Le ragioni per cui l’attaccante palestinese a Gerusalemme non è stato scoraggiato.

Amira Hass | 9 gennaio, 2017 |Haaretz

Fadi al-Qanbar conosceva tutte le conseguenze della sua azione, le ha viste molte volte prima, ma i palestinesi considerano le ritorsioni israeliane come parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione.

Che Fadi-al-Qanbar abbia programmato l’attacco di domenica con il camion a Gerusalemme oppure che si sia trattato di una decisione presa d’impulso, sapeva benissimo quale punizione collettiva era in serbo per la sua famiglia.

Sapeva che il suo corpo non sarebbe stato restituito alla famiglia per la sepoltura – un atto particolarmente umiliante e doloroso. Sapeva che i suoi parenti sarebbero stati immediatamente arrestati e picchiati durante la detenzione. Che alcuni avrebbero potuto essere cacciati dal lavoro che hanno a Gerusalemme Ovest .Che le parenti prive di una carta d’identità israeliana sposate a residenti di Gerusalemme si sarebbero trovate espulse dalle loro case e separate dai loro figli. La sua famiglia sarebbe stata perseguitata dalla polizia e dalle autorità dello Stato, sapeva queste cose da mesi, e forse da anni, che la casa della famiglia sarebbe stata demolita. Tutte queste cose sono successe ad altri aggressori palestinesi di Gerusalemme Est.

Nel solo quartiere di Jabal Mukkaber, negli ultimi sei mesi del 2015 Israele ha demolito tre case e sigillato altre due. Tutte appartenevano a famiglie di terroristi. “Sigillare” significa versare cemento nell’appartamento fino a pochi centimetri dal soffitto.

Secondo Hamoked – il Centro per la Difesa degli Individui –, tra il luglio del 2014 e la fine di dicembre del 2016 Israele ha demolito 35 case palestinesi e ne ha sigillate altre sette; di queste sei e quattro rispettivamente erano a Gerusalemme Est.

Il fatto che i genitori, i figli, i nonni, i nipoti e le nipoti che hanno perso le loro case e che non avevano niente a che fare con l’attacco è irrilevante. Israele e i giudici della Suprema Corte considerano le demolizioni come una punizione legittima e un efficace strumento di deterrenza nei confronti di coloro che pensano di compiere un attacco terroristico.

Inoltre, Qanbar sicuramente sapeva che i suoi figli non soltanto avrebbero sofferto della perdita del padre ma che sarebbero diventati o violenti o isolati, e che, se in età scolare, i loro risultati scolastici ne avrebbero sofferto come anche la loro salute. Ma non è stato scoraggiato.

Il fallimento della deterrenza

Gli analisti e i politici nel caso di Qanbar hanno trovato ogni genere di ragioni del fallimento della deterrenza: lo Stato islamico; un attacco dovuto all’emulazione; l’essere stato un ex detenuto ( un’ apparentemente falsa rivendicazione fatta da Hamas che Israele si è affrettata a fare propria) e un incitamento dell’Autorità palestinese riguardante il possibile spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Come al solito le interpretazioni sono fuorvianti e fuori luogo.

Un gruppo di soldati in divisa non è una visione neutrale per qualsiasi palestinese. Quelli sono l’aspetto e la divisa di chi irrompe a decine ogni notte nelle case dei palestinesi, di chi uccide donne e minori ai checkpoint, di chi viene mandato ad attaccare la Striscia di Gaza e di chi accompagna le forze della Amministrazione Civile per demolire le cisterne d’acqua, i gabinetti chimici, le baracche di lamiera e le tende. Il fatto che gli israeliani abbiano cancellato questi avvenimenti dalla loro agenda non significa che non esistano.

Senza dubbio gli israeliani ritengono che senza queste misure di deterrenza il numero degli aggressori palestinesi sarebbe più alto. O al contrario che vi sarebbe una maggiore repressione. I palestinesi, tuttavia, considerano le ritorsioni israeliane come una parte naturale di una politica complessiva nei loro confronti, non come una reazione. Quando Israele non demolisce come misura punitiva , sta demolendo non consentendo di costruire e di svilupparsi. Quando non arresta la gente per attacchi mortali o per averli presumibilmente progettati, Israele arresta bambini per cercare di reprimere la lotta popolare. Con o senza attacchi mortali espande le colonie, strangola l’economia palestinese e pianifica espulsioni forzate dai villaggi e dalle case di Gerusalemme.

Così il motivo per cui questi episodi non organizzati e individuali non si sono trasformati in una più ampia insurrezione non deve essere attribuito all’ intrinseca abilità israeliana di produrre sofferenze sempre maggiori. Per quanto Hamas cerchi di dare pubblicità a questo attacco quale prova che l’Intifada di Gerusalemme non è morta, è chiaro che la gente più in generale non è interessata a ciò. Nonostante la frammentazione sociale e geografica, una dirigenza debole e litigiosa, nel popolo palestinese c’è una maturità politica che è consapevole della inevitabilità dell’insurrezione, ma che si devono aspettare tempi migliori.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Primo fine settimana del 2017: Israele ha demolito le case di 151 palestinesi, circa quattro volte la media dello scorso anno

Amira Hass – 7 gennaio 2017 Haaretz

L’amministrazione civile dell’IDF [l’esercito israeliano] sta adempiendo alla promessa di Netanyahu di demolire per vendetta le case degli arabi.

La promessa del primo ministro Benjamin Netanyahu ai coloni dell’avamposto illegale di Amona di applicare la legge “equamente”, demolendo le case di arabi, sta essendo pienamente rispettata.

Il numero di edifici palestinesi demoliti nella prima settimana del gennaio 2017 è quasi quattro volte maggiore della media settimanale nel 2016: 20 strutture. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2015 la media era stata di 10 alla settimana.

Nell’area C, sotto totale controllo civile e militare israeliano, tra lunedì e giovedì l’Amministrazione Civile dell’esercito israeliano ha demolito 65 strutture e 7 cisterne per la raccolta di acqua piovana in comunità palestinesi. Il Comune di Gerusalemme ha demolito altre due case a Gerusalemme est. Circa 151 persone, compresi 90 bambini, vivevano negli edifici che sono stati demoliti.

Lunedì, il giorno in cui la commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] ha discusso l’annessione a Israele della cittadina di Ma’aleh Adumim (a est di Gerusalemme), l’amministrazione civile e l’esercito israeliano hanno demolito dodici capanne in legno e lamiera – di cui otto utilizzate come abitazioni – in due comunità beduine della tribù Jahalin, a sud della colonia; tre baracche a Bir al-Maskub e nove a Wadi Sneysel. In totale 84 persone, 68 delle quali bambini, sono rimaste senza tetto nel giro di poche ore.

Lo scorso agosto l’amministrazione civile ha demolito strutture in quelle comunità. Ma i residenti non hanno un altro posto in cui vivere e sono state obbligate a costruire nuove baracche. Negli anni ’90 dozzine di famiglie della tribù Jahalin furono espulse dalla zona per consentire l’espansione della colonia.

Martedì l’amministrazione civile ha demolito 49 strutture a Khirbet Tana, nel nordovest della valle del Giordano: 13 strutture abitative, 9 gabinetti mobili e per il resto costruzioni agricole di vario genere. Ventotto adulti e 22 bambini hanno perso la casa a causa delle demolizioni. Altre 71 persone sono state danneggiate dalla distruzione delle strutture agricole.

Circa 40 famiglie (250 tra uomini e donne) vivono in quell’antico villaggio di grotte a est del villaggio di Beit Furik. In quattro precedenti incursioni lo scorso anno l’amministrazione civile ha demolito 150 baracche, ovili, tende e varie strutture igieniche – così come una scuola che è stata costruita grazie a fondi europei. Durante l’attacco di martedì, è stato anche consegnato un ordine di interruzione dei lavori per la nuova scuola, che sta per essere costruita, di nuovo con donazioni europee. L’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso degli abitanti di Khirbet Tana contro l’ordine di abbandonare definitivamente le loro case, ma i residenti hanno semplicemente costruito nuove abitazioni e una scuola perché si rifiutano di abbandonare il villaggio in cui le loro famiglie hanno vissuto molto prima del 1948 e prima che l’IDF dichiarasse la zona servitù militare.

