacco in Israele.

Durante questo periodo il Qatar è diventato un finanziatore chiave per la ricostruzione e le attività di governo a Gaza. Una delle nazioni più ricche al mondo, il Qatar, ha da sempre sostenuto la causa palestinese e, più di tutti i suoi vicini, coltivato stretti legami con Hamas. Queste relazioni si sono rivelate preziose in settimane recenti poiché funzionari qatarini hanno contribuito a negoziare la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza.

L’opera del Qatar a Gaza durante questo periodo è stata approvata dal governo israeliano. Netanyahu ha persino fatto pressione su Washington per conto del Qatar. Nel 2017, quando i Repubblicani spingevano per imporre sanzioni finanziarie contro di esso per il suo sostegno ad Hamas, ha spedito funzionari della difesa a Washington. Secondo tre persone a conoscenza del viaggio, gli israeliani hanno detto ai parlamentari USA che il Qatar giocava un ruolo positivo nella Striscia.

Yossi Kuperwasser, ex capo della ricerca dell’intelligence militare israeliana, afferma che alcuni ufficiali vedevano i benefici di mantenere un “equilibrio” a Gaza. “La logica di Israele era che Hamas avrebbe dovuto essere forte abbastanza da governare Gaza,” dice, “ma sufficientemente debole da essere controllata da Israele.”

Le amministrazioni di tre presidenti americani – Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden – hanno ampiamente appoggiato il fatto che i qatarini giocassero un ruolo diretto nel finanziare le operazioni a Gaza.

Ma non tutti erano d’accordo.

Avigdor Lieberman [politico dell’estrema destra laica, ndt.], mesi dopo essere diventato ministro della Difesa israeliano nel 2016, scrisse una nota segreta a Netanyahu e al capo di stato maggiore dell’esercito israeliano dicendo che Hamas stava lentamente sviluppando le sue capacità militari di attaccare Israele e sostenendo che Israele avrebbe dovuto attaccare per primo.

L’obiettivo di Israele è “garantire che il prossimo scontro tra Israele e Hamas sia la resa dei conti finale,” scrisse nel documento datato 21 dicembre 2016, una cui copia è stata visionata dal Times. Un attacco preventivo, disse, avrebbe potuto eliminare la maggioranza dei “leader dell’ala militare di Hamas”.

Netanyahu respinse il piano preferendo il contenimento invece dello scontro.

Valige piene di contanti

Durante un incontro di gabinetto del 2018, gli assistenti di Netanyahu presentarono un nuovo piano: ogni mese il governo qatarino avrebbe fatto pagamenti in contanti per milioni di dollari direttamente alla gente di Gaza quale parte di un accordo di cessate il fuoco con Hamas.

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, avrebbe monitorato la lista dei destinatari per cercare di garantire che i membri dell’ala militare di Hamas non ne avrebbero beneficiato direttamente.

Valige piene di contanti ben presto cominciarono ad attraversare il confine di Gaza.

Ogni mese funzionari della sicurezza israeliani incontravano Mohammed al-Emadi, un diplomatico qatarino, al confine tra Israele e la Giordania. Da qui veniva portato in auto al valico di frontiera di Kerem Shalom e a Gaza.

Secondo ex funzionari israeliani e USA, all’inizio Emadi portava con sé da distribuire 15 milioni di dollari americani, con pagamenti di 100 dollari dati in località prescelte a ogni famiglia approvata dal governo israeliano,

I fondi dovevano servire a pagare salari e altre spese, ma un diplomatico occidentale che ha vissuto in Israele fino all’anno scorso ha detto che da tempo i governi occidentali pensavano che Hamas ne incassasse una parte.

I soldi sono intercambiabili,” dice Chip Usher, un analista del Medio Oriente presso la CIA fino al suo pensionamento quest’anno. “Tutto quello che Hamas non doveva sottrarre al suo bilancio poteva essere usato per altri scopi.”

Yossi Cohen, che si è occupato del Qatar per molti anni quale capo del Mossad, si è interrogato sulle politiche israeliane riguardo ai soldi per Gaza. Durante l’ultimo anno in cui ha gestito il servizio di spionaggio credeva che ci fosse poco controllo su dove finissero i soldi.

Nel giugno 2021 Cohen nel suo primo discorso pubblico dopo il pensionamento ha detto che i soldi qatarini alla Striscia di Gaza erano “fuori controllo”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Netanyahu rischierà un conflitto nei tunnel per “estirpare Hamas” e rimanere al potere?

Nils Adler

8 dicembre 2023- Al Jazeera

Le forze israeliane potrebbero rischiare uno scontro sotto Gaza mentre Netanyahu, politicamente in difficoltà, persegue la sconfitta totale di Hamas.

La presa di Benjamin Netanyahu sulla propria carica di primo ministro di Israele appare sempre più debole.

Molti israeliani ritengono lui e il suo gabinetto responsabili dei fallimenti in termini di sicurezza del 7 ottobre, ed egli è stato oggetto di pesanti critiche interne per la gestione della guerra contro Gaza. A ciò si aggiunge il fatto che da tempo è impelagato in accuse di corruzione e critiche sui progetti di modifica del sistema giudiziario.

Diversi sondaggi mostrano che se le elezioni si tenessero adesso sarebbe costretto a dimettersi.

Ora, mentre i soldati israeliani marciano più in profondità nel sud di Gaza, Netanyahu potrebbe trovarsi di fronte a una decisione in grado di comportare enormi conseguenze politiche per la sua carriera: se inviare truppe israeliane nella rete di tunnel di 500 km sotto Gaza.

Ogni tunnel rappresenta una minaccia significativa”

Secondo Philip Ingram, membro dell’MBE [ordine dell’impero britannico, principale onorificenza del Paese, ndt.] ed ex ufficiale dellintelligence militare britannica, se gli israeliani dovessero entrare nella rete di tunnel di Gaza ciò inaugurerebbe una nuova fase della guerra, riducendo significativamente il differenziale di potenza militare tra i contendenti.

In superficie Israele ha intrapreso un implacabile bombardamento aereo e uninvasione di terra dellenclave di 365 kmq sfruttando la sua superiorità sul piano degli armamenti.

Sottoterra Hamas potrebbe fare affidamento su una sofisticata rete di tunnel che costringerebbero i soldati israeliani a procedere a piedi in un’unica fila.

Le sfide per gli israeliani sarebbero enormi” a causa della mancanza di informazioni sufficienti sulla localizzazione dei tunnel, sulla loro estensione e sull’entità delle trappole esplosive che Hamas potrebbe aver predisposto, ha detto Ingram, aggiungendo che dal punto di vista militare gli israeliani vorrebbero certamente evitare di dover combattere nei tunnel”.

Data lesperienza di Hamas nel predisporre trappole esplosive e agguati ogni tunnel rappresenta una minaccia significativa” per le truppe israeliane, ritiene Elijah Magnier, un analista militare che si è occupato di Medio Oriente per più di 30 anni.

Nell’eventualità di una guerra nei tunnel la resistenza palestinese sembra godere di un vantaggio strategico”, dice, riferendosi allelevato numero di soldati israeliani che muoiono o rimangono feriti nella ricerca degli ingressi alla rete di tunnel.

Lesercito israeliano vanta tra i suoi ranghi i Weasels [faine, ndt.] (Samur), ununità specializzata nella guerra nei tunnel, riferisce Ingram, spiegando che le truppe specializzate avranno tutti gli strumenti” e cani addestrati per essere agevolati nel farsi strada nei tunnel.

Tuttavia, non importa quanto si siano esercitati, dice: quale sia la reale situazione laggiù resta in gran parte sconosciuto, il che rende il tutto molto rischioso.

L’organizzazione predisposta da Hamas e la sua profonda conoscenza della vasta rete di tunnel sposterebbero anche i combattimenti da un conflitto a 360 gradi” in superficie a uno in 3D” per le truppe israeliane, che potrebbero dover affrontare un attacco da ogni angolo, afferma.

In ogni caso, gli esperti ritengono che un potenziale conflitto nei tunnel resti probabile a causa della promessa di Netanyahu di eliminare Hamas e i suoi centri di comando sotterranei.

Magnier ritiene che la recente pausa umanitaria” di sette giorni a Gaza ha permesso ad Hamas e alla Jihad islamica di ristrutturare le loro strategie difensive e prepararsi al conflitto in corso”.

Settimane fa i media hanno riferito che Israele avrebbe preso in considerazione la possibilità di avvalersi a proprio favore dell’utilizzo all’interno dei tunnel di gas tossici per cercare di debellare i combattenti di Hamas al loro interno. Lipotesi ha suscitato scalpore a livello internazionale.

Il Wall Street Journal ha recentemente affermato che Israele potrebbe valutare come alternativa all’ingresso delle truppe l’ipotesi di allagare i tunnel con acqua di mare.

Citando funzionari statunitensi, i media hanno affermato che le forze israeliane avrebbero già assemblato a metà novembre un complesso di cinque pompe appena a nord del campo profughi di Shati.

Si legge nell’articolo che le pompe attingerebbero l’acqua dal Mediterraneo immettendola nei tunnel e sarebbero in grado di allagare la rete nel giro di poche settimane.

Estirpare Hamas

Netanyahu si è impegnato a distruggere Hamas” come una delle risposte allattacco del 7 ottobre.

E alla fine per salvare la sua carriera politica potrebbe decidere di inviare truppe nei tunnel nonostante il rischio di enormi perdite, ha detto Nader Hashemi, professore associato di Politica Medio Orientale e Islamica alla Georgetown University.

Netanyahu, ha aggiunto Hashemi, sa che a meno che non riesca a estirpare Hamas e… rivendicare una vittoria finale, non avrà la possibilità di proseguire la sua carriera politica in Israele”.

Netanyahu non ha promesso solo la sconfitta di Hamas, ma anche il rilascio dei 125 prigionieri che secondo Israele si trovano ancora a Gaza.

Israele ritiene che i prigionieri siano tenuti nelle reti sotterranee sotto Gaza, il che significa, secondo Magnier, che l’accesso ai tunnel sarà considerato cruciale dalle forze israeliane incaricate di liberarli.

Unoperazione militare nei tunnel potrebbe anche mettere a rischio i prigionieri, un’altra cosa che Netanyahu potrebbe essere disposto a rischiare per garantire la sconfitta di Hamas.

Hashemi fa riferimento alla Direttiva Annibale, una oscura politica militare israeliana che, secondo quanto riferito, consentirebbe nel caso di rapimento di un soldato luso del massimo della forza, anche se ciò provocasse la morte del soldato, come indicazione che Israele potrebbe dare priorità ai suoi obiettivi militari rispetto alla morte degli ostaggi”.

Costi militari vs benefici politici

Hashemi dice che anche se Netanyahu prende in considerazione un’eventuale operazione nei tunnel, la domanda nella sua mente sarà “quante vittime è disposto a subire davanti all’opinione pubblica” per raggiungere il suo obiettivo.

