Obiettivi illegittimi su entrambi i lati del confine israeliano

Amira Hass, 2 marzo 2017,Haaretz

E’ proporzionato bombardare la città di Kochav Ya’ir, dove vivono comandanti in capo e dirigenti politici, mentre i residenti stanno dormendo o cenando con le loro famiglie? Questa è un’infame domanda che non ha diritto di essere posta. Ma Israele molto tempo fa ha dato una risposta affermativa alla domanda generale: è proporzionato distruggere quartieri e bombardare case con dentro famiglie intere – bambini, anziani, donne e neonati?

Sì, ha detto Israele con i suoi bombardamenti su Gaza e il Libano. E’ proporzionato perché abbiamo anche ucciso – o intendevamo uccidere – comandanti militari, militanti e alti dirigenti politici delle organizzazioni palestinesi e libanesi.

Ecco ciò che la procura militare ha scritto riguardo ad uno dei tanti attacchi che hanno ucciso civili durante l’offensiva a Gaza dell’estate 2014:

L’attacco era mirato a….un alto comandante, equivalente a vice comandante di brigata, nell’organizzazione terroristica palestinese Jihad Islamica…Durante la pianificazione dell’attacco è stato calcolato che molti civili si sarebbero potuti trovare nella struttura e che la dimensione del danno a civili non sarebbe stata eccessiva a fronte del significativo vantaggio militare che ci si attendeva di ottenere come risultato dell’attacco…A posteriori, l’obiettivo dell’attacco è stato gravemente ferito e (altri due membri attivi della Jihad Islamica) sono stati uccisi insieme a quattro civili.

L’attacco si è attenuto al principio di proporzionalità, poiché quando è stata presa la decisione di attaccare è stato valutato che il danno collaterale atteso non sarebbe stato eccessivo a fronte del vantaggio militare che ci si attendeva di conseguire…Uno specifico avvertimento prima dell’attacco nei confronti degli occupanti della struttura in cui si trovava l’obbiettivo, o degli occupanti delle strutture adiacenti, non era legalmente richiesto e avrebbe potuto compromettere lo scopo dell’attacco.”

Gli attacchi a Gaza hanno introdotto nel nostro mondo tre espressioni che non hanno diritto di esistere: “uccisioni proporzionate”, “danno collaterale” e “target bank”. Queste espressioni sono diventate assiomatiche al di là di ogni domanda o riflessione. Come funzionerebbero questi assiomi se pianificassimo l’obbiettivo nella direzione opposta?

Ogni casa dove si trova un soldato o un riservista israeliano sarebbe un legittimo obiettivo da bombardare; i civili colpiti sarebbero un danno collaterale. Ogni banca israeliana sarebbe un obbiettivo perché i ministri e i generali israeliani vi tengono i conti correnti.

Chi vive nelle vicinanze della stazione di polizia in Dizengoff Street a Tel Aviv dovrebbe trasferirsi perché gli ufficiali del servizio di sicurezza dello Shin Bet vi lavorano regolarmente e il missile potrebbe sbagliarsi e colpire la scuola adiacente. Le basi militari ed i centri dello Shin Bet nel cuore di quartieri civili – a Kirya (area centrale della città, dove si trova la principale base dell’esercito israeliano, ndtr.) a Tel Aviv, nei quartieri di Gilo e Neveh Yaakov a Gerusalemme, o al quartier generale della Divisione Binyamin vicino alla colonia di Beit El – condannano i loro vicini ad una morte proporzionata.

Tutti i degenti dell’ospedale di Sheba devono essere evacuati a causa del centro dell’esercito a Tel Hashomer; tutti i laboratori universitari e le imprese di alta tecnologia dovrebbero essere evacuati a causa dei loro legami con l’industria delle armi, mentre le vite dei figli dei dipendenti di Elbit e Rafael (imprese di alta tecnologia militare, ndtr.) sono anch’esse a rischio di danno collaterale perché i loro genitori collaborano a fabbricare armi che non ci possiamo immaginare.

Questo sembra terrificante, e giustamente. Ma poiché questa mostruosa sceneggiatura speculare appare del tutto immaginaria, l’orrore immediatamente svanisce. Sorprendentemente, il revisore dello Stato [incaricato del controllo delle finanze, della gestione finanziaria, del patrimonio e della gestione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici. Ndtr.] ha criticato il fatto che non è stato fatto alcun tentativo per trovare un’alternativa diplomatica alla guerra, ma la maggioranza degli israeliani ragiona solo all’interno di uno schema, uno schema cruento. Cercano delle vie per razionalizzare lo schema, non per romperlo e sostituirlo.

Le nostre guerre sono una continuazione della nostra politica di negazione agli altri dei loro diritti. Chi ha deriso la diplomazia palestinese che auspica uno Stato indipendente accanto ad Israele ha ottenuto boicottaggio, sanzioni e disinvestimento. Chi non ha ascoltato le ragioni di anni di resistenza popolare palestinese sta pagando il prezzo dei razzi Qassam, dei tunnel per gli attacchi e della paura degli attentati suicidi. Chi ha creato quella prigione che è Gaza ha avuto in cambio Yahya Sinwar, il nuovo capo di Hamas nell’enclave.

E’ vero, le nostre teorie di repressione funzionano – come formula collaudata per l’escalation. Hanno stabilito i criteri per definirci, noi israeliani, come “danno collaterale” agli occhi di coloro che vengono umiliati dalla nostra multiforme violenza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La tracotanza militare rappresenta un disastro

Amira Hass, 21 febbraio 2017 Haaretz

L’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con gli strumenti in cui eccelle – guerra e uccisioni – è la definitiva identificazione con la mentalità israeliana.

Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, afferma che i missili di Hezbollah possono raggiungere l’impianto nucleare israeliano nella città di Dimona, nel Negev. E’ difficile sospettare che intenda causare la morte di decine o centinaia di migliaia di palestinesi nella vicina Gaza e nel Negev, o provocare loro malattie letali. Hezbollah è riuscita a cacciare dal proprio Paese l’occupazione israeliana. Per questo Hezbollah ed il popolo libanese meritano apprezzamento. Però oggi le sue affermazioni possono essere interpretate come millanteria, cosa che più di ogni altra rivela paura e debolezza.

Nella Striscia di Gaza è stato eletto alla guida del movimento [Hamas] un nuovo leader, Yahya Sanwar. Hamas è un partito moderno ed organizzato, che tiene regolari elezioni interne, benché clandestine, un’impresa che Fatah non è mai riuscita a realizzare neppure operando alla luce del sole ed in relativa libertà. Hamas cambia i suoi capi e nessuno di loro decide le linee politiche da solo, al contrario della situazione all’interno di Fatah.