Mercoledì una consistente forza militare ha fatto un’incursione sulle terre del villaggio di Tekoa, a sudest di Betlemme. Qui i bulldozer dell’amministrazione civile hanno demolito sette cisterne per l’acqua piovana e altre tre rimesse per scopi agricoli. Il capo del consiglio di villaggio ha raccontato ad Haaretz che una delle cisterne era stata scavata 25 anni fa, mentre le altre erano più recenti. Circa 180 persone dipendono da quelle cisterne per la loro vita. E giovedì mattina l’amministrazione civile ha demolito una struttura agricola nel villaggio di Jinsafut, a est di Qalqiliyah, in Cisgiordania.

A metà dicembre l’Amministrazione Civile ha detto ad Haaretz di essere in possesso di 11 macchine agricole, per lo più trattori, confiscate a contadini palestinesi dopo che l’IDF ha trasformato le loro terre nella zona settentrionale della valle del Giordano in servitù militare.

I palestinesi devono pagare all’Amministrazione Civile un’ammenda di qualche migliaio di shekel [1.000 shekel= 247 €. Ndtr.] per il rilascio di ogni trattore, e impegnarsi a non commettere una seconda volta l’ “infrazione”. Nel 2016 solo due trattori sono stati restituiti, previo pagamento dell’ammenda. Oltre ad uso agricolo, i trattori servono anche a trasportare acqua agli abitanti ed ai loro armenti dalle sorgenti che si trovano a qualche chilometro dalle stalle. Israele non consente alle comunità palestinesi residenti in zone sotto il suo controllo di collegarsi alle infrastrutture idriche.

Il 21 dicembre un altro trattore è stato confiscato ai contadini nel nord della valle del Giordano, dopo che avevano tentato di raggiungere le loro terre sul lato orientale dell’autostrada 90 (chiamata come quel sostenitore del trasferimento della popolazione palestinese, l’ex ministro Rehavam Ze’evi [del partito di estrema destra Modelet e assassinato nel 2001 da un palestinese. Ndtr.]).

Negli ultimi tre mesi del 2016 l’IDF ha condotto 20 esercitazioni di addestramento con proiettili letali sulla terra delle comunità palestinesi nella zona settentrionale della valle del Giordano. Secondo l’organizzazione israeliana dei diritti umani B’Tselem, queste esercitazioni significano che a circa 220 persone – compresi circa 100 minori delle comunità di Al-Ras al-Ahmar, Khirbet Khumsa e Abzik – è stato ordinato di lasciare temporaneamente le proprie case in 19 diverse occasioni.

B’Tselem ha segnalato che nel villaggio di Al-Farisiyah, che non è stato evacuato, l’esercito ha proibito agli abitanti di portare al pascolo le greggi nelle terre circostanti, poi si è addestrato su terreni coltivati e vi ha persino sistemato bagni provvisori. Inoltre le truppe hanno dissodato parte delle terre dell’area per rendere più agevole il passaggio dei mezzi militari, e in questo modo hanno provocato ulteriori danni ai terreni agricoli.

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha detto ad Haaretz che “le zone di servitù militare, soprattutto nella valle del Giordano, e in generale in Giudea e Samaria, sono state dichiarate tali con un’ordinanza dell’autorità del comando militare della regione fin dagli anni ’70, in base a necessità di sicurezza. Gli abitanti che si trovano in quelle zone di addestramento lo stanno facendo in violazione della legge.

“Prima di ogni addestramento militare, si prendono iniziative con lo scopo di evitare danni fisici o alle proprietà, tali come controlli a vista, pattugliamenti, piazzando protezioni e dialogando con gli abitanti della zona attraverso l’Amministrazione Civile. Durante le esercitazioni, agli abitanti viene richiesto di lasciare la zona delle manovre. Le attività menzionate al riguardo sono state approvate dalla Corte Suprema in richieste che sono state presentate in modo simile,” ha affermato l’ufficio del portavoce dell’IDF.

Martedì 20 dicembre 2016 Dafna Banai, di Machsom Watch [associazione di pacifiste israeliane che controllano il comportamento dei militari nei Territori Occupati. Ndtr.] ha riferito: “Tutti i sentieri che collegano la valle del Giordano palestinese alle località di Aqraba, Beit Furik e Tubas, in Cisgiordania, sono ora bloccati da mucchi di terra, fossati, enormi massi e cancellate chiuse. Persino quelli aperti negli scorsi anni sono stati ora nuovamente interrotti.”

“Solo il cancello di Gokhia, che separa la valle del Giordano da Nablus e Tubas oggi è aperto (da domenica, secondo gli abitanti del posto). Tutto ad un tratto non ci sono “ragioni di sicurezza”, né “pericolo per i palestinesi perché l’area è utilizzata per le manovre militari” – da sempre, quando le manovre sono in corso, il cancello è aperto (per consentire il libero passaggio ai mezzi militari senza perdita di tempo ogni volta che deve essere aperto o chiuso). Nei pressi del cancello si vedono tre veicoli blindati e soldati annoiati. Si sta di nuovo svolgendo un’esercitazione militare nella valle del Giordano. Siamo entrate ad Al-Ras al-Ahmar, ma non abbiamo potuto andare oltre il primo accampamento a causa del fango spesso. Stava piovendo a dirotto quella mattina e tutta la regione si è trasformata in un grande pantano,” ha scritto.

“Da mezzogiorno alle 16,30 del pomeriggio la strada che sale a Tyassir ed il resto della Cisgiordania sono state interrotte a causa delle manovre militari. Si vedevano lunghe file di veicoli palestinesi da Al-Malih, dove due soldati annoiati stavano bloccando il traffico. I soldati non avevano nessuna idea di quando sarebbe stata riaperta la strada,” ha raccontato Banai.

“I palestinesi, per lo più maschi, lavoratori a giornata sulla strada di casa dal loro lavoro nelle colonie, stavano ad oziare sulla strada, fumando. Qualcuno ci ha domandato di chiedere ai soldati di lasciarli andare a casa – qui, là, a 200 metri di distanza, a Al-Burj. Ma i soldati sostenevano di avere l’ordine di non lasciar passare nessuno, senza eccezioni. Eravamo anche in contatto telefonico con Mahdi, che si trovava sull’altro lato (occidentale) del blocco, ed ha parlato di lunghe code in attesa anche là. Peggio di tutto, bambini dell’asilo e delle elementari (come Rina, di 5 anni) hanno dovuto aspettare sulla strada per 4-5 ore! Gironzolavano in mezzo ai carri armati israeliani, chiedendo un po’ di cibo ai soldati; non avevano mangiato niente dalla mattina,” ha scritto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Adeguarsi alla perniciosa occupazione israeliana

 Amira Hass – 1 gennaio 2017, Haaretz

A.B. Yehoshua si mette in riga dividendo i palestinesi in varie categorie e quindi ignora le loro difficoltà complessive.

Lo scrittore A.B. Yehoshua (“Alleviare la perniciosità dell’occupazione”, Haaretz, 31 dicembre) ha ragione quando collega la parola “perniciosità” a occupazione. Ma sotto le mentite spoglie dell’innovazione, dell’audacia e di considerazioni umanitarie, la sua proposta per un temporaneo e parziale allentamento della perniciosità si adegua alla tradizionale politica israeliana: dividere il popolo palestinese in varie categorie burocratiche, in enclaves separate e distanti, e naturalmente senza chiedere la loro opinione.