Ingram ritiene che la decisione verrà presa dopo aver soppesato rischi e benefici e che un probabile risultato sarà che Israele continuerà a mappare la rete dallalto, con l’uso di radar che penetrano nel terreno nel tentativo di identificare i centri di comando chiave, in modo da prenderli di mira espressamente facendo uno squarcio” nella rete.

Dice che, sebbene in molti conflitti precedenti ci sia stata una guerra nei tunnel, la città sotterranea” creata da Hamas ha raggiunto una nuova dimensione”. Afferma che lesercito israeliano si trova ad affrontare un compito senza precedenti e dovrà essere incredibilmente cauto.

Non è chiaro quando Israele potrebbe tentare di entrare nei tunnel.

Magnier dice che Israele è sotto pressione di fronte alle crescenti critiche internazionali e ai crimini di guerra e contro lumanità” e mentre ciò implica che avrebbe bisogno di raggiungere i suoi obiettivi più velocemente, stabilire un calendario specifico per le operazioni di terra costituisce una sfida per qualsiasi comandante militare”.

Lavanzata israeliana, prosegue, è stata straordinariamente lenta nonostante sia avvenuta in una zona residenziale piccola ma densamente popolata” e spiega come il bombardamento indiscriminato di aree civili da parte di Israele abbia aiutato involontariamente la resistenza fornendole copertura e riparo.

Se le truppe israeliane entrassero nella rete di tunnel ciò potrebbe significare un conflitto prolungato, che si svolgerebbe sotto terra in un vuoto di informazioni.

Se accerchiato Hamas potrebbe trovarsi ad affrontare una carenza di carburante e di rifornimenti mentre, al contrario, le truppe israeliane potrebbero procedere a rilento per settimane e settimane solo per avanzare di 100 metri”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mettere in discussione le storie che ci raccontano sulla solidarietà e la propaganda

Benay Blend

4 dicembre 2023 – Palestine Chronicle

Essere solidali con gli oppressi, chiunque essi siano, significa stare in guardia rispetto ai media sensazionalisti che trasformano la vittima in carnefice per infiammare l’opinione pubblica.

Nella Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 29 novembre, è sempre bene ricordare che cosa significa realmente essere solidali con un altro gruppo di persone.

Non importa che la data sia arrivata e trascorsa prima che compaia questo articolo, perché la solidarietà non è una sciarpa che possa essere indossata e tolta, usata quando serve ma messa da parte quando non serve più.

Ora più che mai significa porre al centro le voci dei palestinesi in tutti gli eventi, piuttosto che incoraggiare altri ad assumere la guida. Se è vero che non tutti i palestinesi la pensano allo stesso modo, la maggioranza di loro è unita in nome della causa di liberazione, scrive Ramzy Baroud, un’unità che si avverte all’interno della patria e al di fuori.

Invece di proporre logore soluzioni, opinioni sul valore di questa o quella strategia, è ora di ascoltare ciò che i palestinesi immaginano per il loro futuro.

Il 29 novembre Romana Rubeo, caporedattrice di Palestine Chronicle, ha osservato che alcuni intendono essere solidali solo quando gli occupati appaiono come vittime, nonostante che i palestinesi abbiano sempre “sublimato il dolore nella lotta”.

Anche i bambini”, osserva Ramzy Baroud, fondatore di Palestine Chronicle, “che hanno perso membri della propria famiglia a Gaza stanno con coraggio di fronte alle telecamere ribadendo che non cederanno mai e che niente li potrà scacciare dalla loro patria. Vecchi e giovani riaffermano la stessa logica, usano linguaggi simili, persino dai letti di ospedale.”

Infine è importante non riproporre la hasbara (propaganda) che si è imposta nei media occidentali ed è stata ostinatamente ripetuta da capi di Stato. Subito dopo il 7 ottobre c’è stato un rapporto su bambini israeliani presumibilmente decapitati da Hamas.

Poiché mi ricordavo di una vicenda simile durante l’invasione irachena del Kuwait, quella di bambini tirati fuori dalle incubatrici dagli iracheni e lasciati morire, diffidavo della veridicità di questo rapporto. Benché sia stato subito dimostrato che la voce è stata messa in giro da un israeliano che non ne aveva la minima prova, la storia ha preso piede fino ad ora e viene ancora ripetuta da alcuni come un dato di fatto.

Nonostante la storia della falsità e delle autentiche menzogne di Israele”, spiega Jamal Kanj, “i mezzi di informazione e i leader occidentali continuano a contestare la veridicità delle narrazioni di testimoni in prima persona sul campo, essendo disponibili al contempo ad assumere la falsa versione israeliana degli eventi.”

Recentemente il Washington Post ha pubblicato un titolo sensazionalistico che allude all’uso da parte di Hamas dello “stupro come arma di guerra”. L’articolo prosegue dipingendo un quadro di barbari palestinesi che hanno stuprato e saccheggiato nel loro passaggio per i villaggi e le città israeliane.

Anche se il dirigente di Hamas Basem Naim ha spiegato che un tale comportamento va contro i principi islamici, il Washington Post ha sorvolato sulla sua dichiarazione.

Il rapporto prosegue ignorando le prove secondo cui quel giorno sono stati i soldati israeliani a sparare su qualunque cosa si muovesse, accollandosi così parte del peso delle 1200 morti israeliane.

Un significativo numero (di persone uccise durante il raid) sono state uccise dal fuoco incrociato”, scrive l’attivista sudafricano Ronnie Kasrils, “molte da fucili e bombe israeliani. Ci sono rapporti che indicano che alcuni dei soldati israeliani erano scarsamente addestrati ad operare in situazioni di panico.”

Sembra che il regime sionista stesse progettando per i palestinesi ciò che essi stessi hanno fatto a donne e bambini detenuti nelle prigioni israeliane, ma ad oggi non è stato detto molto su questo.

È vero che lo stupro è spesso usato come arma in situazioni di guerra per disumanizzare il nemico, ma in questo caso sembra che sia il contrario. Certo negli Stati Uniti c’è una lunga storia di neri falsamente accusati di stupro di donne bianche, in parte per diffondere paura ma anche per giustificare i linciaggi estragiudiziali alla fine del XIX e nel XX secolo.

Negli anni ’90 del 1800 la paladina nera e giornalista investigativa Ida B Wells intraprese uno studio di massa che avrebbe messo in luce le accuse fraudolente che giustificavano il linciaggio dei neri.

Più di recente vi è stato il caso dei cinque di Central Park, giovani neri e latini arrestati per il brutale stupro di una donna a Central Park a New York. Nel 1989, un anno caratterizzato da crimini e tensioni razziali, il pubblico ha visto ciò che era preparato a vedere e i media hanno giocato su queste paure facendone un caso sensazionalistico.

Il pregiudizio di conferma consiste nella tendenza individuale ad accettare solo ciò che sorregge il proprio preesistente punto di vista prevenuto”, nota Jamal Kanj. Questo vale oggi per i media occidentali nei confronti della Palestina e per i loro racconti di ciò che Hillary Clinton definì “superpredatori”, minori neri che secondo lei erano coinvolti in bande e questioni di droga.

Oggi c’è il documentario ‘Quando loro ci vedono’ che riporta le fasi del proscioglimento. Ciononostante questi cinque uomini passarono anni dietro le sbarre perché i media e i responsabili pubblici furono svelti a giocare sulle paure della gente.

Oggi i media insieme a diversi governi del mondo usano la stessa tecnica per equiparare la resistenza palestinese al terrorismo. Come nei casi suddetti, il linguaggio irresponsabile del sensazionalismo e della verità distorta comporta delle conseguenze.

In una comunicazione, dei palestinesi americani di Chicago hanno incolpato i media e i responsabili pubblici per l’assassinio del bambino di sei anni Wadea Al-Fayoume. Il 15 ottobre il bambino è stato brutalmente accoltellato 26 volte da un aggressore razzista che credeva che “tutti i musulmani devono morire.”

Precedentemente la consigliera comunale di Chicago Debra Silverstein aveva presentato una risoluzione che invitava a porre attenzione agli stereotipi razzisti collegati ai palestinesi, compresa “la disinformazione israeliana priva di fondamento circa gli eventi del 7 ottobre da parte di relatori filoisraeliani, che ripetono retoriche razziste riguardo agli arabi – sistematiche violenze sessuali contro le donne, sistematici massacri di bambini, decapitazioni – che l’esercito israeliano e la Casa Bianca hanno sempre rifiutato di verificare.”

Secondo Ameera Al-Beituni e Noor Hssan questi tropi razzisti hanno spinto il killer di Al-Fayoume a commettere il brutale crimine, riportando alla mente come le raffigurazioni razziste dei neri condussero al loro pubblico linciaggio.

Un giorno dopo che il Washington Post ha pubblicato le infondate accuse che Hamas aveva compiuto violenze sessuali contro donne “israeliane” il 7 ottobre, i titoli hanno riferito una storia diversa. Tre studenti palestinesi erano stati colpiti a morte nello stato liberale del Vermont, dove risiede Bernie Sanders.

Causa ed effetto? Molto probabilmente, ma la polizia dice di non aver ancora trovato un chiaro movente per gli spari. Per quale motivo qualcuno dovrebbe sparare a sangue freddo a tre palestinesi che parlano in arabo e indossano la kefiah, se non per odio scatenato dai media?

È importante riconoscere che questo fa parte di una storia più ampia. Questo orrendo crimine non ha origine nel vuoto”, dice Hisham Awartini, la vittima più gravemente ferita. “Così come apprezzo ognuno di voi che siete qui oggi, io sono una vittima di questo conflitto molto più ampio.”

Basil Awartini, cugino di Hisham, in questo stesso articolo suggerisce che gli spari sono stati una conseguenza di “una retorica pericolosa e disumanizzante vomitata da politici USA e opinionisti di destra.” Poi nello stesso pezzo il Post accusa Hamas di avere assassinato 1200 israeliani il 7 ottobre, anche se vi sono sempre più prove che “Israele” in quel giorno ha ucciso alcuni propri cittadini.

Essere solidali con gli oppressi, chiunque essi siano, significa stare in guardia rispetto ai media sensazionalisti che trasformano la vittima in carnefice per infiammare l’opinione pubblica. Non è difficile riconoscere gli stereotipi come anche esempi nel passato in cui la stessa disinformazione è stata usata per giustificare l’impiego della violenza contro altri esseri umani.

Dobbiamo essere solidali con il popolo palestinese”, conclude Rubeo, “che resiste, lotta, piange per i suoi figli e sorride se un prigioniero viene rilasciato. Con il popolo palestinese che respinge l’invasore e occupante ogni giorno, in modi diversi.”