A Gaza si dice che Sanwar è stato eletto perché ha acquisito grandi capacità di leadership in prigione, e che è modesto, ascolta gli altri ed è equilibrato. Ma anche se lui aderisce all’attuale tendenza politica per evitare un conflitto armato, l’ala militare della sua organizzazione lavora incessantemente per armarsi e migliorare le proprie potenzialità. Le sue ostentate parate militari inviano un messaggio, anche quando Iz al-Din al-Qassam (ala militare di Hamas, ndtr.) smette di sparare.

Le parate e le promesse creano un’atmosfera di ‘resistenza’. Scatenano l’immaginazione del popolo che stiamo opprimendo e schiacciando, dando loro una speranza, un filo di speranza a cui aggrapparsi. Ma ci si dimentica di alcuni fatti: dopo la guerra in Libano del 2006, Hezbollah non ha osato aprire un secondo fronte quando Gaza veniva attaccata da tre offensive israeliane. Dal momento del rapimento di Gilad Shalit nel giugno 2006 fino all’offensiva del dicembre 2008, Israele ha ucciso 1.132 abitanti della Striscia di Gaza. Di questi, 604 erano legati a gruppi armati, ma non tutti avevano necessariamente preso parte agli scontri. Dei civili uccisi, 207 erano minori e 89 erano donne. Erano anche parte del prezzo pagato per il rilascio di Sanwar e di altri.

Il profilo personale di Sanwar che appare sui siti web di Hamas attesta che ha messo a morte dei collaborazionisti nell’ambito di una strategia incentrata sulla deterrenza. Sono passati trent’anni e il collaborazionismo non è diminuito. L’assassinio – ovviamente di solito di pesci piccoli e di innocenti – non si è dimostrato efficace.

Questa settimana un portavoce che partecipava ad una conferenza in Iran ha detto che Hamas dispone di gruppi armati in Cisgiordania. Le loro attività sono forse riuscite in passato a fermare l’orgia colonialista israeliana? No. Non ci sono riuscite neanche le tattiche diplomatiche, anche questo è vero. Ma se il risultato è lo stesso, perché scegliere la strada senza uscita che comprende uccisioni, arresti e distruzioni? Potreste dire che è una domanda ingenua e femminile, e noi rispondiamo: questa è una tattica fallimentare e maschile.

I palestinesi lamentano che i loro figli adottano i concetti di Israele ed interiorizzano il disprezzo nei loro confronti. Ma l’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con i mezzi in cui eccelle – guerra ed uccisioni – è proprio l’estrema identificazione con la mentalità israeliana.

Israele ha un costante interesse ad esagerare la minaccia militare costituita dalle due organizzazioni religiose islamiche. Questa tendenza va di pari passo con la sistematica distorsione della realtà attraverso la presentazione degli ebrei come vittime dei palestinesi. Entrambe le organizzazioni islamiche hanno interesse a che Israele le consideri esageratamente temibili. Questo accresce il loro peso politico.

Israele procede senza campagne militari a tutto campo, usando la violenza burocratica, il sadismo organizzato, la concentrazione dei palestinesi in enclaves e l’assedio. Ma per le sue esigenze politiche interne ed estere sa molto bene, quando necessario, come usare la tracotanza militare. Allora questo rappresenta un disastro che richiede anni per una pur debole ripresa. Non bisogna tirare questa corda. Bisogna trovare altri metodi di lotta.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli eroi palestinesi di Hebron

Haaretz, Amira Hass, 20 febbraio 2017

L’esercito israeliano non ammette che gli agricoltori palestinesi hanno bisogno di una scorta militare per coltivare le loro terre, in modo da impedire ai coloni di creare scompiglio.

Quando si parla di estrema violenza perpetrata dai coloni con l’incoraggiamento ufficiale, si pensa a Hebron (scusandoci per escludere dalla discussione tutte le altre colonie che beneficiano di provvedimenti di totale trasferimento – adducendo come motivo la violenza. E le colonie “moderate” di Efrat, Ariel, Givat Ze’ev e altre della stessa risma, la cui ingordigia di terra è appoggiata dalla violenza ufficiale e burocratica, che ha destinato terreni pubblici e privati alla costruzione di quartieri di classe media per ebrei – israeliani e di recente immigrazione – mentre distrugge il territorio palestinese).

Quando si dice Hebron, si pensa alla città vecchia, ma si dimenticano i quartieri sparsi lungo la strada sulla quale viaggiano i signori della terra, da Kiryat Arba alla città fantasma che hanno creato insieme all’esercito. Tutti i palestinesi che sono rimasti – alcuni solo perché non possono permettersi di andarsene, altri per la determinazione a non abbandonare il luogo – non sono nientemeno che eroi. Ognuno di loro merita il riconoscimento internazionale per il fatto di restare umani all’ombra di una delle più rozze mutazioni del popolo ebreo.

Kiryat Arba è costruito “a macchia di leopardo” con quartieri ben ordinati, su tutto ciò che le menti ebree hanno dichiarato “terra dello Stato” o espropriata per “necessità militari”. In mezzo e intorno alle ‘macchie’ ci sono case palestinesi, frutteti, vigneti e campi, su un territorio che Israele non è riuscito a trasformare in proprietà immobiliare di origine divina.

Per questo motivo, le persone che vivono lungo la strada, vicino alla zona di traffico palestinese, tra Kiryat Arba verso il centro di Hebron, sono anch’esse degli eroi, come ho scoperto la settimana scorsa conoscendo la famiglia di Abdul Karim Jabari (Haaretz, 19 febbraio). Per questo eroismo vale la pena di riportare la loro storia.

C’è qualcosa che la famiglia Jabari non ha subito? Il divieto per circa sei anni di accedere alla propria terra e di lavorarla. La costruzione da parte dei coloni di una struttura illegale che occupa una rilevante parte dell’area – che le autorità israeliane continuano a demolire, solo perché sia ricostruita più volte. Aggressioni fisiche, danneggiamento dei loro alberi, interruzione del loro lavoro e imposte astronomiche sulla proprietà.

Il 19 gennaio, tre settimane dopo che il governo aveva detto che Kiryat Arba non aveva autorità per esigere dai Jabari l’imposta sulla proprietà locale, l’esercito ha fatto irruzione nella loro casa col pretesto di cercare armi. Davvero? Secondo i servizi di sicurezza, mi è stato detto.

Cioé informazioni false, poiché nessuno è stato arrestato e l’ufficio del portavoce dell’esercito non ha riferito di nessun sequestro. Quel che possiamo fare è chiederci chi ha fornito la falsa informazione. In più, l’8 febbraio il coordinatore della sicurezza di Kiryat Arba ha scoperto che Jabari stava arando il suo terreno, ha deciso che questo non era stato concordato ed ha ordinato ai soldati di interrompere l’aratura.

Ho chiesto all’ufficio del portavoce dell’esercito di rispondere alla mia ipotesi che l’esercito avesse effettuato l’incursione su ordine dei coloni, per via della loro esplicita e nota volontà di rendere dura la vita dei Jabari in modo che la famiglia abbandoni la sua terra e la sua casa (facilitando l’espansione del quartiere di Givat Ha’avot). Non ho ricevuto risposta. Ho chiesto anche il nome del comandante che ha stabilito che i Jabari dovessero concordare con l’esercito i loro lavori agricoli e il motivo della decisione.

