L’arte dell’occupazione, secondo il generale israeliano Gadi Shamni

Nota redazionale: i redattori di Zeitun hanno deciso di proporre ai propri lettori questa lunga intervista al generale Gadi Shamni pur non condividendone i punti di vista espressi, sia riguardo ad alcuni personaggi citati nell’articolo, sia in generale sul ruolo dell’esercito israeliano nei Territori palestinesi occupati e sul suo modo di agire nei confronti della popolazione civile palestinese.

Non solo egli ha partecipato alla sanguinosa operazione militare in Libano del 2006 (più di 1.000 civili libanesi uccisi), in cui sono stati commessi crimini di guerra denunciati dalle organizzazioni dei diritti umani ed usato fosforo bianco in zone abitate. Le costanti violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano non corrispondono alla rivendicazione di moralità sostenuta dall’intervistato. Il tentativo di assolvere l’esercito israeliano da ogni responsabilità riguardo alle violazioni dei diritti dei palestinesi, e dei civili di altri Paesi arabi, si scontra con molti casi che dimostrano il contrario.

Quanto a Ya’alon, che secondo Shamni è una persona di” integrità indiscutibile ” e “onesta”, ha definito “un cancro” i palestinesi, un “virus” l’associazione israeliana “Peace Now” e John Kerry “messianico ed ossessivo” per i suoi tentativi di riprendere i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi; ha sostenuto un progetto per la segregazione tra palestinesi e coloni israeliani sugli autobus, la ripresa della colonizzazione nonostante gli impegni presi dal suo governo con Obama e l’uso della bomba atomica contro l’Iran. Per il suo ruolo di generale nell’esercito è stato più volte accusato di corresponsabilità in crimini contro l’umanità, anche per la strage di Qana, in cui venne bombardata una struttura dell’ONU dove avevano trovato rifugio civili libanesi, con un bilancio di 106 morti e centinaia di feriti.

Tuttavia riteniamo che sia significativo che persino un personaggio come Shamni si esprima in termini quanto meno problematici su alcune questioni cruciali della politica e della società israeliane, sull’influenza di gruppi di fanatici estremisti nel e sul governo israeliano, in primo luogo riguardo all’occupazione dei territori palestinesi.

Dopo 35 anni di servizio militare, il generale di divisione (ritirato) Gadi Shamni, autodefinitosi “generale dell’occupazione”, loda la moralità dell’esercito e accusa i politici per l’impasse tra israeliani e palestinesi. Egli dice che ci sono una soluzione e una controparte, ma prima Israele si deve liberare dalla stretta degli estremisti.

di Carolina Landsmann

Haaretz – 15 ottobre 2016

Lo scalpore mediatico a proposito dei commenti del generale di divisione dell’esercito israeliano (ritirato) Gadi Shamni in agosto – “Abbiamo portato l’occupazione al livello di un’arte. Siamo i campioni mondiali dell’occupazione”- è durato appena due giorni. Parlando di se stesso, Shamni ha aggiunto: “Sono stato il generale del Comando Generale [che comprende la Cisgiordania]. Generale dell’occupazione” (in ebraico, la parola “aluf” significa sia “campione” che “generale di divisione”). Ci sono state persone che si sono infuriate, che si sono dissociate dalle sue considerazioni, che lo hanno criticato – anche se qualcuno si è detto d’accordo. Ma il polverone si è rapidamente calmato. Apparentemente l’opinione pubblica si è ormai abituata a queste esternazioni.

“Qualcosa delle posizioni del capo dei servizi di sicurezza del Mossad [agenzia israeliana di spionaggio all’estero. Ndtr.] e dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna israeliano. Ndtr.] li trasforma in gente di sinistra,” ha detto recentemente il capogruppo della coalizione di governo, deputato David Bitan (del Likud). Shamni ha sorriso tranquillamente a questa affermazione, ma Bitan troverà probabilmente meno da ridere quando sentirà quello che Shamni ha da dire ora.

“La stragrande maggioranza dei quadri dirigenti del sistema di difesa pensa che ci stiamo muovendo in una direzione molto problematica rispetto ai palestinesi,” mi ha detto di recente, mentre ci trovavamo in una piccola stanza negli uffici dell’ “Israel Aerospace Industries” [“Industrie Aerospaziali di Israele”, impresa statale in cui lavorano molti ex-militari. Ndtr.], dove Shamni occupa il ruolo di vice presidente esecutivo della divisione “Sistemi di terra”. “Per ogni 50 persone che la pensano come me, ne troverà [solo] uno o due che sposi un’opinione diversa.”

Come lo spiega?

“Abbiamo familiarità con la difficile situazione, i limiti nell’uso della forza, il danno che ciò determina all’IDF [Israeli Defence Forces, Forze di Difesa Israeliane, nome dell’esercito israeliano. Ndtr.] ed allo Stato. E sappiamo che la storia che non c’è una soluzione al problema della sicurezza non è vera.”

Pensa che l’IDF possa garantire la sicurezza di Israele in una situazione con due Stati [Israele e Stato palestinese. Ndtr.]?

“Certamente. Esiste una soluzione per la sicurezza. Un mare di carte e di studi è stato scritto su questo. E non ci sono possibilità che Israele riesca a costruire relazioni corrette con i Paesi della regione, compresi rapporti commerciali e di cooperazione, prima di risolvere la questione palestinese:”

“Come tutti i ‘guardiani’ [in riferimento al documentario di Dror Moreh del 2012 con questo titolo, in cui sei ex capi dello ‘Shin Bet’ hanno sostenuto la necessità di un accordo con i palestinesi], sta parlando solo a cose fatte – quando non sta più rischiando la sua carriera o la sua pensione, quando non sta disubbidendo,” ha scritto l’editorialista di Haaretz Rogel Alpher a proposito di Shamni. Esponenti di destra hanno messo in dubbio la serietà delle considerazioni di Shamni esattamente per le stesse ragioni.

“Che cosa fa pensare a queste persone di essere così furbe?” ribatte Shamni. “Si aspettano forse che la gente a cui importa davvero lasci il posto a quelli a cui non importa niente? Molti ufficiali superiori dell’IDF capiscono la delicatezza della situazione sul terreno e lavorano per limitare i danni. Soldati e comandanti che si trovano sul posto dove ci sono tensioni con i palestinesi sono esposti alla loro dimensione umana – e questo incide su di loro. Improvvisamente capiscono che la situazione non è quella che pensavano.”

Questo scontro con la realtà porta ad una moderazione sul piano politico?

“Non so se questo influenzi il loro voto, e non penso che ciò sia realmente importante. Penso che la gente dell’esercito che ha a che fare con checkpoint, arresti, pattugliamenti e protezione delle colonie si trova di fronte a situazioni umane e vede le cose in modo diverso.”

L’esercito è una forza moderata?

“Senza dubbio. Anch’io, come capo del comando centrale, ho agito per ridurre al minimo i danni e limitare le tensioni tra le popolazioni. Per reprimere i fenomeni estremi sia della parte ebraica che di quella palestinese. Invece di criticare le persone dovrebbero dire: ‘E’ una gran cosa che ci siano molti ufficiali superiori nell’IDF che sono moralmente turbati da questo.’ Se non ci fossero loro, l’attività dell’IDF sarebbe completamente diversa. E’ il comportamento corretto dell’IDF e dell’Amministrazione civile che rende possibile una vita accettabile là. Ci sono cose sgradevoli – lo riconosciamo – ma la maggioranza dei soldati è molto coscienziosa. Quando un soldato sta controllando un punto di passaggio dei lavoratori e arriva qualcuno, di qualunque età, che ha viaggiato tutta la notte per andare al lavoro, la grande maggioranza dei soldati dell’IDF si comporterà umanamente e rispettosamente verso di lui. Non è l’ideale, ma potrebbe essere molto peggio.”

E’ questo che intende per elevare l’occupazione al livello di un’arte?

“Noi eccelliamo in questo – abbiamo creato meccanismi sofisticati che permettono una vita accettabile in queste circostanze. Quando gli americani hanno conquistato l’Iraq nel 2003, sono venuti da noi per imparare come “tenere il controllo” [“lehachzik”, che può anche essere tradotto in questo contesto con “amministrare”] di territori. C’è un’altra parola per questa situazione? In inglese, il verbo “occupare” viene usato. Cos’è l’occupazione? E’ avere il controllo. Noi controlliamo territori. Se dici kibbush [occupazione] tutti saltano sulla sedia. Ma questa è la realtà. Da una parte, [il modo in cui l’esercito ha rapporti con la popolazione palestinese è una fonte di] orgoglio per l’IDF e per Israele – ma è in questo che noi vogliamo eccellere? Dall’altra, effettivamente noi eccelliamo in questo. L’IDF è l’unico raggio di sole in tutto questo contesto. E’ la più importante forza di moderazione.”

Chi modera l’esercito- l’establishment politico?

“La realtà. Una grande percentuale di chi critica l’IDF non capisce i veri punti sensibili; il 99% dei critici non sono mai stati in un campo di rifugiati. Negli ultimi anni, solo il sistema di difesa ha avuto successo nel mantenere la cooperazione con i palestinesi. La prassi sul terreno è stata condotta sulla base della comprensione della complessità, e con lo scopo di prevenire rivolte. Se tutte le raccomandazioni fatte dai comandi dell’esercito e della difesa negli scorsi anni fossero state accolte, le cose andrebbero molto meglio.”

Perché, allora, c’è gente che definisce menzognera [l’ong contro l’occupazione] Breaking the Silence [associazione di soldati ed ex-soldati israeliani che raccoglie le denunce di violazioni dei diritti umani commesse dall’IDF nei territori occupati. Ndtr.], che conosce molto bene la situazione sul terreno, quando esprime critiche?

“Non accetto il loro modo di fare. Credo che sia sbagliato che vadano all’estero a criticare. Le critiche devono rimanere all’interno del Paese.

La distinzione tra “dentro” e “all’estero” nell’era dei media liberi e di internet è un’illusione.

“Le cose filtrano, ma non completamente. Non è lo stesso che essere in un campus negli Stati Uniti o in Europa e parlare delle atrocità perpetrate dai soldati dell’IDF. Ci sono casi gravi che sono le eccezioni, e vengono presi in considerazione. Io non vedo nessun allarme.”

Anche lei ha rotto il silenzio.

“No. Io non sono mai stato zitto.”

‘Paura di pronunciarsi’

Shamni, 57 anni, è nato a Gerusalemme e vive a Reut, una comunità nei pressi di Modi’in [comune israeliano che si trova in parte in Israele e in parte nei territori occupati. Ndtr.]. Lui e sua moglie, Hadas, hanno quattro figli (di età compresa tra i 16 e i 32 anni) e sono diventati nonni da poco. Shamni è stato arruolato ne 1977 ed ha passato i successivi 35 anni nell’IDF, soprattutto nei paracadutisti, compreso un periodo come comandante di brigata. E’ stato anche comandante della brigata “Hebron” (un breve periodo dopo il massacro di fedeli musulmani ad opera di Baruch Goldstein in quella città nel 1994), ed ha guidato la divisione “Gaza” durante la Seconda Intifada. In seguito è stato capo della direzione operativa dello Stato Maggiore, promosso al rango di generale di brigata e aggregato alla segreteria militare del primo ministro (con Ariel Sharon, poi con Ehud Olmert), un incarico che ha mantenuto durante la seconda guerra in Libano del 2006. Nel 2007 è stato nominato capo del “Comando Centrale” [organo militare che si incarica del controllo dei territori palestinesi occupati. Ndtr.]. Nel 2008 parlò al corrispondente militare di Haaretz Amos Harel di quello che allora era un nuovo fenomeno tra i coloni estremisti: “Hanno adottato il metodo “prezzo da pagare”: se non sono abbastanza forti da lottare contro le forze di sicurezza in una situazione particolare [come quando alcuni avamposti vengono evacuati], ci colpiscono da qualche altra parte. E’ uno sviluppo molto grave.”

Egli avvertì: “Questa gente sta cospirando contro i palestinesi e contro le forze di sicurezza…Ci sono elementi marginali che stanno guadagnando appoggio per le ‘condizioni favorevoli’ di cui godono e il sostegno fornito da certe parti della leadership, sia dei rabbini che del governo, in dichiarazioni esplicite o in modo tacito.”

Shamni non è rimasto in silenzio riguardo al fenomeno ed ha anche emesso ordini vietando ad alcuni attivisti di destra di entrare in Cisgiordania. In seguito a ciò lui stesso è stato attaccato, ricevendo minacce contro la sua persona e la sua famiglia.

Nel 2009 Shamni è stato nominato attaché militare negli Stati Uniti. E’ stato candidato a succedere a Gabi Ashkenazi come capo di Stato Maggiore, ma è stato battuto da Benny Gantz. Si è ritirato dall’IDF nel 2012. E’ uno degli autori di un testo intitolato “Un sistema di sicurezza per la soluzione dei due Stati.” Il rapporto è stato pubblicato lo scorso maggio dal “Centro per una Nuova Sicurezza Americana”, un gruppo di studio di Washington il cui capo, Michèle Flournoy, “è candidato a diventare segretario alla Difesa se [Hillary] Clinton vincerà le elezioni,” dice Shamni. Il rapporto è stato distribuito in Israele e a livello internazionale. Secondo Shamni quelli che lo hanno ricevuto hanno manifestato notevole interesse. Ma è ancora presto, aggiunge, e non ne vuole discutere oltre.

Le sue considerazioni sull’occupazione sono state fatte durante un incontro tenuto in agosto dall’ “Istituto per le Politiche e Strategie” del “Centro Interdisciplinare” di Herzliya e dai “Comandanti per la Sicurezza di Israele”, che, secondo il loro sito, è “un movimento non di parte di ex ufficiali superiori della sicurezza” i quali credono che “l’attuale stallo diplomatico sia dannoso per la sicurezza di Israele.”

Shamni stava rispondendo a un commento del generale di divisione (ritirato) Yaakov Amidror [del partito di estrema destra “La Casa Ebraica”, attualmente nella coalizione di governo. Ndtr.], ex- capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza di Israele, secondo cui i palestinesi non avrebbero dovuto avere problemi con l’occupazione.

Quindi c’è un partner? Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è un partner?

“Certo che lo è. La maggior parte della gente che si oppone all’idea dei due Stati è decisa ad ereditare la terra dei nostri antenati e non ha nessun interesse in accordi per la sicurezza.”

Cosa pensa del primo ministro Benjamin Netanyahu?

“Penso che capisca che Israele ha seri problemi. Penso che vorrebbe tirarne fuori Israele, ma non sa come.”

“Non è in grado di farlo perché Israele è governato da altre persone.”

Da chi?

“Da piccoli gruppi che sono permeati di fede.”

I coloni?

“Non tutti [sono coloni]. Penso che ci siano pochi gruppi dominanti nella politica israeliana; non sono necessariamente la maggioranza, ma loro decidono le cose da fare. Se uno dovesse esaminare le reali opinioni della maggior parte dei parlamentari di Israele – anche escludendo i deputati arabi – emergerebbe che la maggioranza pensa che dobbiamo trovare un accordo con i palestinesi il prima possibile. Ma non sono in grado di esprimere pubblicamente questa posizione, perché nel momento in cui lo facessero perderebbero i loro sostenitori.”

Ma chi sono questi sostenitori?

“Non voglio generalizzare. Non sono tutti i coloni. Ma ci sono piccoli gruppi, ideologizzati, estremisti, attivi, che sono organizzati e finanziati.”

Finanziati da chi?

“Da ebrei, soprattutto dall’estero, che sono grandi finanziatori dei politici. Non voglio fare nomi, neppure dei finanziatori. Ci sono gruppi estremisti ideologici che stanno dettando l’agenda dello Stato e sono in grado di agire come un deterrente nell’arena politica. C’è gente in questo Paese che ha paura di esprimersi. Brave persone.”

La politica israeliana è presa in ostaggio?

“Guardi cos’è successo a [Moshe] Ya’alon. E’ un caso esemplare. Qualcuno la cui integrità e il cui contributo allo Stato sono indiscutibili. Non è stato in grado di sopravvivere [come ministro della Difesa]. Perché? Perché è rimasto fedele alla sua verità. E, tra l’altro, gli ci è voluto del tempo per capire il problema: se avesse affrontato fin dall’inizio i processi di radicalizzazione come ha fatto durante la fine del suo mandato, soprattutto in Cisgiordania, penso che le cose sarebbero diverse adesso. Ma se n’è venuto con una sorta di tentativo di tranquillizzare la gente, di non pestare i piedi a nessuno. Eppure lo devi fare. E nel momento in cui ha cominciato a fare i conti con questioni difficili, si è ritrovato cacciato fuori.”