Benay Blend ha ottenuto il dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’” [Nè Patria né Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey.

Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Una rottura inevitabile: l’Operazione Al-Aqsa e la fine della partizione

Tareq Baconi 

26 novembre 2023, Al Shakaba 

L’offensiva a sorpresa di Hamas del 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo letale all’esercito e all’opinione pubblica israeliana dalla fondazione dello Stato nel 1948. Per ritorsione, Israele ha lanciato il più vasto attacco militare della storia a Gaza, distruggendo ampie parti del territorio e uccidendo oltre 14.000 palestinesi, più di un terzo dei quali minori. Con il via libera degli Stati Uniti e di gran parte dell’Europa, Israele ha portato avanti quella che studiosi ed esperti hanno definito una campagna di genocidio, cercando di sbarazzarsi dei palestinesi di Gaza con il pretesto di decimare Hamas.

La velocità con cui Israele si è mobilitato e la portata del suo attacco avvalorano la convinzione palestinese che il regime di occupazione coloniale stia attuando piani predisposti da tempo per l’espulsione di massa. Nel frattempo, i funzionari israeliani hanno utilizzato una campagna narrativa di disumanizzazione dei palestinesi per porre le basi per una giustificazione dell’immensa violenza.

In contrasto a questo scenario, questo articolo riconduce l’ultimo attacco israeliano a Gaza al suo contesto più ampio;e analizza la ghettizzazione della terra palestinese da parte di Israele attraverso la partizione in bantustan e individua l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa di Hamas come momento di rottura del sistema di partizione. È importante che si metta in primo piano la questione di ciò che verrà dopo la partizione e si ponga un freno alle crescenti possibilità di pulizia etnica dei palestinesi.

Gaza: il peggior bantustan d’Israele

Israele afferma di essere uno Stato sia ebraico che democratico, rifiutandosi di dichiarare i propri confini ufficiali e controllando totalmente un territorio all’interno dei cui confini vivono più palestinesi che ebrei. Per raggiungere questa realtà è necessaria una sofisticata struttura di ingegneria demografica, basata sulla diversificazione legale dei palestinesi e sullo stretto controllo dei loro movimenti e luoghi di residenza, confinandoli in enclave geografiche. Questo sistema è nato dall’ondata iniziale di espulsione di massa e pulizia etnica dei palestinesi avvenuta nel 1948, in cui più di 530 villaggi palestinesi furono spopolati per fare spazio ai coloni ebrei. Questa pratica coloniale di insediamento non è ancora chiusa nei libri di storia.

Ciò che i palestinesi chiamano Nakba è in corso da allora, con le quotidiane pratiche di colonizzazione di Israele che assumono forme diverse in diverse aree sotto il suo controllo. E costituisce un il pilastro centrale del regime di apartheid di Israele.

Gaza rappresenta storicamente la manifestazione più estrema del sistema israeliano di bantustan per i palestinesi. Con una delle più alte densità di popolazione del mondo, Gaza è composta prevalentemente da rifugiati espulsi dalle terre intorno alla Striscia durante l’istituzione di Israele nel 1948. In effetti, molti dei combattenti che hanno fatto irruzione nelle città israeliane il 7 ottobre sono probabilmente discendenti di rifugiati proprio da quelle terre in cui sono planati o strisciati, entrandovi per la prima volta dall’espulsione delle loro famiglie.

Dal 1948 Israele si è dedicato con impegno a recidere ogni nesso tra l’attuale resistenza anticoloniale e lo storico e corrente sistema di apartheid israeliano. Mentre molti pensano che Gaza sia sotto blocco perché governata da Hamas, Israele in realtà ha sperimentato dal 1948 un’infinità di tattiche per depoliticizzare il territorio e pacificarne la popolazione. Queste tattiche hanno incluso lo strangolamento economico e il blocco, decenni prima che Hamas fosse fondato, e senza alcun risultato.

Con la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, ai leader israeliani si è presentata un’opportunità: utilizzando la retorica del terrorismo, Israele ha posto Gaza sotto un blocco ermetico ignorando il programma politico del movimento sulla cui base era stato democraticamente eletto. Inizialmente il blocco doveva essere una tattica punitiva per forzare la capitolazione di Hamas, ma si è rapidamente trasformato in una struttura volta a contenere Hamas e a separare l’enclave costiera dal resto della Palestina. Con oltre due milioni di palestinesi invisibili dietro i muri e sotto assedio e blocco, il governo israeliano e gran parte dell’opinione pubblica israeliana – per non parlare dei leader occidentali – potevano lavarsi le mani della realtà che avevano creato.

Il blocco imposto dal regime di Israele serve all’obiettivo di contenimento sia dei palestinesi che di Hamas. Nel corso degli ultimi sedici anni, Israele ha fatto affidamento principalmente su Hamas per governare la popolazione di Gaza, pur mantenendo il controllo esterno dell’enclave. Hamas e il regime israeliano sono caduti in un equilibrio instabile, spesso sfociato in episodi di infinita violenza in cui migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Per Israele questa dinamica ha funzionato così bene che non è mai stata necessaria una strategia politica per Gaza. Come altrove in tutta la Palestina, Israele ha fatto affidamento sulla gestione dell’occupazione piuttosto che affrontarne i fattori politici, mantenendosi signore supremo dell’occupazione nelle varie enclave palestinesi governate da entità sotto il suo controllo sovrano.

L’unico obiettivo che Israele ha perseguito negli ultimi quindici anni è stato quello di cercare di garantire una relativa calma agli israeliani, in particolare a quelli che risiedono nelle aree circostanti Gaza. Lo ha fatto utilizzando una forza militare schiacciante, anche se quella calma è raggiunta a costo dell’imprigionamento di una popolazione di milioni di persone e del loro mantenimento in condizioni prossime alla fame. Gaza è stata così completamente cancellata dalla psiche israeliana che i manifestanti che marciavano per proteggere la cosiddetta democrazia israeliana all’inizio del 2023 si illudevano di fatto che democrazia e apartheid fossero verosimili compagni di letto.

Il collasso del sistema di partizioni

Quindi per la maggior parte del pubblico israeliano e dei sostenitori di Israele all’estero l’offensiva di Hamas è arrivata dal nulla. Uscendo dalla prigione, le Brigate Al-Qassam – l’ala militare di Hamas – hanno rivelato la povertà strategica del presupposto secondo cui i palestinesi avrebbero consentito indefinitamente alla propria prigionia e sottomissione. Ancora più importante, l’operazione ha devastato la stessa fattibilità dell’approccio partizionista di Israele: la convinzione che i palestinesi possano essere dirottati nei bantustan mentre lo Stato colonizzatore continua a godere di pace e sicurezza – e persino espande le sue relazioni diplomatiche ed economiche nella regione circostante. Distruggendo l’idea che Gaza possa essere cancellata dall’equazione politica generale, Hamas ha fatto a brandelli l’illusione che la divisione etnica in Palestina sia una forma sostenibile o efficace di ingegneria demografica, per non parlare di morale o legalità.

Nel giro di poche ore dall’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, l’infrastruttura che era stata messa in atto per contenere Hamas – e con essa, per cacciare i palestinesi da Gaza – è stata distrutta davanti agli occhi spesso increduli di tutti. Mentre i combattenti di Hamas irrompevano nel territorio controllato da Israele, la collisione tra il mito di Israele come Stato democratico e la sua realtà di portatore di un violento apartheid è stata scioccante, tragica e, in definitiva, irreversibile. Di conseguenza, israeliani e palestinesi sono stati gettati in un paradigma post-partizione, in cui sia la convinzione di Israele della sostenibilità dell’ingegneria demografica sia l’infrastruttura dei bantustan utilizzata si sono rivelate temporanee e inefficaci.

Il crollo del quadro partizionista ha presentato un paradosso: da un lato, i palestinesi e i loro alleati hanno cercato di diffondere la consapevolezza che Israele è uno Stato di apartheid coloniale di insediamento. Questa consapevolezza è servita agli sforzi di alcuni volti a promuovere la decolonizzazione e il perseguimento di un sistema politico radicato nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza e nell’autodeterminazione. Molti palestinesi credono che il risultato della loro lotta per la liberazione sarà l’architettura politica di un tale spazio decolonizzato, una volta smantellati gli elementi centrali dell’apartheid – pulizia etnica, rifiuto di consentire il ritorno dei rifugiati e partizione.

D’altra parte, in assenza di un progetto politico in grado di sostenere questa lotta decoloniale, il collasso del 7 ottobre del sistema di partizione ha accelerato l’impegno di Israele alla pulizia etnica. Allo stesso modo ha rafforzato la convinzione fascista ed etnico-tribale secondo cui, senza partizione, solo gli ebrei possano esistere in sicurezza nella terra della Palestina colonizzata, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In altre parole, il collasso delle possibilità partizioniste potrebbe aver gettato le basi per un’altra Nakba piuttosto che per un futuro decolonizzato.

I calcoli politici di Hamas

Questo paradosso spiega, in parte, il risentimento espresso nei confronti dell’offensiva di Hamas da parte anche di alcuni palestinesi che vedono nell’attacco l’inizio di un’altra crisi per la loro lotta collettiva. L’incombente possibilità di una pulizia etnica non deve essere sottovalutata, e lo sbalorditivo bilancio delle vittime che i civili di Gaza stanno sperimentando deve indurre tutti a riflettere sull’enorme costo provocato dall’operazione di Hamas, anche quando la responsabilità primaria di questa violenza ricada direttamente sul regime coloniale israeliano.

Tuttavia tale lettura travisa i calcoli politici di Hamas. Ovviamente c’è qualcosa di vero nell’insinuare che questa violenza sia stata scatenata dall’attacco di Hamas. Eppure la realtà era letale per i palestinesi anche prima dell’offensiva, anche se in misura minore di quanto avvenuto dopo il 7 ottobre. Era una violenza che si era normalizzata e che, nella sua essenza, aveva lo stesso scopo: uccidere i palestinesi in massa. La violenza a cui abbiamo assistito nel 2023 non è altro che lo scatenarsi della brutalità che ha sempre costituito le basi della lotta di Israele con i palestinesi in generale, e con quelli di Gaza in particolare.

La rottura era quindi inevitabile. Il contenimento di Hamas è stato efficace, ma dato l’impegno del movimento per la liberazione palestinese e il suo fermo rifiuto di concedere il riconoscimento dello Stato di Israele, è probabile che il contenimento sia sempre temporaneo a meno che non vengano compiuti seri sforzi per affrontare i fattori politici al centro della lotta palestinese per la liberazione. Con una popolazione in crescita a Gaza e carenze di governance sempre più acute, l’idea che Hamas non ribaltasse quella realtà – soprattutto con l’estendersi dell’impunità israeliana – era miope.

