In attacchi separati alcuni coloni hanno aggredito attivisti palestinesi e israeliani di sinistra in Cisgiordania

Hagar Shezaf

11 settembre 2023 – Haaretz

Nel primo incidente i coloni hanno colpito un pastore palestinese con una mazza, rompendogli una mano. Nel secondo i coloni hanno aggredito attivisti di sinistra arrestati dalla polizia. “È stato il peggio incidente in cui sia mai stato coinvolto,” afferma uno degli attivisti.

Sabato in Cisgiordania coloni israeliani hanno aggredito e ferito un palestinese e attivisti di sinistra in due incidenti separati

La prima aggressione è avvenuta nel nord della Valle del Giordano, dove coloni mascherati si sono avvicinati e hanno colpito con una mazza un pastore palestinese, rompendogli una mano.

Il secondo incidente si è svolto sulle Colline Meridionali di Hebron, nei pressi della colonia di Otniel, dove i coloni hanno attaccato militanti di sinistra mentre venivano arrestati dalla polizia. Secondo gli attivisti i coloni hanno colpito anche il poliziotto che si trovava sul luogo.

Due coloni sono stati arrestati in quanto sospettati di essere coinvolti nel secondo incidente, ma sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati.

Nella Valle del Giordano, Ahmad e suo figlio sono usciti dalla loro casa nei pressi di Ein al-Sakut nel pomeriggio per portare le loro pecore a pascolare con tre militanti di sinistra che li accompagnavano per proteggerli.

Mentre stavano camminando hanno visto un gruppo di circa 10 uomini mascherati diretto verso di loro dalla colonia di Shadmot Mehola. Ahmad “ha visto un gruppo comparso improvvisamente, come in un film dell’orrore, con magliette bianche, tzitzit (frange rituali ebraiche tradizionalmente portate dagli uomini) e con in mano delle mazze,” dice Gali Hendin, una degli attivisti che facevano da scorta e testimone oculare dell’incidente.

Mentre gli attivisti cercavano di contattare l’esercito e la polizia, “Ahmad è corso avanti, perché stavano cercato di prendere alcune delle sue pecore. È stato colpito con una sbarra di ferro, e poi siamo corsi avanti e li abbiamo fronteggiati.” Ahmad racconta ad Haaretz che uno degli uomini lo ha colpito con una mazza. “In passato ci avevano spaventati, ma non era mai successo niente del genere,” aggiunge Hendin.

Gli attivisti hanno registrato lo scontro con gli uomini mascherati. Nella registrazione uno degli uomini dice: “Questa è casa mia. Andatevene dalla mia casa. Via. Io l’ho comprata.”

Ahmad è stato portato all’ospedale nella città palestinese di Tubas, dove gli è stata diagnosticata una frattura alla mano. Due degli attivisti hanno detto che un’ambulanza israeliana è arrivata sul posto e lo ha portato via, ma, poiché è palestinese e di conseguenza non gli è consentito entrare nella colonia, dichiarata area militare chiusa, l’ambulanza ha dovuto viaggiare su strade sterrate sconnesse per portarlo all’ospedale.

Hanno aggiunto che anche il responsabile della sicurezza della colonia ha assistito all’incidente, ma non ha fatto niente.

C’è una guardia che li lascia andare e venire,” dice Ahmad, commentando altri incidenti. “Ora sono a casa. All’ospedale mi hanno detto che non posso uscire al pascolo per 40 giorni, e i miei figli non possono andare a scuola perché sono io che li accompagno.”

Questo è stato il peggior incidente da sempre in cui siamo stati coinvolti,” afferma Herdin. “Ciò che mi dà più fastidio è come il loro contesto lo accetta. Ci sono persone di Shadmot Mehola che dicono che forse era successo qualcosa prima. È arrivata una soldatessa e ha detto lo stesso. Quella che è inquietante è la normalizzazione della situazione.”

La polizia ha affermato che “appena ricevuta l’informazione sull’incidente agenti e forze militari sono arrivati sul posto ed è stata aperta un’inchiesta, che è ancora in corso.”

Nel secondo incidente, nelle Colline Meridionali di Hebron, un militante che ha chiesto di rimanere anonimo ha affermato di essere arrivato sul posto, nei pressi di Otniel, insieme ad altri attivisti e a palestinesi dopo aver ricevuto l’informazione che coloni avevano piazzato tende su terra palestinese proprietà di un privato.

Poi si sono presentati dei soldati che hanno mostrato agli attivisti un ordine in cui si dichiarava la terra zona militare chiusa, e hanno sparato granate stordenti e lacrimogeni, che hanno appiccato un incendio. Ma secondo gli attivisti i soldati non hanno cacciato i coloni che si trovavano sul posto. Hanno invece arrestato due militanti e li hanno consegnati a un poliziotto arrivato dopo.

L’agente “ci ha detto di andare con lui alla sua macchina per portarci alla stazione di polizia,” afferma l’attivista. “Lungo il percorso, mentre stavamo camminando con lui, sono arrivati quattro o cinque coloni e chissà perché hanno iniziato a martellarci di colpi micidiali. Tutto ciò è avvenuto dopo che eravamo stati arrestati, ci trovavamo sotto la protezione della polizia e l’agente era a circa mezzo metro da noi.” E continua: “Il poliziotto ha afferrato il giovane che guidava l’aggressione,” aggiungendo che il colono ha colpito anche l’agente. L’attivista ha subito una ferita alla testa.

Successivamente i militanti arrestati sono stati portati alla stazione di polizia e interrogati in quanto sospettati di aver violato l’ordine che dichiarava il luogo zona militare chiusa. Uno è stato rilasciato a condizione che si tenga lontano dalla zona, mentre il ferito è stato rilasciato senza condizioni e portato allo Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme, dove è stato visitato e poi dimesso.

La polizia afferma che durante l’incidente quattro israeliani, due coloni e due militanti di sinistra, sono stati arrestati. Secondo il comunicato tutti e quattro sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati.

Il portavoce dell’Israeli Defence Forces [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndt.] afferma che “vari israeliani e palestinesi si sono scontrati con alcuni abitanti dell’insediamento di Otniel, sottoposto alla giurisdizione della brigata della Giudea. I militari delle IDF che sono arrivati sul posto hanno chiesto ai presenti di andarsene, e quando questi non hanno acconsentito è stato usato equipaggiamento per il controllo dell’ordine pubblico. A causa di ciò sul luogo è scoppiato un incendio, ma è stato spento subito dopo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Soldatesse israeliane costringono delle donne palestinesi a spogliarsi utilizzando un cane da combattimento

Amira Hass

5 settembre 2023 – Haaretz

Durante un raid a Hebron cinque donne della stessa famiglia sono state costrette a spogliarsi sotto la minaccia di un cane dell’unità cinofila e dei fucili dei soldati

A luglio nella città di Hebron in Cisgiordania due soldatesse israeliane mascherate, armate di fucili e con un cane da attacco, hanno costretto cinque donne facenti parte di una famiglia palestinese a spogliarsi, ognuna separatamente. Le soldatesse hanno minacciato di liberare il cane se le donne non avessero obbedito, dichiara la famiglia.

Durante lirruzione nella casa i soldati hanno perquisito i maschi della famiglia ma non hanno chiesto loro di togliersi i vestiti.

I militari erano in possesso di informazioni secondo cui in quella casa sarebbero state presenti delle armi e il portavoce dellunità delle forze di difesa israeliane ha detto ad Haaretz che sono stati trovati un fucile M16 e munizioni, il che ha richiesto una ulteriore perquisizione degli occupanti.

Un totale di 26 persone, tra cui 15 minori dai 4 mesi ai 17 anni, vivono in tre appartamenti adiacenti nella casa della famiglia Ajluni, nella zona sud di Hebron. La famiglia dice che il 10 luglio all’1:30 di notte circa 50 soldati con almeno due cani hanno circondato la casa.

Secondo la famiglia circa 25 – 30 soldati hanno preso posizione all’interno degli appartamenti passando da una stanza all’altra dopo aver svegliato gli occupanti con torce elettriche, forti colpi alle porte e minacce di sfondarle.

La maggior parte dei soldati erano mascherati e si vedevano solo gli occhi. Uno, che sembrava essere l’ufficiale in comando ed era senza maschera, indossava pantaloni militari ma una normale camicia a maniche corte. Le donne non sapevano chi fosse.

Alle 5:30 del mattino, i soldati hanno lasciato la casa, portando con sé il primogenito della famiglia, Harbi, che hanno arrestato. La famiglia ha subito scoperto che i gioielli d’oro che il fratello più giovane, Mohammed, aveva acquistato in vista del suo matrimonio, erano scomparsi. Valevano 40.000 shekel [9.800 euro, ndt.]. Gli uomini si sono precipitati alla stazione di polizia israeliana nel vicino insediamento di Kiryat Arba per sporgere denuncia.

La polizia ha detto che non era stato rubato nulla, ma il giorno successivo un agente ha telefonato a Mohammed e gli ha detto di venire a ritirare il suo oro. Gli è stato detto che i soldati avevano pensato che si trattasse di proiettili. Lunità del portavoce delle IDF [esercito israeliano, ndt.] afferma che i gioielli si trovavano in una borsa nera chiusa con del nastro adesivo, aperta successivamente in una stanza investigativa.

La moglie di Harbi, Diala, ha scoperto che mancavano anche 2.000 shekel che si trovavano in un cassetto, ma il denaro non è stato restituito. I portavoce dell’esercito affermano di non essere a conoscenza di tale accusa.