Si sta riferendo ai commenti di Ya’alon sul Elor Azaria, il soldato dell’IDF processato per omicidio colposo dopo aver sparato a un palestinese ferito a Hebron il marzo scorso?

“Azaria è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’ultimo pretesto. Il processo è iniziato molto prima, quando Ya’alon, come ministro della Difesa, ha deciso che avrebbe insistito perché la legalità e l’ordine venissero mantenuti in Cisgiordania. Ci sono stati incidenti in cui ha deciso di distruggere una struttura di un tipo o di un altro, e tutti hanno detto la loro sul suo caso. Ha solo fatto quello che si doveva legalmente, moralmente ed eticamente. E’ stato allora che è iniziato il peggioramento. E’ stato allora che è diventato un bersaglio.”

Intende che è stato “silurato” politicamente?

“Certo.”

Anche lei ha paura di esprimersi?

“No. Al contrario. Io mi esprimo. E io chiedo a tutti coloro che comprendono questo problema [nel campo politico e della difesa] che si alzino e parlino. Per varie ragioni, la gente non lo sta facendo. Hanno paura di perdere il lavoro, le proprie comodità. O conducono una vita tranquilla, perciò, perché andarsi a prendere questo grattacapo?”

Anche il suo amico, deputato Ofer Shelah [di Yesh Atid], pensa che la soluzione dei due Stati non è un problema per la sicurezza?

“Sì, ma lei ha visto cos’è successo quando Yesh Atid [partito di centro sinistra. Ndtr.] è entrato nella coalizione di governo [tra il 2013 e il 2014]. Si sono dimenticati della questione palestinese.”

Società estremista, esercito moderato

In un’intervista alla televisione “Canale 2” lei ha fatto riferimento alle “manipolazioni legali e operative” che sono state compiute per scopi di colonizzazione. Cosa voleva dire?

“Il potere sovrano in Giudea e Samaria [denominazioni israeliane della Cisgiordania. Ndtr.] è l’IDF, e governa il generale del ‘Comando Generale’ – lui prende le decisioni. Se c’è il desiderio di espropriare un territorio, può decidere che c’è una necessità di carattere militare per quella determinata area. E se c’è una ragione di sicurezza, non gliela si può rifiutare. Nessuno gli dirà di no. E anche se la questione arriva alla Corte di Giustizia, questa confermerà che è una zona di interesse militare. Ci sono state situazioni nel passato in cui aree sono state confiscate per fini militari, ma non è sempre stato del tutto chiaro. Molte volte la terra è stata espropriata per la colonizzazione con delle scorciatoie. Se vogliamo costruire colonie, allora decidiamo che vogliamo costruire colonie. Perché utilizzare ragioni di sicurezza?

“Quando ho preso la direzione del Comando Centrale, eravamo sull’orlo di una crisi di fiducia con l’Alta Corte – perché la Corte aveva la sensazione che le ragioni di sicurezza fossero addotte in luoghi in cui non corrispondevano esattamente alla situazione. Ho messo fine a tutto questo. Non ci sono più situazioni in cui un motivo legato alla sicurezza è messo in campo in luoghi in cui non ci sono reali questioni di sicurezza. Basta scorciatoie. Ci sono stati periodi in cui sono state esercitate forti pressioni e situazioni in cui sono state prese scorciatoie. Penso che siano stati fatti cambiamenti sostanziali negli ultimi anni. Uno dei problemi di Ya’alon è stato che…è solo una persona onesta e non era disponibile a scorciatoie e a tirare fuori argomenti legati alla sicurezza dove non ne esisteva nessuno.”

Pressioni da dentro l’esercito o da fuori?

“Da fuori”

Da parte di chi, da fuori?

“Ci sono molti lobbisti e gente che esercita pressioni sui politici nel governo e nella Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. Beh, non capisce cosa significa esercitare forti pressioni?

No.

“No?”

No -cioè, non capisco che tipo di pressioni. Cosa potrebbe succedere?

“Pressioni sono esercitate ad ogni livello politico, e a volte hanno anche successo. L’esercito deve essere molto risoluto nelle sue opinioni, confidare in se stesso e non scendere a compromessi. Penso che sia quello che è successo anche negli ultimi anni. Non ci sono più scorciatoie in quella zona, e questa è una delle ragioni per l’aumento delle tensioni tra l’esercito ed i coloni. Sono io che ho promosso questa linea di condotta. Non penso che il GOC [Comando Generale. Ndtr.] o lo Stato Maggiore oggi prenderebbero delle scorciatoie. Penso che questo periodo sia ormai passato.”

E quando il vice capo di Stato Maggiore, Yair Golan, parla di fascismo strisciante, e Ehud Barak [dirigente del partito Laburista ed ex-primo ministro israeliano. Ndtr.] fa riferimento al nascente fascismo?

“Questa è un’altra cosa. Deve chiedere a loro a cosa si riferissero, ma ritengo che parlassero di fenomeni che riguardano le tensioni con i coloni estremisti, la storia con i gruppi del “prezzo da pagare” [gruppi di coloni estremisti che aggrediscono i palestinesi. Ndtr.], tutti gli avvenimenti dell’ultimo periodo – il fatto di Duma [l’attacco incendiario contro una casa palestinese del luglio 2015 in cui sono stati uccisi tre membri della famiglia Dawabsheh] e molte cose minori che avvengono quotidianamente.”

Non pensa che l’incremento di questi fatti contraddica la sua sensazione che l’IDF stia conservando la propria moralità?

“Ma non è l’IDF che sta facendo queste cose. Yair Golan non si riferiva all’IDF quando ha parlato di fascismo strisciante. Si stava riferendo alla società israeliana.”

Ma lei non può fare una distinzione tra l’IDF e la società israeliana.

“Si può. Perché l’IDF agisce in base a ordini. E c’è la disciplina. Quando questi fenomeni sono scoperti, sono immediatamente repressi. Non paragoni la “gioventù della cima delle colline” [giovani coloni estremisti] all’IDF. Yair stava parlando della “gioventù della cima delle colline”, di tutti gli estremisti scatenati.”

La diffusione di fenomeni come l’incidente di Azaria nell’esercito non la preoccupa?

“No. Questi fenomeni non sono concentrati nell’esercito; succedono nella società israeliana. E’ vero che in ultima istanza l’IDF è uno specchio della società, ma l’esercito non è il centro.”

In base agli standard de “l’occupazione a livello di un’arte,” Azaria è un contrattempo?

“Cosa intende per ‘contrattempo’?”

Non è un esempio di eccellenza nell’occupazione, suppongo.

“Ritengo che Azaria sia una vittima della situazione di cui sto parlando. Non voglio entrare nei dettagli mentre è in corso un processo. Non so esattamente cosa sia successo lì, non ho visto gli atti dell’indagine.”

Ma ha visto le riprese video?

“Le ho viste, ma abbiamo imparato che i video non sempre riflettono quello che è successo. E’ possibile che abbia fatto un terribile errore, e ciò verrà chiarito nel processo. Ma deve capire che questa situazione provoca questi fatti. A volte i soldati non riescono a resistere alla pressione. Un soldato entra nella mischia, vede i suoi compagni feriti, ha sentito un sacco di incitamenti tutto attorno. Sta vivendo in mezzo ad una miscolanza di soldati, ufficiali, coloni ed altri, alcuni dei quali molto estremisti, che a volte può creare confusione in soldati che non sono abbastanza forti. Agli occhi di chi dovrebbe apparire bravo? A quelli dei suoi superiori? Della gente attorno che li sta esaltando ed incitando? E’ una situazione molto complicata per i soldati. Lui [Azaria] è un soldato giovane.

Non so quanta esperienza avesse in situazioni simili. Ma questa è un’eccezione. Non è la norma nel comportamento dell’IDF.”

L’ “Intifada del lupo solitario” ha delineato qualcosa che potrebbe essere etichettata come “risposte individuali” da parte sia della società israeliana che dell’IDF.

“E’ possibile. Una certa atmosfera è stata creata attorno a questa cosa, ogni sorta di affermazioni è stata fatta e ogni genere di politico ha affermato che ogni scontro con un terrorista deve finire con l’uccisione del terrorista. Ciò può aver provocato il fatto che persone si siano lasciate trascinare e siano andate in confusione. Non è un problema con dimensioni che ci possano disturbare. Ma dobbiamo sentirci disturbati dall’erosione graduale. Israele prende l’iniziativa solo in seguito a gravi traumi.”

L’ “Intifada del lupo solitario” potrebbe arrivare a determinare questo tipo di trauma?

“Siamo in una situazione di deterioramento costante. Non sappiamo dove ciò ci porterà. Non solo non stiamo prendendo iniziative, stiamo gestendo la situazione al contrario. Ad Hamas viene dato quasi tutto quello che vuole. Sta consolidando il suo potere ed il suo governo; controlla i punti di passaggio, raccoglie le tasse, paga i salari e sta persino trattenendo, indisturbato, i corpi di due soldati dell’IDF. Allo stesso tempo in Cisgiordania ci sono organizzazioni che hanno dichiarato apertamente di voler vivere in pace con Israele – e noi le stiamo indebolendo.”

Meno colonie, meno soldati

Shamni esprime preoccupazione rispetto alla mancanza di rapporti tra israeliani e palestinesi. “Sono cresciuto a Gerusalemme,” dice. “Li ho conosciuti là, gli arabi erano i nostri vicini. Non avevo amici arabi, ma li vedevo. Sono stato in quartieri arabi, ho visitato la Città Vecchia, non li ho visti solo in televisione e sui giornali. Oggi non c’è interazione. Semplicemente non ci sono prospettive di riuscire a vivere insieme nello stesso Paese. I palestinesi non accetteranno mai che questa situazione continui per sempre. Per cui dobbiamo cominciare a prendere le misure necessarie.”

Quali, per esempio?

“Se tu dici che il tuo obiettivo strategico finale è di arrivare ad una separazione, allora ci sono cose che fai ed altre che non fai. E’ più o meno chiaro come saranno i tuoi confini. Lo Stato di Israele lo ha riconosciuto; il primo ministro anche. La soluzione sono i due Stati. Sulla base, più o meno, dei confini del 1967 con uno scambio di territori. Quanto territorio Israele può concedere senza danneggiare il fronte interno? Due per cento, 2,5% – questo è il massimo. Sono più o meno i blocchi di colonie e tutti gli insediamenti adiacenti alla barriera [di separazione]. Se oggi sai che questo è il tuo scopo e la tua direzione strategica, tu inizi fin da ora a fare le cose giuste. Costruisci nei blocchi di colonie e non fuori da questi. Non crei una situazione in cui la realtà demografica renderà estremamente difficile mettere in atto questa mossa in futuro.”

Considerazioni relative alla sicurezza costituiscono uno degli argomenti per giustificare gli insediamenti, ma ora l’esercito è lasciato lì per proteggerli. Cosa viene prima?

“L’esercito è lasciato lì perché Israele non ha intenzione di lasciare quel territorio. Nel frattempo sempre più progetti di insediamenti sono avviati. Mettiamola così: se ci fossero meno coloni ebrei in [Cisgiordania], ci sarebbero meno ragioni che l’IDF fosse schierato in centri abitati. Prenda ad esempio il nord della Samaria [della Cisgiordania. Ndtr.]. Lì non ci sono insediamenti, e dove gli insediamenti sono stati evacuati c’è meno esercito. Perché se hai meno israeliani, meno insediamenti, è perfettamente chiaro che hai bisogno di meno forze. Ma non è questo il punto. La questione è se è possibile mantenere una situazione in cui l’IDF non c’è sul terreno quando non ci sono insediamenti, e se è possibile difendere Israele con i nuovi confini. Io dico di sì.

“La questione se il progetto di insediamento è giustificato dal punto di vista della sicurezza non è più rilevante. In generale, gli insediamenti sono stati costruiti nei pressi delle strade principali. L’IDF non ne ha più bisogno. L’esercito può difendere il Paese e le sue frontiere senza fare ricorso agli insediamenti. Al contrario: dove ci sono rischi oggi, evacueremo gli insediamenti nelle retrovie. Si parla di evacuare le comunità attorno alla Striscia di Gaza nel caso di un altro scontro con Hamas, ecc. Abbiamo evacuato comunità nel nord durante la seconda guerra del Libano. E c’erano progetti di evacuazione dalle Alture del Golan e da ogni sorta di posti. Non si vogliono civili sulla linea del fronte. In una situazione di guerra contro forze militari, i civili sono un peso.”

Per cui lei pensa che dovremmo aspirare a spostarci su frontiere che saranno tracciate da Israele?

“No. Non credo a mosse unilaterali.”

Lei si rammarica del disimpegno da Gaza [deciso unilateralmente da Sharon. Ndtr.]?

“C’è una grande differenza tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Io ero il comandante della divisione “Gaza” al culmine della lotta contro Hamas. Non è una cosa di cui sento la mancanza. La nostra situazione sarebbe molto peggiore se fossimo rimasti nella Striscia di Gaza perché, dagli accordi di Oslo, non c’era più la presenza dell’IDF nei centri abitati. Avevamo insediamenti a Gush Katif, a Netzarim, nel nord della Striscia di Gaza. L’IDF era schierato lì per proteggere i residenti – che, tra l’altro, erano gente stupenda. C’è un’enorme differenza tra le caratteristiche degli insediamenti a Gush Katif e quello che sta succedendo in alcune parti della Giudea e Samaria. Intendo come modo di comportarsi, carattere, estremismo. Ma, come ho detto, non eravamo schierati nei centri abitati.

“Arrestavamo terroristi, demolivamo infrastrutture, entravamo ed uscivamo. Non controllavamo realmente Gaza, Khan Yunis, Rafah; non eravamo in tutti i campi di rifugiati. Hamas ha migliorato le sue capacità lì, e più passava il tempo, più difficile era diventato difendere gli insediamenti. Ci sono stati episodi molto gravi prima del disimpegno, e mi lasci dire che non aveva senso continuare a rimanervi. Non avrebbe neppure impedito ad Hamas di rafforzarsi.

“La gente dice che il nostro ritiro da Gaza ha permesso ad Hamas di diventare forte, ma è vero solo a metà. Perché persino quando eravamo lì, Hamas si è rafforzato. Se fossimo rimasti lì, il processo sarebbe stato un poco più lento. I tunnel esistevano anche quando eravamo lì, armamenti entravano di nascosto e c’era un’industria bellica locale. Era molto difficile per noi arrivare dappertutto. Al tempo del disimpegno, c’era un gran numero di razzi e Qassam [razzi artigianali prodotti a Gaza. Ndtr.]. E’ vero che non avevano un raggio d’azione di 70 kilometri, come ora, ma erano sparati contro Sderot e il sud di Ashkelon.”

Forse perché l’IDF non controllava tutta la Striscia di Gaza.

“Beh, vediamo cosa significa controllare tutta Gaza. Come dopo l’operazione “Scudo Difensivo” [nel 2002], quando abbiamo controllato la Giudea e la Samaria e siamo entrati dappertutto [cioé in tutta la zona A, che in base agli accordi di Oslo era sotto totale controllo dell’ANP. Ndtr.]. Ciò avrebbe significato schierare grandi forze, che avrebbero danneggiato gravemente l’economia di Israele. In fin dei conti ci sono dei limiti all’ordine operativo di battaglia. Chiunque dica che dovremmo rioccupare la Striscia di Gaza non capisce cosa ciò significherebbe.”

Israele non ha la capacità di distruggere Hamas nella Striscia?

“Che vuol dire ‘distruggere Hamas’? Israele può conquistare Gaza. Non sarebbe facile, potrebbero volerci pochi giorni o settimane, ma alla fine la Striscia sarebbe sotto il controllo dell’IDF. Ogni strada e ogni vicolo. Quale sarebbe la fase successiva? Sarebbe che avremmo due milioni di persone di cui dovremmo soddisfare le necessità e la cui vita quotidiana dovremmo gestire.

“La sicurezza di Israele riposa principalmente sulla deterrenza. E per la deterrenza c’è bisogno di un punto di riferimento. Oggi siamo fuori, indebolendo Hamas, garantendo che faccia il lavoro all’interno [controllando altri gruppi di miliziani] ed esercitando pressioni sull’organizzazione. E’ lo stesso in Libano. E dovrebbe essere lo stesso anche in Cisgiordania. E’ impossibile distruggere Hamas. Non si tratta solo di persone e dirigenti, o di Ismail Haniyeh [uno dei principali leader dell’organizzazione]. Hamas è consapevolezza. Non puoi sradicare la consapevolezza. La puoi cambiare. Come? Convincendo la gente. Anche Fatah aveva altre posizioni, ma è venuto il giorno in cui sono arrivati alla conclusione che dovevano parlare con noi, che la soluzione non sarebbe arrivata con la forza.”