Il coordinatore dell’esercito per le Attività del Governo nei Territori di fatto ha detto che tale coordinamento non era richiesto, ma che un accompagnamento militare era “raccomandato”. Il COGAT ovviamente non ammetterà che la scorta è consigliata per ottenere l’ ‘approvazione’ dei coloni ed evitare i loro attacchi.

Nella sua risposta l’ufficio del portavoce dell’esercito ha detto: “Occorre sottolineare che l’esercito opera in Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndtr.) in un contesto di civili, in cui enti civili hanno un ruolo prestabilito durante le operazioni nell’area. Questo collegamento avviene secondo regole e procedure. I coordinatori della sicurezza sono l’ente di sicurezza autorizzato e il collegamento con loro avviene in base alle regole e alle procedure, ma loro non hanno autorità di comando sui soldati.”

Per capire questa risposta enigmatica ed il fatto che il caso del coordinatore della sicurezza di Kiryat Arba non è stato un incidente isolato, dobbiamo ritornare all’ultimo rapporto di Breaking the Silence (Ong israeliana di ex soldati che denunciano gli abusi dell’esercito in Cisgiordania, ndtr.): “ L’Alto Comando – l’influenza dei coloni sulla condotta dell’esercito in Cisgiordania”, basato su testimonianze di soldati. Ecco qualche esempio.

Un sergente in servizio nell’area di Hebron nel 2007 ha detto: “Il coordinatore della sicurezza civile è come l’intelligence militare nei territori: ti danno comunicazione di un grave incidente e poi senti il tuo ufficiale che riceve una telefonata dal coordinatore della sicurezza civile. In tal modo il coordinatore della sicurezza civile non è altro che un’estensione dell’esercito.”

Un sergente maggiore in servizio a Ma’on (colonia a sud di Hebron, ndtr.) nel 2013 ha detto: “Il coordinatore della sicurezza civile ha affermato ‘Io sono il comandante sul campo, io do gli ordini, quando arriva l’esercito lo dirigo io.’ ”

Un altro sergente maggiore in servizio nella valle del Giordano nel 2013 ha detto: “I coordinatori della sicurezza vanno al sodo: ognuno è padrone nella sua zona.”

Un altro sergente, in servizio a Ofra (colonia nel nord della Cisgiordania, ndtr.) nel 2010, ha raccontato di una scorta per i palestinesi durante la raccolta delle olive in un boschetto che è rimasta intrappolata nella colonia.

Alla domanda su chi stabilisse quanto tempo fosse concesso ai palestinesi per raccogliere le loro olive, ha risposto: “Il coordinatore della sicurezza civile. E’ l’unico che conosce il problema. Solo dopo gli eventi capisci chi è il coordinatore della sicurezza civile e che cosa significa ricoprire quel ruolo. Fa parte della colonia, la protegge; è contro i palestinesi. Il Ministero della Difesa lo paga, ma lui non è un loro dipendente. Tu non hai autorità su di lui, ma lui ha una sorta di autorità su di te. In generale, ti dicono ‘Fai ciò che ti dice il coordinatore della sicurezza civile.’ ”

Chi te l’ha detto?”

I comandanti della compagnia. Ed è il coordinatore della sicurezza civile che stabilisce dove i palestinesi dovrebbero stare e dove non dovrebbero.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nonostante le dichiarazioni di Trump durante l’incontro con Netanyahu, Abbas e i palestinesi tirano un sospiro di sollievo.

Amira Hass, 16 febbraio 2017 Haaretz

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dalla dominazione israeliana, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid.

La dirigenza palestinese non ha nascosto la sua preoccupazione circa le notizie che gli americani hanno rinunciato ad appoggiare la creazione di uno Stato palestinese. Di fatto questo non è stato il messaggio inequivocabile che le dichiarazioni di Donald Trump hanno trasmesso nella conferenza stampa di mercoledì. Ognuna delle parti potrebbe rintracciarvi elementi per rafforzare la propria posizione.

Anche se gli Stati Uniti rinunciassero effettivamente a sostenere uno Stato palestinese, che cosa cambierebbe in realtà? Le amministrazioni USA precedenti a Trump hanno parlato di qualche soluzione dei due Stati e non hanno fatto niente per portarla avanti. Cioè, non hanno fatto niente per impedire ad Israele di bloccarla. Però le loro dichiarazioni e le loro promesse hanno indotto la dirigenza palestinese di Ramallah a mentire a sé stessa ed al suo popolo facendo credere che questa fosse la soluzione che la grande potenza appoggiava.

Questa costante menzogna – accompagnata da una massiccia assistenza finanziaria americana – è stata uno degli strumenti con cui la dirigenza dell’OLP, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno continuato a dar ragione della propria esistenza. Quella menzogna ha aiutato a giustificare il mantenimento degli accordi con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza. Non stupisce che gli USA eroghino considerevoli contributi finanziari alle forze di sicurezza palestinesi.

La nuova musica che adesso arriva dalla Casa Bianca pone la domanda se i cambiamenti negli Stati Uniti possano indebolire ancor più lo status della leadership palestinese agli occhi dei palestinesi stessi e se quindi la sua esistenza sia in pericolo.

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dal giogo israeliano, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid. Per il popolo palestinese che vive qui [nei Territori Occupati] e per quello della diaspora questi non sono slogan, ma la realtà quotidiana.

Ventiquattro anni fa questa Nazione ha avuto una leadership popolare che ha fatto un generoso regalo ad Israele e agli ebrei – la soluzione dei due Stati. E’ così che i palestinesi hanno interpretato gli accordi di Oslo. Ma Israele ha rifiutato il dono.

La dirigenza palestinese poteva capire anche prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin che Israele stava bluffando. Che mentre diceva “due Stati” creava enclaves. L’OLP si è intrappolata nella politica dei negoziati nella speranza che l’Occidente avrebbe fatto pressioni su Israele, che ci sarebbero stati cambiamenti politici positivi in Israele e che gli Stati arabi sarebbero intervenuti. Ma c’è anche un’altra ragione. La dirigenza palestinese ha trasformato la burocrazia di un’organizzazione per la liberazione nazionale in una burocrazia che governa, completa di autoconservazione e aggrappata alla propria posizione.

Il timore del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dei suoi colleghi di una deriva militare che danneggerebbe il loro popolo (come la Seconda Intifada) è reale e giustificato. Ma si confonde con gli interessi personali suoi e del gruppo di potere.

Al tempo stesso, ha preso forma l’illusione di una sovranità limitata all’interno delle enclaves palestinesi. L’ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza forniscono i servizi di base alla popolazione e rendono possibile l’attività pubblica, cosa che non era concessa sotto l’occupazione israeliana diretta.