Per sembrare audace, ma per proporre qualcosa che è proprio quello che il governo del ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (entrambi di Habayit Hayehudi [estrema destra dei coloni. Ndtr.]) vogliono, alcuni dei fatti citati da Yehoshua vengono stravolti. Qui di seguito alcuni di questi stravolgimenti:

* “Uno spazio binazionale”. Non c’è bisogno di andare fino ai miseri quartieri congegnati da Israele a Gerusalemme est per giocare con l’idea di un “laboratorio” di vita binazionale. E’ vero che il popolo palestinese è stato disperso da quando è stato espulso dalla propria terra d’origine nel 1948. Ma non ha mai smesso di essere una nazione per questa ragione, compreso il milione e mezzo di palestinesi che sono attualmente cittadini israeliani. Israele nei suoi confini riconosciuti è uno spazio binazionale, indipendentemente della sue definizioni e dalle discriminazioni che opera a danno dei suoi cittadini palestinesi.

* “La Striscia di Gaza è del tutto separata da Israele.” Non è vero. I due milioni di residenti della Striscia di Gaza sono registrati nell’anagrafe controllata da Israele. Come i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Come Yehoshua e come me. La carta d’identità rilasciata ad ogni sedicenne di Gaza necessita dell’approvazione israeliana. E’ Israele che decide se, quanti e quali palestinesi che tornano dall’estero otterranno la residenza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La moneta corrente in uso nella Striscia è lo shekel.

Circa un quarto dei gazawi ha familiari in Cisgiordania, nella Gerusalemme est occupata e nello stesso Israele. Tutti i residenti di Gaza hanno proprietà immobiliari del passato, di famiglia, e legami affettivi all’interno di Israele, indipendentemente da quello che noi decidiamo per loro.

* “L’Area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese.” Non è esatto. Nell’Area A i palestinesi hanno poteri civili e di polizia, ma non militari. Quando ogni settimana i nostri soldati fanno incursioni nei quartieri e nelle case in questa zona, le forze di sicurezza palestinesi si devono nascondere nelle loro basi. Se si oppongono all’invasione dell’esercito israeliano – le uccidiamo o le condanniamo per terrorismo.

* “(Sono) i palestinesi che vivono nell’Area C che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.” Di cosa stai parlando? I coloni non discriminano e vessano chiunque, e sono impazienti di mettere le mani nella “C” sulla terra di palestinesi che vivono ovunque in Cisgiordania

* “Il numero di palestinesi che abitano nell’Area C è solo di circa 100.000.” Da dove esce questo numero? Bimkom [associazione di urbanisti e architetti israeliani che opera per una gestione collettiva del territorio. Ndtr.], “Pianificatori per diritti di progettazione”, nel 2008stimava che nell’Area C vivessero 150.000 palestinesi. Un mini-censimento condotto dall’ufficio Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati ha trovato che alla fine del 2013 il numero era raddoppiato -300.000. Alcuni vivono in comunità che si trovano totalmente nell’Area C, altri in comunità divise tra C, A e B, che sono in ogni caso categorie artificiose, in contraddizione con qualunque logica di pianificazione. Quello che è certo è che circa 30.000 beduini nell’Area C sarebbero contenti di tornare nella loro terra nel Negev, da cui sono stati espulsi nel 1948. Accanto alle comunità di Al-Arakib e di Ummal-Hiran, che, come sappiamo, sono prospere e godono dei molti diritti che Israele ha concesso loro… [riferimento polemico al modo in cui sono trattati i beduini con cittadinanza israeliana. Ndtr.]

* “Residenza con diritti (sociali) di base.” Naturalmente il modello è quello dello status di residenti dei palestinesi di Gerusalemme est, o, per essere più precisi, i deliri israeliani su quanto sia bella lì la vita dei palestinesi. Se fosse così bella, come mai abbiamo trasformato circa l’80% di loro in poveri a carico dell’assistenza sociale? Oltre alla situazione di inferiorità socio-economica in cui abbiamo gettato i palestinesi di Gerusalemme, il loro stesso status di residenti è molto precario. Dipende dalle norme di ingresso in Israele, in altre parole, si riferisce a questi cittadini come se avessero scelto di spostarsi e vivere in Israele, piuttosto che essere stati invasi da Israele.

Pertanto è uno status sottoposto a condizioni, che Israele può revocare a suo piacimento, secondo criteri che esso stesso ha stabilito (provare di avere lì il “centro della propria vita” o “lealtà allo Stato”). Prima del 1994 (quando le autorità civili sono state trasferite all’Autorità Nazionale Palestinese), Israele poteva espellere residenti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come voleva, e revocare il loro status. Gli accordi di Oslo hanno abolito questa prerogativa dell’occupante (una delle poche clausole positive). A Gerusalemme i palestinesi rimangono più che mai esposti al pericolo di espulsione e di revoca della residenza. Ora Yehoshua vuole aggiungervi altre 100.000 persone?

* “Questo permesso di residenza impedirebbe l’espropriazione delle loro terre (o renderla molto più difficile).” Di cosa sta parlando Yehoshua? La residenza – proprio come la cittadinanza – non protegge i palestinesi dal furto della loro terra e dall’espulsione dalle loro case. Silwan. Isawiyah. Jabal Mukkaber. Sakhnin. Jaffa. Al-Arakib. Sono esempi sufficienti?

La deformazione rende più facile creare una separazione emotiva ed intellettuale dal siginificato dei fatti. La separazione è comprensibile. E’ difficile ammettere che l’ideologia sionista e la sua creazione – Israele – abbiano dato vita a un mostro ladro, razzista, arrogante che ruba acqua, terra e storia, che ha le mani insanguinate con la scusa della sicurezza, che per decenni ha deliberatamente pianificato l’attuale pericolosa situazione di bantustan, da entrambi i lati della Linea Verde [che divide Israele dai territori occupati. Ndtr.]. Tutto ciò che Yehoshua sta facendo è mettersi in riga e suggerire un’altra sotto-definizione che aiuti la burocrazia israeliana a dividere in categorie il popolo palestinese e separarlo dai suoi luoghi e dalla sua terra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La Banca Mondiale avverte: la crisi idrica di Gaza ha causato danni irreversibili

di Amira Hass, 18 dicembre 2016, Haaretz

In un’intervista ad Haaretz l’esperto locale della banca avverte che, senza un maggior flusso di acqua da Israele, Gaza diventerà invivibile entro il 2020.

 

Secondo un importante esperto di risanamento idrico della Banca Mondiale un danno irreversibile è già stato arrecato a parti dell’acquifero costiero della Striscia di Gaza, in seguito all’eccessivo pompaggio e all’infiltrazione di acqua marina.

L’istituto finanziario è una tra le tante organizzazioni locali ed internazionali che negli ultimi 20 anni hanno dato l’allarme e tentato di impedire che questo accadesse.

In termini ecologici il danno all’acquifero sta peggiorando e studi hanno dimostrato un costante aumento della salinità dell’acqua”, ha detto Adnan Ghosheh. Questo avvicina la Striscia di Gaza alla situazione che le Nazioni Unite avevano previsto nel 2014: sarà inabitabile entro il 2020.

Per esprimere ancora una volta l’urgenza di rimediare alla situazione, la Banca Mondiale all’inizio del mese ha emesso un comunicato stampa in seguito al quale Haaretz ha intervistato Ghosheh.

Gran parte delle informazioni contenute nel comunicato stampa non sono nuove. Si segnala che, mentre il 90% degli abitanti della Cisgiordania e l’85% di quelli del Medio Oriente e del Nord Africa hanno accesso all’acqua potabile, solo il 10% dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza possono bere in sicurezza l’acqua corrente nelle loro case. Il restante 90% non mette nemmeno in relazione il bere acqua con il semplice atto del girare un rubinetto: la loro acqua è troppo salata a causa dell’infiltrazione di acqua marina e troppo pericolosa a causa dei liquami o delle acque nere che penetrano nelle falde acquifere.

Nel comunicato stampa Ghosheh ha detto: “La popolazione di Gaza non può utilizzare l’acqua che arriva nelle case per bere; la usano per uso domestico, ma per bere devono contare su autobotti. Ci sono circa 150 operatori che forniscono una sorta di acqua desalinizzata, che è stata filtrata per renderla potabile e adatta a cuocere cibi. E’ più cara dell’acqua del rubinetto”, ha aggiunto, e dal punto di vista igienico non è sicura e non soddisfa gli standard relativi all’acqua potabile.