Quando avverrà con Hamas?

“Perché succeda, Hamas dovrà sentire di correre un pericolo per la sua stessa esistenza. E’ per questo che l’organizzazione deve essere tenuta sotto pressione. Attualmente abbiamo un’eccezionale opportunità perché gli egiziani odiano Hamas. Guardi cos’è successo con l’operazione “Piombo Fuso” [2008-2009]. Fortunatamente gli egiziani sono stati duri – perché ci siamo affrettati a fare ogni sorta di concessione. Quando loro [gli egiziani] hanno deciso di eliminare i tunnel, lo hanno semplicemente fatto. Spero che [il presidente egiziano Abdel-Fattah] al-Sissi rimanga al potere per molti anni ancora.

“In più, noi non siamo lì [a Gaza], per cui nessuno può sostenere che siamo occupanti. C’è solo la questione del blocco, che credo si possa spiegare perché è giustificabile nei termini di considerazioni di carattere militare. E il fatto è che viene accettato a livello internazionale, nonostante le critiche. Naturalmente è necessario garantire che la popolazione non arrivi a condizioni di carestia e di epidemie. Questo è un lato della formula; l’altro è rendere più facili le cose in Cisgiordania e rafforzare Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Come possiamo rafforzare Fatah in Cisiogrdania?

“Con una politica molto più estesa per rendere più agevoli gli spostamenti e la libertà economica. Il piano [del bastone e della carota] del [ministro della Difesa Avigdor] Lieberman è fantastico: togliere le restrizioni, permettere la costituzione di zone industriali e agricole nell’area C [che è sotto totale controllo di Israele per quanto riguarda la sicurezza], facilitare le esportazioni. Dare un impulso all’economia palestinese. Ciò inciderà sull’appoggio a Fatah ed alle forze moderate. Il funzionamento delle strutture dell’ANP, sia militari che civili, deve essere rafforzato. Devono avere la possibilità di governare, di aiutare il loro popolo per guadagnarsi l’appoggio politico. Dove ciò dipende dall’IDF, si sta facendo. Ma l’incarico affidato all’esercito è limitato. In ultima analisi, quando vuoi dare ai palestinesi più territorio per sviluppare la loro economia nell’area C, ti scontri con una questione politica. Il ministro della Difesa dice che lo sta per fare? Aspettiamo e vediamo quando succederà.”

Lei si è costruito una vita, una carriera, una sicurezza economica e un futuro per i suoi figli grazie all’esercito e all’occupazione. Forse questo comporta che lei non veda situazioni allarmanti?

“Ho passato la maggior parte della mia vita in Libano e in altre zone. Ma sì, sono stato anche in Giudea e Samaria e a Gaza. Ma sarei rimasto nell’esercito anche senza occupazione. Sto parlando per un senso di preoccupazione non solo per il Paese ma anche per l’IDF, perché ho paura dell’erosione morale e del fatto che l’IDF non si concentri sui suoi compiti principali. Invece di combattere, sta controllando una popolazione. Non attacco l’IDF né chiedo di rifiutarsi di fare il servizio militare, perché l’IDF è il raggio di luce in questa storia. Ho perso molti amici lungo il cammino. Prima che cadessero, quando si resero conto della situazione realmente pericolosa in cui si trovavano, mi sembrava che stessero sorridendo: Nitzan Barak, il capitano Uri Maoz, il capitano Tzion Mizrahi, il sergente Elad Rotholtz e molti altri. Tutta quella gente stupenda era sensibile e umana. Le loro famiglie sono come parenti per me e per la mia famiglia. Se me lo chiede, quello che mi rimane del servizio nell’esercito è l’impegno a fare ogni cosa in modo da pagare un prezzo simile solo se non abbiamo scelta.

“Diciamo sempre che la differenza tra noi e i nostri nemici è che noi santifichiamo la vita e loro santificano la morte. Chiedo se non c’è un crescente numero di persone tra noi che è pronto a sacrificare i propri figli sull’altare delle proprie convinzioni e che è pertanto responsabile di farci diventare una società che santifica la morte.”

Se le persone non volessero fare il servizio militare, non ci sarebbe nessuno che parteciperebbe a questo progetto.

“Penso che in quel caso lo Stato non sarebbe in grado di esistere. Viviamo in un Paese democratico sotto un governo legittimo. Nel corso della mia carriera militare non ho visto azioni che potrebbero giustificare il rifiuto di fare il servizio militare. Penso che, in fin dei conti, stiamo agendo in modo etico.”

Pensa che sia moralmente accettabile occupare un altro popolo?

“Solo quando ci sono ragioni di sicurezza. La domanda è dove finiscono le ragioni di sicurezza e se le cose possono essere fatte in modo diverso. Lei sa qual è la mia opinione. Penso che dobbiamo arrivare ad una situazione di separazione perché non ci sono ragioni di sicurezza. Se ci fossero, chi ne parlerebbe? La democrazia ha strumenti che debbono essere utilizzati. Mi pare chiaro che c’è una maggioranza che pensa che ci sia bisogno di un cambiamento ma che è apatica. Purtroppo. Uno dei miei obiettivi è di scuoterla. Non solo io – molti dei miei amici stanno cercando di risvegliare la maggioranza apatica.”

Sta pensando di entrare in politica?

“No”

Non ha paura di essere etichettato con la sindrome delle “lacrime di coccodrillo”?

“Assolutamente no. Ci ho pensato molto nel corso degli anni. Non sento rimorsi di coscienza per tutte le cose che ho fatto – e c’erano cose scabrose, con penose conseguenze per gli avversari. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto nel modo più trasparente possibile, se è possibile chiamarlo così. Ciò significa che non ho fatto quello che non era necessario. Non sto solo parlando di me. Tutto sommato, non abbiamo causato danni fini a se stessi – e questa è proprio la differenza, vede? Quando provochi danni per il gusto di farlo.”

Forse se gli israeliani non avessero eccelso nell’occupazione, non sarebbe durata 50 anni.

“Ma c’è una divisione del lavoro. Non è compito dell’esercito decidere se l’occupazione debba continuare. La strategia deve essere lasciata a livello politico. Nel momento in cui la tua missione è legale, allora è bene e positivo che noi abbiamo il nostro esercito, che fa le cose come le fa.”

Ma Dio non fa le leggi, giusto?

“Giusto. Ma neanche gli ufficiali dell’IDF.”

“Per il futuro di Israele”

Rispondendo a questo articolo, il deputato Ofer Shelah ha detto: “Gadi Shamni è stato un amico per circa 40 anni, ed è una persona a cui sono affezionato e che rispetto. Ho parlato molto con lui, sia di argomenti personali che politici, ed ho grande stima dei suoi sforzi di stilare un documento per accordi relativi alla sicurezza che saranno opportuni per arrivare ad un patto con i palestinesi, insieme a seri partner americani che ho incontrato e con cui ho parlato. I problemi di sicurezza in questo tipo di accordo sono tutt’altro che semplici, ma possono essere risolti con una leadership coraggiosa e determinata.

“[Il partito] Yesh Atid crede che Israele si debba separare dai palestinesi, per il bene del futuro di Israele come Stato ebraico e democratico. Ciò deve avvenire nel quadro di un processo regionale in cui il posto di Israele nel Medio Oriente sia definito e serva come contesto adeguato per la ripresa dei negoziati, che sono arrivati ad un punto morto. I miei amici ed io diciamo questo in ogni occasione e stiamo lavorando per metterlo in pratica in ogni ambito politico.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Senza la prospettiva di uno Stato, i palestinesi si adattano ad un limitato autogoverno

di Amira Hass,

Haaretz, 9 ottobre 2016

 

Gaza è alle prese con la prima condanna a morte inflitta ad una donna. In Cisgiordania la gente è sempre più convinta che l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) sia un’istituzione permanente, nonostante tutte le previsioni in senso opposto.

Oltre ai timori sul nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi a Gaza, gli arresti dell’esercito in Cisgiordania, le notizie sull’avamposto di Amona ed i nuovi espropri di terre, i palestinesi sono alle prese con alcune questioni interne, o almeno parzialmente interne.

Mercoledì 5 ottobre c’è stato un precedente a Gaza. Per la prima volta un tribunale palestinese ha comminato la pena di morte ad una donna, a Khan Yunis. Una corte distrettuale l’ha incolpata di omicidio premeditato di suo marito.

Il nome della vittima è stato reso noto a gennaio dopo che è stato trovato il suo corpo: si tratta di Riad Abu Anza, di 36 anni. La stampa ha pubblicato solamente le iniziali dell’imputata, anche se era a tutti noto chi fosse e da quale famiglia provenisse.

Subito dopo che i sospetti erano caduti su di lei, una delegazione di Hamas si è recata in visita alla casa dell’ucciso e, in una conferenza stampa, ha chiesto che la famiglia e gli altri mostrassero moderazione e lasciassero lavorare gli inquirenti. Queste espressioni erano un chiaro avvertimento che sarebbe stato difficile arginare una sanguinosa faida.

Il corpo di Abu Anza, che mostrava i segni di numerose ferrite da coltello, è stato trovato sabato 30 gennaio, dove c’era in passato l’insediamento israeliano di Atzmona (l’area degli ex insediamenti di Gush Katif è ora conosciuta come “i territori liberati”). La famiglia aveva informato della sua scomparsa tre giorni prima.

Nel giro di sei ore la polizia di Gaza ha raggiunto sua moglie, che inizialmente ha negato ogni coinvolgimento. Ma di fronte a prove evidenti, ha confessato. Una videocamera di sicurezza nella zona (che è stata trasformata in fiorenti progetti agricoli sotto Hamas o gente legata al gruppo e alle basi militari) ha filmato Abu Anza insieme ad una donna coperta fino agli occhi da un niqab (indumento islamico femminile che copre tutto il corpo e il capo, ndtr.). In seguito, un’impronta rilevata sul luogo è stata trovata perfettamente corrispondente alle scarpe della donna, e sui suoi vestiti è stato trovato del sangue.

All’inizio del processo le è stato attribuito un difensore d’ufficio. Delle attiviste femministe hanno detto ad Haaretz che poiché lei aveva confessato non aveva richiesto un avvocato di fiducia. Attivisti palestinesi per i diritti umani l’hanno visitata in prigione; lei ha raccontato loro che quando era una studentessa universitaria la sua famiglia l’aveva fatta sposare con Abu Anza, più vecchio di lei, contro la sua volontà.

Lui aveva problemi di salute mentale. I media palestinesi riferivano che era “un balordo”, i vicini dicevano che era “un disgraziato”. Aveva divorziato dalla prima moglie perché non gli aveva dato dei figli. La seconda moglie aveva dato alla luce un maschietto.

Le attiviste femministe hanno riferito che probabilmente lui la picchiava e la violentava sistematicamente, e quando lei era scappata dalla sua famiglia quest’ultima aveva preso le parti del marito e la aveva costretta a tornare da lui. Hanno detto che si aspettavano che il giudice prendesse in considerazione queste circostanze.

Se è stato davvero questo a portare all’omicidio, è anche una sconfitta dei gruppi per i diritti delle donne e del ministero palestinese per gli affari sociali. Lei non ha ritenuto di poter rivolgersi a loro; forse non sapeva che ci fosse qualcuno a cui rivolgersi. Adesso ha il diritto di appellarsi contro la sentenza di morte per impiccagione; le attiviste sperano che questa volta si convincerà ad assumere un avvocato di fiducia.

In base alla legge palestinese, l’esecuzione di una sentenza di morte (prevista dalla legislazione della Giordania, dell’Egitto e da quella rivoluzionaria dell’OLP) è possibile solo se è confermata dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma il regime di Hamas a Gaza non riconosce più come valida la presidenza di Mahmoud Abbas. A partire dalla separazione dei due governi palestinesi nel 2007 e la creazione di un sistema giudiziario separato a Gaza, la gran maggioranza delle sentenze di morte è stata emessa là e solo a Gaza esse sono state eseguite.

Dal 2005 Abbas non ha firmato sentenze di morte; probabilmente le critiche dei gruppi palestinesi ed internazionali per i diritti umani hanno avuto effetto. Dal 1994, sono state pronunciate 72 sentenze di morte dai tribunali palestinesi. Dal 2010, solo due sono state emesse in Cisgiordania.

Secondo il sito web di B’Tselem, ufficialmente sono state eseguite 13 sentenze. Ma alcuni prigionieri condannati a morte sono stati assassinati mentre si trovavano nelle prigioni dell’ANP ed alcuni sono stati uccisi da uomini armati dopo che erano fuggiti dalla prigione durante i bombardamenti israeliani nell’inverno 2008-2009.

Dalla creazione del sistema giudiziario separato di Hamas nel 2007, sono state emesse altre 68 condanne a morte nella Striscia di Gaza, 33 delle quali sono state eseguite. Queste cifre non includono i prigionieri uccisi da Hamas durante la guerra di Gaza nell’estate del 2014.

Un alto funzionario di Hamas ha detto ad un ospite europeo che, in assenza della pena capitale, le famiglie sarebbero precipitate in sanguinose faide. Ma un attivista per i diritti umani di Gaza sostiene che alcune persone continuano ad agire lo stesso per ottenere vendetta. “Purtroppo la maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza è tuttora favorevole alla pena di morte”, ha detto.

Gli scagnozzi di Abbas

Nel pomeriggio di martedì 4 ottobre parecchie decine di uomini e donne hanno risposto all’appello del Movimento Giovanile Palestinese a prendere parte a Ramallah ad una manifestazione contro la partecipazione di Mahmoud Abbas al funerale di Shimon Peres. Circa 15 minuti dopo, altri giovani sono arrivati portando bandiere di Fatah; gridavano il loro appoggio ad Abbas e ai leaders di Fatah per gli anni a venire. “Siamo convinti che (la leadership) sappia che cosa è bene per la patria e per il popolo”, ha dichiarato ai giornalisti un manifestante.

Questa scena si è ripetuta tantissime volte negli ultimi anni. Soprattutto in occasione di manifestazioni il cui principale bersaglio è Abbas, si svolgono contromanifestazioni in cui almeno alcuni dei partecipanti sono persone pagate dai servizi di sicurezza dell’ANP. Queste persone danno inizio agli scontri. Martedì pomeriggio alcuni manifestanti, sia uomini che donne, sono stati picchiati.

Alcune manifestanti donne hanno denunciato che i loro aggressori le hanno anche molestate sessualmente. Muhammad Karaja, un avvocato impegnato nel sostegno dei prigionieri di Addameer (associazione di difesa dei prigionieri palestinesi, ndtr.) ed in gruppi per i diritti, era presente nel suo ruolo di monitorare la condotta delle autorità negli eventi pubblici. E’ stato colpito alla faccia ed alla testa ed ha avuto bisogno di cure mediche.

Ha identificato i suoi aggressori come membri dei servizi di sicurezza. Altri si trovavano lì vicino e non sono intervenuti in suo aiuto, pur essendo lui conosciuto come avvocato.

L’aggressione nei suoi confronti e la dispersione violenta della manifestazione hanno portato ad una serie di condanne. Mercoledì l’ordine forense ha organizzato proteste in diverse città della Cisgiordania. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto che gli aggressori vengano perseguiti. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ha incolpato dell’aggressione direttamente Abbas.

Intanto il sito di informazioni Amad (legato a Fatah ed oppositore di Abbas) è venuto a conoscenza che il servizio di sicurezza preventivo ha compiuto degli arresti per interrogare dei membri di Shabiba, il movimento giovanile di Fatah, a Bir Zeit. Questo è successo subito dopo che il gruppo ha distribuito volantini in cui si chiedevano le dimissioni di Abbas per aver partecipato al funerale di Peres.

Secondo il reportage, l’agenzia per la sicurezza dell’ANP sospettava che il deposto dirigente di Fatah Mohammed Dahlan fosse la persona che stava dietro all’appello di Shabiba. Tra l’altro, già mercoledì Amad ha riferito che Abbas aveva tenuto un basso profilo per due giorni; questo, prima dell’informazione ufficiale che Abbas era stato in ospedale per esami cardiaci.