Pur con tutte le critiche all’ANP per la corruzione, i metodi dittatoriali, l’inefficienza, le carenze nei servizi sociali, ecc., essa continua comunque a provvedere alle necessità fondamentali immediate della popolazione.

La presidenza Trump non è una ragione sufficiente per sciogliere l’ANP e gettare la società palestinese nel caos e nello scompiglio. La leadership palestinese ha ottenuto un’altra pausa.

Mercoledì un ufficiale della sicurezza palestinese ha rivelato ai media palestinesi l’incontro del capo della CIA con Abbas. Il messaggio che sta dietro alla fuga di notizie è chiaro. “Non preoccupatevi, l’esistenza dell’Autorità Palestinese sta a cuore agli Stati Uniti. Le istituzioni di Washington comprendono che il mantenimento del regime di enclaves garantisce una sorta di stabilità della sicurezza.”

Probabilmente stanno dicendo la stessa cosa al nuovo presidente. L’elemento più importante che può compromettere questa precaria stabilità non è Trump, ma un’escalation dell’oppressione israeliana e della sua politica di colonizzazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Quando i ‘giornalisti’ israeliani trasmettono [l’argomento] coloni

di Amira Hass, 6 febbraio 2017 Haaretz

Il sindaco di Silwad, un villaggio palestinese la cui terra è stata rubata a favore della colonia di Amona, ha detto che i coloni espulsi dall’insediamento dovrebbero tornare in Europa. La radio israeliana ha riportato queste considerazioni – ma non ha spiegato il contesto.

Mentre il ‘circo equestre’ di Amona veniva raccontato da ogni prospettiva, e con accondiscendenti accenti di comprensione per i ladri di terra, Reshet Bet, di radio Israele, si è presa il disturbo di raccontarci anche il punto di vista dei palestinesi. Indirettamente.

Il presidente del consiglio comunale di Silwad, uno dei villaggi la cui terra è stata rubata a favore della colonia, è stato intervistato da un canale televisivo collegato ad Hamas e ha detto che la soluzione per le persone evacuate (da Amona, ndtr.) è di ritornare in Europa, il luogo da cui sono venuti. La trasmissione faceva notare che il sindaco, Abd al-Rahman Abu Salh, era uno dei firmatari della petizione all’Alta Corte di Giustizia che si opponeva al trasferimento dell’avamposto in appezzamenti di terreno nei pressi della stessa collina.

Le considerazioni del sindaco mostrano una certa familiarità con il contesto etnico dei ladri di Amona e la loro difesa danzante (alcuni dei coloni di Amona si sono messi a ballare per protesta durante l’evacuazione, ndtr.); a ragione non ha detto che dovrebbero tornare in Marocco o in Iraq. Ma torniamo all’intervista: non era certo inopportuno trasmetterla. Anche nelle conversazioni quotidiane con i palestinesi simili opinioni vengono a volte espresse, e non solo relativamente ai residenti di uno specifico insediamento. Non si tratta solo di un punto di vista: ho sentito dei palestinesi che sono convinti che gli ebrei stiano lasciando Israele in gran numero. Vuoi a causa della minacciosa forza militare di Hamas, con Allah dalla sua parte, vuoi alla ricerca di una vita più facile, o perché gli ebrei comprendono che non appartengono a questo luogo. C’è anche chi cita il preciso versetto del Corano che profetizza la partenza degli ebrei.

Però c’è anche chi parla diversamente: per esempio A., sessantenne di Gaza, devoto musulmano, che è spaventato da Hamas. “In quanto credente musulmano, ha detto una volta, non posso immaginare questa terra senza ebrei.” L. ha detto esattamente la stessa cosa. E’ un’atea proveniente da una famiglia cristiana in Galilea. “Dopotutto, voi siete parte di questo luogo”, ha detto. E ci sono dei rifugiati che citano sempre i loro genitori e nonni che dicevano: “Abbiamo vissuto da buoni vicini con gli ebrei.”

Ogni considerazione è fatta in un certo contesto e loro non possiedono una sola verità assoluta. Tranne la seguente: i palestinesi sono soggetti al regime israeliano di sadismo organizzato.

Se 20 anni fa hanno pensato che sarebbe presto finito, oggi è chiaro che Israele vuole solo proseguirlo e incrementarlo, rendendolo più efficiente e permanente. L’intifada del popolo ha fallito. I negoziati di pace si sono rivelati un inganno. La diplomazia è stata sconfitta. La lotta armata è un’arma a doppio taglio. Per ogni battaglia vinta contro il furto di terra, ve ne sono dozzine in cui alla fine la terra resta in mano ai coloni. Gli ebrei hanno provato a chiunque non lo sapesse o non fosse d’accordo, che l’entità che hanno creato è colonialista. In altre parole, aspira a sostituire un popolo con un altro, a deportare un popolo in nome dei prescelti da dio.

Israele agisce e i palestinesi in risposta dicono cose al limite della disperazione o cose che possano dare la speranza che sia possibile un cambiamento in meglio. Il confine che separa il delirio dalla speranza, la speranza dalla disperazione, è molto sottile ed è tracciato dalle politiche israeliane.

La notizia è stata trasmessa dalla radio israeliana con voce solenne, con il sottinteso che “quelli che conoscono la faccenda capiranno”. E noi abbiamo capito che il vero problema è che quei contadini sono semplicemente antisemiti. Non solo non hanno offerto pane e sale ai ladri della loro terra, ma gli hanno addirittura fatto causa ed hanno rubato il loro tempo prezioso, che altrimenti sarebbe stato dedicato alle devote preghiere al “Dio degli Ospiti” (una delle definizioni bibliche di dio, ndtr).

La trasmissione della radio israeliana dava l’impressione che la dichiarazione del sindaco di Silwad fosse essenzialmente estemporanea (negando i diritti degli ebrei) e priva di qualsiasi contesto. O che il contesto del sistematico, brutale e cinico furto non fosse importante. E tra l’altro, la colonia di Ofra è anch’essa costruita sulle terre di Silwad.

Ogni articolo di giornale è inserito in un contesto. Lo stesso vale per tutti gli articoli che nessuno si dà la pena di pubblicare: anch’essi hanno un contesto. Sulla radio israeliana possiamo ascoltare informazioni dalle forze di sicurezza palestinesi sulla cattura di aggressori armati di coltelli, come anche le voci dei politici palestinesi. Ma non possiamo trovarvi le notizie quotidiane sulle sistematiche demolizioni di strutture palestinesi in Cisgiordania, sul trasferimento di comunità di agricoltori e pastori per far posto a zone di addestramento dell’esercito israeliano, sui sistematici divieti di costruzione per i palestinesi, sulle limitazioni di movimento e le incursioni nelle case.