Costretta a spogliarsi davanti ai suoi figli

Le donne costrette a denudarsi sono Ifaf, 53 anni, sua figlia Zeinab, 17 anni, e le tre nuore di Ifaf: Amal, Diala e Rawan, che hanno circa 20 anni. Una dopo laltra sono state portati nella cameretta rosa e viola dei figli di Amal; ,un orsacchiotto rosa faceva la guardia.

La prima a essere chiamata nella stanza è stata Amal, 25 anni, costretta a spogliarsi in presenza di tre dei suoi quattro figli, che si erano appena svegliati. Piangendo, urlando e terrorizzati dal cane e dai fucili, hanno visto delle soldatesse mascherate ordinare a gesti e in un arabo stentato ad Amal di togliersi l’abito da preghiera.

Amal se lo è sfilato. Quindi le è stato chiesto di togliersi il resto dei vestiti. Lei ha protestato, facendo presente che non poteva avere nulla nascosto sotto i pantaloncini e la canottiera. Racconta che allora hanno liberato il grosso cane, che le si è avvicinato ma senza toccarla.

I bambini atterriti urlavano per tutto il tempo. Amal ha detto alle soldatesse di tirare indietro il cane perché i bambini ne avevano paura; poi si è tolta il resto dei vestiti. I bambini hanno anche dovuto assistere all’ordine dato alla madre, una volta denudata, di voltarsi, mentre singhiozzava per l’umiliazione. Circa 10 minuti dopo lei e i bambini sono stati portati fuori dalla stanza pallidi e tremanti.

La seconda ad essere chiamata è stata Ifaf, la più anziana della famiglia. Non ha voluto parlare molto del suo calvario, anche se ha raccontato che le soldatesse le hanno ordinato con gesti e in un arabo stentato di togliersi i vestiti. Basta, voltati, rivestiti.

Nel frattempo gli altri membri della famiglia venivano trattenuti in altre due stanze dello stesso appartamento. Le donne e i bambini erano in una stanza e gli uomini nell’altra. Due o tre soldati armati erano appostati davanti alla porta di ogni stanza e ordinavano agli Ajluni di non parlare.

Di tanto in tanto compariva un altro soldato e riferiva qualcosa ai colleghi. Mentre erano tenuti prigionieri nelle stanze i membri della famiglia hanno sentito le urla di Amal e dei figli, seguite da quelle delle altre donne.

Sentivano anche i soldati frugare negli appartamenti adiacenti, dare colpi, aprire i cassetti e lasciarli cadere sul pavimento, oltre alle loro risate.

Silenzio sul trauma

Non sono molte le segnalazioni riguardanti donne palestinesi costrette a denudarsi durante un raid dellesercito nella loro casa. Manal al-Jabari nei suoi 15 anni nel ruolo di ricercatrice sul campo a Hebron per l’organizzazione israeliana per i diritti BTselem ha registrato circa 20 casi simili. Ma ritiene che tali episodi svoltisi sotto la minaccia del fucile siano aumentati negli ultimi mesi. La maggior parte delle donne rifiuta di essere intervistata dai giornalisti sul trauma subito, dice Jabari.

Ma le donne della famiglia Ajluni hanno accettato di essere identificate per nome a patto di non essere fotografate. Alla stessa Jabari è stato intimato di togliersi tutti i vestiti durante una massiccia perquisizione notturna delle case a Hebron dopo l’uccisione il 21 agosto di una donna nel vicino insediamento coloniale di Beit Hagai. Jabari ha notato una telecamera sulla fronte di una soldatessa e si è rifiutata di spogliarsi.

In seguito alle mie insistenze la soldatessa ha rimosso la telecamera. Comunque mi sono rifiutata di spogliarmi. Hanno ceduto, forse perché faccio parte di BTselem”, afferma. Ma i soldati hanno saccheggiato la sua casa, rotto diversi oggetti e lasciato un tale disordine che Jabari non sapeva da dove cominciare a rimettere tutto a posto. Questo è quello che fanno spesso i soldati ed è quello che hanno fatto a casa degli Ajluni.

Parlando ad Haaretz il 27 agosto, le donne della famiglia Ajluni hanno sentito da Jabari, anche lei presente, il racconto della sua personale disavventura. A quel punto hanno ricordato di aver visto anche loro qualcosa sulla fronte delle soldatesse, ma di non sapere cosa fosse. Ora, oltre al trauma della perquisizione, erano tormentate dal dubbio che le soldatesse le avessero filmate mentre erano nude.

L’esercito ha sostenuto con una dichiarazione che le soldatesse non indossavano telecamere, al contrario del cane, ma [hanno aggiunto che] quella era spenta.

In un primo momento le donne hanno detto di non essere sicure se le soldatesse fossero mascherate, ma poi hanno concluso che dovevano esserlo. “Quando ciascuna di noi entrava nella stanza, le soldatesse spostavano un po’ i loro berretti… così abbiamo potuto notare che avevano i capelli lunghi, il che significava che erano donne”, ricordano Diala e Zeinab, completando a vicenda il racconto.

Delle cinque donne costrette a spogliarsi solo Amal non era a casa quando le altre hanno parlato con Haaretz. Era andata a comprare degli oggetti per il matrimonio. La vita riprendeva, l’anno scolastico era iniziato e poco a poco il sorriso tornava sui volti delle donne e dei loro bambini.

Jabari, la ricercatrice sul campo di BTselem, ha registrato i resoconti delle donne un giorno dopo il raid, descrivendo il terrore e lo shock che le Ajluni avrebbero ancora provato settimane dopo. Per circa quattro settimane i bambini si svegliavano spaventati nel cuore della notte e bagnavano il letto. Spesso le donne avevano la sensazione che i soldati fossero ancora in casa e sussultavano ogni volta che sentivano un rumore provenire da fuori.

Soldati davanti alla casa

La notte del raid Diala, 24 anni, si è svegliata sentendo suo marito, Harbi, litigare con qualcuno e chiedere che non entrassero in camera da letto perché lì c’era sua moglie. “Mi sono resa conto che erano soldati e mi sono alzata velocemente per coprirmi e mi sono vestita in fretta con un abito da preghiera”, ha detto.

Continua dicendo che in quel momento hanno fatto irruzione nella stanza i soldati e due grossi cani con la museruola. Le tre ragazze che dormivano nella camera dei genitori si sono svegliate e hanno visto i fucili, i cani e gli occhi che scrutavano da sopra le maschere.

Mio marito ha urlato ai soldati, in ebraico e arabo, di allontanarsi e di portare via i cani. Le mie figlie strillavano, piangevano e tremavano di paura. Lujin, che ha 4 anni, se l’è fatta addosso. I soldati hanno ordinato a mio marito di non parlare con me, gli hanno puntato i fucili alla testa e lo hanno trascinato in cucina”, racconta Diala.

Lo avrebbe rivisto solo diversi giorni dopo, al tribunale militare di Ofer, dove la sua detenzione è stata prolungata più volte. È sospettato di possedere un’arma, dice.

La notte del raid lei e le figlie sono state lasciate in camera da letto per 10 – 15 minuti; poi i soldati le hanno ordinato di attraversare il cortile per recarsi dove era stata obbligata a raccogliersi tutta la famiglia. Era l’appartamento di suo cognato Abdullah e di sua moglie Amal. Diala ha chiesto di poter prendere i soldi dal cassetto, ma lufficiale in maniche corte non lo ha permesso, dice.

Il cortile è solo parzialmente asfaltato ed è pieno di sassi, spine e pezzi di vetro. Lufficiale non le ha permesso di mettere le scarpe alle figlie e ha fatto segno che dovevo portarle in braccio”, dice Diala. Ma lei ha preso in braccio solo Ayla, di 17 mesi e mentre uscivano Lujin e Lida, che ha 5 anni, rimanevano aggrappate alla loro mamma.

“Stavo morendo di paura quando sono passata accanto al cane”, ha detto. Le sue figlie le saltellavano accanto, scalze e piangenti. Ha pensato che nel cortile ci fossero anche altri cani.

A quel punto Abdullah ha chiesto il permesso di recarsi nell’appartamento in cui suo fratello Mohammed si sarebbe trasferito dopo il matrimonio. Abdullah voleva prendere i gioielli d’oro, ma i soldati hanno rifiutato. Lui si è ribellato, quindi lo hanno ammanettato da dietro, bendato e portato nella cucina di Diala e Harbi.

Hanno fatto lo stesso con suo cugino di 17 anni, Yamen. Le donne li hanno trovati in cucina dopo che i soldati sono andati via con Harbi. Hanno tagliato le manette di plastica con un coltello.

Dopo la perquisizione intima di Ifaf, è stata la volta di Diala. Un soldato è entrato nel soggiorno e le ha detto di andare con lui. “Sono entrata in una stanza e, avendo tanta paura del grosso cane, sono rimasta vicino alla porta e ho cercato di uscire”, racconta. Le soldatesse mi hanno urlato contro e mi hanno ordinato di restare nella stanza”.

Quando si è rifiutata di togliersi gli indumenti sotto l’abito da preghiera la soldatessa con il cane ha minacciato di liberare l’animale. Anche Diala una volta nuda ha dovuto girare intorno a se stessa in presenza delle soldatesse, e anche lei ha pianto.

La diciassettenne Zeinab si è ribellata. Quando i soldati hanno chiesto a tutti di consegnare i propri telefoni lei è riuscita a nascondere il suo sotto un cuscino. Ha raccontato che, mentre i membri della famiglia erano ancora seduti in soggiorno con i bambini, un soldato mi ha indicato e mi ha detto [in arabo] Tu, vieni e mi ha condotto nella stanza dei bambini.