Insegnanti indipendenti fastidiosi

Il Ministero dell’Educazione dell’ANP ha messo in guardia a chiare lettere gli insegnanti che intendessero riprendere il loro sciopero. Nel migliore dei casi, i loro salari verranno ridotti. Nel caso peggiore, saranno licenziati. E’ stato detto loro in duri termini, in un comunicato stampa, che “il ministro non starà con le braccia incrociate di fronte al tentativo organizzato palese di sovversione, e alla insistenza di alcuni nel partecipare alla distruzione dell’insegnamento in Palestina rinnovando lo sciopero nelle nostre scuole.”

Il comunicato stampa del Ministero dell’Educazione, riportato dall’agenzia di notizie Wafa, è pieno di altre pesanti affermazioni, come ad esempio: “l’istigazione (da parte di alcuni insegnanti) si salda all’attacco israeliano contro il Ministero dell’Educazione palestinese. Non lasciatevi fuorviare, qui ci sono di mezzo considerazioni personali ed interessi privati.”

A marzo gli insegnanti delle scuole pubbliche avevano accettato di interrompere lo sciopero, che la gente aveva appoggiato, dopo che Abbas aveva promesso di intervenire per applicare le condizioni dell’accordo sui salari del 2013. Ma le promesse – soprattutto quella di adeguare i salari al costo della vita – devono ancora essere mantenute.

Intanto è stato creato un sindacato indipendente degli insegnanti – al di fuori del sindacato tradizionale che fa integralmente parte dell’OLP e dipende da Fatah e dal suo capo. Chiaramente è questa attività indipendente che irrita particolarmente le autorità palestinesi.

Legge sulla previdenza sociale migliorata

E adesso le buone notizie. La legge sulla previdenza sociale per i lavoratori del settore privato, approvata da Abbas in febbraio, è stata emendata e migliorata dopo una valanga di critiche. Queste si sono esplicitate in manifestazioni, seminari con la partecipazione di attivisti sociali e docenti universitari, denunce sui media e assemblee pubbliche.

Da quando il Consiglio Legislativo Palestinese è stato privato dei suoi poteri legislativi nel 2007, la legiferazione è stata trasferita ai ministri e ad Abbas. Ovviamente ciò ha rafforzato il carattere autoritario dell’Autorità Palestinese.

Però a volte i membri eletti del Consiglio Legislativo riescono ad intervenire nel processo legislativo, discutere le bozze e sollevare obiezioni, come hanno fatto nel caso della legge sulla previdenza sociale. I piccoli partiti di sinistra vi hanno giocato un ruolo importante.

La legge migliorata, positivamente recepita, è stata annunciata mercoledì 28 settembre e comprende i seguenti risultati: una garanzia governativa (statale, nella formulazione della legge) per il fondo pensioni dei lavoratori, una modifica del rapporto tra i contributi del lavoratore e quelli del datore di lavoro dal 7,5% e 8% del salario rispettivamente al 7% e 9%, ed una riduzione del periodo lavorativo a fini pensionistici da 360 mesi a 300 per gli uomini e da 300 a 240 per le donne.

Inoltre la pensione minima sarà il 75% del salario minimo mensile (attualmente 1.450 shekels, cioè 382 dollari)[341,32 euro, ndtr] le donne avranno diritto al congedo per maternità dopo tre mesi di lavoro anziché sei, vi sarà esenzione dalle tasse per un prelievo una tantum dei risparmi sul fondo pensioni e il numero di lavoratori rappresentanti nel consiglio sociale per la sicurezza passerà da quattro a sei.

Infine ci sarà un intervento positivo per i disabili, che potranno godere di una pensione dopo 10 anni di lavoro ed il pagamento ai figli disabili nel caso di morte di un genitore assicurato, anche se i figli hanno più di 21 anni; un intervento positivo per i lavoratori che svolgono mansioni pericolose; il trasferimento della pensione al marito nel caso di morte della moglie assicurata.

Oltre alle conquiste ottenute dalla protesta sociale palestinese, l’approvazione di una legge sulla previdenza sociale – che fa riferimento a situazioni di pagamenti e rimborsi che avverranno tra decenni e la cui formulazione ha creato preoccupazione a molti palestinesi per mesi – indica qualcosa di più. Nonostante tutte le previsioni di un imminente tracollo – o perché Abbas non ha successori, o per via dell’instabilità di Fatah, o ancora perché le restrizioni israeliane impongono un’economia debole – i difficili rapporti tra la popolazione e le istituzioni di un limitato autogoverno si stanno adeguando alla situazione presente.

La situazione attuale non dipende quindi da una sola persona. Nonostante le dure critiche interne all’ANP, ai suoi fallimenti politici e nazionali, la percezione di essa come un’istituzione permanente ed esistente sta iniziando a radicarsi.

La trasformazione dell’ANP in uno Stato appare molto lontana. Ma sembra che proprio la speranza che essa assolva al suo ruolo e sia al servizio della società possa essere un’altra strada per sostenerla.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Shimon Peres: fondatore di Israele, architetto dell’occupazione

Rori Donaghy

Middle East Eye– mercoledì 28 settembre 2016

Per i suoi sostenitori Peres era una colomba della pace, ma per i suoi critici ha giocato un ruolo chiave nella costruzione di uno Stato israeliano che opprime i palestinesi

Shimon Peres, l’ultimo padre fondatore di Israele, è morto mercoledì all’età di 93 anni dopo che le sue condizioni sono rapidamente peggiorate in seguito a un grave ictus due settimane fa.

I leader mondiali hanno riservato elogi a Peres, compreso l’ex presidente americano Bill Clinton, che lo ha descritto come una “colomba della pace” per il suo ruolo negli accordi di Oslo del 1993 – le prime intese tra leader israeliani e palestinesi, che lo hanno portato a vincere il Nobel per la pace collettivo un anno dopo.

Tuttavia gli elogi non sono stati universali, con critiche che hanno sottolineato il suo ruolo nello sviluppo delle prime colonie israeliane e come primo ministro nel 1996, quando le truppe israeliane massacrarono 154 civili libanesi nella cosiddetta “Operazione Grappoli d’ira”.

Il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas, del partito Fatah della Cisgiordania, ha osannato Peres come un “coraggioso”, mentre i suoi rivali di Hamas a Gaza lo hanno definito un “criminale”.

Nato Szymon Perski nel 1923, Peres nel 1934, all’età di 11 anni, si spostò con la sua famiglia dalla terra natale in Polonia verso quello che era allora il Mandato Britannico della Palestina. Dopo essere cresciuto in un kibbutz, Peres si unì al connazionale polacco e in seguito sodale politico David Ben-Gurion, che sarebbe poi diventato il primo premier di Israele.

Peres è stato spesso lodato come uomo che ha dedicato la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi, rifiutando di rinunciare a concludere un accordo fin quando ha iniziato il suoi ultimi dieci anni di vita.

Durante un discorso nel 2014 al memoriale di Yitzhak Rabin – l’ex-primo ministro israeliano che fu assassinato nel 1995 per aver firmato gli accordi di Oslo – Peres incitò il popolo a non rinunciare alla pace.

“La pace è diventata una parola offensiva,” ha detto a migliaia di persone che si erano riunite a Tel Aviv. “Ci sono quelli che dicono che chi crede nella pace è un ingenuo, non è un patriota, un illuso. Ma io dico a voce alta che gli illusi sono quelli che rinunciano alla pace.”

Il tono poetico delle parole di Peres ha spesso guadagnato le prime pagine, valendogli un’immagine di voce della ragione in un conflitto apparentemente irrisolvibile. Tuttavia durante la sua lunga vita di dirigente politico l’eredità di Peres si è costruita attraverso il suo coinvolgimento in decisioni e progetti lontano dai riflettori delle riprese televisive.

Prima della fondazione di Israele a danno della Palestina nel 1948, Peres era un membro dell’Haganah – una milizia ebraica clandestina – e nonostante avesse solo 20 anni venne assegnato al ruolo fondamentale di comprare armamenti e munizioni per la guerra che alla fine portò alle uccisioni in massa e all’espulsione di più di 700.000 palestinesi.

La bomba di Israele

Dopo aver svolto egregiamente il suo ruolo nell’Haganah, nel 1953 fu nominato direttore generale del ministero della Difesa di Israele, dove avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale nello sviluppo di un reattore nucleare segreto nella città di Dimona, nel deserto meridionale del Negev.

Anche se un giorno sarebbe diventato il nono presidente di Israele, così come sarebbe stato per due volte primo ministro, il suo ruolo nello sviluppo delle armi nucleari di Israele, che furono testate per la prima volta negli anni ’60, ha consacrato Israele come una importante potenza militare al di fuori di ogni controllo internazionale.

Più tardi, come ministro della Difesa nel 1975, Peres si incontrò con il governo sudafricano dell’apartheid e offrì di vendergli testate nucleari. Desideroso di mantenere nascoste le proprie attività nucleari, nel 1986 Peres autorizzò la caccia ed il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani della “gola profonda” Mordechai Vanunu [che rivelò al Sunday Times che Israele aveva la bomba atomica e per questo venne rapito a Roma, portato in Israele e condannato per tradimento e spionaggio . Ndtr.], che avrebbe passato 18 anni di prigione.

L’artefice della colonizzazione

Peres potrebbe un giorno essere visto come un patrimonio nazionale non solo in Israele, bensì anche a livello internazionale, ma ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo delle colonie illegali ebraiche israeliane sulla terra della Cisgiordania palestinese, avendo notoriamente adottato lo slogan “Colonie ovunque” quando era ministro della Difesa negli anni ’70.

Il suo ruolo nell’estensione del controllo israeliano sulla terra palestinese sarebbe continuato con gli accordi di Oslo, perché, benché fossero lodati come un passo verso la pace, la divisione della Cisgiordania in tre zone alla fine ha fornito la base per il controllo israeliano sulla maggior parte di quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.

Gli accordi hanno portato alla divisione della Cisgiordania in tre zone -A, B e C – e si riteneva che sarebbero durati cinque anni. Ma queste zone continuano ad essere la base su cui la Cisgiordania è governata, con l’area C – sotto totale controllo israeliano – che costituisce poco più del 60% del totale della Cisgiordania.

Massacro di Qana

Da molti critici Peres sarà anche ricordato per il suo ruolo nel massacro di 154 civili libanesi in un attacco ad un villaggio durante l’operazione militare di Israele del 1996 contro Hezbollah [milizia sciita libanese. Ndtr.] nota come “Operazione Grappoli d’ira”.

Peres era il primo ministro di Israele quando il suo esercito attaccò il villaggio di Qana il 18 aprile 1996, bombardando un edificio delle Nazioni Unite in cui circa 800 civili si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti israeliani

Quando gli fu chiesto dell’attacco contro Qana – che egli difese come un errore – Peres più tardi disse: “Tutto è stato fatto in base ad una chiara logica e in modo responsabile. Ho la coscienza a posto.”

E’ questa narrazione alternativa della vita e dell’eredità di Peres che comporta il fatto che egli non sarà elogiato dai palestinesi a da molti altri.

Reazioni arabe

Mentre i media in lingua inglese insistono con l’immagine di Peres come una colomba della pace, mercoledì i mezzi di informazione arabi hanno presentato un’altra immagine quando hanno informato della sua morte.

Sky News in arabo ha descritto Peres come un “padrino” del programma per la produzione delle armi nucleari di Israele e come il “fondatore delle colonie”. Al Jazeera in arabo lo ha etichettato come un “assassino di massa” che è stato “incoronato con il Premio Nobel”.

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese – che Peres ha contribuito a creare – è stata più elogiativa a proposito del defunto leader israeliano: un importante consigliere del presidente Mahmoud Abbas lo ha descritto come un “uomo di pace”.

“Il suo decesso è sicuramente una grande perdita per l’umanità e per la regione,” ha detto al Jerusalem Post [giornale israeliano in lingua inglese. Ndtr.] Majdi al-Kahlidi, consigliere diplomatico di Abbas.

Tuttavia Awni Almashni, membro di Fatah, il partito di Abbas, ha detto a MEE che Peres era “un nemico del popolo palestinese.”

“Peres credeva nella pace, ma nel senso israeliano, che concede a Israele il potere e il controllo sulla terra,” ha affermato. “Non lo vediamo come un pacificatore.”

Il movimento Hamas di Gaza, fiero rivale di Abbas, ha descritto Peres come un “criminale” della cui morte è “molto contento”.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha detto all’Associated Press [agenzia di stampa statunitense. Ndtr]: “Shimon Peres è stato l’ultima personalità importante israeliana rimasta ad aver dato vita all’occupazione, e la sua morte rappresenta la fine di un periodo nella storia di questa occupazione e l’inizio di una nuova fase di indebolimento.”

Il funerale di Peres avrà luogo venerdì nel cimitero nazionale israeliano sul monte Herzl a Gerusalemme, a cui si pensa parteciperanno dirigenti politici da tutto il mondo.

Ma uno che non ci sarà è il politico israeliano-palestinese Basil Ghattas, che ha provocato scandalo in Israele quando ha reagito all’ictus di Peres del 14 settembre scrivendo su Facebook che non sarebbe “corso a partecipare” a un ” festival di dolore e di lutto”.

“Peres era uno dei più poderosi pilastri dell’impresa del colonialismo d’insediamento sionista,” ha scritto il deputato della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. “Uno dei più spietati, estremisti e dannosi per la nazione palestinese.”

“Peres è coperto dalla testa ai piedi del nostro sangue.”

Contattato mercoledì da MEE, Ghattas ha detto che non avrebbe potuto aggiungere niente a quello che aveva già detto su Facebook.

Diana Buttu, una ex-negoziatrice palestinese, ha detto a MEE che il torrente di elogi per Peres ignora la sua reale vita – e che le sue azioni rappresentano crimini di guerra.

“Non è abbastanza chiamare Peres un criminale di guerra perché gliela farebbe passare liscia – egli va oltre,” ha affermato. “Peres ha messo in atto tutta una serie di crimini di guerra da parte di Israele avvenuti senza che ne dovesse rispondere.”

“Quello per cui Peres dovrebbe essere ricordato non è solo il fatto di essere un criminale di guerra ma di aver svuotato di ogni significato la parola ‘pace’. Pace ora può significare pulizia etnica, appoggio all’espansione delle colonie, il bombardamento di un edificio dell’ONU e il possesso di un arsenale nucleare senza essere oggetto di alcuna ispezione internazionale.”

“Pace può significare contravvenire alle leggi internazionali – è per questo che Peres dovrebbe essere ricordato.”

La palestinese Nabila Espanioly, un’attivista femminista del partito Hadash, ha detto a MEE che Peres era “innanzitutto un leader sionista.”

“La sua eredità è rappresentata da massacri e discriminazione,” ha affermato. “Ha fatto un passo verso la pace ma non ha cambiato niente in concreto, tranne la confisca di sempre più terra palestinese.”

“Fino ai suoi ultimi giorni Peres ha affermato il suo impegno per la pace, ma ha sempre avuto chiaro in mente che il popolo ebraico era la sua priorità in ogni possibile accordo.”

Nel 2014 ha detto: “La principale priorità è preservare Israele come Stato ebraico. Questo è il nostro principale obiettivo, per il quale stiamo lottando.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mahmoud Abbas governa temendo la democrazia

Omar Karmi The Electronic Intifada22 settembre 2016

Comunque le si veda, le elezioni municipali per la Cisgiordania occupata e Gaza in programma in ottobre sarebbero state di fatto un referendum sulla leadership di Mahmoud Abbas e, in modo molto minore, su Hamas.

Forse per questo sono state annullate.

Sicuramente questa è stata l’impressione data dai partiti rivali, Fatah e Hamas, una volta che l’Alta corte di giustizia palestinese di Ramallah ha stabilito che le elezioni non si potevano tenere a causa di “ostacoli procedurali” a Gaza e con Israele che impedisce di votare a Gerusalemme est.

Usama al-Qawasmi di Fatah ha accusato Hamas di aver deliberatamente sabotato il voto con “organi giurisdizionali privati” per impedire ai candidati di Fatah di presentarsi a Gaza. Sami Abu Zuhri, un rappresentante di Hamas, ha denunciato una decisione “politicamente motivata”della corte destinata a “venire in aiuto di Fatah”.

Ovviamente l’Alta corte sostiene strenuamente la propria indipendenza e rigetta la convinzione che le pressioni politiche abbiano influito sulla decisione. Tuttavia la corte non può essere seriamente vista come apolitica, dato che i suoi giudici sono stati nominati dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, una carica che Abbas ha ricoperto dal 2005.

Oltretutto il ragionamento della corte secondo cui le elezioni non si possono svolgere se non si tengono a Gerusalemme est non aveva impedito la realizzazione delle elezioni municipali nel 2012.