I problemi collegati all’inquinamento ed alla carenza d’acqua comprendono disturbi intestinali, gastroenterite, alti tassi di malattia tra i bambini, malattie della pelle ed altri disturbi. Pochi abitanti di Gaza hanno la possibilità di avere in casa un impianto di trattamento delle acque, mentre altri comprano acqua purificata almeno per lavare i bambini – ma non sono molti a poter sostenere questa spesa nell’impoverita Striscia di Gaza.

La Banca Mondiale afferma che la ragione della caduta del livello dell’acqua dell’acquifero è dovuta all’eccessivo pompaggio a causa della crescita della popolazione. Il comunicato stampa non cita il fatto fondamentale che Israele ha il controllo dell’acqua sia sul proprio territorio sia nei territori occupati e non riconosce il principio dell’equa distribuzione dell’acqua tra i due popoli.

Le disposizioni sull’acqua imposte ai palestinesi dagli Accordi di Oslo trattano Gaza in termini di economia idrica autarchica. Il che significa che i 2 milioni di abitanti di Gaza si devono accontentare di quella parte dell’acquifero costiero che aveva la stessa portata idrica per circa 270.000 persone nel 1949 (200.000 rifugiati e gli altri abitanti autoctoni).

La quantità di acqua annuale fornita dalla parte di acquifero della Striscia di Gaza è di circa 57 milioni di metri cubi. Gli accordi di Oslo non hanno considerato la possibilità che grandi quantità di acqua venissero fornite a Gaza da altre parti, così come vengono fornite nelle zone più aride all’interno di Israele. Invece vi è stato un pompaggio eccessivo per molti anni, per una quantità di 100 milioni di metri cubi all’anno.

Secondo un rapporto annuale dell’Autorità per l’Acqua palestinese relativo alla situazione di Gaza, nel 2015 il livello delle falde acquifere andava dai 12 metri sopra il livello del mare nella parte sud est della Striscia ai 19 metri sotto il livello del mare nella zona di Rafah – che è considerato il livello più basso.

Ghosheh ha detto ad Haaretz che secondo lui la soluzione provvisoria più veloce e sicura è portare più acqua a Gaza da Israele – anche se ha aggiunto che si tratterebbe solo di una soluzione temporanea.

Non capisco perché le due parti non procedano verso questa soluzione. Oggi Israele fornisce” – cioè vende – “circa 7.5 milioni di metri cubi d’acqua all’anno a Gaza. Stanno parlando di aumentare questa quantità fino a 20 milioni di metri cubi, ma non si vedono ancora passi concreti in questa direzione – e neanche 20 milioni di metri cubi sono sufficienti. Si deve discutere di quantità molto più grandi” che Israele venderà a Gaza, ha detto.

Ma la Banca Mondiale – insieme alla Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo e alla Banca Islamica di Sviluppo – sta lavorando soprattutto ad una soluzione che l’Autorità Nazionale Palestinese ha adottato come parte della propria strategia: un grande impianto di desalinizzazione che, secondo il piano, fornirà circa 55 milioni di metri cubi all’anno; il costo di costruzione previsto si aggira intorno ai 500 milioni di dollari. Tre impianti di desalinizzazione più piccoli sono già operativi e forniscono circa 4 milioni di metri cubi all’anno – oltre a dozzine di piccole aziende di purificazione (dell’acqua).

Ci sono opinioni differenti tra gli esperti idrici palestinesi circa la soluzione della desalinizzazione. I favorevoli sono convinti che diminuirebbe la dipendenza di Gaza da Israele. I contrari sono preoccupati dei danni ambientali; sostengono che la dipendenza ci sarà sempre per quanto riguarda l’ingresso di materiali da costruzione e parti di ricambio; e avvertono che, da un punto di vista pratico, gli abitanti di Gaza non saranno in grado di sostenere i costi da soli (l’acqua desalinizzata costa di più). Inoltre il fatto è che un impianto di questo genere richiede un impiego costante di circa 25 megawatts di elettricità – che non è chiaro da dove possano arrivare.

C’è anche chi sostiene che i palestinesi non devono rinunciare alla richiesta di un’equa allocazione delle risorse idriche del paese e quindi a richiedere ad Israele di compensare la quantità d’acqua che estrae dalla Cisgiordania per il consumo dei cittadini israeliani e per i coloni – fornendo grandi quantità d’acqua alla Striscia di Gaza.

Nel 2009 la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto dal titolo “Valutazione delle restrizioni allo sviluppo del settore idrico palestinese”, che descriveva in dettaglio l’iniqua distribuzione delle risorse idriche in Cisgiordania. Rispondendo alla domanda se l’ultimo comunicato stampa sia la prova che il rapporto del 2009 non è riuscito ad esercitare pressioni su Israele perché cambiasse la sua politica, Ghosheh ha sorriso. “ Lei fa domande difficili”, ha detto, aggiungendo: “Quando uno va a Gaza e vede la situazione, parla con la gente e vede quanto soffre e poi va ad un incontro nell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei Territori Occupati. Ndtr.], o dei paesi donatori o dell’Autorità Nazionale Palestinese e cerca di spiegare, capisce che non c’è relazione tra quello che vi si dice e la gravità della situazione.”

Adesso, dice Ghosheh, la Banca Mondiale sta preparando un nuovo rapporto che sarà incentrato sulla possibilità di opzioni di manutenzione e di maggiore efficienza nella gestione idrica palestinese. Secondo lui “ci sono cose che l’ANP può fare – come, ad esempio, l’efficienza. Prima che Israele iniziasse a desalinizzare l’acqua, ha cercato di ridurre la perdita d’acqua nelle tubature. Circa il 38% dell’acqua a Gaza viene perduto.”

Si è detto d’accordo sul fatto che Gaza deve negoziare per lunghi mesi con l’apparato di sicurezza israeliano per ogni grammo di materie prime o pezzi di ricambio introdotti nella Striscia, ma ha spiegato: “Lo studio viene fatto per fornire raccomandazioni non solo ai paesi donatori, ma anche agli utilizzatori,” riferendosi all’Autorità per l’Acqua palestinese ed agli enti locali. “Se vogliamo parlare di sicurezza dell’acqua dobbiamo parlare anche del contesto palestinese”, ha aggiunto.

Alla domanda se mettere l’accento sull’Autorità Nazionale Palestinese può essere visto come prendere di mira un facile bersaglio dopo che la pressione su Israele non ha ottenuto risultati, Ghosheh ha risposto: “Certo, i palestinesi sono il fattore debole dell’equazione ed è più facile ottenere un cambiamento con loro. Noi siamo un’istituzione per lo sviluppo, non un’istituzione politica. Loro possono fare dei miglioramenti al loro interno. Lo capiscono e stanno già facendo dei cambiamenti.”

La Banca Mondiale ha rinunciato a fare pressione su Israele perché modifichi la sua politica discriminatoria?

Il nostro scopo non è mai stato fare da mediatori, ma piuttosto supportare il popolo palestinese. Il nostro cliente è l’Autorità Nazionale Palestinese e noi le diamo consigli su che cosa è possibile e che cosa è impossibile.”

In altri termini, la sua conclusione è che è impossibile cambiare la politica israeliana relativamente all’ingiusta ed ineguale distribuzione dell’acqua?

Lei sta parlando di politica e questo non è il mio campo.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il sionismo nella sua espressione migliore

di Amira Hass, 30 novembre 2016 , Haaretz

La terra che Israele ha destinato ai giubilanti coloni si chiama Atir/Umm al Hiran e per 60 anni ha ospitato i membri della tribù beduina di Al-Qi’an.

I video prodotti dal gruppo di coloni di Hiran mostra molti ebrei festanti, che amano cantare e suonare, raccontare barzellette e divertirsi. Saranno presto ancor più contenti, quando si sposteranno nel luogo della loro comunità defintiva nel nordest del Negev.