Le soldatesse mi hanno mostrato i capelli per farmi capire che erano donne e mi hanno ordinato di mettermi in un angolo della stanza. Poi il soldato ha aperto con rabbia la porta, ha sbirciato dentro, ha agitato il mio telefono, ha sollevato il fucile e lo ha puntato contro di me. Era arrabbiato perché non lo avevo consegnato quando me lo ha detto. Ho urlato. Per fortuna non mi ero ancora tolto lhijab”.

(A quel punto Diala interviene dicendo che le altre donne l’hanno sentita urlare e non sapendo cosa stesse succedendo erano molto preoccupate.)

“Pensavo che ci avrebbero esaminato con apparecchiature elettromagnetiche”, dice Zeinab. Quando la soldatessa mi ha ordinato in un arabo stentato di spogliarmi sono rimasta sorpresa. Ho detto: “Cosa?”. Lei ha risposto: “I vestiti”. Ho detto: “Non voglio”. E lei mi ha intimato: “Togliti tutto”.

Ho deciso di urlare mostrando che non avevo niente addosso e lei ha insistito perché mi togliessi tutto. Quando mi sono opposta si sono avvicinate a me in modo minaccioso con il cane. Ho sentito Diala urlarmi dall’esterno della stanza di fare quello che diceva la soldatessa.

Dopodiché mi sono spogliata. La soldatessa mi ha detto di voltarmi. Mi sono voltata solo a metà e allora lei ha avvicinato di nuovo il cane. Tremavo e piangevo”.

Ad un certo punto i bambini sono stati lasciati soli in soggiorno, senza le loro madri e in presenza dei soldati armati. Dopo essere state perquisite, le madri sono state condotte in un corridoio adiacente. I bambini erano spaventati e piangevano.

I soldati hanno in parte accolto le richieste delle madri e hanno permesso loro di prendere i due bambini più piccoli. Ifaf e uno dei suoi nipoti raccontano che i soldati hanno cercato di calmare i bambini rimasti soli in soggiorno. Hanno fatto il batti pugno con i pugnetti di alcuni di loro.

Il portavoce dell’unità delle IDF ha dichiarato: Secondo lintelligence è stato trovato un lungo M16, oltre a munizioni e un caricatore. Dopo il ritrovamento dell’arma è stato necessario controllare le altre persone presenti nell’abitazione per escludere la possibilità di trovare altre armi. Secondo le istruzioni degli investigatori della polizia di Hebron le soldatesse [dell’unità cinofila] hanno perquisito le donne presenti nella casa in una stanza chiusa, ognuna individualmente. Le soldatesse non indossavano telecamere.

Il cane, che non era presente nella stanza durante l’ispezione, aveva una telecamera montata sulla schiena per scopi operativi e in quel momento non era accesa. Nel corso delle perquisizioni è stata rinvenuta e portata via insieme all’arma una borsa nera nascosta, chiusa con del nastro adesivo. La borsa è stata aperta nella stanza delle indagini e si è capito che si trattava di gioielleria.

Il giorno dopo la perquisizione è venuto il fratello dellarrestato, ha firmato [una dichiarazione secondo cui] si trattava di gioielli di famiglia e se li è ripresi. Non siamo a conoscenza dell’affermazione relativa ai 2.000 shekel. Non ci risulta alcuna lamentela riguardo al caso. Qualora pervenga verrà presa, come di consueto, in considerazione”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La continua sorveglianza israeliana dei palestinesi ha un ‘effetto dissuasivo’

Usaid Siddiqui

7 maggio 2023Al Jazeera

Attivisti palestinesi dicono che il nuovo programma israeliano di riconoscimento facciale, denunciato da Amnesty International, contribuisce a rafforzare ulteriormente l’occupazione

L’ultima rivelazione dell’organizzazione per i diritti umani Amnesty International sull’utilizzo sempre crescente della tecnologia di riconoscimento facciale da parte di Israele contro i palestinesi non è stata una sorpresa per l’attivista Issa Amro.

Lo vivo, lo sento, ne soffro, il mio popolo ne soffre,” dice ad Al Jazeera da Hebron.

Il 2 maggio Amnesty ha pubblicato un rapporto intitolato Automated Apartheid [Apartheid automatizzato], in cui si descrive nei dettagli il funzionamento del programma israeliano Red Wolf [Lupo Rosso], una tecnologia di riconoscimento facciale usata dall’anno scorso per tracciare i palestinesi e che sembrerebbe collegata a simili programmi precedenti, noti come Blue Wolf e Wolf Pack [Lupo blu, Branco di lupi].

La tecnologia è stata utilizzata ai posti di blocco nella città di Hebron e in altre parti della Cisgiordania occupata scansionando i volti dei palestinesi e confrontandoli con i database esistenti.

Amnesty ha rivelato che, se nei database esistenti non si trovano informazioni sull’individuo, lo si registra nel Red Wolf automaticamente e senza consenso e potrebbe persino essere negato il passaggio attraverso il checkpoint.

In una dichiarazione a The New York Times l’esercito israeliano ha detto che si eseguono “necessarie operazioni di sicurezza e intelligence, con sforzi notevoli per minimizzare i danni alle normali attività quotidiane della popolazione palestinese’’.

Lo scrittore palestinese Jalal Abukhater ha affermato che i sistemi di sorveglianza sono utilizzati per far capire ai palestinesi di non avere diritti.

La gente sente questo effetto dissuasivo, non socializza o non si sposta così liberamente come vorrebbe, non vive normalmente come vorrebbe,” ci ha detto Abukhater dalla Gerusalemme Est occupata.

Questa forma di sistema di sorveglianza è utilizzata proprio per rafforzare l’occupazione… vogliono preservare l’apartheid.”

Secondo Amnesty la rete di sorveglianza con riconoscimento facciale è stata rafforzata anche a Gerusalemme Est, anche nelle vicinanze di luoghi di interesse culturale come la Porta di Damasco, il più ampio ingresso alla Città Vecchia e luogo di frequenti proteste contro le forze di occupazione.

L’anno scorso a febbraio Amnesty ha detto che Israele sta imponendo l’apartheid contro i palestinesi, trattandoli come “un gruppo razziale inferiore”. Altre organizzazioni, fra cui Human Rights Watch, con sede negli USA, e l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, sono arrivate a conclusioni simili.

Hebron, occupata da Israele nel 1967, è divisa in due parti: H1, amministrata dall’Autorità Palestinese, e H2, amministrata da Israele in base all’accordo su Hebron del 1997.

Ci sono circa 200.000 palestinesi che vivono in entrambe le parti e parecchie centinaia di coloni israeliani che sono fortemente protetti dall’esercito israeliano.

I palestinesi sono regolarmente costretti a passare tramite i checkpoint e a loro viene impedito di servirsi di parecchie strade importanti e autostrade.

Un laboratorio’

L’attivista Amro dice che i palestinesi che vivono a Hebron sono diventati meri “oggetti” di quelli che lui chiama “esperimenti israeliani”.

Per le loro aziende per soluzioni di sicurezza Hebron è diventato un laboratorio per fare simulazioni, per identificare e risolvere problemi usandoci e commercializzare le loro tecnologie,” dice. “Noi non abbiamo voce in capitolo.”

Israele è annoverato fra i maggiori esportatori di tecnologie cibernetiche di monitoraggio di civili in vari Paesi, tra cui Colombia, India e Messico.

L’azienda di cibersicurezza israeliana NSO Group è stata molto criticata per Pegasus, il suo software di punta, un sistema di spionaggio usato da decine di Paesi per hackerare i telefonini.

Sono stati presi di mira centinaia di giornalisti, attivisti e persino capi di Stato.

Inoltre, aggiunge lo scrittore Abukhater, Israele ha bisogno dei programmi di cibersicurezza come Red Wolf per mantenere i suoi progetti di colonie illegali che si stanno espandendo nei territori occupati.

Tecnologie di sorveglianza come questa [riconoscimento facciale] sono importanti, specialmente dove Israele sta introducendo coloni nel cuore delle cittadine palestinesi. Il fatto che [le colonie] si addentrino profondamente nei quartieri palestinesi in posti come Gerusalemme Est e Hebron crea un sacco di problemi,” dice.

È [la tecnologia di sorveglianza] un modo per controllare i palestinesi e far sì che l’espansione delle colonie continui senza essere ostacolata dalla resistenza palestinese.”

Secondo le Nazioni Unite le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali e in “flagrante violazione” del diritto internazionale.

Sempre osservati’

Secondo Amro gli apparati di sorveglianza hanno avuto un effetto significativo sui movimenti quotidiani dei palestinesi, lui incluso.

Mi sento sempre osservato. Mi sento sempre monitorato … inclusi i miei social media, quando entro e esco da casa mia,” dice.

Delle donne mi hanno chiesto se loro possono vederle nelle camere da letto… è straziante sentire che le donne sono preoccupate per la loro intimità con i mariti, per i loro cari,” aggiunge.

Secondo l’ingegnere elettronico, 43enne, le famiglie sono state costrette ad andarsene da Hebron, massicciamente sorvegliata, in quartieri meno controllati.

Non ti sfrattano direttamente da casa tua. Ma ti rendono impossibile restarci… e molto dipende da queste tecnologie [di sorveglianza] e telecamere ovunque,” dice Amro.

Ori Givati, direttore di advocacy di Breaking The Silence [Rompere il Silenzio] un’organizzazione per i diritti umani di ex soldati israeliani e lui stesso un ex soldato israeliano, dice che i palestinesi “non hanno più spazio privato”.

Se nel passato alcuni pensavano che almeno le loro informazioni private erano sotto il loro controllo, noi abbiamo tolto loro anche quello.”

Per parecchi anni Amnesty ha invocato la proibizione dell’uso della tecnologia di riconoscimento facciale per la sorveglianza di massa, dicendo che era usata per “soffocare le proteste” e “tormentare le minoranze”.