Dunque almeno qualche considerazione politica probabilmente ha influenzato la sentenza.

Quindi cos’è successo?

Le elezioni sono state annunciate in giugno e, inizialmente, sembravano destinate ad essere una riedizione delle elezioni municipali del 2012, che Hamas aveva boicottato. Il voto nel 2012 era limitato alla Cisgiordania – esclusa Gerusalemme est.

Ma in luglio Hamas ha annunciato che questa volta avrebbe invece partecipato. Dal momento in cui Hamas ha deciso di prendervi parte era chiaro che queste elezioni avrebbero riguardato molto più che l’erogazione di servizi locali.

Il voto avrebbe dovuto essere la prima contesa elettorale diretta in 10 anni, salvo che nelle università, tra Fatah, al potere nelle principali città della Cisgiordania, e Hamas, che governa all’interno di Gaza. Hamas aveva vinto la precedente tornata elettorale, le elezioni del 2006 per il Consiglio Legislativo palestinese.

Se le elezioni di quest’anno si fossero tenute, gli elettori avrebbero avuto la possibilità di esprimere il proprio parere sui risultati di entrambi i partiti. E in questo quasi- referendum, Abbas, che guida Fatah, un movimento diviso e scontento, avrebbe avuto molto più da perdere che Hamas, che ha il pieno controllo di Gaza.

Una sicura vittoria per Hamas?

Hamas ha giocato le sue carte con prudenza, annunciando che non avrebbe partecipato con proprie liste in Cisgiordania, ma avrebbe comunque appoggiato suoi iscritti o simpatizzanti indipendenti. Se ne sarebbe potuto ricavare scarse indicazioni. Un buon risultato avrebbe suggerito che se la fazione avesse presentato una lista di partito ciò avrebbe dato un risultato anche migliore.

Secondo Diana Buttu, un’ ex-consulente legale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, sarebbe stata una vittoria sicura per Hamas. Sostiene che i timori riguardo i risultati di elezioni locali erano anche un segno che le divisioni interne di Fatah sono al momento una delle principali preoccupazioni di Abbas.

“Abbas teme la frammentazione di Fatah ed è ossessionato dalla possibilità di aprire la porta a una sfida alla sua leadership da parte di (Mohammed) Dahlan,” sostiene Buttu, riferendosi all’allora capo di Fatah a Gaza che era stato espulso dalla Striscia dopo che nel 2007 membri di Fatah vi tentarono un fallito colpo di stato sostenuto dagli USA contro Hamas.

Dahlan, che gode dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti e di altri Paesi della regione, è spesso citato come il principale rivale di Abbas e possibile successore, nonostante non viva nei Territori palestinesi da quando è stato espulso da Fatah nel 2011 e la sua base elettorale interna sia principalmente a Gaza.

Ad accentuare tali problemi, dal 2009 c’è stato uno scarso ricambio tra i ranghi di Fatah e nessuna elezione per l’organo dirigente della fazione, il comitato centrale.

“Ogni dirigente locale ambizioso di Fatah si è trovato la strada bloccata,” afferma Buttu. ” L’unica possibilità di fare carriera era presentarsi come indipendenti.”

Tuttavia ciò ha minacciato di replicare le elezioni del 2006, quando una fazione dissidente, al-Mustaqbal (“Il futuro” in arabo), guidata da Marwan Barghouti, in prigione ma molto popolare, e che includeva molti membri importanti di Fatah, si era iscritta per partecipare come lista separata.

Era stato trovato un compromesso all’ultimo momento, ma le divisioni all’interno di Fatah erano tutte molto evidenti e hanno giocato un ruolo in quello che è diventato un vantaggio per Hamas.

Stavolta il vantaggio di abbandonare la nave ammiraglia è arrivato in fretta. Il comitato centrale di Fatah aveva avvertito già prima dell’iscrizione finale all’inizio di settembre di quest’anno che chiunque avesse corso come indipendente sarebbe stato espulso dalle liste del partito.

E un giorno dopo che l’Alta corte ha annullato le elezioni, Abbas ha immediatamente espulso due membri di Fatah ad Hebron, l’ex assessore della giunta comunale Khalid Fahd al-Qawasmi e il vice sindaco del Comune di Hebron, Jawdi Abu Sneineh, che si erano proposti come indipendenti.

Leadership vacillante

Questi non sono stati gli unici espulsi. D’altronde, lo scorso anno, Abbas ha rimosso dalle loro cariche molti funzionari, in Fatah, nell’OLP -di cui è anche presidente – o nelle istituzioni dell’ANP.

Ad agosto sono filtrate notizie che Abbas aveva espulso molti membri del comitato centrale. Ciò era stato preceduto dall’espulsione in aprile del governatore di Nablus Akram Rajoub.

E lo scorso anno ha estromesso Yasser Abed Rabbo dalla sua posizione di numero due dell’OLP.

Tale svolta sempre più autocratica è arrivata insieme a sondaggi che mostravano ripetutamente che Abbas era meno popolare del suo avversario di Hamas, Ismail Haniyeh.

L’ultimo di questi sondaggi – realizzato in giugno dal Centro Palestinese di Politica e Ricerca – indicava che Abbas avrebbe perso in un ballottaggio diretto con Haniyeh, che ha la sua base a Gaza.

Tuttavia il distacco tra i due uomini si è ridotto lievemente se confrontato con un sondaggio realizzato tre mesi prima. In una competizione tra i due personaggi, il 48% di chi ha risposto ha detto che avrebbe votato per Haniyeh rispetto al 52% nella precedente inchiesta. Circa il 43% ha affermato che avrebbe votato per Abbas, in aumento rispetto al 41% di pochi mesi prima.

Circa due terzi del campione nel sondaggio di giugno voleva che Abbas desse le dimissioni, mentre la maggioranza considerava l’Autorità Nazionale Palestinese “un peso per il popolo palestinese.” Un totale dell’80% pensava che le istituzioni dell’ANP fossero corrotte.

Ma il sondaggio di giugno ha anche scoperto che Fatah era leggermente avanti rispetto ad Hamas, e che se Marwan Barghouti fosse stato il leader, Fatah avrebbe vinto un’elezione presidenziale.

Tuttavia Barghouti rimane in una prigione israeliana. Un anziano Abbas è ancora al potere, aggrappato ad una strategia – se questo è il termine appropriato – di “negoziati, negoziati, negoziati”.

Questi negoziati non hanno fatto niente per porre fine alla costruzione ed espansione delle colonie israeliane e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi.

E Hamas? Le elezioni sarebbero state la prima volta dal 2006 che il movimento islamico avrebbe potuto misurarsi contro Fatah.

Il periodo in cui Hamas ha governato la Striscia di Gaza assediata è stato sfortunato, con tre gravi attacchi militari israeliani, migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e senza casa, uno dei più alti livelli di disoccupazione al mondo e un allarme dell’ONU che la Striscia costiera potrebbe diventare inabitabile entro il 2020.

Tuttavia il movimento è ancora in grado di presentare un fronte coeso, una cosa che Fatah non ha saputo fare dalle elezioni del 2006. Hamas ha anche una dimensione regionale per la sua affiliazione alla più ampia “Fratellanza musulmana”, benché osteggiata.

Fatah è diventata un insieme di singole personalità. E Abbas sembra essere sempre più timoroso che le elezioni possano mettere in evidenza questa situazione.

Imbarazzanti domande potrebbero anche essere fatte sulla sua legittimità a governare – sono passati 11 anni da quando è stato eletto presidente. Il suo mandato è terminato nel 2009.

Le elezioni municipali di ottobre avrebbero potuto essere un primo passo per tornare alla “piscina democratica”. Alcune figure di alto livello nell’apparato dell’ANP hanno deciso di non avvicinarsi a questa “piscina” – forse perché hanno temuto di annegare.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington del quotidiano “The National”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I social media e la terza intifada: la scomoda verità

Maanews 15 aprile 2016

di Albana Dwonch

Albana Dwonch è una candidata al dottorato di ricerca presso l’Università di Washington, attualmente ricercatrice a Gerusalemme.

Sei mesi dopo il suo inizio, sono state poste più domande che fornite risposte relativamente alla violenta rivolta dei giovani nei territori palestinesi occupati.

E’o non è una terza intifada?” è stata la questione più dibattuta da molti media ed analisi. La seconda, “I social media vi hanno contribuito?”, ha provocato un analogo disorientamento sul loro ruolo nell’ultima rivolta dei giovani.

La confusione è stata soprattutto evidente nella difficoltà dei media nel definire questi nuovi soggetti senza leadership e le loro inconsuete modalità di mobilitazione. I giornalisti hanno dovuto modificare la propria terminologia e creare nuove espressioni, come “lupo solitario” e “ istigatore informatico”.

Anche questi termini erano comunque problematici. “Lupi solitari” – gli utilizzatori degli strumenti più arcaici della strada – erano difficili da distinguersi dagli “istigatori informatici” – utilizzatori delle tecnologie dei social, che producevano, postavano e diffondevano video di eventi attraverso le loro reti.

Nonostante la difficoltà di definire e spiegare questi nuovi soggetti ed i loro metodi organizzativi decentrati, la conclusione finale è che i social media sono stati un vettore per la diffusione della violenza e per la radicalizzazione della gioventù palestinese negli ultimi sei mesi.

Comunque questa conclusione non tiene conto di uno sviluppo più profondo e persistente. Al di là del ruolo specifico dei social media in questa rivolta giovanile, le più vaste implicazioni del drastico cambiamento dell’ambito sociale e mediatico stanno incominciando a modificare i sistemi politici palestinese ed israeliano e le loro basi di potere interne ed internazionali.

L’uso dei social media ha evidenziato che, mentre l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndt.) ed Israele possono ancora essere in grado di contenere i disordini, di certo l’ANP non può controllare il coinvolgimento dei giovani in essi, né può Israele fermarlo definitivamente.

Perché sono arrabbiati ma senza guida?

Il grado di influenza dei social media sulla dinamica delle violenze in questa rivolta dei giovani è strettamente correlato alla più vasta implicazione del palesamento della crisi di legittimità delle strutture politiche palestinesi.

La scelta dei giovani di non avere leadership e di mobilitarsi in modo decentrato rivela un profondo distacco e perdita di fiducia nei loro partiti e leaders.

L’accusa che la diffusione virale di video violenti attraverso i social media ha amplificato la rabbia ed incitato ad ulteriore violenza è stata ora superata da un altro involontario effetto mediatico di quest’ultimo ciclo di violenza.

Il video del 24 marzo prodotto da un attivista dei diritti dei cittadini ad Hebron ha rivelato il sottile confine tra “istigare” e “mostrare” la violenza.

L’immagine di un soldato israeliano che uccide un palestinese già ferito steso a terra ha rivelato al vasto pubblico il lato meno conosciuto della stessa brutta storia: l’eccessivo uso da parte di Israele della violenza di stato nei territori palestinesi occupati.

Analogamente al sottile confine tra “lupo solitario” e “istigatore informatico”, i video che mostrano “gli attacchi palestinesi col coltello” vengono ora affiancati ai video che mostrano le esecuzioni extragiudiziali israeliane.

L’esposizione della violenza di stato come involontario effetto di attrazione di “lupi solitari” ha portato ad un altro problema: la maggiore sorveglianza e censura per individuare gli “istigatori informatici”.

Israele, con la sua potente infrastruttura informatica e tassi di diffusione di internet tra i più alti al mondo, da ottobre 2015 ha aumentato il controllo su internet ed ha arrestato centinaia di giovani palestinesi per “istigazione online” sulle loro pagine Facebook.

Inoltre il governo israeliano ha chiuso organi di stampa palestinesi in Cisgiordania e determinate Ong israeliane che pubblicizzano video e materiali per la difesa dei diritti umani dei palestinesi sono attualmente sotto indagine dello stato, che le considera sospette di essere agenti stranieri.

Gli apparati di potere reagiscono

La cooptazione di soggetti non statali, un’accresciuta sorveglianza e l’uso eccessivo della forza militare sono la consueta risposta dello stato a queste proteste dei giovani.

Di fatto, con la sua reazione a questi disordini, il governo israeliano agisce in modo perfettamente simile a quello con cui l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno represso e poi schiacciato il movimento giovanile non violento del 15 marzo 2011.

Ispirato alle immagini indimenticabili della primavera araba, il movimento del 15 marzo era iniziato su Facebook sottoforma di un infiammato manifesto, che ha innescato una risposta emotiva in una vasta area di giovani che condividevano le stesse frustrazioni ed hanno occupato le piazze in Cisgiordania e a Gaza.

Queste proteste si rivolgevano contro la divisione tra le fazioni palestinesi ed altre strutture di potere. Poco dopo, le autorità palestinesi hanno significativamente aumentato il controllo su internet, hanno chiuso o cooptato le Ong locali, hanno sciolto i gruppi giovanili online ed hanno incarcerato e minacciato i giovani leaders carismatici.

Quindi, mentre la caccia da parte di Israele ai lupi solitari e agli istigatori informatici è lungi dall’essere finita, si sta sviluppando qualcosa di molto più importante: se da un lato la risposta dello stato alle proteste dei giovani sta diventando relativamente facile da prevedere, dall’altro lato la prossima ondata di protesta giovanile e ciò che comporterà è estremamente imprevedibile.

Abbiamo assistito almeno due volte in questo decennio a proteste diffuse attraverso i social media che hanno cercato di colpire le strutture di potere palestinesi ed israeliane. Entrambe sono state accese da un sentimento di rabbia largamente condiviso ed entrambe hanno sorpreso il sistema al potere. Entrambe sono state momentaneamente arginate.

Però, individuando i social media come la causa del fallimento di questo tipo di mobilitazioni o del loro divenire violente, si svia l’attenzione dal comprendere l’evolversi delle condizioni che permettono la trasformazione del sentimento emotivo di speranza o disperazione nel prossimo movimento per il cambiamento contro i poteri in carica.

Questa comprensione potrebbe drasticamente modificare i rapporti di potere nel conflitto israelo-palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pensa alla Striscia di Gaza la prossima volta che bevi acqua del rubinetto.

Il modo più facile, rapido e logico di prevenire un disastro umanitario ed ecologico sarebbe fornire acqua molto più a buon mercato da Israele nella Striscia.

di Amira Hass- 22 marzo 2016

Haaretz

Oggi, quando apri il tuo rubinetto, pensa alla Striscia di Gaza, dove centinaia di migliaia di bambini e ragazzi non sono abituati ad una cosa magnifica come bere acqua del rubinetto. Gli adulti hanno ormai scordato com’è facile dargli un giro, vedere l’acqua scorrere e sentire il suono che si riduce mano a mano che il bicchiere si riempie.

Ora devono andare giù in strada, aspettare che arrivi un camion con una cisterna di acqua potabilizzata, riempire qualche bottiglione e portarlo in casa, sperando che ci sia l’elettricità e che l’ascensore stia funzionando. Ogni metro cubo di acqua desalinizzata costa da 25 a 30 shekel (da 5,8 a 6,9 €), rispetto a 1 o 3 shekel (0,23 o 0,7 centesimi di €) del servizio idrico.

Oggi, quando ti lavi la faccia, pensa all’acqua che esce dai rubinetti di Gaza. E’ oleosa e ti lascia una patina salmastra. I vestiti lavati sembrano rigidi a causa del fatto che l’acqua è mescolata con quella di mare, con liquami e pesticidi.

A Gaza il 95% circa dell’acqua del rubinetto non è potabile. Questa è la ragione per cui c’è una notevole dipendenza delle 145 infrastrutture pubbliche e private dall’acqua desalinizzata e potabilizzata. Ora il gruppo di “Emergenza per la Purificazione dell’acqua e per l’igiene” (EWASH), un consorzio di organizzazioni locali ed internazionali che affronta i problemi dell’acqua e dell’igienizzazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sta avvertendo che circa il 68% di quest’acqua purificata è esposta a contaminazioni biologiche.

Circa 200 milioni di metri cubi sono estratti ogni anno dalle falde acquifere di Gaza, che sono rinnovate solo con 55-60 milioni di metri cubi, la stessa quantità di 80 anni fa, quando ci vivevano solo 80.000 persone, rispetto alle attuali 1 milione 800 mila. Israele vende solo una quantità minima di acqua a Gaza, tra i 5 e gli 8 milioni di metri cubi all’anno. Le Nazioni Unite hanno avvertito che nel 2020 il danno alle falde acquifere sarà irreversibile.