Ciò di cui Hamas è responsabile, e ciò di cui i palestinesi devono ritenerli responsabili, è la misura di una pianificazione – o la sua mancanza – per il giorno successivo all’attacco. Con la consapevolezza che Hamas e altri hanno acquisito nel corso degli anni, non ci potevano essere dubbi sul fatto che l’attacco di Hamas si sarebbe tradotto in furia scatenata contro i palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Il movimento avrebbe dovuto essere – e forse lo era – preparato alla violenza che si è abbattuta successivamente su Gaza. Stabilire se i calcoli erano giusti, nonostante la tragica perdita di vite umane, è qualcosa con cui i palestinesi dovranno confrontarsi negli anni a venire.

Ipocrisia e colpe dell’Occidente

Invece di tentare di frenare l’attacco israeliano su Gaza, l’amministrazione Biden ha solo gettato benzina sul fuoco. Nel suo primo discorso dopo l’attentato, il presidente americano ha descritto Hamas come “male assoluto”, paragonandone l’offensiva a quelle dell’Isis; ha anche paragonato il 7 ottobre all’11 settembre e ha ripetutamente fatto riferimento a pretese brutalità poi ampiamente smentite per fomentare luoghi comuni orientalisti e islamofobici nel tentativo di giustificare la ferocia della risposta di Israele.

È importante notare che gli sforzi per collegare la resistenza palestinese in tutte le sue forme – pacifica o armata – al terrorismo sono molto anteriori all’attacco di Hamas. Durante la Seconda Intifada, evocare l’11 settembre da parte di Ariel Sharon trovò un pubblico ricettivo nell’amministrazione Bush, che era nelle prime fasi di elaborazione della sua dottrina di Guerra al Terrore. I mesi successivi videro Israele lanciare invasioni militari estremamente distruttive contro i campi profughi in Cisgiordania sotto il cartello della lotta al terrorismo.

Nel frattempo i principali media e gli spazi politici occidentali continuano a mancare di analisi approfondite e fondate sull’evolversi della situazione. Invece è stato proposto un imperante modello di disumanizzazione palestinese in modo così totale che qualsiasi tentativo di utilizzare le piattaforme dei media per smantellare – o semplicemente mettere in discussione – il sistema di dominio israeliano incontra reazioni perplesse e una condanna uniforme. In questa lettura Hamas avrebbe agito in modo irrazionale, i palestinesi di Gaza erano a disposizione del movimento come scudi umani e il sistema coloniale israeliano nel suo insieme era tranquillo e sostenibile prima del 7 ottobre. Queste reazioni, più che altro, segnalano l’ipocrisia occidentale e il razzismo anti-palestinese.

Ciò che è chiaro è che i leader occidentali si rifiutano pervicacemente di riconoscere l’attacco di Hamas per quello che è stato: una dimostrazione senza precedenti di violenza anticoloniale. L’Operazione Diluvio di Al-Aqsa è stata la risposta inevitabile all’incessante e interminabile provocazione di Israele con il furto di terre, l’occupazione militare, il blocco e l’assedio e la negazione del diritto fondamentale al ritorno in patria da più di 75 anni. Invece di riproporre analogie astoriche e rispolverare vecchie narrazioni, è giunto il momento che la comunità internazionale si confronti con la vera causa principale della violenza a cui stiamo assistendo: l’occupazione dei coloni israeliani e l’apartheid.

Per limitare il sangue che sarà versato quando il sistema di apartheid israeliano sarà messo in discussione, la comunità internazionale e in particolare l’Occidente devono prima fare i conti con il fatto di aver reso possibile un sistema politico etno-nazionalista che ha fatto a pezzi i diritti e le vite dei palestinesi. Il mondo deve affrontare la realtà, che le richieste politiche palestinesi non possono essere cancellate o messe da parte sotto la bandiera onnicomprensiva ma poco convincente della lotta al terrorismo. Invece di imparare la lezione, i politici occidentali sembrano contenti di servire come partner attivi nell’attuale campagna di pulizia etnica del regime israeliano: la nakba della mia generazione.

Tareq Baconi è presidente del consiglio direttivo di Al-Shabaka. È stato borsista di Al-Shabaka per la politica statunitense dal 2016 al 2017. Tareq è ex analista senior per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti presso l’International Crisis Group con sede a Ramallah, e autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestine Resistance (Contenere Hamas: l’ascesa e la pacificazione della resistenza palestinese, Stanford University Press, 2018). Gli scritti di Tareq sono apparsi tra gli altri su London Review of Books, New York Review of Books, Washington Post, ed è di frequente cronista nei media regionali e internazionali. È redattore delle recensioni di libri per il Journal of Palestine Studies.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Una fabbrica di omicidi di massa”: sul bombardamento di Gaza pianificato da Israele

Yuval Abraham

30 novembre 2023 – +972 Magazine

Un’indagine di +972 e Local Call rivela come attacchi aerei senza freni su obiettivi non militari e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale abbiano consentito all’esercito israeliano di portare avanti la guerra più letale contro Gaza

Un’indagine di +972 Magazine e Local Call rivela come l’autorizzazione all’esercito israeliano di effettuare massicci bombardamenti di obiettivi non militari, l’allentamento dei vincoli riguardo alle possibili vittime civili e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale per generare un numero senza precedenti di potenziali obiettivi sembrano aver contribuito alla natura distruttiva delle fasi iniziali dell’attuale guerra di Israele nella Striscia di Gaza. Questi fattori, come descritti da membri in servizio e in congedo dell’intelligence israeliana, hanno probabilmente avuto un ruolo nel produrre quella che è stata una delle campagne militari più letali contro i palestinesi dai tempi della Nakba del 1948.

L’indagine di +972 e Local Call si basa su conversazioni con sette membri in servizio e in congedo della comunità dell’intelligence israeliana – tra cui personale dell’intelligence militare e dell’aeronautica militare coinvolto nelle operazioni israeliane nella Striscia assediata – oltre a testimonianze, dati e documentazione palestinesi dalla Striscia di Gaza e dichiarazioni ufficiali del portavoce dell’IDF e di altre istituzioni statali israeliane.

Rispetto ai precedenti attacchi israeliani su Gaza, l’attuale guerra – che Israele ha chiamato “Operazione Spade di Ferro” e che è iniziata in seguito all’assalto guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre – ha visto l’esercito estendere in modo significativo i suoi bombardamenti su Gaza contro obiettivi di natura non prettamente militare. Questi includono abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli che secondo le fonti l’esercito definisce “obiettivi di potere” (matarot otzem).

Secondo fonti di intelligence che ne hanno avuto esperienza diretta in passato a Gaza, gli obiettivi del bombardamento di potere mirano principalmente a danneggiare la società civile palestinese: “creare uno shock” che, tra le altre cose, avrà un potente impatto per “indurre i civili a esercitare pressioni su Hamas”, come lo ha descritto una fonte.

Molti degli informatori che hanno parlato con +972 e Local Call a condizione di rimanere anonimi hanno confermato che l’esercito israeliano ha una documentazione sulla stragrande maggioranza dei potenziali obiettivi a Gaza – comprese le case – che stabilisce il numero di civili che potrebbero essere uccisi in un attacco contro un determinato obiettivo. Questa cifra viene calcolata ed è nota in anticipo ai servizi segreti dell’esercito, che sanno anche, poco prima di un attacco, quanti civili verranno sicuramente uccisi.

In un caso di cui hanno parlato le fonti il comando militare israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi nel tentativo di assassinare un unico importante comandante militare di Hamas. “I numeri sono aumentati da decine di morti civili [autorizzati] in operazioni precedenti a centinaia di morti civili come danno collaterale nell’attacco contro un importante dirigente [di Hamas] “, ha detto una fonte.

“Niente accade per caso”, ha detto un’altra fonte. “Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema che morisse, che era un prezzo che valeva la pena pagare per colpire [un altro] bersaglio. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi lanciati a casaccio. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.

Secondo l’inchiesta, un altro motivo del gran numero di obiettivi e dei gravissimi danni alla vita civile a Gaza è l’uso diffuso di un sistema chiamato “Habsora” (“Il Vangelo”), basato in gran parte sull’intelligenza artificiale, e può “generare” obiettivi quasi automaticamente a una velocità che supera di gran lunga quanto era possibile fare in precedenza. Questo sistema di intelligenza artificiale, come descritto da un ex ufficiale dell’intelligence, consente essenzialmente di avere una “fabbrica di omicidi di massa”.

Secondo le fonti, il crescente utilizzo di sistemi come Habsora basati sull’intelligenza artificiale permette all’esercito di effettuare attacchi su vasta scala contro edifici residenziali in cui vive un solo membro di Hamas, anche quelli in cui ci siano miliziani poco importanti di Hamas. Eppure le testimonianze dei palestinesi a Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre l’esercito ha attaccato anche molte abitazioni private in cui non risiedeva alcun membro noto o presunto di Hamas o di qualsiasi altro gruppo armato. Tali attacchi, hanno confermato fonti a +972 e Local Call, possono uccidere consapevolmente intere famiglie.

Nella maggior parte dei casi, aggiungono le fonti, nessuna attività militare viene condotta dalle case prese di mira. “Ricordo di aver pensato che era come se (i miliziani palestinesi) bombardassero tutte le case private delle nostre famiglie quando (i soldati israeliani) tornano a dormire a casa nel fine settimana,” ha osservato una fonte, critica nei confronti di questa pratica.

Un’altra fonte ha affermato che dopo il 7 ottobre un alto funzionario dell’intelligence ha detto ai suoi ufficiali che l’obiettivo era “uccidere quanti più miliziani di Hamas possibile,” per cui i criteri relativi al danno ai civili palestinesi erano significativamente allentati. Pertanto, ci sono “casi in cui bombardiamo sulla base di una localizzazione cellulare ampia del punto in cui si trova l’obiettivo, uccidendo civili. Questo viene spesso fatto per risparmiare tempo, invece di fare un po’ di lavoro in più per ottenere una localizzazione più accurata”, ha detto la fonte.

Il risultato di queste politiche è l’incredibile perdita di vite umane a Gaza dal 7 ottobre. Oltre 300 famiglie hanno perso dieci o più membri a causa dei bombardamenti israeliani negli ultimi due mesi, un numero 15 volte superiore rispetto alla cifra registrata in precedenza nella guerra più mortale di Israele contro Gaza, nel 2014. Al momento in cui scrivo, circa 15.000 palestinesi sono stati uccisi nella guerra, e continuano ad aumentare.

“Tutto ciò avviene in contrasto con il protocollo utilizzato dall’IDF in passato”, ha spiegato una fonte. “C’è la sensazione che gli alti funzionari dell’esercito siano consapevoli del loro fallimento il 7 ottobre, e siano impegnati nel fornire all’opinione pubblica israeliana un’immagine [di vittoria] che salverà la loro reputazione”.