Reshet Bet non fa esattamente l’impossibile nemmeno per indagare sulle circostanze delle uccisioni da parte dell’esercito israeliano di donne e giovani palestinesi che non mettevano in pericolo la vita dei soldati. E tra l’altro non c’è bisogno di svolgere indagini indipendenti. Si può citare il lavoro sul campo di B’Tselem, trasmettere la risposta del portavoce dell’esercito e, in nome della santa imparzialità, intervistare qualcuno di Regavim o Kahana Chai (gruppi israeliani estremisti di estrema destra, ndtr.). Agli ascoltatori di Reshet Bet è stato evitato tutto questo, di proposito.

Il contesto delle vicende che vengono pubblicate e che non vengono pubblicate è lo stesso: mobilizzazione in nome dell’impresa coloniale, mentre si impedisce l’informazione che potrebbe sollevare dubbi sulle intenzioni di Israele e sulla logica delle sue politiche. Naturale diffidenza, impegno, curiosità e volontà di descrivere una grande varietà di fenomeni – tutto questo è assente nelle trasmissioni pubbliche quando si tratta delle vita dei palestinesi sotto il regime israeliano. In questo caso siamo anzitutto israeliani e coloni, o coloni potenziali. Mai giornalisti.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pesanti pene detentive a membri di Fatah per rapporti con Ramallah’

Amira Hass, 2 febbraio 2017 Haaretz

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani condannano le sentenze come ingiuste e le accuse come vaghe – e le confessioni sono state ottenute sotto tortura.

La settimana scorsa un tribunale militare di Gaza ha comminato pesanti pene detentive ad otto membri di Fatah per “ aver recato danno all’unità rivoluzionaria”, in base alla legge penale rivoluzionaria dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), scritta a Beirut nel 1979. Gli otto uomini sono tutti membri delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Tre di loro sono stati condannati ai lavori forzati a vita e gli altri cinque hanno ricevuto pene tra i 7 e i 15 anni di prigione, anch’essi ai lavori forzati.

Le sentenze per i reati, che si fondavano su “ rapporti con Ramallah”, sono state pronunciate sulla base delle confessioni degli imputati, anche se tutti loro mostravano segni che le confessioni erano state ottenute sotto tortura.

Le pesanti condanne hanno sorpreso non solo gli imputati e le loro famiglie, ma anche le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che le hanno condannate in quanto ingiuste. Hanno definito le accuse fumose e troppo generiche e la legge rivoluzionaria incostituzionale e carente dei benché minimi standard di giustizia internazionale.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani, la più antica organizzazione per i diritti umani nella Striscia di Gaza, mercoledì ha detto che avrebbe rappresentato gli imputati in appello. Fatah ha accusato le sentenze di essere politicamente motivate.

Il più anziano tra gli imputati, Mohammed Abed al-Khader Ali, di 50 anni, appartenente al servizio di sicurezza preventiva dell’ANP, è stato condannato all’ergastolo in contumacia. Ora si trova in Cisgiordania.

Gli altri sette sono stati arrestati nel novembre 2015, ma solo due di loro sono stati trattenuti in prigione per tutto il periodo. Gli altri, di età compresa tra 30 e 44 anni, sono stati rilasciati in diverse fasi fino alla fine del processo.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani ha dichiarato in un comunicato stampa che le pene sono state comminate senza la minima equità e in assenza del diritto di quelli incarcerati a difendersi. Il Centro ha affermato che c’erano chiari segni che le confessioni fossero state estorte attraverso gravi torture.

La corte ha nominato degli avvocati difensori per i sette ed un legale ha detto al Centro che i suoi clienti presentavano sul corpo chiari segni di ferite e di suture ed alcuni soffrivano di trauma psichico e delirio come conseguenza dell’arresto.

Secondo quanto riferito dal Centro, i difensori hanno detto che le azioni dei loro assistiti non erano altro che attività politiche e che le confessioni sono state estorte con la forza.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani e gli avvocati per anni hanno condotto battaglie contro il modo abituale di agire di Hamas a Gaza, e prima dell’ANP a Ramallah, di utilizzare tribunali militari per processare dei civili.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come espellere: consigli a Trump da un’israeliana

Amira Hass– 3 febbraio 2017,Haaretz

Otto modi in cui il nuovo presidente può far provare ai messicani ed ai musulmani quello che patiscono i palestinesi.

E’ passata appena una settimana ed hai sconvolto tutto, Donald Trump. La ragione è semplice: non ti sei consultato con Israele su come rifiutare l’ingresso nel tuo Paese senza scatenare mezzo mondo contro di te. Ma quando si tratterà dell’altra tua promessa – effettive espulsioni – avrai ancora il tempo di consultarci.

Per mancanza di pazienza e di spazio, qui si discuterà solo di due tipi di espulsioni – due dei molti tipi in cui siamo diventati esperti: l’espulsione di palestinesi originari di Gerusalemme dalla città e l’espulsione di palestinesi abitanti della Cisgiordania dalle loro case.

Regola 1. Silenzio. Non pubblicizzare la politica di espulsione. Fai in modo che ogni persona espulsa si opponga da sola al decreto e creda che il problema riguardi solo lui. Individualmente. Ad un certo punto, a partire dalla fine del 1995 (durante il governo del partito Laburista e degli accordi di Oslo), i palestinesi hanno scoperto che avrebbero perso lo status di residenti a Gerusalemme se avessero vissuto dove avevano sempre vissuto negli anni precedenti: fuori dai confini della Gerusalemme annessa o all’estero.

Regola 2. Stupore. Insistere che dopotutto non è cambiato niente e che queste leggi esistevano da tempi immemorabili. E’ quello che sostenne il ministero degli Interni nel 1996 quando sempre più palestinesi di Gerusalemme scoprirono che le loro carte di identità erano improvvisamente state revocate ed erano diventati residenti illegali nella città e sulla terra in cui erano nati.

Regola 3. Gradualità. L’espulsione avviene un passo alla volta, come se fosse per caso. Annessione ed esproprio delle terre. Divieto di costruzione nelle zone che rimangono. Reclutamento di dio. Intollerabile sovraffollamento nelle case e affitti alle stelle. Ignorare gli spacciatori. Trascurare infrastrutture e scuole. Incrementare il peso delle tasse. Poco lavoro. Collocare disturbatori professionali (alias, coloni) nel cuore dei quartieri con guardie giurate che li circondano.

E la cosa principale: lo status di residenti in base alla legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, che può scadere in qualunque momento. Come se i palestinesi di Gerusalemme fossero entrati in Israele e avessero scelto di vivere sotto il suo tallone come immigrati non ebrei. Come se Israele non avesse fatto violentemente irruzione nelle loro vite nella città in cui erano nate le madri delle loro madri.

Regola 4. Supporto legale (A). L’allora presidente della Corte Suprema Aharon Barak e i suoi colleghi, Gabriel Bach e Shoshana Netanyahu, dettero già l’approvazione della corte per un’altra espulsione, di massa ma latente. Nel 1988 stabilirono che fosse legale espellere un palestinese nato nel 1943 a Gerusalemme perché aveva anche una cittadinanza straniera (Mubarak Awad, che, guarda caso, era anche un sostenitore della disobbedienza civile dei palestinesi).