Il modo più facile, rapido e logico per bloccare questo disastro umanitario ed ecologico sarebbe pompare acqua molto più economica da Israele alla Striscia. La nazione dell’ high-tech e dell’irrigazione a goccia può sicuramente organizzare tutto ciò.

Ma l’Autorità Nazionale Palestinese e i Paesi donatori stanno progettando grandi impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare, la cui produzione è stata rimandata a causa delle restrizioni imposte da Israele all’introduzione di materiali e della irregolare fornitura di elettricità. L’ANP spiega il proprio impegno per questa soluzione costosa e anti-ecologica con il suo desiderio di minimizzare la dipendenza nei confronti di Israele. Però non si fa nessun problema a comprare più acqua da Israele per la Cisgiordania, 50 milioni di metri cubi all’anno, il doppio di quanto prevedessero gli accordi di Oslo.

Dunque le ragioni della sua opposizione risiedono altrove. Teme che il governo di Hamas non si preoccuperebbe di pagare le bollette dell’acqua, come è successo con quelle dell’elettricità. Israele dedurrebbe dunque quanto dovuto direttamente dai diritti doganali che riscuote per l’ANP e trasferisce a Ramallah [sede dell’ANP. Ndtr]. Ancora una volta il popolo palestinese è intrappolato nella faida tra Fatah e Hamas.

Ma il problema è iniziato molto prima che a Gaza si instaurasse il regime di Hamas. Gli accordi di Oslo hanno definito Gaza come autosufficiente per quanto riguarda la produzione ed il consumo di acqua. Si tratta di una delle più chiare prove possibili che fin da allora Israele aveva intenzione di separare Gaza dalla Cisgiordania, a differenza di quanto c’era scritto [negli accordi]. Lo stesso accordo ha imposto una distribuzione vergognosamente discriminatoria dell’acqua dalle sorgenti montane della Cisgiordania, con l’80% destinato agli israeliani (all’interno di Israele e nelle colonie) e il 20% per i palestinesi. L’attuale proporzione da allora è solo peggiorata, perché i pozzi palestinesi sono vecchi e le nuove perforazioni permesse da Israele si sono dimostrate meno fruttuose del previsto.

Il grandioso progetto di desalinizzazione dell’acqua marina a Gaza nasconde il peccato originale ecologico e politico: trattare Gaza come un’isola separata dal resto del Paese.

Molti residenti di Gaza e consumatori di acqua che non hanno sono originari di città e villaggi che sono oggi in territorio israeliano. A livello simbolico, ottenere il diritto all’acqua prodotta dagli israeliani è quasi come un riconoscimento del diritto al ritorno. A livello politico, può e ci deve essere un notevole incremento nella quantità di acqua fornita da Israele in compensazione dell’acqua che Israele ha rubato e continua a rubare ai palestinesi. Sarebbe un riconoscimento del nostro dovere di condividere equamente le sorgenti d’acqua tra arabi ed ebrei, un principio che non siamo pronti ad accettare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gli insegnanti danno lezione di democrazia e di cooperazione ai palestinesi

L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta ancora di trattare con i rappresentanti eletti degli insegnanti mentre 700.000 studenti stanno perdendo le lezioni.

di Amira Hass

Haaretz

6 marzo , 2016

Hasib, di Ramallah, è stato insegnante per 27 anni. Il suo stipendio base è di 2.400 shekel [560.19 euro, ndt] che, insieme agli scatti di anzianità, arriva a 3.600 shekel al mese [837.35 euro, ndt].

Il suo fratello più giovane, che lavora nelle forze di sicurezza preventiva palestinesi, è pagato 4.700 shekel al mese [1.095 euro, ndt]. Diversamente da Hasib non possiede una laurea. Hasib, come altre migliaia di insegnanti, sfidando un divieto ufficiale, ha un secondo impiego, e lavora ogni pomeriggio in un ufficio. Altri insegnanti integrano il loro stipendio lavorando in panetterie, vendendo falafel o come tassisti.

La protesta dei docenti palestinesi la settimana scorsa ha raggiunto la quarta settimana [di lotta] e la domanda di una rappresentanza democratica sta diventando sempre più forte. L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta di trattare con i delegati eletti dagli insegnanti. Circa 700.000 studenti, dei quali 87.000 si stanno preparando agli esami, sono le principali vittime dello sciopero.

Alla fine della settimana scorsa, il comitato che rappresenta gli insegnanti in sciopero ha accettato una soluzione proposta da una commissione unitaria dei vari gruppi parlamentari e da varie ONG. Secondo questa proposta, gli insegnanti dovrebbero riprendere immediatamente il lavoro, mentre il governo entro tre mesi pagherà gli arretrati e aumenterà lo stipendio base del 70% nell’arco di tre anni.

Finora l’ANP ha insistito che gli insegnanti riprendano il lavoro prima di discutere le loro rivendicazioni. Tuttavia gli insegnanti sono stanchi delle promesse del governo, delle dilazioni, delle scuse e non si sono fatti scoraggiare neppure dalle numerose morti palestinesi provocate dalle forze israeliane, dagli arresti e dalle incursioni militari nei paesi e nei villaggi.

Gli insegnanti chiedono un aumento del loro stipendio base, degli scatti di anzianità e una [possibilità di] carriera come per gli altri lavoratori del pubblico impiego, oltre che uguale trattamento per le donne ed elezioni democratiche nel sindacato degli insegnanti.

Alcuni dicono che l’annuncio di alcuni mesi fa secondo cui il governo aveva promosso 180 alti funzionari civili e aumentato gli stipendi delle scorte dei palestinesi importanti di 400-600 shekel [100-120 euro circa, ndt]] ha scatenato la nuova protesta.

A giudicare dalla reazione dell’ANP fino ad ora, sembra che lo sciopero minacci le regole del suo sistema di governo. L’assemblea legislativa è paralizzata dal 2007 e non esiste nessun controllo dell’operato dell’ esecutivo. Fatah domina in tutte le istituzioni governative (compresi i sindacati); nonostante lo sgretolamento del suo movimento, un solo uomo prende le decisioni e stabilisce la linea politica: il presidente Mahmoud Abbas.

Lo sciopero ha prodotto fermenti di democratizzazione e di collaborazione tra i gruppi politici e della società civile di opposizione e ha rinnovato la critica dell’opinione pubblica sul bilancio [dell’ANP] e sulle eccessive dimensioni delle forze di sicurezza.

Il ministro dell’Educazione Sabri Saidam ha detto questa settimana che circa il 70% degli insegnanti è tornato al lavoro. I rappresentanti degli insegnanti negano che sia vero, affermando che la maggior parte degli insegnanti sta ancora scioperando. Un sondaggio reso noto giovedì scorso evidenzia che la maggioranza dell’opinione pubblica (l’84%) pensa che lo sciopero sia giustificato.

La scorsa settimana circolavano molte voci sulle intenzioni delle forze di sicurezza di stroncare la protesta e le manifestazioni degli insegnanti. Finora la polizia palestinese non è riuscita a prevenire le manifestazioni degli insegnanti nelle varie città della Cisgiordania, neppure [quelle] non autorizzate. La gente è troppo favorevole agli insegnanti per provarci ed impedire la protesta. Tuttavia, nel campo profughi di Balata vicino a Nablus è stato recapitato un minaccioso messaggio agli insegnanti. Un gruppo di uomini mascherati che si sono autodefiniti “Shuhada al-Aqsa” e “i falchi di Fatah” hanno tenuto una conferenza stampa martedì. Hanno parlato “ di un complotto ordito dai nemici del popolo palestinese” e hanno avvertito che, come in passato hanno colpito i traditori e i collaborazionisti, attaccheranno chiunque voglia danneggiare Abbas e l’ANP. Il collegamento tra i “traditori” e gli scioperanti era evidente.

Si pensa che dietro questo minaccioso comunicato ci siano i funzionari del sistema di sicurezza, molti dei quali s’identificano con il dispotismo di Abbas

Tuttavia molti esponenti di Fatah appoggiano gli scioperanti. Due, che hanno osato manifestare apertamente il loro appoggio, sono stati convocati per essere interrogati dalla polizia. Bassam Zakarneh, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, che è stato anche presidente del sindacato dei dipendenti pubblici fino al suo scioglimento, è entrato “in clandestinità” dopo che le forze di sicurezza lo hanno cercato a casa sua. E Najat Abu Baker, un’esponente di Fatah all’Assemblea legislativa, è stata convocata due settimane fa dall’ufficio del Procuratore Generale per essere interrogata dopo che in un’intervista televisiva ha affermato di avere delle prove di [episodi di] corruzione.

Ha sostenuto che un ministro ha preteso soldi dalle persone che attingevano l’acqua da un pozzo ristrutturato. “L’acqua è una risorsa nazionale” ha detto alla stampa. Il ministro ha detto che il pozzo è situato su un terreno privato della sua famiglia e l’ha accusata di diffamazione. Lei è convinta che la convocazione sia una violazione della sua immunità parlamentare. “Con la paralisi dell’assemblea legislativa non abbiamo altra scelta se non rivolgerci ai media” ha detto.

Invece di andare all’ufficio del Procuratore Generale, si è insediata nella sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah ed è rimasta [lì] per quasi due settimane. Una fiumana di persone è andata a solidarizzare con lei e tutte le fazioni, compresa Hamas, hanno manifestato nel cortile in sua difesa.

Abu Baker e altri sono convinti che l’ordinanza per interrogarla e arrestarla dipenda da due ragioni complementari, una il sostegno agli insegnanti l’altra il fatto di essere stata fotografata al Cairo alcuni mesi fa insieme a Mohammed Dahlan, l’ex leader di Fatah a Gaza caduto in disgrazia presso Abbas.

Lo scorso martedì, Hasib era tra le centinaia di insegnanti che protestavano vicino all’edificio dove Abu Baker è barricata. Ingenti forze anti sommossa sono state schierate su entrambi i lati di via Khalil al-Wazir, impedendo agli insegnanti di avvicinarsi al Ministero dell’Educazione o alla via degli uffici governativi. Così i dimostranti hanno marciato verso piazza Manara nel centro di Ramallah. Anziani e giovani, donne e uomini, religiosi e laici, esponenti di sinistra e conservatori, militanti di Fatah e di Hamas hanno marciato insieme rappresentando tutto lo spettro della società palestinese.

Gli studenti delle scuole superiori si sono uniti al corteo cantando il motivo di Piazza Tahrir, “Alzate la testa, siete insegnanti”.

Analoghe proteste, organizzate dal movimento Unitario degli Insegnanti, un comitato provvisorio di coordinamento degli insegnanti in sciopero, sono avvenute contemporaneamente in altre città della Cisgiordania.

Il comitato è stato eletto recentemente da tutti gli insegnanti dopo che la loro dirigenza ufficiale, affiliata all’OLP, cioé il sindacato generale degli insegnanti, si è dimessa in seguito alle critiche da parte degli insegnanti all’accordo firmato con il ministro dell’educazione.

Finora il governo si è rifiutato di incontrare i rappresentanti eletti, insistendo che il sindacato degli insegnanti è il loro legittimo rappresentante.

Sabato il ministro dell’educazione ha annunciato che gli aumenti di stipendio attesi da lungo tempo saranno gradualmente pagati agli insegnanti, ma solamente a quelli che ritorneranno al lavoro.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Perché è pericoloso confondere Hamas e ISIS

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente e no-profit il cui obiettivo è di informare e approfondire il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo editoriale politico è stato redatto da Belal Shobaki, membro della redazione politica di Al-Shabaka

Di Belal Shobaki

Al-Shabaka e Ma’an News

Mentre i suoi sforzi di mettere in relazione la resistenza palestinese contro l’occupazione militare con il terrorismo globale non sono una novità, Israele ha esteso la sua propaganda verso l’opinione pubblica araba e occidentale.

Così facendo, sta chiaramente tentando di sfruttare l’avversione internazionale nei confronti di movimenti che si sono spostati verso l’estremismo e il terrorismo sostenendo di rappresentare l’Islam. “Hamas è l’ISIS e l’ISIS è Hamas,” ha dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite nel 2014.

Eppure Netanyahu e l’establishment politico israeliano, così come anche tutti quei regimi arabi che estendono lo stesso biasimo su ogni movimento islamista per i propri fini, sanno meglio di chiunque altro che Hamas e Daesh non sono legati tra loro.

Non solo Hamas e Daesh [acronimo dall’arabo Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, denominazione del gruppo fondamentalista prima della proclamazione dello Stato Islamico. Attualmente viene utilizzato da chi nega la legittimità di questa auto-proclamazione. Ndtr.] non sono collegati, essi sono acerrimi nemici, e Daesh ha denunciato Hamas come movimento di apostati. L’analista politico di Al-Shabaka Belal Shobaki analizza le principali caratteristiche per cui Hamas differisce da Daesh, compreso il suo approccio alla giurisprudenza, la posizione riguardo alla natura dello Stato e le relazioni con le altre religioni. Egli sostiene che è particolarmente importante per il movimento nazionale palestinese respingere questi tentativi di confondere Hamas con Daesh e sottolinea i rischi insiti nel non farlo.

Destinato ad un vantaggio politico a breve termine

La confusione tra Hamas e Daesh ignora la realtà dei fatti. Il contesto politico in Palestina è definito dall’occupazione, mentre quello dei Paesi arabi nei quali Daesh è nato sono determinati dall’autoritarismo e dalla repressione e anche da conflitti settari e religiosi, un contesto ideale per l’emergere di un’ideologia radicale motivata da una violenza indiscriminata.

Per Israele, però, il tentativo di legare i due gruppi potrebbe avere successo sia in ambito regionale che internazionale. Molti mezzi di comunicazione arabi non hanno scrupoli nel riferirsi a questa organizzazione terroristica come “Stato Islamico”, benché non lo sia affatto, mentre molti media occidentali accolgono senza esitazione la commistione fatta da Israele tra Hamas e Daesh. I regimi arabi non sono interessati a difendere l’immagine di Hamas. Persino l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) non si occupa di difendere l’immagine internazionale di Hamas a causa dell’avversione politica tra Fatah e Hamas.

Hamas è considerata parte della “Fratellanza musulmana”, che è vista come una minaccia per alcuni Stati arabi autoritari, soprattutto nel Mashreq arabo [termine che, a seconda delle denominazioni, può indicare i Paesi che si trovano dal sud est della Turchia all’Iraq e al nord dell’Arabia saudita, oppure anche l’Egitto, il Sudan e tutta la penisola arabica. Ndtr.]. Perciò per i regimi arabi un modo per lottare contro la “Fratellanza musulmana” è dichiarare che condivide una base comune o persino che sia sinonimo di Daesh, come sostiene il regime egiziano, e quindi utilizzare questa vicinanza come giustificazione per escluderla dalla partecipazione alla vita politica.

I rapidi sviluppi negli ultimi cinque anni in Egitto, il Paese che rappresenta l’unico sbocco per la Striscia di Gaza palestinese, ha spinto Hamas verso l’economia informale dei tunnel. L’atteggiamento ufficiale egiziano dopo il colpo di Stato di Abdel Fattah Sisi contro il governo eletto del presidente Mohammad Morsi è diventato più duro contro la Striscia di Gaza, con l’accusa ad Hamas di collaborare con i gruppi jihadisti nel Sinai, lo stesso discorso sostenuto da Israele e dai suoi media. Tuttavia questa affermazione è scorretta. Da un lato per Hamas è troppo rischioso mantenere uno stretto rapporto con i jihadisti del Sinai, dall’altro a Gaza reprime chi ne accoglie l’ideologia.

Qualunque rapporto Hamas abbia stabilito con questi gruppi è limitato a garantire le necessità dell’enclave assediata da Israele e dall’Egitto. Questa interazione non è motivata da una comune identità ideologica o da un’inimicizia condivisa contro il regime egiziano. Piuttosto, Hamas ha cercato ansiosamente di mantenere aperte linee di comunicazione con il regime egiziano persino quando dai media venivano mosse accuse di legami tra Hamas e i gruppi salafiti jihadisti del Sinai. Hamas ha anche ripetutamente detto di essere desiderosa di ricostruire i rapporti con l’Egitto per garantire il flusso legale di beni, servizi e persone a Gaza.

E’ importante rifiutare questo discorso relativo a uno dei maggiori movimenti politici palestinesi: escludere gli islamisti moderati dalla vita politica presenta il rischio di spingere la società palestinese verso il radicalismo, nel qual caso sia Fatah che Hamas si troverebbero a lottare contro gruppi di takfiri [sunniti che accusano altri sunniti di apostasia. Ndtr.]. La seguente argomentazione dimostrerà le effettive differenze tra Hamas e Daesh, così come l’estremamente concreta ostilità tra loro.