Negli Stati Uniti il riconoscimento facciale ha finito per prendere ingiustamente di mira persone di razza mista. Molte città come Portland e San Francisco hanno proibito il suo utilizzo da parte delle forze di polizia locali, mentre altre stanno discutendo misure simili.

L’utilizzo del riconoscimento facciale ha accelerato il passo in India, dove le autorità l’hanno usato per monitorare raduni politici e proteste contro il partito di governo di estrema destra, il Bharatiya Janata Party, sollevando i timori di un giro di vite contro il dissenso e la libertà di espressione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Zona militare chiusa agli attivisti di sinistra

Editoriale di Haaretz

4 dicembre 2022 – Haaretz

Venerdì circa 300 persone si sono recate a Hebron per un tour organizzato da 30 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndt.], l’Associazione per i diritti civili in Israele, Peace Now [organizzazione sionista di sinistra contraria all’occupazione, ndt.] e B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.], sulla scia di diversi recenti episodi di violenza contro palestinesi e attivisti di sinistra in città. Ma le persone che hanno cercato di protestare contro la violenza sia nei loro confronti e dei palestinesi hanno scoperto che l’esercito aveva dichiarato Hebron zona militare chiusa.

“Sulla base della nostra valutazione della situazione, abbiamo deciso di dichiarare una zona militare chiusa in diverse parti della città di Hebron per evitare attriti in quelle aree”, hanno detto le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] “In linea con questo ordine, è stato vietato l’ingresso ai civili che non vivono in questa zona “.

La decisione dell’IDF di dichiarare Hebron zona militare chiusa al fine di impedire un tour delle organizzazioni per i diritti umani invia un messaggio politico inequivocabile: gli attivisti di sinistra sono da condannare per la violenza dei soldati contro di loro. Nel mondo capovolto dei territori occupati la fonte della violenza sono le persone che protestano contro di essa. La linea di fondo è che le IDF hanno soddisfatto la richiesta espressa sui cartelli tenuti dai contromanifestanti di Im Tirtzu [organizzazione israeliana di estrema destra, ndt.]: “Il popolo di Israele chiede che gli anarchici siano tenuti fuori da Hebron”. Hanno chiesto e ottenuto soddisfazione.

Le IDF hanno ricordato solo tardivamente che conviene prevenire “attriti” e “disturbi della quiete pubblica” limitando l’ingresso in città di non residenti. Dov’era questa idea responsabile due settimane fa, quando l’esercito ha fatto entrare a Hebron decine di migliaia di israeliani per la celebrazione annuale della porzione [parashah] di Hayei Sarah Torah [La parashah racconta le storie delle trattative di Abramo per assicurare un luogo di sepoltura alla moglie Sarah e la missione del suo servo per garantire una moglie a Isacco, figlio di Abramo e Sarah Isacco, ndt], israeliani che hanno provocato disordini, distrutto proprietà, lanciato pietre contro le case, picchiato e insultato sia abitanti palestinesi che membri delle forze di sicurezza e hanno persino ferito una soldatessa? Non solo l’esercito non ha impedito loro di entrare in città, ma ha ordinato agli abitanti palestinesi di Hebron di entrare nelle loro case e ha proibito le attività commerciali.

La scorsa settimana un soldato della Brigata Givati ha picchiato un partecipante a un tour dell’organizzazione Bnei Avraham, e un altro è stato filmato mentre diceva a un secondo membro del gruppo che “Ben-Gvir [politico di estrema destra e futuro ministro della Sicurezza Interna, ndt.] imporrà l’ordine qui” e a un terzo attivista, “ti spaccherò ala faccia”. Certo, il soldato che ha minacciato è stato mandato in cella per 10 giorni, ma poi la sua pena è stata ridotta a quattro giorni.

E a chi l’esercito ha vietato l’ingresso a Hebron? A un attivista palestinese che vive in città, Issa Amro, che ha filmato i soldati della Brigata Givati. Il giudice militare lo ha escluso dal suo stesso quartiere, Tel Rumeida, per sei giorni, dopo che un rappresentante della polizia lo ha definito un “istigatore” perché accompagna i tour degli attivisti israeliani a Hebron e ha affermato che questi “creano tensione”.

La decisione dell’IDF di escludere dalla città gli attivisti di sinistra è stata una decisione politica che mette soldati e coloni da una parte e persone di sinistra e palestinesi dall’altra. Dà slancio alla violenza contro i palestinesi e la sinistra. Se è così che si comporta l’esercito ancor prima che Benjamin Netanyahu abbia formato un governo con Itamar Ben-Gvir, l’indicazione è chiara: il peggio deve ancora venire.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale in Israele sia in ebraico che in inglese.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




‘Non potevo respirare’: un weekend di violenze dei coloni a Hebron

Oren Ziv

22 novembre 2022 – +972 Magazine

Gli abitanti palestinesi della città occupata, da tempo abituati alle aggressioni dei coloni, descrivono un massiccio attacco da parte di religiosi israeliani affiancati dalle forze di sicurezza.

Lo scorso weekend circa 30.000 ebrei israeliani sono calati sulla città di Hebron nella Cisgiordania occupata per onorare le parole della Torah dal Libro della Genesi in cui Abramo acquista un appezzamento di terreno a Hebron dove seppellire sua moglie Sarah. Ogni anno il “Sabato della Vita di Sarah” viene celebrato da una marcia attraverso la città occupata, spesso accompagnata da atti di violenza contro gli abitanti palestinesi. Il corteo di quest’anno non è stato diverso: infatti gli abitanti del luogo lo hanno descritto come la peggior violenza che la manifestazione abbia comportato in circa due decenni.

Gli attacchi sono iniziati venerdì notte, quando decine di israeliani hanno attaccato per due volte la casa di un abitante palestinese, rompendo le finestre e danneggiando la sua auto. Secondo testimoni oculari soldati e polizia sono arrivati sul posto, ma non hanno eseguito alcun arresto. Poi, sabato, decine di migliaia di israeliani hanno marciato attraverso il mercato, attaccando negozi e abitanti palestinesi, accompagnati da soldati che non hanno fatto niente per impedire le violenze. Intanto gran parte del centro città, dove i movimenti dei palestinesi sono già fortemente limitati, è stato ulteriormente sbarrato ai palestinesi.

Il giorno seguente la zona intorno alla Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim era tranquilla, ma ancora gremita da visitatori ebrei che dovevano ancora ritornare a casa. Gli operai hanno smontato pedane, tende e montagne di rifiuti, che erano la prova delle decine di migliaia di partecipanti. Sulla strada da Kiryat Arba alla Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim comparivano ogni pochi metri striscioni con le parole “Hebron, sempre e per sempre”, mentre i soldati pattugliavano l’area.

Nel quartiere di Tel Rumeida, che si trova vicino alla colonia ebraica nella città e sopra la via Shuhada, gli abitanti hanno cercato di valutare l’ampiezza dei danni provocati dai coloni e di aggiornare i propri vicini sulle persone ferite e arrestate. La gran parte dell’attenzione dei media era rivolta alla zona intorno al quartiere di Bab al-Zawiya, dove coloni accompagnati dalle forze militari sono entrati nell’area sotto controllo palestinese ed hanno aggredito venditori e vandalizzato negozi. Ma centinaia di persone hanno condotto anche attacchi a Tel Rumeida, ferendo diversi palestinesi, inclusa una ragazza di 17 anni colpita in faccia da una pietra.

Dieci abitanti del quartiere hanno detto che gli attacchi sono iniziati intorno alle 15,30 e che vi hanno preso parte centinaia di persone. Secondo questi testimoni i soldati israeliani, oltre a non impedire gli attacchi, in alcuni casi hanno addirittura aggredito i palestinesi venuti a difendere le proprie case o a chiedere aiuto.

La casa di Imad Abu Shamsiyyeh, che nel 2015 aveva filmato il soldato Elor Azaria mentre colpiva a morte un aggressore palestinese ferito e disarmato, si trova su un’altura che sovrasta un posto di blocco della polizia. Sabato pomeriggio centinaia di coloni hanno circondato la sua casa tirando pietre. Alcuni si sono arrampicati sul tetto e hanno lanciato oggetti nel cortile.

Qui ci sono stati molti attacchi, ma come numero e come livello di violenza non ho mai visto niente di simile”, ha detto più volte Abu Shamsiyyeh, in piedi accanto alla rete che protegge il suo cortile, ancora ricoperto da pietre e bottiglie in seguito all’attacco. Secondo lui l’escalation è collegata al governo che si formerà dopo le elezioni dell’inizio del mese. “Ben Gvir è la colonna di questo nuovo governo e vive nel centro di Hebron. Ieri ha marciato con loro fino alla tomba (del giudice biblico Othniel ben Kenaz, che si trova sul lato controllato dai palestinesi).”

Secondo Abu Shamsiyyeh la maggior parte dei partecipanti è arrivata da fuori città, ma i coloni del luogo li hanno indirizzati verso la zona vicina alla sua casa. “C’erano dei coloni ben noti qui, che hanno detto loro ‘questa è la casa di Imad Abu Shamsiyyeh, che ha fotografato Elor Azaria.’ E’ durato 40 minuti. Gridavano ‘Morte agli arabi’ e ‘Am Yisrael Chai’ (lunga vita alla nazione ebrea). C’erano quattro soldati qui e non hanno fatto niente.”

Non lontano dalla casa di Abu Shamsiyyeh c’è quella di Basem Abu Aysheh, di 60 anni, che i soldati hanno picchiato durante l’attacco, ferendolo a una gamba. Come racconta, “Sono arrivati qui, alcuni chiaramente ubriachi, hanno fatto danni e l’esercito li ha aiutati mentre ci attaccavano. Il quartiere è chiuso dai posti di blocco, come una prigione. In altri posti la gente scappa quando c’è un attacco, ma qui non avevamo dove andare. Il posto di blocco era chiuso. Sono calati su di noi e noi eravamo bloccati nelle nostre case.”