Una scusa per provocare distruzioni”

Israele ha scatenato il suo attacco contro Gaza subito dopo l’offensiva guidata da Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele. Secondo un rapporto dell’Ong Medici per i Diritti Umani-Israele, durante quell’aggressione, sotto una pioggia di razzi, i miliziani palestinesi hanno massacrato più di 840 civili e ucciso 350 soldati e personale della sicurezza, rapendo circa 240 persone, civili e soldati, verso Gaza, e commesso violenze sessuali generalizzate, tra cui stupri.

In un primo momento dopo l’attacco del 7 ottobre i dirigenti politici israeliani hanno apertamente dichiarato che la risposta sarebbe stata di dimensioni totalmente diverse rispetto alle precedenti operazioni militari a Gaza, con l’esplicita intenzione di sradicare totalmente Hamas. “Il rilievo è dato ai danni e non all’accuratezza,” ha affermato il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari il 9 ottobre. L’esercito ha prontamente messo in pratica queste dichiarazioni.

Secondo le fonti che hanno parlato con +972 e Local Call, i bersagli colpiti dagli aerei israeliani a Gaza possono essere divisi all’incirca in quattro categorie. La prima sono gli “obiettivi tattici,” che includono consueti bersagli militari come cellule di miliziani, depositi di armi, lanciarazzi, lanciamissili anticarro, fosse di lancio, bombe di mortaio, centri di comando militari, posti di osservazione, e via di seguito.

La seconda sono gli “obiettivi sotterranei”, principalmente tunnel che Hamas ha scavato sotto i quartieri di Gaza, anche sotto abitazioni civili. Attacchi aerei contro questi bersagli possono portare al crollo delle case sopra o nei pressi dei tunnel.

La terza sono gli “obiettivi di potere”, che includono edifici alti e torri residenziali nel cuore delle città ed edifici pubblici come università, banche e uffici statali. L’idea che sta dietro al colpire tali bersagli, dicono tre fonti dell’intelligence che in passato sono stati coinvolti nella pianificazione o conduzione di attacchi contro obiettivi di potere, è che un attacco deliberato contro la società palestinese provocherà una “pressione dei civili” su Hamas.

L’ultima categoria consiste in “case private” o “case di miliziani”. L’intenzione dichiarata di questi attacchi è distruggere le abitazioni per assassinare un abitante sospettato di essere un membro operativo di Hamas o del Jihad Islamico. Tuttavia in questa guerra testimoni palestinesi affermano che alcune delle famiglie uccise non includevano alcun miliziano di quelle organizzazioni.

Nelle prime fasi dell’attuale guerra l’esercito israeliano sembra essersi occupato principalmente della terza e quarta categoria di bersagli. Secondo le affermazioni del portavoce dell’esercito l’11 ottobre, durante i primi cinque giorni di combattimenti metà degli obiettivi colpiti – 1.329 su un totale di 2.687 – erano definiti obiettivi di potere.

Ci veniva chiesto di cercare edifici alti con metà di un piano che potesse essere attribuito ad Hamas,” ha affermato una fonte che ha preso parte a precedenti offensive israeliane a Gaza. “A volte è l’ufficio di un portavoce di un gruppo di miliziani o dove si incontrano i membri operativi. Mi sono reso conto che il piano è una scusa per consentire all’esercito di provocare grandi distruzioni a Gaza. E’ quello che ci hanno detto. Se dicessero a tutto il mondo che gli uffici (del Jihad Islamico) al decimo piano non sono un obiettivo importante, ma che la sua esistenza è una giustificazione per radere al suolo l’intero grattacielo per spingere le famiglie di civili che vi vivono a far pressione sulle organizzazioni terroristiche, ciò verrebbe visto in sé come terrorismo. Quindi non lo dicono,” aggiunge la fonte.

Varie fonti che hanno prestato servizio nelle unità di intelligence dell’IDF hanno affermato che almeno fino alla guerra in corso le regole d’ingaggio dell’esercito consentivano di attaccare obiettivi di potere solo quando l’edificio era disabitato al momento dell’attacco. Tuttavia testimonianze e video da Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre alcuni di questi bersagli sono stati attaccati senza informare in precedenza gli abitanti, uccidendo di conseguenza intere famiglie.

L’attacco su vasta scala contro edifici residenziali può essere rintracciato da informazioni pubbliche e ufficiali. Secondo l’ufficio stampa del governo a Gaza – che ha fornito il bilancio dei morti da quando ha smesso di farlo il Ministero della Sanità di Gaza l’11 novembre a causa del crollo dei servizi sanitari nella Striscia – al momento della tregua temporanea iniziata il 23 novembre Israele aveva ucciso 14.800 palestinesi a Gaza. Circa 6.000 di loro erano minorenni e 4.000 donne, che insieme costituiscono più del 67% del totale. I dati forniti dal Ministero della Sanità e dall’ufficio stampa del governo – entrambi sotto l’egida del governo di Hamas – non si differenziano significativamente dalle stime israeliane.

Peraltro il Ministero della Sanità di Gaza non specifica quanti morti facessero parte dell’ala militare di Hamas o del Jihad Islamico. L’esercito israeliano stima di aver ucciso tra i 1.000 e i 3.000 miliziani palestinesi. Secondo articoli dei mezzi di comunicazione israeliani alcuni dei miliziani morti sono rimasti sepolti sotto le macerie o nel sistema di tunnel sotterranei di Hamas, e di conseguenza non sono stati inclusi nei conteggi ufficiali.

Dati dell’ONU per il periodo fino all’11 novembre, secondo cui fino a quel momento Israele aveva ucciso 11.078 palestinesi a Gaza, sostengono che almeno 312 famiglie hanno perso 10 o più membri nell’attuale attacco israeliano; per fare un confronto, durante l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014 a Gaza 20 famiglie avevano perso 10 o più membri. Secondo i dati dell’ONU almeno 189 famiglie hanno perso tra i sei e i nove membri, mentre 549 famiglie hanno perso tra le due e le cinque persone. Nessuna disaggregazione aggiornata è stata ancora fornita per i dati delle vittime resi pubblici dall’11 novembre.

I massicci attacchi contro obiettivi di potere e abitazioni private sono avvenuti nello stesso momento in cui l’esercito israeliano, il 13 ottobre, ha invitato il milione e centomila abitanti del nord della Striscia di Gaza, molti dei quali residenti a Gaza City, di lasciare le proprie case e spostarsi nel sud della Striscia. A quella data un numero record di obiettivi di potere era già stato bombardato e più di 1.000 palestinesi erano già stati uccisi, tra cui centinaia di minorenni.

Secondo l’ONU dal 7 ottobre in totale un milione e settecentomila palestinesi, la grande maggioranza della popolazione della Striscia, è stato sfollato all’interno di Gaza. L’esercito ha sostenuto che la richiesta di evacuazione del nord della Striscia intendeva proteggere le vite dei civili. Tuttavia i palestinesi vedono questo spostamento di massa come parte di una “nuova Nakba”, un tentativo di pulizia etnica di parte o di tutto il territorio.

Hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo”

Secondo l’esercito israeliano durante i primi cinque giorni di combattimenti sono state lanciate 6.000 bombe sulla Striscia, per un peso totale di circa 4.000 tonnellate. I mezzi di informazione hanno riportato che l’esercito ha spazzato via interi quartieri. Secondo il Centro Al Mezan per i Diritti Umani, con sede a Gaza, questi attacchi hanno portato alla “completa distruzione di quartieri residenziali, di infrastrutture e l’uccisione in massa di abitanti.”

Come documentato da Al Mezan e da numerose immagini provenienti da Gaza, Israele ha bombardato l’Università Islamica di Gaza, la Palestinian Bar Association [associazione di avvocati palestinesi, ndt.], un edificio dell’ONU per programmi educativi per studenti d’eccellenza, un edificio dell’impresa di telecomunicazioni palestinese, il Ministero dell’Economia Nazionale, quello della Cultura, strade e decine di grattacieli e case, soprattutto nei quartieri settentrionali di Gaza.

Il quinto giorno del conflitto il portavoce dell’IDF ha distribuito ai reporter di guerra in Israele immagini satellitari “prima e dopo” dei quartieri a nord della Striscia, come Shuja’iyya e Al-Furqan (che prende il nome da una moschea della zona) a Gaza City, che mostrano decine di case ed edifici distrutti. L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito 182 obiettivi di potere a Shuja’iyya e 312 ad Al-Furqan.

Il capo di stato maggiore dell’aviazione israeliana Omer Tishler ha detto ai giornalisti di guerra che tutti questi attacchi sono un bersaglio militare legittimo, ma anche che interi quartieri sono stati attaccati “su larga scala e non in modo chirurgico”. Notando che metà degli obiettivi militari fino all’11 ottobre erano obiettivi di potere, il portavoce dell’IDF ha detto che “quartieri che servono come covi terroristici per Hamas” sono stati attaccati e che sono stati causati danni a “centri di comando operativi”, “strutture operative” e “strutture utilizzate da organizzazioni terroristiche all’interno di edifici residenziali.” Il 12 ottobre l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso tre “importanti membri di Hamas”, due dei quali facevano parte dell’ala politica del gruppo.

Eppure, nonostante gli incontrollati bombardamenti israeliani, i danni per le infrastrutture militari di Hamas nel nord di Gaza durante i primi giorni di guerra sembrano essere stati molto ridotti. Di fatto fonti dell’intelligence hanno detto a +972 e Local Call che i bersagli militari che facevano parte di obiettivi di potere erano stati precedentemente utilizzati molte volte come foglie di fico per colpire la popolazione civile. “Hamas è ovunque a Gaza, non c’è edificio che non abbia al suo interno qualcosa di Hamas, così se vuoi trovare un modo per trasformare un grattacielo in bersaglio riuscirai a farlo,” ha detto un ex-ufficiale dell’intelligence.

Non colpiranno mai semplicemente un grattacielo che non abbia qualcosa che si possa definire obiettivo militare,” ha detto un’altra fonte dell’intelligence, che ha in precedenza effettuato attacchi contro obiettivi di potere. “Ci sarà sempre un piano (associato ad Hamas) in un edificio alto. Ma, quando si tratta di obiettivi di potere, per lo più è chiaro che il bersaglio non ha un valore militare che giustifichi un attacco che demolisce un intero edificio vuoto in mezzo a una città, con l’intervento di sei aerei e bombe che pesano parecchie tonnellate.”

In effetti, secondo fonti che sono state coinvolte nel designare obiettivi di potere in guerre precedenti, benché la documentazione sul bersaglio in genere contenga un qualche tipo di presunto rapporto con Hamas o altre organizzazioni di miliziani, colpire l’obiettivo funziona principalmente come un “mezzo che consente di danneggiare la società civile”. Le fonti si rendono conto, alcune esplicitamente e altre implicitamente, che il vero scopo di questi attacchi è danneggiare i civili.