Regola 5. Molteplicità. Non attenerti ad una sola scusa, signor presidente. Noi ci siamo appellati successivamente ad una grande quantità di pretesti per espellere palestinesi dalla loro terra, la loro patria, le loro case: politici (opposizione al nostro dominio), amministrativi (non erano presenti al momento del censimento o avevano prolungato il loro soggiorno all’estero), una zona di esercitazioni militari, una riserva naturale, la vicinanza con i confini, con un’autostrada, un avamposto, un sito archeologico, terre statali, mancata approvazione di piani regolatori, la barriera di separazione, divieto di costruzione, intrusione di molestatori di professione e personale dei servizi di sicurezza, citazioni della Bibbia.

Regola 6. Supporto legale (B). I nostri giudici evitano di emettere sentenze contrarie alla politica di suddivisione in zone e di costruzione ineguale per ebrei ed arabi.

Regola 7. Insufficiente fornitura di acqua. Taglia l’acqua, Trump. Stabilisci che ogni musulmano o messicano avrà diritto a solo un quarto o meno dell’acqua consumata mediamente da un WASP [White, Anglo Saxon, Protestant, definizione razzista dell’americano ideale. Ndtr.]. Decidi che ovunque vivano messicani o musulmani saranno tagliati fuori dalla rete idrica. Guarda la Valle del Giordano. E’ un notevole strumento per sfoltire una popolazione indesiderata. Fidati di noi.

Regola 8. L’appoggio delle elite. Manda consiglieri in Israele. Riceveranno suggerimenti su come regolari attività di espulsione vengano salutate dal silenzio della maggior parte dell’intellighenzia colta illuminata, il sale della terra, laureati delle forze armate israeliane, che si annidano nelle università e frequentano le sale da concerto. La loro condiscendenza è assolutamente fantastica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Arare senza difesa

 Amira Hass – 30 gennaio 2017, Haaretz

L’ufficiale dell’esercito israeliano ha chiesto a due dei suoi sottoposti di dare una mano contro tre coloni che aggredivano palestinesi. Lo ha chiesto – bell’affare.

Un soldato dell’esercito israeliano ha ignorato la richiesta del suo comandante di aiutare lui e altri quattro soldati a sopraffare tre coloni. I coloni avevano violato un ordine militare entrando in terra palestinese per disturbare lavori di aratura.

O, come l’ha spiegato il portavoce dell’esercito: “Il comandante di compagnia in servizio durante l’incidente ha fatto segno a uno dei suoi soldati di andare ad aiutarlo. Ma, dato che ha avuto rapidamente ragione (dei coloni), il comandante ha informato solo in seguito che il soldato non era accorso. Alla fine, il comandante di compagnia ha svolto un’indagine e ha fatto rapporto ai suoi superiori.”

Ma Amiel Vardi, un attivista dell’organizzazione arabo-ebraica “Ta’ayush”, ha detto di aver visto il gesto dell’ufficiale a due soldati che stavano vicino alla loro jeep guardando i loro compagni che cercavano di arrestare i coloni. “Non è successo niente; i soldati non sono andati. E allora il comandante ha mandato da loro uno dei soldati che erano con lui, ma è ritornato da solo,” ricorda Vardi, che era stupito di vedere due soldati che manifestavano un tale disprezzo per i loro compagni.

E’ vero, è una notizia vecchia: è successo un mese fa. Ma, durante una conversazione casuale, vari attivisti di “Ta’ayush” hanno detto ad Haaretz che il fatto è stato più drammatico di come lo hanno descritto i media israeliani. Perciò lo stiamo riconsiderando qui, insieme a un video che può essere visto nella versione in rete di questo articolo.

Iniziamo ricordando qualche fatto. Per anni i coloni della zona di Sussia hanno aggredito gli abitanti di questo eroico villaggio della Cisgiordania e gli hanno impedito l’accesso a circa 3.000 dunam (300 ettari) di terre agricole (mentre facevano pressione anche per la demolizione di tutte le loro case).

In seguito ad un’ estenuante battaglia legale da parte degli abitanti – con l’assistenza di “Rabbini per i Diritti Umani” e dell’avvocato Quamar Mashraqi Assad, compreso un appello all’Alta Corte di Giustizia – l’esercito ha gentilmente accettato di emettere ordini militari che vietano agli israeliani di entrare in una quantità totale di circa 400 dunams [40 ettari. Ndtr.].

Non è un granché. Ma persino lì i coloni aggressori stanno continuando le loro azioni. Perciò “Ta’ayush” scorta i contadini.

L’attivista di “Ta’ayush” Michal Peleg mi ha permesso di rubare la sua testimonianza diretta. “In una fredda mattina di sabato, il 31 dicembre 2016, in un piccolo campo sotto il villaggio di Sussia, una famiglia stava arando: tre uomini, una donna, un ragazzo e un bambino (la famiglia Nawajah), un aratro di ferro attaccato a due asini, difficile arare in profondità, terra pietrosa. Prima hanno educatamente chiesto all’intruso di andarsene dal campo. Questi, che ha detto di chiamarsi Daoud, ha scherzato con i soldati e ogni tanto si scatenava, minacciando e spingendo gli aratori ed i loro asini.

I soldati hanno continuato a chiedergli per piacere di andarsene. Egli ha chiesto una prova, un ordine. Lo hanno richiesto e gli hanno mostrato una mappa in cui la zona era segnata come preclusa agli israeliani a causa di precedenti aggressioni. L’ebreo si è messo a ridere e se n’è andato.

“L’aratura è ripresa. Gli uomini e la donna hanno spinto forte i muli e li hanno incitati ad accelerare, in quanto ora erano spaventati.

“Come prevedibile, l’ebreo è tornato, insieme ad altri due uomini, ed i tre hanno invaso il campo, camminando con arroganza in giro tutti contenti. I soldati hanno tentato di bloccarli. I tre li hanno aggrediti, spingendoli e colpendoli. Con grande fatica i soldati hanno sopraffatto i delinquenti e li hanno gettati a terra.

La famiglia stava lì vicino in silenzio; la donna stava piangendo. E anche noi, i sei israeliani, siamo stati da una parte a guardare quello che stava succedendo, filmando e cercando di proteggere gente che non ha il diritto di alzare una mano o neppure di dare una spinta per proteggere se stessa, figuriamoci il proprio terreno. Abbiamo chiesto che l’autorità della zona portasse via gli intrusi e permettesse ai proprietari della terra di continuare ad ararla.

E’ arrivata la polizia. Gli intrusi sono stati arrestati. Ma l’aratura non è ricominciata.”