La terra che lo stato ha destinato a loro si chiama Atir/Umm al-Hiran e per 60 anni ha ospitato i membri della tribù beduina di Al-Qi’an. In altri termini, le case ed i parchi giochi per i bambini ebrei che verranno costruiti là, ed i parchi che vi verranno piantati, saranno tutti edificati sulle rovine delle case e delle vite di circa 1000 altre persone, che sono anch’esse cittadini israeliani (alcuni dei quali hanno servito nell’esercito, se a qualcuno importa).

Adesso ogni giorno i bulldozer dell’Amministrazione per la Terra di Israele, e/o i suoi subappaltatori, vanno a demolire le case di questi cittadini beduini per fare spazio alla fiorente comunità di giubilanti cittadini ebrei. In una parola, il sionismo.

Non si tratta di un atto di guerra o nemmeno di spirito di vendetta; tutto è stato pianificato attentamente e con calma. Il governo di Ariel Sharon ha preso la decisione, il Consiglio per la Pianificazione e l’Edificazione Nazionale ha approvato e le commissioni per i ricorsi hanno respinto tutte le contestazioni presentate.

Il piano per distruggere le vite dei beduini, per i quali il Negev è stata la casa per centinaia di anni, per favorire e promuovere un gruppo di ebrei raccolti da tutto il paese viene anche approvato e sancito da sei giudici di tre differenti tribunali: Israel Pablo Akselrad della Corte di giustizia di Kyriat Gat; i giudici Sarah Drovat, Rachel Barkai e Ariel Vago della Corte distrettuale di Be’er Sheva e i giudici Elyakim Rubinstein e Neal Hendel della Corte Suprema (il giudice Daphne Barak-Erez si è opposta alla demolizione).

Questi giudici sapevano che la tribù di Al-Qi’an viveva a Umm al-Hiran dal 1956, dopo esservi stata trasferita su ordine del governatore militare. Dopo il 1948 quei pochi beduini che Israele non ha espulso verso Gaza, la Cisgiordania o la Giordania furono obbligati a rimanere in un’area a loro destinata del Negev, che gradualmente è stata ridotta. La tribù di Al-Qi’an è stata costretta ad abbandonare le terre in cui aveva vissuto per parecchie generazioni e su cui è stato costruito il kibbutz Shoval. Dopo anni di nomadismo ed espulsioni, è arrivato il permesso di stabilirsi nell’area di Wadi Yatir. Ciononostante lo stato non ha mai riconosciuto ufficialmente il loro villaggio. Ciò significa 60 anni senza elettricità, senza servizio idrico e senza finanziamenti governativi per l’istruzione, la salute o il welfare. Oltre a questo, tutte le strutture sono definite “illegali”.

La “Nazione delle Startup” (slogan israeliano, ndtr.) vuole trasferirli nel villaggio beduino di Hura. Ecco quindi un’altra mini-lezione di sionismo: gli ebrei israeliani possono decidere da soli dove e come vivere. Gli arabi? Dovrebbero esserci grati perché non li espelliamo; loro vivranno dove e come decidiamo noi.

Il giudice Akselrad ha scritto: “Possiamo dire che l’interesse personale dei ricorrenti riguardo al fatto che i tetti sopra le loro teste non vengano demoliti non ha rilievo in queste circostanze, e in ogni caso non può prevalere rispetto al pubblico interesse di impedire che si costruisca su terreni statali.”

E i giudici di Be’er Sheva: “Una volta stabilito che il permesso concesso ai ricorrenti di usare il terreno è revocabile, il convenuto ha il diritto di richiedere il loro sfratto dal terreno…L’accusa che il convenuto abbia motivazioni nascoste o anche palesi per espellerli dalla terra al fine di stabilirvi una comunità di ebrei….(deve essere dibattuta) in un differente tribunale.”

E che cosa hanno detto i due giudici del tribunale speciale, la Corte Suprema? Si sono nascosti dietro la motivazione procedurale che i residenti avevano presentato in ritardo i loro ricorsi contro la distruzione delle loro case e delle loro vite.

La decisione presa a maggioranza da Rubinstein e Hendel, che consente la demolizione del villaggio, è stata pronunciata nel maggio 2015. Ora i bambini e gli adulti di Umm al-Hiran sanno che da un momento all’altro i bulldozer e i funzionari ebrei che recano ordini ufficiali arriveranno per cacciarli via.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Gli incendi in Israele sollevano brucianti domande sull’occupazione

di Amira Hass, 29 novembre 2016 Haaretz

Domanda: Perché non abbiamo sentito di arresti di ebrei che invocano l’uccisione degli arabi? Risposta: gli ebrei esercitano il proprio diritto alla libertà di parola.

Forse gli incendi provocati intenzionalmente per motivi politici o “nazionalisti” valgono di più dei comuni incendi? I criteri per i risarcimenti del governo ai cittadini israeliani che hanno avuto le case danneggiate la scorsa settimana verranno decisi sulla base dell’origine dell’incendio, creando una gerarchia di indennizzi ed assistenza?

Gli incendi classificati come atto terroristico ostile garantiranno alle vittime un rimborso più veloce e più consistente rispetto agli sfortunati le cui case, album fotografici e computer sono stati distrutti dal fuoco causato da un razzo della polizia o da un mozzicone di sigaretta gettato via negligentemente, la cui fiamma è stata attizzata dal vento?

Perché non sentiamo parlare di arresti di massa di ebrei i cui post sui social media invocano l’uccisione degli arabi e che hanno manifestato gioia per le loro disgrazie, ma abbiamo sentito dell’arresto di un attivista sociale di Rahat che ha schernito chi applaudiva gli incendi?

Alcune risposte:

* L’istigazione [alle violenze contro gli arabi. Ndtr.] da parte degli ebrei non è una notizia

* Gli ebrei dicono ciò che pensano ed esercitano il proprio diritto alla libertà di parola

* Gli istigatori ebrei che incitano ad uccidere i palestinesi non si trovano in carcere. Si trovano nella coalizione di governo o nella Knesset (il Parlamento israeliano. Ndtr.).

* Dichiarare che la cittadinanza dei piromani verrà revocata non è istigazione, ma parte di una politica di espulsione di vecchia data.

Com’ è che i giornalisti israeliani si affrettano a riportare le espressioni di “schadenfreude” (termine tedesco che significa “piacere provocato dalla sfortuna altrui”, ndtr.) postate sui social media arabi e palestinesi? Com’ è che sembrano non trovare i comunicati stampa, i report delle Nazioni Unite e di B’Tselem ed i post palestinesi che riferiscono dei quotidiani abusi e crudeltà perpetrati contro milioni di persone dall’esercito israeliano, dalla polizia di frontiera, dalla Municipalità di Gerusalemme, dal Ministero degli interni, dall’Amministrazione Civile, dagli Uffici di coordinamento distrettuale, dal Coordinatore delle attività governative nei territori (l’autorità militare israeliana in Cisgiordania, ndtr.), dal Ministero di pubblica sicurezza, dall’Autorità israeliana per la terra, ecc.?

Alcune risposte:

* Perché sono gli ufficiali dell’intelligence israeliana che danno la caccia ai sospetti a fornire le informazioni ai giornalisti.

* Perché i giornalisti israeliani non hanno familiarità con i siti web di B’Tselem e dell’Ufficio per il Coordinamento delle questioni umanitarie dell’ONU.

* Perché non vogliono turbare i loro amici, i loro compagni e i loro figli, che sono quei soldati, quei giudici e quel personale amministrativo che compiono gli abusi.

* Perché sono israeliani, prima che giornalisti.

* Perché sanno ciò che gli utenti israeliani delle informazioni vogliono sentire, e ciò che non può importargli di meno.

* Tutto quanto detto fin qui.

* Perché riferire come Israele domina i palestinesi non lascerebbe spazio ad altre notizie..

* Perché quello che è routine non merita i titoli.

Dobbiamo riconoscere che ci sono stati dei piromani palestinesi, così come ci sono state anche false accuse. Ma se vogliamo impedire una simile forma di sabotaggio dobbiamo comprenderne i motivi.