Nel maggio 2021, per esempio, Israele è stato duramente criticato per aver bombardato la Torre Al-Jalaa, che ospitava importanti mezzi di informazione internazionali come Al Jazeera, AP e AFP [una agenzia di stampa statunitense e l’altra francese, ndt.]. L’esercito ha sostenuto che l’edificio era un obiettivo militare di Hamas; alcune fonti hanno detto a +972 e Local Call che di fatto si trattava di un obiettivo di potere.

La sensazione è che quando vengono demoliti grattacieli ciò colpisce realmente Hamas perché crea una reazione dell’opinione pubblica nella Striscia di Gaza e spaventa la popolazione,” ha affermato un’altra fonte. “Vogliono dare ai cittadini di Gaza la sensazione che Hamas non ha il controllo della situazione. A volte hanno demolito edifici, a volte il servizio postale ed edifici governativi.”

Benché attaccare più di 1.000 obiettivi di potere in cinque giorni non abbia precedenti per l’esercito israeliano, l’idea di provocare una massiccia devastazione di zone civili per obiettivi strategici era stata formulata in precedenti operazioni a Gaza, perfezionata dalla cosiddetta “Dottrina Dahiya” nella seconda guerra del Libano nel 2006. Secondo questa dottrina, sviluppata dall’ex-capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eizenkot, che ora è deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e fa parte dell’attuale gabinetto di guerra, in una guerra contro gruppi di guerriglieri come Hamas o Hezbollah Israele deve fare uso di una forza sproporzionata e schiacciante prendendo di mira infrastrutture civili e statali come deterrente per obbligare la popolazione civile a fare pressione sui gruppi armati perché pongano fine ai loro attacchi. Il concetto di “obiettivi di potere” sembra derivare proprio da questa logica.

La prima volta che l’esercito israeliano ha pubblicamente definito degli obiettivi di potere a Gaza è stato alla fine dell’operazione “Margine protettivo” nel 2014. L’esercito bombardò quattro edifici durante gli ultimi quattro giorni di guerra, tre residenziali a più piani a Gaza City e un grattacielo a Rafah. All’epoca l’apparato di sicurezza spiegò che gli attacchi intendevano comunicare ai palestinesi di Gaza che “niente è più immune,” e mettere pressione su Hamas perché accettasse il cessate il fuoco. “Le prove che abbiamo raccolto mostrano che la distruzione massiccia (degli edifici) venne realizzata deliberatamente e senza alcuna giustificazione militare,” affermò un rapporto di Amnesty alla fine del 2014.

Durante un’altra escalation di violenza iniziata nel novembre 2018 l’esercito attaccò di nuovo obiettivi di potere. Quella volta Israele bombardò grattacieli, centri commerciali ed edifici della stazione televisiva Al-Aqsa, affiliata ad Hamas. “Attaccare obiettivi di potere produce un effetto veramente notevole sull’avversario,” affermò all’epoca un ufficiale dell’aeronautica. “Lo abbiamo fatto senza uccidere nessuno e ci siamo accertati che l’edificio e i dintorni fossero stati evacuati.”

Precedenti operazioni hanno dimostrato anche come colpire questi bersagli intenda non solo danneggiare il morale dei palestinesi, ma anche alzare il morale in Israele. Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che durante l’operazione “Guardiano delle Mura” del 2021 l’unità portavoce dell’IDF ha condotto un’operazione psicologica sui cittadini israeliani per promuovere la consapevolezza delle operazioni dell’esercito a Gaza e il danno che avevano causato ai palestinesi. Soldati che utilizzavano falsi account sulle reti sociali per occultare l’origine della campagna pubblicarono immagini e brevi video degli attacchi dell’esercito a Gaza su Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per dimostrare all’opinione pubblica israeliana la potenza dell’esercito.

Durante l’attacco del 2021 Israele colpì nove obiettivi definiti di potere, tutti edifici alti. “Lo scopo era di far crollare grattacieli per mettere Hamas sotto pressione anche in modo che l’opinione pubblica (israeliana) vedesse un’immagine di vittoria,” ha detto a +972 e Local Call una fonte della sicurezza.

Tuttavia, ha proseguito, “non ha funzionato. Essendo uno di quelli che ha perseguito Hamas, ho sentito personalmente quanto poco si preoccupino dei civili e degli edifici distrutti. A volte l’esercito ha trovato nei grattacieli qualcosa di relativo ad Hamas, ma sarebbe stato anche possibile colpire quel determinato bersaglio con armi più appropriate. Il risultato finale è che hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo.”

Stavano tutti cercando i propri figli in quei mucchi”

Non solo l’attuale guerra ha visto Israele attaccare un numero senza precedenti di obiettivi di potere, ha anche visto l’esercito abbandonare precedenti politiche tese a evitare di danneggiare i civili. Mentre prima la procedura ufficiale dell’esercito era che si potevano attaccare obiettivi di potere solo dopo che tutti i civili erano scappati, testimonianze di abitanti palestinesi a Gaza indicano che dal 7 ottobre Israele ha attaccato grattacieli con dentro chi ci abitava o senza aver fatto significativi passi per evacuarli, determinando la morte di molti civili.

Molto spesso questi attacchi hanno come risultato l’uccisione di intere famiglie, come successo in precedenti offensive; secondo una ricerca dell’AP [Associated Press, agenzia di stampa USA, ndt.] condotta dopo la guerra del 2014, circa l’89% di quanti vennero uccisi dai bombardamenti aerei di abitazioni civili erano abitanti disarmati e molti di loro minori e donne.

Tishler, il capo di stato maggiore dell’Aviazione, ha confermato un cambiamento della politica, dicendo ai giornalisti che la politica dell’esercito di “bussare sul tetto” – in base alla quale avrebbe sparato un colpo di avvertimento iniziale sul tetto di un edificio per avvertire gli abitanti che stava per essere bombardato – non viene più utilizzata “dove c’è un nemico”. Bussare sul tetto, ha affermato Tishler, è “un termine importante in una serie (di scontri) e non per una guerra.”

Le fonti che hanno lavorato in precedenza sugli obiettivi di potere hanno affermato che questa strategia senza freni dell’attuale guerra potrebbe rappresentare uno sviluppo pericoloso, spiegando che attaccare obiettivi di potere in origine intendeva “scioccare” Gaza, ma non necessariamente uccidere un grande numero di civili. “I bersagli erano concepiti con l’assunto che i grattacieli sarebbero stati evacuati dalle persone, quindi quando ci lavoravamo (sulla compilazione dei bersagli) non c’erano preoccupazioni relative a quanti civili sarebbero stati colpiti; il presupposto era che non ce ne sarebbero stati,” ha detto una fonte esperta in questo tipo di azioni.

Ciò significava che c’era stata un’evacuazione totale (dell’edificio preso di mira), che implica due o tre ore di tempo, durante le quali agli abitanti viene chiesto (per telefono di andarsene), vengono lanciati missili di avvertimento; facevamo anche un controllo incrociato con riprese dai droni che le persone stessero effettivamente lasciando il grattacielo,” ha aggiunto la fonte.

Tuttavia prove da Gaza suggeriscono che alcuni grattacieli, che supponiamo siano stati obiettivi di potere, siano stati colpiti senza avvertimento. +972 e Local Call hanno individuato almeno due casi in cui durante l’attuale guerra interi grattacieli residenziali sono stati bombardati e distrutti senza avvertimento, e un caso in cui, in base a prove, un grattacielo è crollato sui civili che si trovavano all’interno.

Secondo la testimonianza di Bilal Abu Hatzira, che quella notte ha estratto corpi dalle rovine, il 10 ottobre Israele ha bombardato l’edificio Babel di Gaza. Nell’attacco contro l’edificio sono state uccise dieci persone, tra cui tre giornalisti.

Il 25 ottobre è stato raso al suolo senza avvertimento con le bombe l’edificio residenziale di 12 piani Al-Taj, uccidendo le famiglie che vi vivevano. Secondo le testimonianze degli abitanti circa 120 persone sono rimaste sepolte sotto le macerie dei loro appartamenti. Yousef Amar Sharaf, un abitante dell’Al-Taj, ha scritto su X che nell’attacco sono stati uccisi i 37 membri della sua famiglia che vivevano nell’edificio: “I miei cari genitori, la mia amata moglie, i miei figli e la maggioranza dei miei fratelli e delle loro famiglie.”

Gli abitanti affermano che sono state lanciate molte bombe, danneggiando e distruggendo appartamenti anche negli edifici vicini.

Sei giorni dopo, il 31 ottobre, l’edificio residenziale di otto piani Al-Mohandseen è stato bombardato senza preavviso. Il primo giorno sarebbero stati estratti dalle macerie tra i 30 e i 45 corpi. Un bambino è stato ritrovato vivo, senza i genitori. I giornalisti stimano che oltre 150 persone siano state uccise nell’attacco e che molte siano rimaste sepolte sotto le macerie.

Secondo testimonianze l’edificio sorgeva nel campo profughi di Nuseirat, a sud del Wadi Gaza, nella presunta “zona di sicurezza” in cui Israele ha indirizzato i palestinesi che scappavano dalle proprie case nella zona settentrionale e centrale di Gaza, e che pertanto serviva come rifugio temporaneo a persone espulse.

In base a un’indagine di Amnesty International il 9 ottobre Israele ha bombardato almeno tre edifici multipiano e anche un mercato dell’usato all’aperto in un’affollata strada del campo profughi di Jabaliya, uccidendo almeno 69 persone. “I corpi sono stati bruciati… Non volevo guardare, avevo paura di vedere il volto di Imad,” ha detto il padre di un bambino ucciso. “I corpi erano sparsi sul pavimento. Tutti cercavano i figli nei mucchi. Ho riconosciuto mio figlio solo dai suoi pantaloni. Volevo seppellirlo subito, così ho preso mio figlio e l’ho portato via.”

Secondo l’inchiesta di Amnesty l’esercito ha affermato che l’attacco contro la zona del mercato era diretto contro una moschea “in cui c’erano miliziani di Hamas.” Tuttavia in base alla stessa indagine le immagini satellitari non mostrano alcuna moschea nelle vicinanze.

Il portavoce dell’IDF non ha risposto alle domande di +972 e Local Call riguardo ad attacchi specifici, ma ha affermato più genericamente che “l’esercito israeliano avverte prima degli attacchi in vario modo, e quando le circostanze lo consentono invia avvertimenti individuali attraverso telefonate alle persone che si trovano negli obiettivi o nelle vicinanze (ci sono state più di 25.000 conversazioni dal vivo durante la guerra, insieme a milioni di conversazioni registrate, messaggi di testo e volantini lanciati dal cielo con l’intento di avvertire la popolazione). In generale l’IDF lavora per ridurre per quanto possibile i danni ai civili come parte degli attacchi, nonostante la difficoltà di combattere un’organizzazione terroristica che usa gli abitanti di Gaza come scudi umani.”