Secondo Abu Aysheh, dato che gli abitanti sapevano in anticipo che decine di migliaia di persone sarebbero arrivate nella zona, “nessun bambino e nessun adulto ha lasciato la propria casa. Siamo rimasti in casa per difenderli.” Ha anche spiegato che, anche se sono abituati agli attacchi, che a volte l’esercito interviene ad impedire e a volte no, questa volta è stato diverso.

Ci siamo stupiti che l’esercito li aiutasse a lanciare granate assordanti e gas asfissiante mentre eravamo in casa e non facevamo nulla. Ci sono stati molti feriti nella nostra famiglia, almeno dieci dei nostri figli sono stati feriti dal fuoco dei soldati e dalla violenza dei coloni. Non c’è rispetto per adulti come me. Gli ho chiesto aiuto, ma loro hanno attaccato. I soldati mi hanno picchiato con i fucili fuori da casa. Gli stessi soldati con cui parliamo tutti i giorni sono quelli che ci picchiano”, ha detto.

Le finestre in casa di Abu Aysheh, come quelle di molte case nel quartiere, sono protette da doppie sbarre per impedire danni dai lanci di pietre. “Se non fossero sbarrate tutto sarebbe rotto”, ha detto, indicando i sassi rimasti dentro casa. “Hanno raccolto delle pietre vicino al cimitero e ce le hanno tirate. Amici ebrei che hanno visto al notiziario ciò che è successo hanno telefonato dicendo che provavano vergogna.”

Mentre parlavamo, il figlio di Abu Aysheh, che ieri è stato arrestato dai soldati, ha detto di essere stato picchiato in una caserma dell’esercito. Ci sono lividi evidenti sul suo viso e sulle braccia. E’ stato rilasciato nella notte, senza essere interrogato.

Anche Youssef Al-Azza, un altro abitante, è stato aggredito sabato. Il 26enne stava tornando a casa dal lavoro verso le 15,30, quando ha sentito dire che i coloni avevano preso di mira la sua casa, che è proprio vicino ad un posto di blocco, e ferito sua sorella.

Io ero il più vicino a loro tra i membri della mia famiglia, perciò sono corso a casa. Mia sorella è stata ferita al viso da una pietra. Ho chiamato i soldati. Sono arrivati e poi se ne sono andati.” Poi, continua Al-Azza, è iniziato un altro attacco. “Sono andato in cortile a vedere che cosa stava succedendo. C’erano circa 50 coloni. Mi hanno dato pugni sul collo, sulle spalle e sulla schiena, hanno inveito contro di me, mia madre, mio padre, mia sorella e il nostro profeta. Non voglio ripetere quelle parole. Mi girava la testa. Avevo paura che entrassero in casa e nei dintorni non c’era nessuno a cui potessi chiedere aiuto”, ricorda Al-Azza stando nel suo cortile, ancora ingombro di pietre e bottiglie di birra.

Dopo l’attacco è corso sulla via principale, gridando e pregando i soldati di venire in aiuto alla sua famiglia – una situazione ripresa da un video e diffusa sui social media. “Sono corso a chiedere aiuto perché i coloni non entrassero nella mia casa”, dice. “Sono arrivato alla strada. Ho visto i soldati picchiare due miei amici. Uno era a terra e il soldato teneva un ginocchio sul suo collo. Non sapevo che cosa fare. Non riuscivo a respirare e sono caduto a terra”. Di là Al-Azza è andato in una clinica vicina ed è stato dimesso nella notte.

C’erano soldati, anche ufficiali, ma nessuno ci ha aiutati a difenderci”, continua Al-Azza. “Sono un cittadino palestinese. Non ho voce, non ho un’arma, non ho forze di sicurezza o soldati che mi difendano. Non ho mai visto niente del genere. Ci sono centinaia di soldati, dove erano ieri? Hanno attaccato qui decine di volte. Sono cresciuto qui, ma mai nella mia vita è successa una cosa simile. Se un palestinese avesse fatto qualcosa di questo tipo, in un minuto sarebbe arrivato qui l’intero esercito.”

So come comportarmi con i palestinesi, ma con gli israeliani ho delle esitazioni’.

Stranamente l’esercito ha confermato in una dichiarazione ufficiale che gli eventi di sabato sono iniziati dopo che cittadini israeliani hanno lanciato pietre. Il portavoce della comunità ebraica di Hebron ha sostenuto che si trattava di “gravi incidenti immotivati” che sono avvenuti “a margine dell’evento” e che “devono essere considerati in termini legali”. Il portavoce di Hebron ha anche criticato il portavoce dell’esercito per aver “enfatizzato un increscioso e marginale incidente e averne fatto l’unico argomento della sua dichiarazione”, descrivendo questo come “un approccio ostile e non professionale con cui bisogna immediatamente fare i conti.”

Un soldato che era presente a Hebron sabato ha detto a +972, riguardo alla preparazione dell’esercito per gli eventi: “Tutta la settimana è stata pazzesca: pattugliamenti, turni di guardia continui, arresti, tutto per garantire che il weekend trascorresse pacificamente. Abbiamo a malapena dormito”.

Sabato quel soldato era di stanza su una delle strade dove i coloni passavano accanto alle case palestinesi. “Nel pomeriggio diverse centinaia di adolescenti, ma anche alcuni di più di 20 anni, hanno cominciato a lanciare pietre dall’alto sulle case degli arabi. Alla fine siamo riusciti a riprendere il controllo degli eventi, insieme alla polizia. Ci sono volute due ore. Ogni tanto tiravano altre pietre e non siamo riusciti a prenderli. Ci hanno chiamati (nazisti) tedeschi e ci hanno insultati. C’è anche stata qualche violenza fisica, ci hanno dato spintoni.”

Secondo il soldato non vi era una reale preparazione per affrontare coloni scatenati. “Siamo stati avvertiti in anticipo che sarebbe potuto accadere, ma ci hanno messo sotto pressione, lavorando 24 ore al giorno per 7 giorni. Non c’erano istruzioni a riguardo. I coloni sapevano che potevano fare quel che volevano. Io personalmente esitavo ad ammanettarli o tirargli contro una granata stordente, mezzo legittimo [di controllo della folla]. Come prassi, non si usa la mano pesante contro i coloni. Non ho visto nessuno essere arrestato. C’erano 30.000 persone qui, centinaia hanno preso parte alle violenze. E’ solo una piccola percentuale, ma sono riusciti a fare un vero casino.”

Non ci sono ordini chiari”, continua il soldato. “So come affrontare i palestinesi, ma con gli israeliani ho delle esitazioni. [Sabato] non ho potuto scegliere. Avevo un equipaggiamento pesante e i coloni tiravano pietre e poi scappavano via. Se avessimo avuto maggiori forze, spero che li avrei arrestati, ma è difficile dirlo.”

A Beit Hadassah, vicino a via Shuhada, uno di quelli arrivati da fuori città domenica mattina ha detto che durante il weekend non aveva sentito niente né visto alcun attacco. “E’ stato uno Shabbat (sabato, festa ebraica, ndtr.) bello e tranquillo. Non ho visto problemi con i soldati e gli arabi. Sabato sera ho sentito che ci sono stati attacchi. La tomba è fuori dalla colonia; questo in realtà non è un’indicazione di ciò che è accaduto sabato. C’era chi pregava, vi era una bellissima atmosfera.” Un altro residente ha detto che è impossibile controllare “ogni ubriaco” e impedirgli di unirsi alla marcia.

Il portavoce dell’esercito ha detto in risposta: “Dopo aver lasciato la tomba di Othniel ben Kenaz, sono scoppiati violenti scontri tra israeliani e palestinesi. Le forze di sicurezza hanno faticato a separare le parti. In seguito ai violenti eventi sono stati arrestati diversi cittadini israeliani e del loro caso si sta occupando la polizia israeliana. Non si è a conoscenza di denunce di violenze di soldati contro palestinesi. Qualora venissero inoltrate denunce, saranno esaminate come sempre.”

Oren Ziv è un fotogiornalista corrispondente di Local Call e membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La sovranità illegale sulla terra palestinese

Mella Jongebloed

27 agosto 2022 – Mondoweiss

La violenza dei coloni a Hebron svela il vero volto coloniale del progetto sionista, e il mondo non può continuare a guardare mentre esso va avanti.

Passa un gruppo di undici giovani coloni, di età compresa tra i quindici e i diciotto anni. Li accompagnano due soldati a piedi e li affianca un veicolo militare. Lungo il ciglio della strada ci sono degli avamposti dove i soldati tengono sempre le armi pronte. I coloni ci dicono in ebraico qualcosa che non capiamo, i loro volti mostrano un’arroganza che non si addice alla loro età. Lungo la strada, a pochi metri, vediamo uno di loro sputare addosso a un palestinese che siede sulle scale davanti a casa sua. Nel passargli davanti pensiamo che quell’uomo sia muto. Borbotta parole incomprensibili, indica con le braccia i coloni, apparentemente sconvolto ma incapace di dire cosa sia successo.

È il giugno del 2022. Ho preso una pausa dai miei studi e sto trascorrendo tre mesi a Hebron, dall’inizio di maggio all’inizio di agosto. Sono solidale con la causa palestinese da quando ho appreso dell’occupazione nell’ambito dei miei studi sul Medio Oriente. Ma per diventare credibile nella difesa di questa causa ho voluto vivere la situazione in prima persona.

E l’ho sperimentata.