Queste azioni, a prescindere da quanto possano essere esecrabili, sono strettamente legate alle politiche di crudeltà. Chiunque non voglia vedere queste politiche o riconoscere che esistono dimostra di avere interesse nel mantenere vivo il problema per giustificare future espulsioni ed abusi.

Tre mappe

Dove si trovano Beit Meir, Nataf e Canada Park, tre località dove sono scoppiati gli incendi? Una risposta è che si trovano ad ovest di Gerusalemme. Un’altra è che Beit Meir è sulla terra del villaggio palestinese distrutto di Bayt Mahsir, che all’inizio del 1948 ospitava 3.000 persone. Nataf si trova dove c’era un tempo il villaggio di Beit Thul, anch’esso distrutto da noi in modo che i suoi 300 abitanti in fuga non potessero tornarvi.

Canada Park, che è gestito dal Fondo Nazionale Ebraico, sorge sulle rovine dei villaggi di Imwas e Yalo, i cui abitanti abbiamo espulso nel giugno 1967.

E dove si trova la colonia di Halamish? Sulla terra dei villaggi di Deir Nizam e Nabi Saleh. Halamish si sta espandendo; Israele impedisce ogni nuova costruzione nei villaggi palestinesi.

Gli incendi della scorsa settimana hanno abbozzato tre mappe del paese. Una è la mappa immaginaria del territorio solo degli ebrei da cui i palestinesi sono stati cancellati. La seconda è la triste mappa degli invasori e degli occupanti, dove troviamo i pochi piromani che presumibilmente hanno appiccato alcuni degli incendi e coloro che hanno gioito del loro divampare. Queste due mappe sono sorprendentemente simili.

La terza è quella delle persone legate alle loro case, che le hanno perse o le stanno perdendo, di quelle che vi torneranno dopo che saranno ricostruite e di quelle che non sono tornate.

Quante persone sono necessarie per evacuare interi quartieri di Gerusalemme? Solo alcuni piromani palestinesi condannati dalla loro società.

Quante persone sono necessarie per far fuggire mezzo milione di palestinesi da un incendio all’altro a Gaza? Molti israeliani – un governo al completo, lo staff generale, gli alti comandi e migliaia di soldati e piloti.

Quanti israeliani servono per uccidere, in una sola estate, 180 bambini da 0 a 5 anni, 346 ragazzi da 6 a 17 anni e 247 donne, come è accaduto nel 2014? Gli stessi governo al completo, staff generale, alti comandi e migliaia di soldati e piloti – insieme alla maggior parte di una nazione che plaude e li incoraggia a continuare.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La risposta dei palestinesi agli incendi in Israele: se fossero intenzionali, sarebbe una follia.

di Amira Hass – 25 novembre 2016, Haaretz

Gli incendi in Israele sono stati acclamati in commenti online da Gaza e da Paesi arabi, ma molti altri palestinesi dicono: questi sono i nostri alberi e le nostre terre, quindi perché distruggerli?

“Cosa pensate del fatto che l’incendio sia scoppiato vicino a voi, accanto alla base militare di Neveh Yair?” ho chiesto per telefono, parlando ad amici del villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, dopo essermi assicurata che il fuoco fosse sufficientemente lontano e loro fossero in salvo.

“Oh, è l’esercito.” ha detto un amico – ancor prima che fosse data la notizia che un soldato sbadato potesse aver gettato via una sigaretta accesa.

La gente del villaggio ha smesso di contare quante volte i loro campi hanno preso fuoco a causa di granate assordanti e di lacrimogeni lanciati dai soldati per reprimere manifestazioni contro il furto di una sorgente da parte dei coloni.

Aggiornamenti in tempo reale: incendi imperversano in Israele da quattro giorni

“Siete sicuri che non siano intenzionali?” ho chiesto; era chiaro che mi stavo riferendo alla possibilità che un palestinese avesse appiccato il fuoco.

Un amico ha affermato: “E’ impossibile. E se qualcuno lo avesse fatto di proposito, sarebbe folle, irrazionale e sbagliato. Sono la natura e l’ambiente ad essere danneggiati: alberi ed animali.”

C’erano informazioni su un incendio scoppiato nei pressi della colonia di Mevo Horon, e sull’evacuazione di escursionisti dal “Canada Park” nell’enclave di Latrun. Ho chiamato un conoscente che vive nel villaggio di Beit Liqya, al di là della barriera di separazione [cioè in territorio israeliano. Ndtr.].

“Cosa pensi che sia accaduto?” chiedo dopo essermi assicurata che stesse bene. “Qualcuno ha buttato una sigaretta da un’auto di passaggio,” ha sostenuto.

Il mio conoscente è originario di Beit Nuba. L’esercito espulse i residenti di questo villaggio e dei villaggi circostanti di Yalo e Imwas subito dopo che furono conquistati nella guerra del 1967. Mevo Horon fu costruito sulle terre di Beit Nuba. Il Fondo Nazionale Ebraico [organizzazione che promuove la colonizzazione della Palestina. Ndtr.] ha costruito il “Canada Park” sulle rovine di Yalo e Imwas. Il nome commemora gli ebrei canadesi che hanno donato fondi per crearlo.

” Secondo te l’incendio non è intenzionale?” ho chiesto. Il mio conoscente ha pensato che mi stessi riferendo ai sospetti che i palestinesi avessero appiccato il fuoco.

“In primo luogo, nessun palestinese ha il permesso di entrare in quell’area, salvo gli operai che si guadagnano lo stipendio nella colonia,” ha detto. “Secondo, ci sono i nostri alberi là, i nostri morti sepolti nei cimiteri, le cisterne d’acqua scavate dai nostri nonni. Ci ritorneremo, perché distruggerli?”

Le informazioni sui siti di notizie arabi sono deliranti. Ci sono commenti secondo cui l’entità (sionista) sarà bruciata – come punizione per la legge che proibisce di diffondere il richiamo alla preghiera con altoparlanti, la mano di dio. Ci sono citazioni dal Corano che avvalorano questo, come anche critiche all’Autorità Nazionale Palestinese, che vorrebbe ancora una volta offrire le proprie attrezzature per combattere gli incendi.

Un esame approssimativo mostra che molte delle persone che si rallegrano risiedono in Paesi limitrofi (Egitto, Giordania). Gli abitanti di Gaza che tifano per gli incendi rivelano solo quanto il blocco israeliano della Striscia li abbia separati dal resto del loro popolo. Non sanno che ci sono palestinesi che vivono ad Haifa e nei dintorni? Non sanno che ci sono carcerati palestinesi nella prigione di Damon (costruita sul villaggio di Damon distrutto nel 1948)?

Ovviamente ci sono molti altri post, scritti da palestinesi, che si prendono gioco di quelli che plaudono e sono furiosi contro di loro perché dimenticano che “gli alberi sono i nostri, la terra è la nostra, il Paese è il nostro.”

Qualcuno ha scritto: “Smettetela con le fesserie. Gli incendi sono scoppiati anche in Giordania. Per che cosa dio la starebbe punendo?” I sospetti comuni contro i palestinesi espressi dal ministro dell’Educazione Naftali Bennett e dal primo ministro Benjamin Netanyahu si diffondono nel sottobosco israeliano di arroganza e pregiudizio.

“Il sospetto automatico nasconde una profonda, sorprendente visione, non solo ignoranza e razzismo, ” ha affermato un amico palestinese della Galilea. ” A quanto pare gli ebrei israeliani si rendono conto che l’oppressione e l’espropriazione del popolo palestinese da parte di Israele e la nostra perdita della speranza stanno prendendo dimensioni apocalittiche. Gli israeliani si aspettano che la nostra risposta all’oppressione sia anch’essa apocalittica. E non lo è.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come rendere la vendetta ancora più gradevole

  1. di Amira Hass | 16 novembre, 2016 | Haaretz

Perché Israele ha bisogno di tenere in prigione per 12 anni un ragazzino palestinese di quattordici anni che non ha ferito nessuno?