Il computer produce 100 bersagli in un giorno”

Secondo il portavoce dell’IDF, fino al 10 novembre, durante i primi 35 giorni di combattimenti, Israele ha attaccato un totale di 15.000 obiettivi a Gaza. In base a molteplici fonti è un numero molto alto rispetto alle quattro precedenti vaste operazioni nella Striscia. Durante “Guardiano delle Mura” nel 2021 Israele ha attaccato 1.500 obiettivi in 15 giorni. Durante “Margine Protettivo” nel 2014, durata 51 giorni, Israele colpì tra i 5.266 e i 6.231 bersagli. Durante “Pilastro di Difesa” nel 2012 in 8 giorni vennero colpiti circa 1.500 obiettivi. Durante “Piombo Fuso” nel 2008 Israele attaccò 3.4000 obiettivi in 22 giorni.

Fonti dell’intelligence in servizio nelle precedenti operazioni hanno anche detto a +972 e Local Call che per 10 giorni nel 2021 e tre settimane nel 2014 una media tra 100 e 200 obiettivi al giorno hanno portato a una situazione in cui all’aviazione israeliana non rimanevano bersagli di importanza militare. Perché allora dopo quasi due mesi dell’attuale guerra l’esercito israeliano non ha ancora esaurito gli obiettivi?

La risposta potrebbe trovarsi in una dichiarazione del portavoce militare del 2 novembre, secondo la quale si sta utilizzando il sistema di intelligenza artificiale Hasbsora (“Il Vangelo”), che secondo il portavoce “consente di utilizzare strumenti automatizzati per produrre obiettivi a ritmo serrato e funziona migliorando del materiale di intelligence accurato e di alta qualità in base alle necessità (operative).”

Nel comunicato viene citato un alto ufficiale dell’intelligence secondo cui grazie ad Habsora vengono creati obiettivi per attacchi di precisione “causando gravi danni al nemico e minimi danni ai non combattenti. I miliziani di Hamas non sono immuni, ovunque si nascondano.”

Secondo fonti dell’intelligence, Habsora genera, tra le altre cose, raccomandazioni automatiche di attaccare residenze private in cui vivrebbero persone sospettate di essere miliziani di Hamas o del Jihad Islamico. Israele poi mette in atto operazioni di uccisioni su vasta scala attraverso pesanti bombardamenti contro quelle abitazioni private.

Una delle fonti spiega che Habsora processa un’enorme quantità di dati che “decine di migliaia di militari dell’intelligence non potrebbero elaborare” e consiglia di bombardare siti in tempo reale. Dato che all’inizio di ogni operazione militare molti importanti comandanti di Hamas si dirigono nei tunnel sotterranei, secondo la fonte l’uso di sistemi come Habsora permette di individuare e attaccare le case di miliziani relativamente meno importanti.

Un ex-ufficiale dell’intelligence ha spiegato che il sistema Habsora consente all’esercito di gestire una “fabbrica di uccisioni di massa” in cui l’”enfasi è sulla quantità e non sulla qualità. “Un occhio umano “controlla gli obiettivi prima di ogni attacco, ma non ha bisogno di perdere molto tempo su di essi.” Dato che Israele stima che ci siano circa 30.000 membri di Hamas a Gaza e che sono tutti condannati a morte, il numero di potenziali bersagli è enorme.

Nel 2019 l’esercito israeliano ha creato un nuovo centro inteso a utilizzare l’Intelligenza Artificiale per accelerare la generazione di obiettivi. “La Divisione Amministrativa degli Obiettivi è un’unità che include centinaia di ufficiali e soldati e si basa sulle possibilità dell’IA,” ha affermato l’ex-capo di stato maggiore Aviv Kochavi in un’approfondita intervista con Ynet [sito di notizie israeliano, ndt.] all’inizio dell’anno.

Questo è un computer che, con l’aiuto dell’IA, processa un sacco di dati meglio e più rapidamente di qualunque essere umano e li trasforma in obiettivi da colpire,” ha continuato Kochavi. “Il risultato è che nell’operazione “Guardiano delle Mura” (del 2021) dal momento in cui questo computer è stato attivato ha generato 100 nuovi bersagli al giorno. Vedi, in passato ci sono stati momenti in cui creavamo 50 obiettivi all’anno a Gaza. E qui il computer ha prodotto 100 obiettivi in un giorno.

Prepariamo automaticamente gli obiettivi e lavoriamo in base a una lista di controllo,” ha detto a +972 e Local Call una delle fonti che lavora nella nuova Divisione Amministrativa degli Obiettivi. “E’ proprio come una fabbrica. Lavoriamo rapidamente e non c’è tempo per analizzare in profondità l’obiettivo. La prospettiva è di essere giudicati in base a quanti obiettivi riusciamo a generare.”

All’inizio dell’anno un importante ufficiale dell’esercito incaricato della banca dati degli obiettivi ha detto al Jerusalem Post che grazie al sistema di IA l’esercito per la prima volta può generare nuovi obiettivi più rapidamente di quelli che attacca. Un’altra fonte ha affermato che la spinta a generare automaticamente un gran numero di bersagli è la concretizzazione della Dottrina Dahiya.

Sistemi automatici come Habsora hanno quindi notevolmente facilitato il lavoro del personale dell’intelligence israeliana nel prendere decisioni durante le operazioni militari, compreso il calcolo delle potenziali vittime. Cinque diverse fonti hanno confermato che il numero di civili che possono essere uccisi in attacchi contro abitazioni private è noto in anticipo all’intelligence israeliana e compare chiaramente nei documenti sull’obiettivo sotto la categoria “danno collaterale”.

Secondo queste fonti ci sono diversi livelli di danni collaterali in base ai quali l’esercito decide se è possibile attaccare l’obiettivo all’interno di abitazioni private. “Quando la direttiva generale diventa ‘danno collaterale 5’ ciò significa che siamo autorizzati a colpire ogni obiettivo che ucciderà cinque civili o meno di cinque – possiamo operare su tutti gli obiettivi che hanno un documento da cinque in giù,” ha detto una delle fonti.

In passato non segnalavamo regolarmente le case di membri di Hamas poco importanti perché venissero bombardate,” ha detto un ufficiale della sicurezza che ha partecipato ad attacchi contro obiettivi durante precedenti operazioni. “Ai miei tempi se la casa su cui stavo lavorando era segnata danno collaterale 5 non veniva sempre approvata (per l’attacco).” Tale approvazione, ha affermato, si sarebbe avuta solo se era noto che nella casa abitava un importante comandante di Hamas.

Che io sappia oggi possono indicare tutte le case (di qualunque miliziano di Hamas indipendentemente dal rango),” ha continuato la fonte. “Ci sono un sacco di case. I membri di Hamas che non hanno alcuna importanza vivono in abitazioni in tutta Gaza. Quindi si indica la casa e la si bombarda e si uccide chiunque.”

Una politica concordata di bombardare case private

Il 22 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato la casa del giornalista palestinese Ahmed Alnaouq nella città di Deir al-Balah. Ahmed era un mio caro amico e collega: quattro anni fa abbiamo fondato una pagina Facebook in ebraico chiamata “Attraverso il muro”, con l’intento di portare voci palestinesi da Gaza all’opinione pubblica israeliana. L’attacco del 22 ottobre ha fatto crollare blocchi di cemento su tutta la famiglia di Ahmed, uccidendo suo padre, fratelli, sorelle e tutti i loro figli, anche neonati. Solo il nipote di 12 anni, Malak, è sopravvissuto ed è rimasto in condizioni critiche, il corpo è coperto di ustioni. Pochi giorni dopo Malak è morto.

In totale ventuno membri della famiglia di Ahmed sono morti sepolti sotto la loro casa. Nessuno di loro era un miliziano. Il più giovane aveva 2 anni, il maggiore, suo padre, ne aveva 75. Ahmed, che attualmente vive in Gran Bretagna, ora è l’unico [sopravvissuto] di tutta la famiglia.

Il Gruppo WhatsApp della famiglia di Ahmed si chiamava “Meglio insieme”. L’ultimo messaggio che vi compare era stato inviato da lui, poco dopo mezzanotte nella notte in cui ha perso la sua famiglia. “Qualcuno mi ha fatto sapere che è tutto a posto,” aveva scritto. Nessuno ha risposto. Si è addormentato, ma si è alzano terrorizzato alle 4 del mattino. In un bagno di sudore, ha controllato di nuovo il suo telefono. Silenzio. Poi ha ricevuto un messaggio da un amico con la terribile notizia.

Il caso di Ahmed a Gaza è comune in questi giorni. In interviste alla stampa i responsabili di ospedali di Gaza hanno ripetuto le stesse descrizioni: in ospedale entrano famiglie come serie di corpi, un bambino seguito dal padre seguito dal nonno. I corpi sono tutti coperti di polvere e sangue.

Secondo ex-ufficiali dell’intelligence israeliana in molti casi in cui un’abitazione privata viene bombardata lo scopo è “l’uccisione di miliziani di Hamas o del Jihad”, e tali obiettivi sono attaccati quando un miliziano entra nella casa. I ricercatori dell’intelligence sanno se i membri della famiglia o i vicini del miliziano possono morire in un attacco e sanno come calcolare quanti di loro potrebbero morire. Ogni fonte ha affermato che sono abitazioni private in cui nella maggioranza dei casi non si svolge alcuna attività militare.

+972 e Local Call non hanno dati relativi al numero di miliziani che sono stati uccisi o feriti da attacchi aerei in abitazioni private durante la guerra in corso, ma ci sono svariate prove che, in molti casi, nessuno [dei morti] era un membro militare o politico di Hamas o del Jihad Islamico.

Il 10 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato un edificio residenziale nel quartiere di Sheikh Radwan a Gaza, uccidendo 40 persone, in maggioranza donne e bambini. In uno dei filmati scioccanti girati dopo l’attacco si vede gente gridare, portare quella che sembra essere una bambola dalle rovine della casa e passarla di mano in mano. Quando la camera da presa la ingrandisce si può vedere che non si tratta di una bambola ma del corpo di un neonato.

Uno degli abitanti ha detto che 19 membri della sua famiglia sono stati uccisi nell’attacco. Un altro sopravvissuto ha scritto su Facebook di aver trovato nelle macerie solo la spalla del figlio. Amnesty ha indagato sull’attacco ed ha scoperto che un membro di Hamas viveva in uno dei piani superiori dell’edificio, ma non era presente al momento dell’attacco.