Dai piccoli gesti di violenza, come sputare addosso a un palestinese, danneggiare le finestre delle case palestinesi e far chiudere i battenti agli esercizi commerciali, fino a quasi uccidere un uomo disarmato nella sua terra, la vita a Hebron è piena di violenza da parte dei coloni. Fino ad oggi in Cisgiordania, sebbene la presenza di coloni sia illegale, i progetti di colonizzazione sono cresciuti e si sono intensificati. A Hebron circa 800 coloni ebrei vivono nel cuore della Città Vecchia. Al di fuori della città vecchia, negli insediamenti chiamati Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot, risiedono altri 8.000 coloni.

I palestinesi sono impotenti contro i coloni che, contrariamente a loro, possono portare i mitra a tracolla e sono costantemente scortati da un numero sproporzionato di soldati. I coloni agiscono come i sovrani illegali del territorio palestinese, rendendo la vita dei palestinesi insopportabile anche nella piccola porzione di Palestina su cui sono stati lasciati sopravvivere. Dato che Israele cerca di impedire ai turisti di recarsi in Cisgiordania intimidendoli è mio dovere testimoniare ciò che ho visto.

Nuovi vicini

Il 28 luglio dei coloni hanno occupato una casa palestinese all’inizio di via Shuhada. Questa strada era il principale centro di vita di Hebron, fino a quando non fu in gran parte chiusa ai palestinesi dopo il massacro del 1994 nella moschea di Ibrahimi, quando Baruch Goldstein, un medico estremista sionista, uccise 29 palestinesi in preghiera. La sua tomba è ancora visitata e venerata dai coloni.

La casa occupata dai coloni è una delle più belle della strada. Le pietre gialle sembrano aver preso il colore dal sole e dalla casa si può vedere la Moschea Ibrahimi e il resto della Città Vecchia.

Il primo giorno centinaia di coloni sono saliti lungo le scale di metallo appena installate che conducono alla casa di proprietà palestinese. Vengono costantemente sorvegliati da una ventina o una trentina di soldati, posizionati sul tetto, sui balconi e intorno alla casa. Quando sul tetto un gruppo di giovanissimi coloni tira fuori la prima bandiera israeliana, i vicini palestinesi osservano intimiditi.

Già accerchiati da 21 posti di blocco militari da ogni lato, con telecamere montate su ogni muro e con a fianco una casa di proprietà di coloni, crescerà la presenza di coloni e soldati violenti e, insieme, le violazioni dei diritti umani che sono parte integrante della vita quotidiana. Un palestinese che abita di fronte alla casa dice che ha già difficoltà a dormire. I coloni spesso bevono molto e maltrattano i vicini palestinesi. Ci lanciano pietre e ci maledicono, dice.

Souvenir in frantumi

Um Mahmoud, che vive con il marito e i figli accanto ai coloni, subisce tali molestie almeno ogni settimana. Solo due giorni fa alle 22:00 i coloni hanno lanciato pietre e bottiglie di birra contro la loro casa.

Durante le feste ebraiche i soprusi sono più gravi che mai. “L’anno scorso hanno lanciato uova, verdure marce e frutta, e hanno mandato in pezzi un sacco di cose”, spiega. “L’albero di limoni, le piante, le finestre, tutto è stato danneggiato e hanno lanciato pietre contro la nostra auto di famiglia”.

“I soldati, quando arrivano, spesso non fanno nulla o arrestano uno di noi”, spiega Um Mahmoud. Suo figlio Said, di 18 anni, è rimasto in prigione un mese e mezzo, e suo figlio Wadia, di 17 anni, una settimana. “Riesci a immaginare quali effetti hanno queste cose su un adolescente?” Sospira.

Nelle vecchie strade di Hebron la violenza dei coloni aleggia sopra la vostra testa. Sassi, sedie rotte, bottiglie vuote e quant’altro sono sparsi sulle reti tese sopra le strade a protezione degli abitanti. Un negoziante mi dice che i coloni gettano continuamente acqua sporca dalle loro finestre danneggiando i prodotti dei commercianti. Uno di loro, Bader Tamimi, ha un negozio proprio di fronte a un insediamento coloniale ebraico. I soldati controllano da una torre di guardia il suo negozio che viene regolarmente attaccato dai coloni. Il 9 agosto hanno iniziato a lanciare pietre contro il negozio, i commercianti e i clienti.

Il lancio di pietre era più intenso del solito. Siamo andati a cercare i soldati perché li fermassero, ma dopo essere usciti dalla loro postazione hanno iniziato a spararci addosso lacrimogeni e granate stordenti”.

Tour dei coloni

Questa non era la prima volta. Durante i settimanali “tour dei coloni” gruppi nutriti di coloni scortati da soldati visitavano la città vecchia di Hebron e il più delle volte molestavano i palestinesi lungo strada. Il negozio di Bader è stato spesso preso di mira a sassate. Mi mostra i lacrimogeni scagliati contro il suo negozio.

“Sia i coloni che i soldati vogliono renderci impossibile lavorare qui, o anche solo condurre le nostre vite”, dice.

Incastrati tra i coloni

La famiglia al-Ja’bari abita esattamente tra gli insediamenti coloniali di Kiryat Arba da una parte e Giv’at Ha-Avot dall’altra. Un sentiero che collega gli insediamenti attraversa proprio il loro terreno. Nel 2006 i coloni hanno posizionato sulla terra di al-Ja’bari una grande tenda con la funzione di sinagoga. Nonostante una sentenza del tribunale israeliano del 2015 secondo cui la tenda avrebbe dovuto essere rimossa, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare a usarla. Ogni sabato accorrono a decine, mentre nelle festività ebraiche il numero sale a centinaia. Le Nazioni Unite hanno documentato molteplici attacchi alla famiglia da parte dei coloni: dagli spari al lancio di pietre, all’irruzione dentro casa, fino al vandalismo. I coloni hanno anche rubato bestiame e raccolti. Secondo la famiglia, a causa delle aggressioni da parte dei coloni ogni loro componente ha dovuto in una qualche circostanza essere ricoverato in ospedale. Ultimo il 64enne Abdul Karem al-Ja’bari.

Tubo di ferro

Nel corso di un tour politico da lui guidato l’attivista e difensore dei diritti umani Badia Dwaik ci ha informato di una aggressione avvenuta contro gli al-Ja’bari il giorno prima, il 17 giugno. Dwaik ha deciso di non portarci in quella zona di Hebron per motivi di sicurezza. Circa una settimana dopo sono andata con Badia a visitare Abdul Karem al-Ja’bari, chiamato anche Abu Anan. Aveva testa e braccio bendati. Più calmo di quanto ci si potesse aspettare, ci ha raccontato cosa era successo.

Ogni anno Abu Anan raccoglie le sue olive, e così stava facendo anche quest’anno. Alcuni soldati hanno attraversato il suo terreno, seguiti da un gruppo di coloni. Uno dei coloni camminava da solo. Secondo Abu Anan il suo aggressore era il figlio del direttore del consiglio dell’insediamento coloniale di Kiryat Arba e faceva parte di un gruppo di coloni che lo avevano minacciato una settimana prima. Erano andati via dopo che Abu Anan ha chiamato la polizia. Questa volta il colono si è fermato sul luogo in cui lui stava raccogliendo le sue olive. E’ rimasto lì per un po’ e sembrava studiare la situazione. Poi si è allontanato, continuando a camminare fino a raggiungere la propria casa nell’insediamento coloniale.

Inginocchiato e con gli occhi rivolti a terra, Abu Anan ha proseguito la raccolta e non ha notato il gruppo di coloni che si avvicinava alle sue spalle. Uno dei coloni lo ha colpito alla nuca. Il telefono di Abu Anan era caduto a terra, quindi ha raccolto il telefono, si è alzato e si è voltato, guardando negli occhi il suo aggressore. Questi indossava una maschera, ma i suoi vestiti erano riconoscibili; era lo stesso uomo. Il colono aveva nelle mani un tubo di ferro, la cui estremità era affilata come un coltello. Ha colpito Abu Hanan sulla testa. Al.Ja’bari a causa dell’adrenalina non sentiva ancora la profonda ferita nella sua testa. Si è accorto che dietro al colono ce n’erano all’incirca altri dodici con in mano dei bastoni.

Sangue e spray al peperoncino

L’aggressore di Abu Anan aveva nell’altra mano uno spray al peperoncino e ha iniziato a spruzzarglielo in faccia, ma Abu Anan è riuscito a farglielo cadere di mano con il telefono. Poi il colono lo ha colpito di nuovo in testa con maggiore violenza. Ha poi raccolto una pietra di circa cinque chili e l’ha lanciata contro Abu Anan, che ha alzato la mano per difendersi e si è ritrovato con un braccio rotto.

Nel frattempo gli occhi di Abu Anan iniziavano a bruciare. Erano stati raggiunti dallo spray al peperoncino e il sangue che usciva della ferita alla testa fluiva fino agli occhi. Mentre Abu Anan cercava di scappare il colono lo ha colpito alla testa un’ultima volta, per poi scappare con un gruppo di altri coloni che avevano assistito alla scena nei pressi dell’ingresso dell’insediamento coloniale. Con una mano fratturata e il sangue che sgorgava dalle tre profonde ferite alla testa, al-Ja’bari ha iniziato a correre in strada fino alle porte di Kiryat Arba. Ha gridato aiuto in ebraico ai soldati.