Ogni palestinese conosce l’espressione infantile del suo viso, che il dolore ha trasformato [in quella] di un adulto. Nei media israeliani è permesso pubblicare solo la prima lettera del suo nome, A. Quello, e il fatto che questo processo si è tenuto a porte chiuse è stata la sommatoria di un trattamento speciale adeguato ad un adolescente di 13 anni e 9 mesi quando avrebbe commesso i reati per i quali è stato condannato.

E tutto il resto – il suo arresto dopo che la folla l’aveva aggredito, le sue ferite, l’interrogatorio brutale, l’accusa più grave, il giudizio e la sentenza – il sistema giudiziario lo ha trattato esattamente nel modo in cui l’opinione pubblica israeliana chiedeva: vendetta, vendetta, vendetta.

I giudici Yoram Noam, Rivka Friedman-Feldman e Moshe Bar-Am lo hanno giudicato colpevole di due tentativi di omicidio, sebbene non abbia accoltellato nessuno. Fin da principio ha raccontato a coloro che lo interrogavano e ai giudici che lui e suo cugino, Hassa Manasra, sono andati circa un anno fa a Pisgat Ze’ev [colonia israeliana, ndt.]per spaventare gli ebrei con i coltelli che avevano con sé ( a causa del modo in cui il regime israeliano opprime i palestinesi ), forse per accoltellare qualcuno, ma senza volere ammazzare nessuno. È stato condannato perché il quindicenne Manasra ha accoltellato un giovane e un ragazzo ( la squadra della polizia di frontiera avrebbe potuto arrestarlo ma lo hanno ucciso come è di moda da queste parti).

I giudici non hanno dato importanza alla testimonianza di A, che lui e Manasra avevano deciso fin dall’inizio che non avrebbero ferito donne, bambini o anziani; di proposito non hanno provato a colpire un vecchio che hanno incrociato sul loro cammino. I giudici non hanno dato credito al racconto di A, che ha provato a evitare che suo cugino ferisse il ragazzo. I giudici non hanno dato il debito peso al fatto che A. avrebbe potuto confessare subito il tentato omicidio, così sarebbe stato condannato prima di raggiungere i 14 anni ( e così non sarebbe stato mandato in prigione). Semplicemente non ha accettato di confessare qualcosa che non aveva intenzione di fare.

L’ ufficiale responsabile della libertà vigilata, che ha dato parere favorevole per un processo di rieducazione di A, ha raccomandato la corte di seguire il consiglio dell’assistente e di tenere il ragazzo fino all’età di 18 anni in una comunità residenziale vigilata. Ma i giudici hanno imposto una condanna di 12 anni di prigione al ragazzo quattordicenne che non aveva ferito nessuno. Non hanno nemmeno dato ascolto alla richiesta di mettere A in una comunità residenziale vigilata fino al raggiungimento dei 18 anni.

“Fin da oggi!” ha decretato il giudice Noam la scorsa settimana nel giorno della sentenza. Il ragazzo deve essere immediatamente condotto in prigione(Megiddo). La vendetta è gradevole e per renderla ancora più dolce i giudici hanno ordinato al minore di pagare un risarcimento di 180.000 shekel (pari a 44mila euro) alle parti lese. Che la famiglia si rovini completamente, perché no?

I giudici avrebbero potuto considerare altre sentenze , che affermano come sia impossibile giudicare i comportamenti dei bambini con gli stessi criteri di quelli usati per un adulto. Avrebbero potuto prendere spunto dai giudici che hanno decretato condanne di 24 mesi e di 54 mesi rispettivamente [da scontare] in una comunità residenziale vigilata a due minori ebrei che hanno ucciso un vecchio che aveva rifiutato di dargli una sigaretta. Ma Noam e i suoi colleghi hanno preferito considerare “l’ondata di terrore” e “il fattore nazionalistico” piuttosto che il ragazzino.

Se avessero tenuto in considerazione il fatto che si trattava di un ragazzino avrebbero giudicato così:

“Dinanzi a noi sta un altro adolescente che dal momento della nascita a Gerusalemme ha subito una discriminazione metodica e intenzionale a favore dei bambini ebrei suoi coetanei: riguardo alla casa, alla scuola, alle opportunità lavorative, alle infrastrutture, alla libertà di movimento e alle scelte, al diritto ad avere un’identità collettiva.

Dinanzi a noi sta un altro ragazzo che sfortunatamente ha subito quotidianamente la brutalità della polizia, il disprezzo della municipalità e la malvagità del sistema. Un altro ragazzo che è confuso dalla [reazione]debole degli adulti nei confronti di tutta questa malvagità e la tendenza all’emulazione lo ha spinto a compiere un gesto assurdo e pericoloso a cui i suoi genitori si sono opposti e di cui oggi egli stesso si è pentito. Lo manderemo in una comunità residenziale vigilata per pochi anni, per riflettere, per capire e per rieducarsi.

“Il mutamento della situazione generale non dipende solamente da noi, ma è stato già dimostrato che le uccisioni, le demolizioni di case e le sproporzionate condanne alla detenzione e al pagamento di multe non sono dei deterrenti. Al contrario. Mandano un messaggio ad altri palestinesi che gli ebrei li odiano, li perseguono, li opprimono e li espellono solo perché sono palestinesi.”

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




I palestinesi temono che Abbas stia sempre più diventando un dittatore

di Amira Hass

11 novembre 2016 Haaretz

La Corte Costituzionale Palestinese ha stabilito che il presidente palestinese Mahmoud Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese (Parlamento provvisorio nei territori occupati,ndtr.), consentendogli così di emarginare i suoi rivali.

Un accademico della Striscia di Gaza ha scritto su Facebook in risposta alla vittoria elettorale di Trump: “Come primo provvedimento, Trump ordinerà di redigere dei rapporti di sicurezza riguardo ai traviati del suo partito che hanno votato per Clinton, e istituirà una corte costituzionale pronta ad eliminare i membri che non hanno votato per lui.”

Il palestinese comune non ha difficoltà a cogliere la frecciata. Il presidente Mahmoud Abbas ha condotto per anni un’epurazione e una campagna per tacitare coloro che considera sostenitori di Mohammed Dahlan (dirigente di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione, ndtr.), o che dissentono dalla linea ufficiale del partito. Persino Nikolay Mladenov, coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, ha fatto allusione in pubblico ai tentativi di Abbas di mettere a tacere (gli avversari).

Mercoledì sera si è tenuta a Ramallah una cerimonia solo su inviti per l’ inaugurazione del museo “Yasser Arafat”. Il museo ha aperto al pubblico ieri (10 novembre, ndtr.), nel 12^ anniversario della morte di Arafat. Mladenov, che era tra i relatori, ha sottolineato le tappe fondamentali della vita del “leader che ha trasformato i rifugiati in una nazione.”

Era un uomo che rispettava le opinioni dei suoi avversari”, ha detto. Giusta o sbagliata che sia, questa affermazione è in linea con il modo in cui l’OLP e Fatah ricordano Arafat, quando mettono a confronto la sua leadership con quella di Abbas.

Il 3 novembre la Corte Costituzionale palestinese ha stabilito che Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese, permettendogli così di emarginare i suoi rivali. Nel breve termine questo significa la conferma dell’ordine di Abbas del 2012 di revocare l’immunità parlamentare a Dahlan.

La Corte Costituzionale non interveniva in ambito legislativo dal 2006. La vibrata protesta dei suoi membri e dei gruppi palestinesi per i diritti umani contro questa sentenza non deriva dalla preoccupazione per la reputazione e per la sorte di Dahlan. Egli, che era negli anni ’80 un focoso attivista contro l’occupazione e capo delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, si è trasformato in un uomo d’affari con interessi globali. Se le voci sono vere, Dahlan spende decine di milioni di dollari per garantirsi la fedeltà dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza e la loro opposizione alla fazione di Abbas.