Il campo si trova nei pressi di una cisterna d’acqua. La terra attorno alla cisterna era ostruita da spazzatura, e non lontano da lì è stato scritto uno slogan con delle pietre, in ebraico: ‘Vendetta’, con in più una stella di David. Il proprietario palestinese del terreno è arrivato per togliere l’immondizia, con il nostro aiuto.

Abbiamo chiamato la polizia perché prendesse nota dello slogan ‘vendetta’. Poi lo abbiamo tolto. Gli ebrei di (della colonia di) Susya hanno chiamato l’esercito israeliano per impedirci di toglierlo dalla terra araba di proprietà privata. L’esercito non ha acconsentito alla loro richiesta. Questo è stato il contesto dell’aggressione dei delinquenti.”

Peleg continua: “Ogni attacco contro ebrei, che siano civili o soldati, ha ‘colore’ – cioè protagonisti, vicini, interviste, amici, descrizioni, riprese dal vivo, dettagli…Se non fosse stato per l’arresto degli ebrei, assolutamente nessuno avrebbe sentito parlare di questo fatto.

Per cui c’è un po’ di colore. L’ebreo che si è intrufolato nel campo era un giovane grosso, muscoloso. Ci sono voluti due o forse tre soldati per bloccarlo. Era anche su di giri, gridava e cantava.

“Quando se ne stava steso a terra sotto due soldati ansimanti, ha iniziato a cantare piano ‘Ahi papà, ahi mamma, mi stanno picchiando, picchiando, mamma.’ Nessuno lo stava picchiando, naturalmente. I suoi amici ridevano. Noi tutti -cioè, noi tutti israeliani – eravamo partecipi della burla insita in questa canzone del ghetto; tutti noi sapevamo che era un adagio a proposito del cosacco derubato [la storia si riferisce ad un cosacco che prima depreda, uccide e violenta gli ebrei, poi si lamenta di essere stato derubato da loro. Ndtr.].”

“Solo gli arabi non l’hanno colto. Loro hanno visto la realtà: cruda, spudorata, sfrontata violenza da parte di quelli che sono al di sopra della legge e non hanno paura di soldati, poliziotti o giudici – la stessa legge, gli stessi soldati, poliziotti, amministrazione (militare) e giudici che, in qualunque momento, possono distruggere, o persino prendersi, le loro vite.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un interludio musicale o gli orrori dell’occupazione? Il dilemma di una giornalista israeliana

Amira Hass – 20 gennaio 2017, Haaretz

La scorsa settimana Betlemme ha ospitato una giornata a porte aperte di eventi musicali, compresa una lezione magistrale di una famosa violinista francese. Se solo l’esercito israeliano non fosse così impegnato a creare storie perché io le debba raccontare.

Il progetto originale era di uscire di casa a El Bireh verso le 11 del mattino di giovedì, per riuscire ad arrivare alla sala conferenze delle Piscine di Salomone a Betlemme. La hanno chiamata “giornata a porte aperte” e avrebbe ospitato vari spettacoli musicali, una lezione magistrale con la violinista francese Amandine Beyer, un concerto in cui avrebbe suonato con i “Bethlehem Strings” – prova generale alle 13, concerto vero e proprio alle 18,30 – insieme ad alcuni cori.

Il programma prevedeva che i brani sarebbero stati dell’epoca barocca. Avevo sentito dire che la sala è impressionante. So che la vista ti toglie il fiato. E avevo visto che avrebbero presentato il progetto della “Filarmonica Palestinese” – non avevo capito di cosa si trattasse, ma avevo letto che si intende creare “un ente culturale, come una ‘Città della Musica’, che offrirà una varietà di attività ed eventi relativi alla musica interculturale, non ultimo fondando la prima orchestra professionale permanente della Palestina.”

Occupazione, occupazione – ma nelle enclave [palestinesi] ha fallito, là c’è creatività, una passione per la bellezza ed il talento. Alleluia!

Uno degli organizzatori mi aveva invitata circa due settimane fa. Speravo che qualche giovane conoscente del campo di rifugiati di Deheisheh sarebbe stato presente. Non ci siamo più incontrati da quando ho scritto dei soldati dell’esercito israeliano che li hanno feriti alle ginocchia e ridotti ad andare in giro con le stampelle. Ci sono bambini dei campi di rifugiati della zona che studiano musica nel locale conservatorio e immaginavo che, se non come esecutori, sarebbero andati quanto meno come spettatori.

A un certo punto ho persino pensato che avrei avuto il tempo di fare un salto a Tekoa – al villaggio, cioè, non alla colonia. Ho sentito qualcosa a proposito di arresti là, una settimana dopo che l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ndtr.] aveva distrutto alcune delle cisterne per raccogliere l’acqua che sono così indispensabili per i contadini. Ma ho rinunciato a questo piano a causa di ritardi indipendenti dalla mia volontà.

Ero stata a fantasticare su questo interludio musicale per tutta la settimana. E, poiché la mia mente è programmata per trasporre ogni istante di vita in un articolo, ho pensato alla pubblicazione ideale per un simile reportage: forse sul supplemento artistico di Haaretz; forse nella mia rubrica settimanale; forse come contributo del venerdì. Ero incerta tra le varie possibilità. O forse non ci voglio andare come giornalista? Non voglio scoprire chi sono i musicisti e da quali villaggi le loro famiglie sono state espulse nel 1948; chi ha perso un fratello o un genitore negli attacchi militari israeliani o in scontri con i soldati, o quando erano stati mandati per condurre un attacco; e non volevo chiedere come il loro modo di suonare sia influenzato dal furto della terra delle loro famiglie attraverso i trucchi truffaldini dei governi dei coloni. Domande che non si possono non fare se si vuole un quadro completo; domande difficili da fare, perché per quanto tempo ancora si può respirare e vivere e dormire e alzarsi con tutto questo sadismo organizzato chiamato politiche di Israele?

Per cui lasciatemi in pace a godere un concerto, e vedere i giovani ragazzi e ragazze emozionati in una lezione magistrale di una musicista francese senza dover scrivere di questo.

(Editore: “Hai 380 parole.” Ma ne ho bisogno di 420. “Va bene, facciamo 400.”)

La mattina di giovedì non ero riuscita a finire il mio pezzo per il giornale del venerdì sulla nonna palestinese che ha difeso i suoi nipoti contro un gruppo di uomini mascherati dell’esercito israeliano di occupazione. Non preoccuparti, mi sono detta. Lo finirò e lo spedirò prima delle 10. Ma la risposta del portavoce dell’esercito era in ritardo.

Nel frattempo un altro argomento che ha richiesto l’attenzione della mia tastiera mi si è imposto: zona militare 918 – o, più precisamente, i villaggi delle colline meridionali di Hebron minacciati di distruzione totale dalla zona militare. Dopo 17 anni di vessazioni, di battaglie legali e lotte di base, l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato allo Stato di proporre un piano di esercitazioni che infligga un danno minimo agli abitanti. Dopo tutti gli anni in cui ho seguito questa mostruosità (“Esercitarsi lì fa risparmiare all’esercito tempo e denaro,” ha detto lo Stato all’Alta Corte, spiegando perché i villaggi dovrebbero essere distrutti), non potevo aspettare che l’articolo di cronaca si scrivesse da solo.