Abu Anan è morto”

I soldati israeliani hanno chiamato un’ambulanza, ma quando è arrivata l’ambulanza israeliana è comparso sul luogo uno dei più famigerati coloni di Kiryat Arba, Ofer Hanna. Secondo Abu Anan, questi ha impedito a chiunque, compreso il personale dell’ambulanza, di prestare aiuto. Ofer ha iniziato ad inventare una storia, dicendo che al-Ja’bari era stato aggredito perché era entrato nella tenda, situata sul suo terreno, che funge da sinagoga. Nel frattempo è arrivata un’altra ambulanza israeliana, oltre a otto soldati e alla guardia di sicurezza dell’insediamento. Dalle 9 alle 10 del mattino non è stato prestato ad al-Ja’bari nessun primo soccorso. Gli operatori dell’ambulanza erano evidentemente spaventati da Ofer e rimanevano semplicemente a guardare. Terrorizzata per suo marito, il cui sangue dall’estremità della mano scorreva giù per tutto il corpo, la moglie di al-Ja’bari ha chiamato la Mezzaluna Rossa Palestinese. Alla fine è arrivata un’ambulanza palestinese e ha trasportato al-Ja’bari in ospedale.

Nel frattempo, sotto gli occhi dei figli di al-Ja’bari, i coloni avevano tirato fuori un grande altoparlante davanti alla stazione di polizia dell’insediamento, situato a una cinquantina di metri dalla casa di al-Ja’bari. Cantavano “Abu Anan è morto”.

Impunità dei coloni

I medici hanno detto ad al-Ja’bari che non potevano credere che fosse ancora vivo. Sono stati necessari trenta punti di sutura alla testa. Il suo braccio è stato interamente ingessato. I medici gli hanno prescritto cinquanta giorni di riposo.

Ma non è morto. Quando la notizia ha raggiunto i coloni un gruppo di una ventina di persone ha iniziato ad attaccare la casa di al-Ja’bari, come si può vedere dalle riprese delle telecamere di sicurezza dell’abitazione. Le pietre sono finite sul tetto e hanno colpito il muro. Un colono ha cercato di distruggere l’auto di uno dei figli di Abu Anan. Quando la moglie di Abu Anan, Samira al-Ja’bari, ha chiamato la polizia, i coloni sono scappati.

Domenica l’amministrazione civile israeliana ha chiamato al-Ja’bari e gli ha proposto di sporgere denuncia alla stazione di polizia. Il governatore militare ha detto che i responsabili dovevano essere puniti. La polizia israeliana ha radunato in una stanza i coloni presumibilmente coinvolti, in quanto tutti inquadrati dalle telecamere posizionate dagli israeliani a ogni angolo di strada. Al-Ja’bari ha indicato con precisione chi aveva fatto cosa. Tra i presenti c’erano tre figli di Itamar Ben-Gvir, avvocato e membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. L’ufficiale di polizia ha detto ad Abu Hanan: sono sicuro che stai dicendo la verità. Questi coloni dovrebbero andare in prigione. Il giorno successivo, dopo aver trascorso una notte in carcere, tutti i coloni sono stati rilasciati senza accusa.

Restare a guardare

Oltre il 90% dei casi di violenza dei coloni rimane impunito, come riporta l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din. Che stiano lanciando pietre contro negozi e case palestinesi, sputando e imprecando contro i palestinesi, prendendo illegalmente il controllo di case di proprietà palestinese o tentando di uccidere un anziano palestinese, i coloni sono protetti dai soldati e raramente puniti per i loro crimini. Con questo i soldati israeliani a Hebron stanno inviando un messaggio al mondo intero: noi stiamo a guardare mentre i padroni illegali della Cisgiordania fanno quello che vogliono.

Gli stranieri tendono a confortarsi al pensiero che questi coloni debbano essere i più estremisti, e non tutti gli israeliani siano come loro. Ma il numero crescente di israeliani che si trasferiscono in insediamenti illegali in Cisgiordania e i ricchi benefici che ricevono dal loro governo suggeriscono che questi coloni non appartengano al versante più estremista dello spettro [politico] israeliano, ma facciano piuttosto parte della famigerata prima linea del piano con cui Israele intende estendere il suo progetto coloniale.

Una sporca impresa coloniale

Naturalmente la colonizzazione della Cisgiordania è un’estensione della precedente occupazione delle terre colonizzate nel 1948, ora conosciuta come “Israele propriamente detto” e ampiamente accettata come status quo. Ma chi ricorda ancora gli oltre 400 villaggi e città palestinesi che vi furono cancellati, e chi ricorda ancora i 750.000 palestinesi che furono cacciati dalle loro case durante la Nakba del 1948? Vedere la situazione in Cisgiordania chiarisce come il 78% della Palestina storica, rappresentato dai territori colonizzati nel 1948, non sia mai stato abbastanza.

Tutti coloro che ancora sostengono la soluzione dei due Stati chiudono un occhio sul fatto che Israele non ha mai mostrato alcun rispetto per la sovranità dei palestinesi. Come dimostrano la violenza dei coloni e l’accanita protezione nei loro confronti da parte dei soldati, la pulizia etnica dei palestinesi continua ogni giorno e l’obiettivo finale del progetto sionista è cacciarli tutti dalla Palestina storica, anche da quel poco di terra che resta loro.

Non sorprende che Israele cerchi di impedire ai turisti di andare in Cisgiordania; qui il marciume e l’abiezione del progetto sionista sono messi a nudo, sotto gli occhi di tutti gli spettatori. L’ho visto e continuerò a raccontare queste storie finché il mondo non somiglierà più ai soldati che stanno a guardare.

Mella Jongebloed

Mella Jongebloed è una giornalista e blogger, studiosa di Studi Medio Orientali e Filosofia.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I bulldozer dei coloni abbattono negozi palestinesi nella Città Vecchia di Hebron

Basil Adra e Yuval Abraham 

1 agosto 2022, +972Magazine

Per vent’anni i coloni hanno saccheggiato e bruciato negozi palestinesi chiusi dall’esercito israeliano. Ora li stanno abbattendo per espandere una colonia.

Tareq al-Kiyal aveva una volta un negozio nella Città Vecchia di Hebron. Per più di 20 anni gli è stato impedito di accedervi dopo che l’esercito ne ha ordinato la chiusura e proibito ai palestinesi di entrare nell’area. Ora è in rovina: il mese scorso un colono israeliano ha distrutto il negozio con un bulldozer.

Il negozio di Al-Kiyal non è l’unico; il 6 luglio i coloni hanno distrutto quattro negozi palestinesi che l’esercito israeliano aveva inizialmente chiuso in seguito al massacro della moschea di Ibrahimi nel 1994, quando un colono israeliano uccise a colpi di arma da fuoco 29 fedeli musulmani. Sette anni dopo, al culmine della Seconda Intifada, l’esercito ha emesso un ordine formale di chiusura. Secondo i residenti palestinesi locali, anche altri due negozi sono stati parzialmente distrutti dai coloni.

I negozi si trovavano nell’area nota come mercato di Kiyal (detto anche “mercato dei cammelli”), a pochi metri dal complesso della colonia di Avraham Avinu, nel cuore di Hebron. In passato, i proprietari dei negozi palestinesi vendevano dolci, farina e formaggi. “Era la principale fonte di reddito per la mia estesa famiglia”, ha detto al-Kiyal. Abbiamo circa 20 negozi e magazzini in quest’area”.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano responsabile della vita quotidiana dei palestinesi nella Cisgiordania occupata – ha definito le azioni dei coloni “lavori di pulizia”, eseguiti secondo lui “senza autorizzazione e senza previo coordinamento”. Il portavoce dell’Amministrazione Civile ha affermato che, dopo l’intervento dell’esercito, “i lavori sono stati immediatamente sospesi, senza alcun danno alle cose”.

Ma la documentazione dei palestinesi nel giorno delle demolizioni mostra il bulldozer in azione e una visita al sito due settimane fa ha rivelato che gli edifici erano stati notevolmente danneggiati. “Nulla si muove nella Città Vecchia – e certamente nessun bulldozer entra e distrugge gli edifici – senza il via libera dell’esercito”, dice al-Kiyal.

Dalla Seconda Intifada, circa 2.500 negozi palestinesi sono stati chiusi nell’area conosciuta come H2, la parte del centro di Hebron sotto il controllo civile e militare israeliano, abitata da circa 35.000 palestinesi. Alcuni negozi sono stati chiusi su ordine militare, mentre altri sono stati abbandonati dai proprietari a causa delle severe restrizioni imposte dall’esercito alla circolazione dei palestinesi nell’area.

Quello che era il centro commerciale della Cisgiordania meridionale è diventato una città fantasma, comprese diverse strade quasi totalmente interdette ai palestinesi. Circa 800 coloni ebrei vivono nell’area sotto la piena protezione di un analogo numero di soldati e beneficiando dei diritti civili israeliani, mentre i loro vicini palestinesi vivono sotto il regolamento militare.

“In passato c’era lì un vivace mercato commerciale”, rammenta al-Kiyal. “Nel 2001 i negozi della mia famiglia sono stati chiusi su ordine militare. Negli anni successivi, i coloni hanno cercato di rimuovere le porte e trasformare il posto in un parcheggio per le loro auto. Ora hanno semplicemente distrutto i nostri negozi”. I familiari hanno sporto denuncia alla polizia, che ha precisato che “al ricevimento della denuncia è stata aperta un’indagine, ora in fase iniziale, nell’ambito della quale saranno svolte tutte le azioni necessarie per acquisire la verità.”

“L’obiettivo è ripulire la zona dai palestinesi”

Danneggiare gli edifici palestinesi chiusi non è un fenomeno nuovo. Hagit Ofran, direttore del programma Peace Now’s Settlement Watch [Osservatorio sulle colonie di Peace Now, ONG di patrocinio liberale e attivismo, ndt.] che monitora e fa campagne contro l’edilizia israeliana nella Cisgiordania occupata, ha descritto come ci si sente a camminare tra questi negozi in strade riservate solo agli ebrei: “Ci sono negozi dove sbircio dentro e vedo un ristorante con un calendario alla parete dove l’anno è ancora il 2001. Le sedie sono tirate su come si farebbe prima di pulire i pavimenti a fine giornata. Ci sono ancora le ricevute dei clienti sul tavolo.