Differenze dottrinarie

Hamas si colloca come un movimento islamico moderato e una derivazione della “Fratellanza musulmana”, con una autorità giurisprudenziale basata sull’interpretazione, mentre Daesh adotta un approccio letterale che affronta i testi islamici isolandoli dal loro contesto storico e rifiuta di ‘interpretarli in base agli sviluppi attuali. Pertanto per Daesh, e per altri gruppi takfiri in generale, movimenti come Hamas sono secolari e non-islamici, in quanto Hamas è principalmente un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana e crede in uno Stato islamico moderato.

Inoltre, Hamas non prende in considerazione i testi in modo letterale, lascia spazio all’ ijtihad – interpretazione ed uso della discrezionalità. Alcuni studiosi hanno rappresentato questi movimenti lungo una linea orizzontale, con la destra che rappresenta i sostenitori della fedeltà al testo e la sinistra che rappresenta i sostenitori dell’interpretazione. Utilizzando questa classificazione, la “Fratellanza musulmana” si può trovare lungo la linea piuttosto verso sinistra, mentre Daesh è all’estrema destra.

Daesh definisce Hamas e il suo discorso come devianti. Da parte sua Hamas ha condannato le minacce di Daesh e le ha considerate come parte di una campagna diffamatoria che si estende oltre la Palestina. Quando queste minacce si sono materializzate, Hamas non ha mancato di condannarle. Mahmoud al-Zahar, un importante leader di Hamas, ha dichiarato: “La minaccia di Daesh si fa sentire sul campo, e stiamo gestendo la situazione dal punto di vista della sicurezza. Chiunque commetta un’offesa alla sicurezza verrà trattato in base alla legge, e con chiunque voglia discutere ideologicamente ci si confronterà ideologicamente; prendiamo questo argomento molto seriamente.”

Infatti Hamas si è confrontato decisamente con un gruppo simile a Daesh. Nell’agosto 2009, Abdul Latif Musa, leader del gruppo armato “Jund Ansar Allah (Sostenitori dei Soldati di Dio)”, ha annunciato nella moschea di Ibn Taymiyyah la creazione dell’Emirato Islamico a Gaza. In precedenza il gruppo era stato accusato della distruzione di bar e di altri luoghi nella Striscia di Gaza, spingendo il governo di Hamas allo scontro. Le forze di sicurezza, appoggiate dalle Brigate Al-Qassam (l’ala militare di Hamas), hanno circondato la moschea di Ibn Taymiyyah e, quando il gruppo di Musa si è rifiutato di arrendersi, Hamas ha posto fine sul nascere al progetto di emirato uccidendo i membri del gruppo.

Hamas è stato criticato per aver usato la violenza, ma ha giustificato le sue azioni sostenendo che la violenza che avrebbe potuto essere perpetrata da simili gruppi sarebbe stata molto peggiore di quella messa in atto per sradicare l’estremismo nella Striscia di Gaza.

I sostenitori di Daesh a Gaza sono molto meno di quelli di Hamas, soprattutto grazie al fatto che questi gruppi non hanno storicamente contribuito alla resistenza contro l’occupazione. Alcuni sondaggi suggeriscono che il 24% dei palestinesi pensa in modo positivo ai movimenti jihadisti, ma questa percentuale è esagerata. Quando qualche palestinese plaude all’ostilità dei gruppi jihadisti nei confronti degli USA, non è perché creda a questi gruppi ma piuttosto perché vede gli USA, con il loro illimitato appoggio ad Israele, giocare un ruolo distruttivo.

Diverse opinioni sullo Stato

Hamas e Daesh differiscono nella loro visione dello Stato moderno, sia in teoria che in pratica. Come già notato, Hamas ha sempre puntato sull’ ijtihad o discrezionalità, sviluppando il proprio pensiero e le proprie opinioni. E’ quindi scorretto giudicare la posizione di Hamas sullo Stato laico e sulla democrazia in base ai primi scritti del movimento da cui è derivato, la “Fratellanza musulmana”. Hamas sostiene di aver accolto a questo proposito nuove concezioni ed è arrivata ad accettare pienamente la democrazia e il concetto di Stato laico.

D’altronde la stessa “Fratellanza musulmana” è cambiata. Lo sceicco Yusuf al-Qaradawi, l’autorità giurisprudenziale della “Fratellanza musulmana” nel suo complesso, che vive in Qatar, ha stabilito in varie occasioni, anche nel suo libro “Lo Stato nell’Islam”, che nell’Islam non esiste il concetto di Stato confessionale.

Secondo al-Qaradawi, l’Islam sostiene uno Stato laico fondato sul rispetto dell’opinione del popolo fondata sull’Islam, ed anche sui principi della responsabilità e del pluralismo politico. Benché la discussione sul rapporto tra Islam e democrazia sia precedente alla “Fratellanza musulmana”, ha acquisito maggiore chiarezza dopo gli anni ’50, quando numerosi pensatori islamici, compresi al-Qaradawi, il leader tunisino co-fondatore di Ennahda Rached Ghannouchi e il filosofo algerino Malek Bennabi, hanno affermato che l’Islam e la democrazia non si escludono a vicenda.

All’estremo opposto, il movimento rappresentato da Daesh rifiuta la democrazia nella sua totalità e la considera un sistema di governo apostata. Benché alcuni gruppi jihadisti non denuncino gli islamici che partecipano al processo democratico come apostati, considerano errata questa scelta. Daesh vede in ogni espressione di democrazia, come le elezioni, una manifestazione di apostasia ed ogni movimento o individuo che vi partecipi come apostati.

Al contrario, la “Fratellanza musulmana” ha partecipato alle elezioni fin dalla sua nascita, quando il suo fondatore Hassan al-Banna decise di competere nelle elezioni parlamentari egiziane che il partito El-Wafd [partito laico e liberale egiziano. ndtr.] al potere cercò di tenere nel 1942. Benché Al-Banna non poté partecipare perché il governo rifiutò la sua candidatura, la “Fratellanza musulmana” è stata presente nei parlamenti arabi e a volte nel potere esecutivo.

Quando Hamas decise di non partecipare alle elezioni del 1996 per l’Autorità Nazionale Palestinese, la sua posizione si centrava su una presa di posizione politica ed ideologica nei confronti degli accordi di Oslo. Tuttavia Hamas permise ai suoi membri di partecipare alle elezioni come indipendenti. Quando le circostanze mutarono e gli accordi del Cairo del 2005 divennero il quadro di riferimento per le elezioni dell’ANP al posto degli accordi di Oslo, Hamas decise di partecipare. Candidò molti membri del movimento e alcuni indipendenti in una lista “Cambiamento e Riforma”, che prese parte alle elezioni per il parlamento, ottenendo la maggioranza dei voti.

Partecipando alle elezioni, Hamas ha dimostrato che intende operare in uno Stato moderno e in un sistema democratico. Ha invocato governi di coalizione che includessero partiti di sinistra e laici. Il suo governo, così come la lista di candidati al parlamento, includeva donne e il suo primo governo comprendeva ministri musulmani e cristiani.

Invece nelle zone sotto il suo controllo Daesh si è scagliato contro ogni istituzione moderna, rifiutandosi di riconoscere i confini o le identità nazionali. Governa in base a decisioni caotiche e soggettive. Benché Daesh sia stato ansioso di utilizzare termini amministrativi derivanti dalla tradizione islamica, come califfato e shura (consultazione), l’essenza del suo modo di governare contraddice sotto molti aspetti la maggioranza dei testi irrefutabili come fonti della legislazione islamica.

Per esempio, non si attiene alle condizioni stabilite nel Corano e nella Sunna (l’insegnamento del profeta Maometto) per dichiarare guerra o per la protezione dei civili e il trattamento riservato ai prigionieri durante un conflitto. Un altro esempio è l’imposizione della jizya (una tassa riscossa ai non-musulmani), che non si ritiene applicabile agli abitanti originari di un territorio anche se non sono musulmani. Inoltre ha attaccato luoghi di culto e ha assalito i fedeli nelle loro case, in chiara violazione del Corano e della Sunna.

In un certo senso Daesh assomiglia a regimi ibridi del Terzo Mondo che usano un vocabolario moderno e democratico per descrivere i propri processi politici, benché rimangano essenzialmente autoritari.

Punti di vista opposti nel modo di trattare l’Altro

La differenza più significativa tra Hamas e Daesh riguarda la loro posizione nei confronti dei fedeli di altre religioni. Durante la sua formazione, Hamas ha pubblicato uno statuto che utilizza un vocabolario religioso per descrivere il conflitto. In seguito a severe critiche, Hamas di fatto messo da parte questo capitolo e non l’ha più considerato un punto di riferimento autorevole, come alcuni dei suoi leader hanno confermato.

Nella sua intervista al giornale ebreo “Forward” [storico giornale ebraico di New York. Ndtr.], il presidente del Comitato centrale di Hamas Moussa Abu Marzouk ha confermato che lo statuto era marginale per il movimento e non una fonte d’ispirazione delle sue politiche. Ha aggiunto che molti membri stavano discutendo di cambiarlo perché una serie di politiche attuali di Hamas lo contraddicevano. I dirigenti della direzione di Hamas all’estero non sono stati gli unici a disconoscere lo statuto. Il leader di Hamas a Gaza Ghazi Hamad è andato anche oltre in un’intervista al giornale saudita “Okaz”, nella quale ha affermato che lo statuto era oggetto di discussione e valutazione per aprirsi al mondo. Sami Abu Zuhri, un giovane dirigente di Hamas che è stato il portavoce del movimento durante la Seconda Intifada, in un’intervista al “Financial Times” ha sollecitato un allontanamento dell’attenzione dallo statuto del 1988 e un giudizio su Hamas formulato in base alle affermazioni dei suoi dirigenti.

Oggi Hamas adotta il versetto del Corano che recita: “Allah non ti allontana da coloro che non lottano contro di te a causa della religione e non ti cacciano dalla tua casa – dall’essere giusto e dall’agire in modo corretto verso di loro. Quindi Allah ama quelli che si comportano bene.” Questo versetto impone correttezza e giustizia quando si affrontano popoli di altre religioni. A differenza di Daesh, Hamas l’ha messo in pratica. Oltre a nominare nel suo governo ministri cristiani, ha celebrato il Natale con i cristiani palestinesi inviando una delegazione ufficiale in visita durante la festa. Invece Daesh ha minacciato le vite di chi celebra il Natale in tutto il mondo.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratta di passi con i quali Hamas cerca di imbellettare il suo governo autoritario.

Tuttavia ci sono poche differenze tra il potere di Hamas e quello di Fatah. Le violazioni dei diritti umani commesse dal governo di Gaza non possono essere un indice della somiglianza tra Hamas e Daesh, ma piuttosto un indicatore di malgoverno. La dirigenza politica di Hamas in qualche occasione ha denunciato queste pratiche, per esempio quelle commesse dal ministero degli Interni sotto la direzione di Fathi Hammad.

Quando alcune persone sono state aggredite da gruppi estremisti a Gaza, Hamas e il governo sono intervenuti per garantire la loro sicurezza e per punire gli aggressori, come nel caso del giornalista britannico Alan Johnston, che Hamas ha liberato dai suoi rapitori radicali, e dell’uccisione dell’attivista della solidarietà italiana Vittorio Arrigoni.

La posizione del movimento riguardo agli sciiti è simile a quella verso i cristiani. In un momento in cui il Medio Oriente sta vivendo una guerra mediatica tra sciiti e sunniti, Hamas si rifiuta di condannare gli sciiti come apostati ed ha mantenuto relazioni politiche con loro. Quando i rapporti con l’Iran hanno cominciato a diventare tesi durante la crisi siriana, il dissenso è stato politico piuttosto che dottrinario. Al contrario Daesh non solo considera apostati gli sciiti, ma anche tutti i gruppi sunniti che sostengono un’altra ideologia, e pensa che debbano essere combattuti.

Persino il trattamento che le due organizzazioni riservano ai nemici è differente. Hamas considera l’occupazione israeliana come il nemico, mentre Daesh ritiene che il nemico siano tutti gli altri. Daesh si è vantato dei suoi numerosi crimini contro l’umanità nel modo in cui ha trattato le vittime di sequestro ed i civili sotto il suo controllo, persino bruciando vivo il pilota giordano Muath al-Kasasbeh. Ha tentato di legittimare la propria condotta disumana distorcendo o mal interpretando i testi religiosi. Hamas ha porto le proprie condoglianze alla famiglia di Muath al-Kasasbeh ed ha condannato le azioni di Daesh. Si metta a confronto la brutalità di Daesh con il trattamento riservato da Hamas al soldato israeliano Gilad Shalit durante la sua prigionia, come ha riportato lo stesso Jerusalem Post [giornale israeliano di destra in lingua inglese vicino al Likud. Ndtr.].

Migliorare le relazioni con Hamas

Sia Hamas che Daesh sono sulla lista delle organizzazioni terroristiche in molti Paesi, compresi gli Stati membri dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Tuttavia la presenza di Hamas in queste liste è chiaramente motivata da ragioni politiche: a differenza di Daesh, Hamas non ha mai preso di mira o chiesto di colpire un’entità diversa dall’occupazione israeliana. Hamas è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche in seguito all’11 settembre 2001, benché non avesse niente a che fare con quell’attacco terroristico. La natura politica della posizione contro Hamas è sottolineata dal fatto che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 17 dicembre 2014 ha emesso una sentenza in cui ha esortato a cancellare Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. La Corte ha sostenuto che l’ordine di inserire Hamas nel 2003 era basato su informazioni dei mezzi di informazione piuttosto che su solide prove.

Inoltre molti esponenti politici europei ed americani, noti per il loro impegno contro le organizzazioni terroristiche in tutto il mondo, si sono incontrati con dirigenti di Hamas in più di un’occasione, compresi parlamentari europei e l’ex presidente degli USA Jimmy Carter, che si è incontrato con Ismail Haniyeh a Gaza nel 2009 e con Khalid Meshaal al Cairo nel 2012.

La conclusione è che il tentativo di Israele di sfruttare un Medio Oriente caotico coinvolgendo Hamas come un gruppo terroristico legato a Daesh è senza fondamento. Hamas è ideologicamente, intellettualmente, dal punto di vista giurisprudenziale e politico diverso da Daesh. I mezzi di comunicazione che adottano la narrazione israeliana offendono la propria professionalità e la propria credibilità.

I movimenti palestinesi non devono permettere che i dissidi con Hamas giustifichino accuse che danneggiano la causa palestinese sul piano internazionale e creano tensioni su quello locale. Hamas deve anche capire che le differenze tra l’organizzazione e Daesh non significano che il suo controllo su Gaza sia privo di abusi e violazioni dei diritti umani, e di conseguenza deve rivedere la propria condotta ed essere più attenta nel suo discorso politico. Dovrebbe superare il doppio discorso, uno per un pubblico locale e un altro per quello internazionale, in quanto ogni parola proferita da un qualunque dirigente di Hamas è diffuso all’esterno come un messaggio di Hamas al resto del mondo.

Quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata da Fatah, e i regimi arabi, soprattutto in Egitto, non si oppongono agli sforzi di mettere in relazione Hamas con Daesh -o, in effetti, occasionalmente contribuiscono a questi sforzi -, ne possono “beneficiare” a breve termine, indebolendo Hamas come oppositore politico. Tuttavia questo fatto comporta il rischio di destabilizzare la società palestinese a medio-lungo termine. L’esclusione degli islamisti moderati potrebbe spingere la società palestinese verso la radicalizzazione, nel qual caso sia Fatah che Hamas si troverebbero a combattere contro gruppi takfiri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(trad. di Amedeo Rossi)




Palestina 2016: uno scenario ottimistico

Ma’an News

di Alaa Tartir

Nel 2015 la Palestina non si trovava in buone condizioni. Secondo la rivista dell’IMEU [“Institute for Middle East Understanding”, Istituto per la comprensione del Medio Oriente, organizzazione no-profit che fornisce ai giornalisti informazioni sulla Palestina ed i palestinesi. Ndtr.], nel 2015 circa 170 palestinesi sono stati uccisi e 15.377 feriti da israeliani; Israele ha distrutto o smantellato 539 case ed altre strutture palestinesi nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate (con più di 11.000 ordini di demolizione pendenti contro strutture palestinesi nell'”Area C” [sotto totale controllo di Israele, in base agli accordi di Oslo. Ndtr.] della Cisgiordania occupata); c’erano 6.800 palestinesi incarcerati da Israele al dicembre 2015 e circa 650.000 coloni ebrei nei territori occupati.