I contestatori vedono la sentenza della corte come un altro passo nella direzione di quella che sembra essere la strategia di Abbas verso un regime dittatoriale.

La legge istitutiva della Corte Costituzionale è stata emanata nel 2003, al fine di esprimere pareri ed interpretare norme costituzionali poco chiare in caso di disaccordo tra l’autorità esecutiva e legislativa.

Nel gennaio 2006, alla vigilia della vittoria elettorale di Hamas, quando Abbas era già presidente, la legge è stata drasticamente modificata. Sono state revocate la partecipazione della Corte Costituzionale nella nomina dei giudici e l’autorità della Corte nel monitorare e supervisionare l’attività del presidente. Ciononostante la Corte Costituzionale è rimasta inattiva, perché nessun giudice è stato nominato.

Lo scorso aprile sono stati nominati nove giudici della Corte Costituzionale. Le nomine sono state immediatamente contestate da 18 gruppi palestinesi per i diritti umani, che denunciavano che tutti i giudici erano membri di Fatah o vicini ad essa. Hanno anche sostenuto che, benché i giudici dovessero ricevere il mandato da parte dei vertici dei tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), lo hanno ricevuto in assenza di quello legislativo.

In un’ulteriore dichiarazione diffusa questa settimana, le stesse organizzazioni per i diritti umani hanno contestato la sentenza della Corte che autorizza il presidente a revocare l’immunità ai membri del Consiglio Legislativo. Sostengono che la Corte (prima di diventare la Corte Costituzionale) ha affermato che la Legge Fondamentale Palestinese ( costituzione provvisoria in attesa di uno stato palestinese, ndtr.) non è superiore alle altre leggi. Hanno anche detto che lo stato di emergenza, in base al quale l’ANP ha operato a partire dal 2007, conferisce al presidente poteri quasi illimitati.

Un membro di una delle organizzazioni ha detto che questi passi segnalano una tendenza verso una Corte sottomessa al potere esecutivo. Ha affermato che, sulla base della bozza di costituzione dello “Stato di Palestina”, che è stata emanata pochi mesi prima dell’insediamento della Corte Costituzionale, l’obiettivo è autorizzare questa Corte a decidere chi sarebbe nominato nelle funzioni di presidente, se dovesse morire quello in carica.

Allo stato di cose presente, questo significa una sola cosa, impedire che il portavoce del Consiglio Legislativo Palestinese Aziz Dweik, di Hamas, diventi presidente ad interim, come stabilito dalla Legge Fondamentale dell’ANP. Ma la decisione consentirà anche di revocare l’immunità ad altri parlamentari critici verso il governo palestinese. Anche se la loro immunità non venisse revocata, la sentenza produrrebbe comunque un effetto che potrebbe mettere a tacere le critiche.

Questa settimana un giornalista palestinese ha osato scrivere su Facebook: “Il sogno palestinese è svanito ed è iniziato l’incubo. Il sogno di uno stato palestinese indipendente è scomparso, perché il potere politico ha trasformato il progetto nazionale in un progetto personale e di parte.”

E’ una dimostrazione di coraggio, in un momento in cui, secondo quanto riferito da fonti palestinesi, le forze di sicurezza palestinesi stanno arrestando gli autori di post critici.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I palestinesi non si aspettano molto da Trump, ma temono di perdere l’autogoverno

di Amira Hass, 10 novembre 2016

Haaretz

L’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come una prosecuzione del declino americano.

‘Official Palestine’, l’ufficio del Presidente Mahmoud Abbas, ha rilasciato la scontata dichiarazione: “Lavoreremo con qualunque presidente eletto dal popolo americano nel quadro del principio di raggiungere una soluzione permanente in Medio Oriente sulla base della soluzione dei due stati entro i confini stabiliti il 4 giugno 1967, con Gerusalemme est come capitale.”

Non ci si aspetta assolutamente che Donald Trump ci riservi una sorpresa, laddove Barak Obama ha completamente desistito – in altri termini, dal fare pressioni su Israele e porre fine alla costruzione delle colonie – anche se non dichiara, come ha fatto il suo consigliere, che le colonie sono legali. L’ipotesi, o la speranza, è che dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Trump non sarà in grado di allontanarsi troppo dalle regole di lavoro e dai principi fondamentali di decenni di politica estera americana, poiché in fin dei conti gli Stati Uniti sono una nazione che si regge su istituzioni e leggi, non su un uomo solo al comando.

Uno di questi principi fondamentali è il mantenimento dell’occupazione israeliana, unitamente al mantenimento dell’esistenza di un governo indipendente palestinese. Questo trova riscontro nei contributi finanziari da parte degli Stati Uniti all’Autorità Nazionale Palestinese (in gran parte destinati alle forze di sicurezza e alla pavimentazione delle strade che facilitano le infrastrutture di trasporto tra le enclaves dell’area A) e per l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA). (Gli Stati Uniti sono il principale donatore dell’UNRWA). Quindi quando parlano della soluzione dei due stati, che sembra essere più lontana che mai, i funzionari palestinesi di fatto mirano anzitutto al breve termine: non vogliono che la cosiddetta rispettabilità politica che hanno acquisito per se stessi e che la diplomazia riconosce loro possa venir meno.

E neppure vogliono che venga meno la semi-sovranità che hanno conquistato nelle piccole enclaves dell’area A – ed a cui la popolazione palestinese si è abituata più di quanto voglia ammettere. Accadrà che Trump, con le sue dichiarazioni contraddittorie e per via della sua ignoranza, insieme ai repubblicani che ora controlleranno entrambe le camere del Congresso, deciderà di ridurre o addirittura interrompere questi contributi all’ANP?

Trump, nell’arroganza della vittoria, si rapporterà alla leadership palestinese come farebbe nei confronti di un’organizzazione terrorista ostile, o ci sarà qualcuno che gli spiegherà che un’Autorità Palestinese funzionante in realtà è una cosa positiva per Israele e per le politiche del suo partito?

Al tempo stesso, come influirà la mancanza di chiarezza in politica estera di Trump sulla diplomazia palestinese e sulle relazioni con Fatah? E’ possibile – senza alcun riferimento a Trump – attendersi dei cambiamenti finché Abbas rimarrà al vertice della piramide?

Non c’è bisogno, per pretesti diplomatici, di nascondere i veri sentimenti del popolo palestinese nei confronti di Trump. La delirante campagna elettorale negli Stati Uniti, in cui ciò che i due candidati avevano in comune era il gran numero di americani che li detestava, ha rafforzato il mantra palestinese della gente comune: l’America sta attraversando un “declino generazionale”.

Qualunque superpotenza alla fine può cadere in basso, e nemmeno gli Stati Uniti ne sono esenti. E se ciò accade, anche Israele ne verrà indebolito. Dopo lo shock iniziale, l’elezione del misogino padrone dei concorsi di bellezza viene interpretata semplicemente come la continuazione del declino.

Questa è un’analisi logica ma non politica, perché viene abitualmente portata a giustificazione dello star seduti a non fare niente finché il tempo e la ruota della fortuna diano i loro frutti. Una specie di versione laica dell’ abitudine di citare versi del Corano che profetizzano la punizione degli israeliani perché hanno peccato e non hanno fatto ciò che era giusto agli occhi di dio.

La vittoria di Trump, sicuramente nel breve e medio termine, verrà interpretata come un incoraggiamento alle politiche israeliane nei territori. Potrebbe accrescere il senso di abbandono dei palestinesi, ma non così drasticamente, a quanto sembra. Non cambierà né cancellerà le due tendenze contraddittorie che oggi caratterizzano la leadership della società palestinese. Da un lato la rivolta individuale, “il suicidio per mano dei soldati” da parte di giovani le cui motivazioni personali e politiche sono intrecciate. Dall’altro lato la fuga dalla politica, dalla possibilità di una rivolta generale e popolare, una vita quasi normale nelle enclaves, attività culturali, aspirazione ad una buona educazione per i ragazzi, problemi di bassi salari e lamentele sul fallimentare sistema sanitario, ecc. Come se l’occupazione non esistesse.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)