Così, con cinque dita ho terminato l’articolo sugli uomini mascherati e con le altre cinque ho iniziato a scrivere l’altra vicenda. Ah, bene – non arriverò là per la prova generale all’una, ma almeno sarò presente alla lezione magistrale delle 16.

E allora è arrivata la notizia che il pubblico ministero ha raggiunto un patteggiamento con l’avvocato del poliziotto di confine Ben Deri, che ha ucciso il ragazzo palestinese Nadeem Nawara nel maggio 2014. Tutti abbiamo visto le riprese video: i soldati e i poliziotti non si trovavano in pericolo di vita. E abbiamo tutti sentito l’esercito negare che si fossero usati proiettili letali, ma poi ha ammesso che Nawara era stato ucciso da una pallottola letale. Anche il suo amico Mahmoud Salameh era stato ucciso, e altri due feriti. Tutti da pallottole letali. Solo che il processo si è limitato a una sola imputazione, contro un singolo poliziotto, per un solo giovane ucciso – come se gli altri fossero stati uccisi dal diavolo. Ed anche in questo caso, lo Stato lo vuole ridurre all’aver causato la morte per negligenza. Va bene, mi sono detta, rinuncerò alla lezione magistrale, andrò al concerto delle 18,30.

L’articolo era quasi andato in rete nel sito quando ho ricevuto una nuova notizia: non c’era stato nessun patteggiamento. L’avvocato di Deri, Zion Amir, non ha accettato la parte in cui si afferma che i poliziotti e i soldati non erano in pericolo di vita. Ho dovuto localizzarlo e verificare l’informazione.

Ho dovuto riscrivere l’articolo di cronaca e perdermi il concerto.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




State attenti, giardinieri e commesse di Gaza

Il calvario di un onesto appaltatore di un’agenzia delle Nazioni Unite dimostra il potere che Israele esercita su chiunque a Gaza. La colpa è solo di Hamas

Amira Hass, 11 gennaio 2017 Haaretz

Waheed al-Bursh, un appaltatore del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, tornerà a casa sua nella Striscia di Gaza giovedì, sette mesi dopo essere stato arrestato al checkpoint di Erez. E’ una sconfitta per il servizio di sicurezza dello Shin Bet, che ha tentato di incastrarlo con una serie di accuse di aver aiutato Hamas per anni.

E’ una situazione inbarazzante anche per l’accusa, che è uscita dall’immagine in cui lo Shin Bet l’ aveva dipinta ed ha raggiunto un patteggiamento con l’avvocato di Bursh, Lea Tsemel. Ed è un tacito ammonimento di come i media israeliani, che in agosto hanno tranquillamente pubblicato falsi rapporti basati su informazioni distorte, hanno condannato Bursh senza processo come terrorista o attivista di Hamas infiltrato nell’agenzia dell’ONU.

17 giorni di interrogatori da parte dello Shin Bet, interrogatori da parte della polizia, quattro o cinque giorni in una cella con degli informatori, collaboratori che si spacciavano per prigionieri per ragioni di sicurezza – nulla di tutto ciò ha potuto provare il giudizio emesso dallo Shin Bet e dai media.

Di tutte le accuse di “contatto con un agente straniero”, “aver fornito servizi ad un’organizzazione illegale” e “uso di materiale terroristico”, l’accusa ne ha mantenuta solo una: la seconda. Mercoledì scorso Bursh è stato condannato in base ad essa.

Il giudice Aharon Mishnayot della Corte distrettuale di Be’er Sheva ha detto che si trattava di un’accusa grave e lo stesso ha detto il rappresentante dell’accusa del distretto meridionale, Shuli Rothschild. Hanno dovuto dirlo per giustificare il clamore che ha preceduto il processo. Ma la sentenza, con pena già scontata, afferma il contrario: non è grave.

Allora di che cosa si trattava? Uno dei compiti del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite è di rimuovere e sistemare le macerie prodotte dai bombardamenti di Israele a Gaza nell’estate 2014 (un totale di circa 2 milioni di tonnellate). Bursh era responsabile del trasporto di questi detriti in luoghi predisposti dal Ministero dei Lavori Pubblici del governo di riconciliazione di Ramallah. All’inizio del 2015 gli venne richiesto da funzionari di quel ministero nella Striscia di trasportare parte delle macerie in un sito nel nord di Gaza.

Bursh spiegò che una tale richiesta doveva pervenire attraverso canali ufficiali e che lui non poteva decidere. Allora dal ministero di Ramallah arrivò una richiesta ufficiale al Programma di Sviluppo ONU di trasportare le macerie al porto peschiero a nord di Gaza, per evitare l’arretramento del litorale.

Bursh trasportò circa 300 tonnellate, che un anno dopo, appena prima del suo arresto nel luglio 2016, erano ancora ammassate lungo la strada. Lui non sapeva che Hamas intendeva chiudere quella parte della spiaggia.

Come molti funzionari nei ministeri del governo a Gaza, i due ufficiali del Ministero dei Lavori Pubblici che contattarono Bursh erano uomini di Hamas e noti membri della sua ala militare. Bursh è stato condannato per aver omesso di riferire ai suoi superiori che erano questi i due funzionari che lo avevano contattato, “chiudendo gli occhi sul favore che ciò costituiva per l’ala militare di Hamas”, come ha scritto Mishnayot.

Il giudice, un ex presidente della corte d’appello militare e residente della colonia di Efrat, avrebbe anche dovuto scrivere che il Programma di Sviluppo ed altre agenzie dell’ONU stanno fornendo un grande servizio ad Israele. Nelle impossibili condizioni di divieti e restrizioni imposte da Israele, queste agenzie evitano un disastro umanitario ancor peggiore a Gaza.

Israele ha definito Hamas un’organizzazione illegale. A Gaza Hamas è il governo de facto, che deve anche fornire servizi alla popolazione, e lo sta facendo. Attivisti delle componenti civile e militare di Hamas sono stati inseriti in diverse funzioni del settore pubblico.

Bursh aveva tutte le ragioni per credere che gli uomini che lo avevano contattato lo avevano fatto nel loro ruolo di funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Li ha considerati canali ufficiali – che Israele controlla. Questo gli è costato lo sconvolgimento della sua vita, sette mesi di prigione, duri interrogatori, danni alla sua salute, la separazione dalla sua famiglia e la preoccupazione per il suo futuro professionale e finanziario.

Quale è il messaggio? Quando vuole, Israele può condannare e distruggere la vita di qualunque giardiniere nel comune di Gaza, di ogni commessa di un negozio di abbigliamento o di qualunque venditore di falafel. La motivazione? “Fornire dei servizi ad un’organizzazione illegale.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)