La Palestina andrà meglio nel 2016? C’è una qualche ragione di ottimismo e di speranza tra questi cupi avvenimenti e quanto sta accadendo attualmente? Ritengo di sì, nonostante tutto.

Un rapido colpo d’occhio alle analisi esistenti indica che il 2016 sarà un anno ancora peggiore per i palestinesi. Queste analisi prevedono un incremento della violenza, il possibile collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con conseguenze negative per il popolo palestinese, un’ulteriore frammentazione tra i palestinesi nella corsa alla successione di Abbas, feroci e persino sanguinose dispute all’interno di Fatah, rafforzamento delle divisioni tra Fatah e Hamas, continuazione dell’occupazione militare israeliana e il persistere della mancanza di volontà da parte statunitense ed europea di porre fine all’ingiustizia e all’oppressione.

Per peggiorare ulteriomente le cose, gli osservatori avvertono che il 2016 potrebbe creare un’ “occasione matura” per l’ingresso dell’ISIS in Palestina, soprattutto se un “vuoto nella sicurezza” si venisse a determinare in conseguenza del collasso dell’ANP. Alcune di queste previsioni sono plausibili, ma altre, soprattutto quelle suggerite da diversi apparati di sicurezza locali o internazionali e da istituzioni dei servizi segreti, sono pure speculazioni o predizioni immotivate e senza fondamento. Quelle orientate dai sistemi di sicurezza sono discutibili in quanto danno la priorità alle necessità ed alle fobie della sicurezza israeliana e ignorano i diritti umani fondamentali dei palestinesi e anzi alimentano le tendenze e le trasformazioni autoritarie. Quindi ritengo che, invece di fare un’equivalenza tra il “vuoto nella sicurezza” e l’emergere dell’ISIS o con una situazione di caos, è il momento buono per iniziare ad affrontare la vera domanda per quanto riguarda le questioni di sicurezza: come mettere fine immediata all’occupazione militare israeliana?

Comunque, il problema fondamentale di tutte le summenzionate previsioni dominanti è che ignorano le buone notizie che stanno arrivando dalla Palestina. Ecco un breve elenco di qualche “fonte di speranza e ottimismo” a cui guardare nel 2016.

In primo luogo, e cosa più importante, sta emergendo una nuova e diversa generazione palestinese. Questa generazione propone nuove prospettive, nuovi obiettivi e nuovi strumenti. Mentre una parte di questa generazione si sta ribellando nelle strade della Palestina, un’altra parte (benché meno visibile dei giovani che si stanno ribellando) sta elaborando strategie per la lotta e mettendole in pratica, localmente e internazionalmente.

Questa nuova generazione transnazionale sta anche formando la propria dirigenza intellettuale, fondamentale per ogni processo di cambiamento positivo. Nel 2016 potremmo assistere alla rinascita a lungo attesa del pensiero politico palestinese, benché si tratti di un obiettivo ambizioso. Indubbiamente una nuova leadership è in via di formazione ed emergerà da questa generazione, che è capace di affrontare le cause profonde delle sofferenze, delle debolezze e della frammentazione palestinesi. Non si tratta di un esito irraggiungibile né di un obiettivo improbabile.

Questa generazione non è stanca solo dell’occupazione israeliana e delle sue politiche colonialiste, ma anche dell’attuale dirigenza palestinese, illegittima e non rappresentativa. Sono nauseati e stufi dei continui fallimenti e stanno pensando ed agendo per riuscire ad avvicinarsi alla realizzazione dei propri diritti.

Se questa generazione è “invisibile” a molti osservatori e responsabili politici, è necessario cambiare urgentemente punto di vista, semplicemente perché negli ultimi anni una nuova dirigenza palestinese è emersa, ad esempio, in Israele e nella società civile palestinese.

L’unificazione della leadership palestinese in Israele è un’altra fonte di ottimismo, nonostante tutte le avvertenze del caso. Il “colpo” durante le elezioni parlamentari israeliane del 2015 [si riferisce al fatto che la lista unitaria palestinese è diventata la terza forza politica israeliana. Ndtr.] ha trasformato la minaccia rappresentata dall’esistenza dei palestinesi nella politica israeliana in una nuova opportunità politica.

Se utilizzato intelligentemente, l’emergere di un nuovo leader politico come Ayman Odeh [leader del partito di sinistra arabo-israeliano “Hadash” e della “Lista Unitaria” alle elezioni del 2015. Ndtr.] non sarà senza conseguenze per i diritti politici e civili dei palestinesi e per le dinamiche complessive della lotta palestinese.

In effetti, alcuni osservatori hanno sostenuto che “invece di cercare freneticamente di far rivivere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [la storica coalizione di partiti palestinesi che ha condotto la lotta contro Israele sotto la guida di Fatah e di Arafat. Ndtr.] come rappresentante di tutti i palestinesi…i palestinesi dovrebbero semplicemente guardare ad ovest, ai partiti politici palestinesi all’interno di Israele e già rappresentati nella Knesset (Parlamento israeliano, ndt.).” Questa mossa, nonostante i suoi potenziali limiti, potrebbe significare una nuova configurazione e un diverso sistema di presupposti per il “conflitto israelo-palestinese.”

La “nuova” dirigenza della società civile palestinese emersa nell’ultimo decennio è il terzo elemento di ottimismo e di speranze di giustizia nel 2016. Gli inarrestabili successi del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi ne sono l’esempio principale. Il ruolo importante del BDS e i successi che ha ottenuto non sono solo dovuti alla formazione organica della dirigenza del movimento o ai suoi principi ed obbiettivi unificanti e di vasta portata, ma anche alla sensazione di possedere uno degli strumenti della lotta per l’autodeterminazione, all’evidenza storica relativa all’efficacia di un simile mezzo nel garantire la giustizia e il cambiamento e la trasformazione dell’opinione pubblica internazionale in merito al conflitto israelo-palestinese.

Lo sviluppo del movimento di solidarietà internazionale che lavora in accordo con le priorità e le richieste della società civile palestinese è un esempio stimolante della collaborazione internazionale per la realizzazione di diritti universali.

Peraltro i palestinesi hanno molti più mezzi legali per l’ottenimento dei propri diritti di quanti ne abbiano mai avuti in precedenza. L’adozione di un approccio centrato sui diritti in assonanza con le leggi internazionali come parte integrante di una nuova strategia e prospettiva palestinese è fondamentale per qualunque programma politico alternativo.

Benché sia vero che questo programma politico alternativo non esiste in toto, tuttavia non è vero che non esistano nuove, e critiche, opinioni politiche palestinesi. Queste opinioni politiche, regolarmente marginalizzate – soprattutto se sono indipendenti – all’interno del movimento di liberazione nazionale palestinese, sono un elemento centrale nell’ottimistico scenario futuro grazie al loro contributo ai processi di elaborazione e azione politica in patria, in esilio e nelle sedi internazionali.

Queste voci politiche pongono la creatività, la resilienza e le pratiche di resistenza del popolo palestinese come un modo di vivere sotto occupazione, al centro del proprio pensiero ed analisi, una pratica che si è persa da tempo. Questa “scelta metodologica” ha implicazioni dirette sugli esiti a breve e lungo termine, sulla legittimazione della futura dirigenza e sulle sue scelte e decisioni strategiche.

La materializzazione di queste ragioni di speranza e di ottimismo, o di alcune di esse, nel 2016 potrebbe farne un anno diverso da come se lo aspettano le previsioni prevalenti. Tuttavia una domanda rimane senza risposta: c’è una qualche buona notizia che arriva da Israele?

Alaa Tartir è il direttore responsabile di al-Shabaka, la rete palestinese di politica e ricercatore post-dottorato all’Istituto Superiore di Studi Internazionali e per lo Sviluppo di Ginevra.

Quest’articolo è stato pubblicato originariamente su “Huffington Post”.Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: perché lo status quo porterà alla guerra

Ma’an News

di Ramzy Baroud

Non è vero che da quando Hamas ha vinto le elezioni parlamentari nel 2006 nei Territori Palestinesi Occupati ci sono state solo tre guerre. Ce ne sono state altre che sono state giudicate senza importanza o delle “scaramucce”. L’operazione “Eco di ritorno” nel marzo 2012, per esempio, ha ucciso e ferito oltre cento persone. Ma poiché il numero di morti rispetto agli altri attacchi più importanti è sembrato di poco conto, non è stata citata come una “guerra” in senso stretto.

In base a questa logica, le cosiddette operazioni “Piombo fuso” (2008-09), “Pilastro di difesa” (2012) e la più letale di tutte, “Margine protettivo” (2014), sono state abbastanza gravi da essere citate in ogni discussione importante, soprattutto quando si prende in considerazione la prospettiva di una nuova guerra israeliana contro Gaza. E’ importante notare che la maggior parte dei media, più o meno importanti, accolgono le denominazioni israeliane della guerra, non quelle dei palestinesi. Per esempio, i gazawi si riferiscono al loro ultimo scontro con Israele come alla “battaglia di Al-Furqan [nel Corano, la lotta tra il Bene el Male. Ndtr.]”, un termine che non abbiamo praticamente mai sentito nominare in riferimento alla guerra.

Osservare il discorso israeliano sulla guerra come il principale fattore per comprendere la guerra contro la resistenza è più rilevante della questione del linguaggio in altre aree. Le sofferenze a Gaza non sono mai cessate, non a partire dall’ultima guerra, ma da quella precedente o da quella prima ancora. Ma solo quando Israele comincia a riflettere sulla guerra come un’opzione reale, molti di noi ritornano su Gaza per discutere delle varie violente possibilità che si prospettano.

Il problema di ignorare Gaza finché le bombe israeliane iniziano a cadere è parte integrante del modo di pensare collettivo israeliano – del governo come della società. Gideon Levy, uno dei pochissimi giornalisti israeliani sensibili nei giornali più importanti ne ha scritto in un suo recente articolo su Haaretz. “L’ossessione per la paura e l’eterno crogiolarsi nel terrore in Israele ci ricorda improvvisamente l’esistenza del ghetto confinante,” ha scritto in riferimento a Gaza e al suono di tamburi di guerra israeliani. “Solo allora qui ci ricordiamo di Gaza. Quando spara, o almeno scava.. (solo allora) ci viene in mente della sua esistenza. L’Iran è uscito dalle priorità. La Svezia non provoca abbastanza paura [si riferisce alle dichiarazioni della ministra degli Esteri svedese contro le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi. Ndtr.]. Hezbollah è impegnato. Così torniamo a Gaza.”

Di fatto, l’eccessivamente violento passato di Israele a Gaza non dipende dal relativo controllo da parte di Hamas di quel luogo terribilmente povero ed assediato, e neppure, come nell’opinione comune, è legato alla divisione in fazioni dei palestinesi. Sicuramente, la forza di Hamas là non rappresenta certo un incentivo per Israele a lasciar perdere Gaza, e la penosa divisione in fazioni dei palestinesi raramente migliora la situazione. Tuttavia, il problema di Israele riguarda la stessa idea che ci sia là un’entità palestinese che osi sfidare la dominazione di Israele e osi resistere.

Peraltro la tesi secondo cui sia la resistenza armata, in particolare, che fa infuriare particolarmente Israele è errata. La resistenza violenta può accelerare la rappresaglia israeliana e l’intensità della sua aggressione, ma, come stiamo osservando in Cisgiordania, nessuna forma di resistenza è mai stata permessa, non solo ora, non solo da quando l’Autorità Nazionale Palestinese è stata fondamentalmente contrattata per controllare la popolazione palestinese, e sicuramente non [è permessa] da quando è iniziata l’occupazione militare israeliana nel 1967.

Israele vuole avere il monopolio totale della violenza e questo è l’essenziale. Una rapida rassegna della storia di Israele contro la resistenza palestinese in tutte le sue forme è indicativa del fatto che la narrazione di Israele contro Hamas è sempre stata riduttiva, in parte perché è stata politicamente vantaggiosa per Israele, ma anche utile alle dispute interne tra palestinesi.

Fatah, che è stato il più grande partito politico palestinese finché Hamas ha vinto 76 dei 132 seggi del parlamento legislativo alle elezioni dell’inizio del 2006, ha giocato un ruolo fondamentale nella costruzione di questa versione fuorviante, che vede le passate guerre e l’attuale conflitto esclusivamente come una lotta tra Hamas, come avversario politico, e Israele.

Quando sette combattenti di Hamas sono stati recentemente uccisi dopo che è crollato un tunnel – distrutto da Israele durante la guerra del 2014 e che era in corso di ricostruzione – Fatah ha emesso un comunicato su Facebook. Questo comunicato non manifestava solidarietà con i vari movimenti di resistenza che hanno agito in condizioni terribilmente difficili e con un assedio continuo per anni, ma accusava i “mercanti di guerra” – in riferimento ad Hamas – che, secondo Fatah, “non sanno fare altro che ridurre in cenere i loro giovani.”

Ma quale altra possibilità ha realmente la resistenza a Gaza?

Il governo di unità, che era stato concordato sia da Fatah che da Hamas nell’accordo del campo di rifugiati Al- Shati nell’estate del 2014, non ha portato a nessun risultato pratico, lasciando Gaza senza un governo funzionante e con un peggioramento dell’assedio. Questa situazione, per ora, segna il destino di una soluzione politica che coinvolga una dirigenza palestinese unitaria.

La sottomissione a Israele è la peggior soluzione possibile. Se la resistenza a Gaza avesse abbandonato le armi, Israele avrebbe tentato di ricreare lo scenario successivo alla guerra in Libano del 1982, quando ha pacificato i suoi nemici usando una violenza estrema e poi ha affidato ai suoi alleati collaborazionisti la risistemazione del successivo panorama politico. Se qualche palestinese si offrisse di svolgere questo indegno ruolo, la società civile di Gaza probabilmente lo stigmatizzerebbe completamente.

Anche un terzo scenario, in cui Gaza sia libera e le speranze politiche del popolo palestinese siano rispettate, è improbabile che si concretizzi presto, considerando il fatto che Israele non ha nessuna ragione per sottostare a questa opzione, almeno per il momento.

Ciò lascia la guerra come l’unica reale e tragica possibilità. L’analista israeliano Amost Harel, nel suo articolo [su Haaretz. Ndtr.], “Il desiderio di Hamas di incrementare gli attacchi in Cisgiordania potrebbe innescare una nuova guerra a Gaza”, ha messo in evidenza il ragionamento che sta dietro questa logica.

“Finora Israele e le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno avuto successo nel far fallire i piani di Hamas,” ha scritto, riferendosi alle sue affermazioni secondo cui Hamas sta tentando di cooptare la continua rivolta in Cisgiordania.

In uno dei vari scenari che propone, “il primo è che il successo di un attacco di Hamas in Cisgiordania provochi una risposta israeliana contro il gruppo a Gaza, che porterebbe le due parti ad un scontro.”

Nella maggior parte delle analisi israeliane c’è un quasi totale disconoscimento delle ragioni dei palestinesi, a parte una qualche aleatoria inclinazione a commettere atti di ‘terrore’. Naturalmente, la realtà raramente si avvicina all’egocentrica versione dei fatti di Israele, come correttamente è stato sottolineato dallo scrittore israeliano Gideon Levy.

Dopo la sua più recente visita a Gaza Robert Piper, inviato dell’ONU e coordinatore umanitario per i Territori Occupati, ha lasciato la Striscia con una desolante affermazione: solo 859 delle case distrutte nell’ultima guerra sono state ricostruite. Ha condannato il blocco per le sofferenze di Gaza, ma anche la mancanza di comunicazione tra il governo di Ramallah e il movimento di Hamas a Gaza.

“Non ci sono speranze per la fondamentale fragilità di Gaza,” ha detto all’AFP, e la situazione “rimane quella di una francamente disastrosa parabola di de-sviluppo e radicalizzazione, per quello che ne posso dire.”

Del blocco ha affermato che “è un blocco che impedisce agli studenti di andare all’università per continuare i loro studi in altri luoghi. E’ un blocco che impedisce ai malati di avere le cure di cui hanno bisogno.”

In base a questo contesto, è difficile immaginare che un’altra guerra non sia imminente. Le iniziative strategiche, politiche e militari di Israele, allo stato attuale, non permetteranno a Gaza di vivere con un livello minimo di dignità. D’altra parte, la storia della resistenza di Gaza rende impossibile immaginare uno scenario in cui la Striscia alzi bandiera bianca e attenda la prevista punizione.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia mai raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)