Il bombardamento di case private in cui si presume vivano miliziani di Hamas o del Jihad Islamico è diventato una politica condivisa dell’esercito israeliano durante l’operazione “Margine Protettivo” del 2014. All’epoca 606 palestinesi, circa un quarto dei morti civili durante i 51 giorni di combattimenti, erano membri di famiglie la cui casa era stata bombardata. Un rapporto dell’ONU nel 2015 lo definì sia come un possibile crimine di guerra e “una nuova modalità” di azione che “ha portato alla morte di intere famiglie.”

Nel 2014 vennero uccisi in seguito al bombardamento israeliano di case private 93 bambini piccoli, di cui 13 avevano meno di un anno. Un mese fa a Gaza 286 bambini da un anno in giù erano già stati identificati come vittime secondo una dettagliata lista con il numero di carta d’identità e l’età delle vittime pubblicata dal Ministero della Sanità di Gaza il 26 ottobre. Il numero da allora è probabilmente raddoppiato o triplicato.

Tuttavia in molti casi, soprattutto durante l’attuale attacco contro Gaza, l’esercito israeliano ha condotto attacchi che hanno colpito abitazioni private persino quando non c’erano obiettivi militari noti o evidenti. Per esempio, secondo la Commissione per la Protezione dei Giornalisti, al 29 novembre Israele aveva ucciso a Gaza 50 giornalisti palestinesi, alcuni dei quali in casa con le loro famiglie.

Roshdi Sarraj, 31 anni, un giornalista di Gaza nato in Gran Bretagna, aveva fondato una testata con il nome di “Ain Media”. Il 22 ottobre una bomba israeliana ha colpito la casa dei suoi genitori mentre stava dormendo, uccidendolo. Anche la giornalista Salam Mema è morta sotto le macerie della sua casa dopo che è stata bombardata; dei suoi tre figli Hadi, 7 anni, è morto, mentre Sham, 3 anni, non è ancora stato trovato sotto le macerie. Altre due giornaliste, Duaa Shafar e Salma Makhaimer, sono state uccise insieme ai figli nelle loro case.

Analisti israeliani hanno ammesso che l’efficacia militare di questo tipo di sproporzionati attacchi aerei è ridotta. Due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti contro Gaza (e prima dell’invasione di terra), dopo che nella Striscia di Gaza sono stati contati i corpi di 1.903 minori, circa 1.000 donne e 187 anziani, il commentatore israeliano Avi Issacharoff ha twittato: “Per quanto sia duro sentirlo dire nel quattordicesimo giorno di combattimenti non pare che l’ala militare di Hamas sia stata significativamente colpita. Il danno più significativo alla dirigenza militare è stato l’assassinio di Aymar Nofal (comandante di Hamas).”

Combattere animali umani”

I miliziani di Hamas operano regolarmente grazie a un’intricata rete di tunnel costruiti sotto vaste aree della Striscia di Gaza. Questi tunnel, come confermato da ex-ufficiali dell’intelligence israeliana con cui abbiamo parlato, passano anche sotto case e strade. Di conseguenza i tentativi israeliani di distruggerli con attacchi aerei probabilmente portano in molti casi all’uccisione di civili. Questa potrebbe essere un’altra delle ragioni dell’alto numero di famiglie palestinesi spazzate via nell’attuale offensiva.

Gli ufficiali dell’intelligence intervistati per questo articolo hanno affermato che il modo in cui Hamas ha progettato la rete di tunnel a Gaza sfrutta consapevolmente la popolazione civile e le infrastrutture in superficie. Queste affermazioni sono state anche la base della campagna mediatica che Israele ha condotto riguardo agli attacchi e incursioni contro l’ospedale Al-Shifa e i tunnel che sono stati scoperti sotto di esso.

Israele ha attaccato anche un grande numero di obiettivi militari: miliziani armati di Hamas, luoghi per il lancio di razzi, cecchini, squadre anticarro, centri di comando militari, basi, posti di osservazione, e altri. Dall’inizio dell’invasione di terra i bombardamenti aerei e un pesante fuoco di artiglieria sono stati utilizzati per fornire supporto alle truppe israeliane sul terreno. Esperti di leggi internazionali affermano che questi obiettivi sono legittimi finché gli attacchi rispettano il principio di proporzionalità.

Rispondendo a una domanda di +972 e Local Call per questo articolo il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato: “L’IDF rispetta le leggi internazionali e agisce in base ad esse, e così facendo attacca obiettivi militari e non civili. L’organizzazione terroristica Hamas schiera i suoi miliziani e infrastrutture militari in mezzo alla popolazione civile. Hamas usa sistematicamente la popolazione civile come scudo umano e combatte da edifici civili, compresi luoghi sensibili come ospedali, moschee, scuole e strutture dell’ONU.

Allo stesso modo fonti dell’intelligence che hanno parlato a +972 e Local Call hanno sostenuto che in molti casi Hamas “danneggia deliberatamente la popolazione civile a Gaza e cerca di impedire con la forza ai civili di andarsene.” Due fonti hanno affermato che i dirigenti di Hamas “ritengono che i danni di Israele contro i civili legittimano la loro lotta.”

Allo stesso tempo, anche se ora è difficile immaginarlo, l’idea che lanciare una bomba di una tonnellata per uccidere un miliziano di Hamas finisca per uccidere un’intera famiglia come “danno collaterale” non è mai stata così facilmente accettata da una larga parte della società israeliana. Nel 2002, per esempio, l’aeronautica israeliana bombardò la casa di Salah Mustafa Muhammad Shehade, allora capo delle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. La bomba uccise lui, sua moglie, Eman, la figlia quattordicenne Laila e altri 14 civili, compresi 11 minorenni. L’uccisione provocò una protesta pubblica sia in Israele che nel resto del mondo, e Israele venne accusato di commettere crimini di guerra.

Queste critiche portarono alla decisione da parte dell’esercito israeliano nel 2003 di lanciare una bomba più piccola, di 25 quintali, contro un incontro di importanti dirigenti di Hamas, tra cui lo sfuggente capo delle brigate Al-Qassam Mohammed Deif, che si svolgeva in un edificio residenziale a Gaza, nonostante il timore che non fosse sufficientemente potente da ucciderli. Nel suo libro “Per conoscere Hamas” il noto giornalista israeliano Shlomi Eldar scrive che la decisione di utilizzare una bomba relativamente piccola era dovuta al precedente di Shehade e al timore che una bomba da una tonnellata avrebbe ucciso anche i civili nell’edificio. L’attacco fallì e gli importanti ufficiali dell’ala militare scapparono da quel luogo.

Nel dicembre 2008, durante la prima importante guerra condotta da Israele contro Hamas dopo che prese il potere a Gaza, Yoav Gallant, all’epoca alla guida del comando meridionale dell’esercito israeliano, affermò che per la prima volta Israele aveva “colpito le abitazioni private” di importanti capi di Hamas con l’intenzione di distruggerli, ma non di colpire le loro famiglie. Galland sottolineò che le case erano state attaccate dopo che le famiglie erano state avvertite “bussando sul tetto”, oltre che con una telefonata quando era chiaro che l’attività militare di Hamas si svolgeva all’interno della casa.

Dopo l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, durante la quale Israele iniziò a colpire sistematicamente dal cielo le abitazioni private, associazioni per i diritti umani come B’Tselem raccolsero testimonianze di palestinesi sopravvissuti a quegli attacchi. Essi affermarono che le case crollavano su se stesse, le schegge di vetro tagliavano i corpi di chi vi si trovava, le macerie “puzzavano di sangue” e le persone vennero sepolte vive.

Oggi la politica mortale continua, grazie in parte all’uso di armamenti distruttivi e di una tecnologia sofisticata come Habsora, ma anche a istituzioni politiche e della sicurezza che hanno allentato le redini del meccanismo militare israeliano. Quindi anni dopo aver insistito che l’esercito si preoccupava di minimizzare i danni per i civili, Galland, ora ministro della Difesa, ha chiaramente cambiato tono. “Stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza,” ha detto dopo il 7 ottobre.

Yuval Abraham è giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano e Amedeo Rossi)




Secondo un rapporto Israele aveva ottenuto, e ignorato, un documento di Hamas che dettagliava il piano per l’attacco del 7 ottobre

AFP

30 novembre 2023 – Times of Israel

Il NYT afferma che i funzionari che hanno visto il documento di 40 pagine lo hanno ignorato in quanto irrealistico, continuando a pensare che il gruppo terroristico non fosse interessato a scatenare una guerra

Giovedì il New York Times ha informato che funzionari israeliani già prima dell’aggressione del 7 ottobre erano al corrente che il gruppo terrorista palestinese Hamas stava preparando un attacco su vasta scala, ma hanno ignorato l’informazione.

Un documento ottenuto dalle autorità israeliane almeno un anno prima dell’attacco “delineava punto per punto, esattamente il tipo di invasione devastante che ha portato alla morte di circa 1.200 persone,” riporta il giornale.

Il documento di 40 pagine, che è stato visionato dal quotidiano, non specifica quando sarebbe avvenuto l’attacco. Ma fornisce un piano che sembra quello seguito da Hamas: un massiccio lancio di razzi, tentativi di abbattere il sistema di sorveglianza e un gran numero di uomini armati che penetrano sul territorio israeliano via terra e per via aerea.

Il 7 ottobre circa 3.000 terroristi di Hamas hanno fatto irruzione in Israele sotto la pesante copertura di razzi, attaccando basi dell’esercito, aggredendo comunità e un festival musicale. Circa 1.200 persone, la maggior parte delle quali civili, sono state brutalmente massacrate con un attacco senza precedenti e circa 240 persone sono state prese in ostaggio.

Il Times afferma che il documento, che include informazioni sensibili riguardo alla sicurezza sulla potenza e la dislocazione dell’esercito israeliano, ha circolato ampiamente negli ambienti dei dirigenti militari e dell’intelligence del Paese, benché non sia chiaro se sia stato visionato da dirigenti politici, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Lo scorso anno una valutazione dell’esercito aveva stabilito che era troppo presto per dire se il piano era stato approvato da Hamas, e quando un’analista di un’unità di intelligence per le segnalazioni del Paese ha avvertito che il gruppo stava effettuando esercitazioni di addestramento in base al piano, i suoi avvertimenti sono stati ignorati.

II giornale afferma che lei aveva avvertito che si trattava di un “progetto inteso a iniziare una guerra,”, ma un colonnello, che aveva visionato la sua analisi, aveva suggerito che se ne ricavava uno scenario improbabile e aveva detto all’analista che avrebbero “pazientemente atteso”.

Secondo il Times gli avvertimenti non suggerivano che Hamas stesse probabilmente per mettere in atto il piano a tempi brevissimi, e gli ambienti dell’intelligence hanno continuato a credere che il leader di Hamas Yahya Sinwar non fosse interessato a scatenare la guerra con Israele. [Il giornale] mette in relazione gli errori dell’intelligence con quelli avvenuti negli Stati Uniti prima dell’attacco dell’11 settembre 2001.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)