“Un anziano palestinese, che aveva un negozio dove vendeva olio, mi ha detto che non è ancora in grado di entrarvi per svuotarlo della sua attrezzatura”, continua Ofran. “Ad oggi ha ancora dei costosi macchinari lì dentro.”

I coloni iniziarono a fare irruzione in questi negozi dopo la loro chiusura in seguito al massacro della moschea Ibrahimi, e soprattutto durante la Seconda Intifada. “Hanno fatto dei buchi nei muri e sono andati negozio dopo negozio, attraverso i muri, saccheggiando”, ha spiegato Ofran. “Ancora oggi, di tanto in tanto, irrompono in un altro negozio e prendono ciò che vi è rimasto.

Alcuni negozi sono diventati spazi ricreativi e in altri ci sono persone che oggi ci vivono. Hanno semplicemente preso possesso. Molti dei negozi sono diventati magazzini dei coloni. Vedo all’interno materassi, attrezzi da giardino e tavoli.”

Tawfiq Jahshan è direttore dell’ufficio legale del Comitato per la Costruzione di Hebron, un’organizzazione palestinese che lavora per lo sviluppo economico della Città Vecchia e la documentazione delle violazioni dei diritti umani nell’area. Ha detto a +972 che i palestinesi sul posto hanno chiamato la polizia mentre i coloni stavano distruggendo gli edifici. “Ci è stato detto al telefono che i coloni si muovevano per conto proprio, senza alcun collegamento con l’esercito, e che sarebbero andati ad arrestarli. E dopo infatti le demolizioni si sono interrotte e abbiamo sporto denuncia alla polizia”.

Secondo Jahshan, durante la Seconda Intifada l’esercito ha emesso 512 ordini di chiusura presumibilmente temporanea per i negozi nell’area di proprietà palestinese. Nella maggior parte dei casi, però, i titolari dei negozi abitano nelle vicinanze e aspettano ancora di riaprirli.

“Gli ordini di chiusura sono stati emessi con il pretesto della sicurezza, ma quello che è successo mostra che il vero obiettivo è ripulire l’area dai palestinesi e trasferire i terreni nelle mani dei coloni”, dice Jahshan. “I negozi che sono stati distrutti si trovano a 30-40 metri dalla colonia di Avraham Avinu. Li hanno distrutti in modo da poter espandere ulteriormente [la colonia]”.

“Hanno fatto di questo posto un museo dell’apartheid”

Secondo un rapporto redatto dall’Amministrazione Civile nel 2001 sul tema “Violazioni della legge – Ebrei” nella città di Hebron, i coloni agiscono secondo un metodo “sistematico e pianificato” per forzare gli edifici e i negozi palestinesi chiusi da ordini militari. In una serie di diapositive intitolate “Il Metodo”, vengono descritte tre fasi: i leader dei coloni “identificano un obiettivo” – un edificio o un negozio di proprietà palestinese; i giovani coloni irrompono, saccheggiano o danno fuoco alle attrezzature all’interno ed infine entrano nel “bersaglio” attraverso un foro praticato nel muro interno, attraverso un cortile, o attraverso uno stretto passaggio, con lo scopo di stabilirvisi. La presentazione contiene un lungo elenco di negozi di proprietà palestinese che i coloni hanno bruciato o saccheggiato in questo modo.

Nell’ultima diapositiva, l’Amministrazione Civile esprime preoccupazione per il danno all’immagine di Israele a seguito di queste azioni. “Le attività ebraiche a Hebron qui descritte, sono rappresentate, anche se in modo errato, come se fossero svolte sotto la copertura del governo israeliano”, si legge nella presentazione. “A Hebron lo Stato di Israele si presenta molto male rispetto allo stato di diritto.”

Imad Abu Shamsiyah, la cui casa si trova nella Città Vecchia di Hebron, ha documentato nel 2016 l’esecuzione di un aggressore palestinese disarmato da parte del soldato israeliano Elor Azaria. Da allora, Abu Shamsiyah è stato vittima di continue vessazioni da parte sia dei coloni che delle forze di sicurezza israeliane.

Oggi, Abu Shamsiyah guida un’organizzazione di volontariato chiamata Human Rights Defenders, i cui volontari documentano la dura realtà che li circonda e la postano su Facebook, compreso il video dei coloni che hanno demolito i negozi palestinesi alcune settimane fa. In un altro recente video caricato sulla pagina Facebook, si possono vedere coloni che prendono possesso di una casa palestinese nella Città Vecchia.

Mentre Abu Shamsiyah parlava dei negozi distrutti, i soldati stavano trattenendo un ragazzo palestinese al vicino posto di blocco. Nell’area H2, che rappresenta circa il 20% dell’area totale di Hebron, l’esercito israeliano ha allestito circa 20 posti di blocco, rendendovi i movimenti dei palestinesi difficili al punto da essere quasi impossibili. Alcuni giovani si sono avvicinati ai soldati e Abu Shamsiyah ha gridato loro di stare alla larga.

Spiega che i soldati consentono l’ingresso nell’area solo ai palestinesi di un elenco che si limita ai proprietari di appartamenti. “I miei genitori, per esempio, non possono venire a trovarmi. Non possono entrare nel quartiere passando per il posto di blocco. Sono fuori lista. Anche mio figlio non può venire a trovarmi. È stato arrestato più volte, quindi il suo nome è stato cancellato.

La distruzione dei negozi è una piccola parte di una grande ingiustizia”, continua Abu Shamsiyah. “Una volta, questo era il centro della città. Ricordo come prendevamo i taxi da qui per Jaffa, Yatta e Gaza. Ora è tutto deserto. Hanno trasformato questo posto in un museo dell’apartheid”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele porta avanti una campagna di arresti nella Cisgiordania occupata

Redazione di MEMO

Lunedì 18 luglio 2022 – Middle East Monitor Le forze di occupazione israeliane hanno lanciato una massiccia campagna di arresti in un certo numero di città e villaggi in tutta la Cisgiordania occupata. Le forze sono state affrontate dagli abitanti, che hanno tentato di impedire le incursioni.

All’alba di lunedì le forze israeliane hanno effettuato incursioni in quartieri di Ramallah, Betlemme, Nablus ed Hebron e anche nel campo profughi di Jalazone. Almeno dieci palestinesi sono stati arrestati durante le ultime retate.

Domenica sera nei quartieri di Marhaba e Tira [a Ramallah] ci sono stati scontri armati tra i combattenti della resistenza e le forze di occupazione. Queste ultime effettuano frequentemente incursioni nel quartiere per proteggere i coloni illegali che li attaccano con il pretesto che ci sono siti archeologici e tombe ebree nel settore ovest di Tira.

I tre giovani abitanti del campo profughi di Jalazone che sono stati arrestati si chiamano Muhammad Abdullah Nakhleh, Musa Issa Sharakah e Salam Shehadeh Al-Tarawih. Dopo che le loro case sono state perquisite, sono stati condotti dalle forze israeliane in un luogo sconosciuto.

Sul campo si sono scontrati decine di giovani e le forze di occupazione: sono stati sparati lacrimogeni e pallottole di metallo ricoperti di gomma. Non sono stati riportati feriti.

La scorsa notte gli israeliani hanno arrestato tre palestinesi di Betlemme. Fonti locali hanno riportato che un’unità militare israeliana ha fermato un veicolo vicino al villaggio di Wadi Fukin ad ovest della citta ed ha trattenuto i suoi passeggeri prima che fossero arrestati. I loro nomi sono quelli di un ex- detenuto e dell’ex-sindaco del Comune di Aldowa, Raafat Nafeth Jawabrae Alaa Ali Al-Satagi, e Basel Abdelfattah Al-Jabri.

Nel distretto di Hebron, le forze di occupazione hanno arrestato Diaa Amro e Hamza Amro, abitanti di Dura e Omar Burqan residente in città. E’ stato arrestato anche Hamed Jasser, di Beita, a sud di Nablus.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Le forze israeliane uccidono una giornalista palestinese vicino ad un campo profughi nella Cisgiordania

Redazione di Middle East Eye

Mercoledì 1 giugno 2022 – Middle East Eye

La famiglia di Ghufran Harun Warasneh di 31 anni afferma che lei si stava dirigendo verso la sede di una rete multimediale locale dove aveva cominciato un nuovo lavoro quando è stata colpita da un soldato israeliano.

Mercoledì nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, le forze di sicurezza israeliane hanno colpito a morte una giornalista palestinese mentre si stava recando nella sede di un media locale dove aveva cominciato un nuovo lavoro.

Il ministero della sanità palestinese ha affermato che Ghufran Harun Warasneh, di 31 anni, è stata colpita al torace vicino al campo profughi di al-Arroub e dichiarata morta successivamente in ospedale.

Un testimone anonimo ha affermato all’agenzia palestinese di notizie Wafa che Warasneh stava camminando verso la strada principale quando due soldati che presidiavano un checkpoint militare le hanno chiesto di avvicinarsi prima che uno di loro la colpisse.

L’esercito israeliano ha affermato in una dichiarazione che “un aggressore armato di coltello si è diretto verso un soldato che stava facendo gli ordinari controlli di sicurezza sulla Route 60. I soldati hanno risposto sparando”.

La Mezzaluna rossa palestinese ha affermato che le forze di sicurezza israeliane presenti sulla scena hanno impedito ai suoi medici di raggiungere Warasneh per 20 minuti prima che riuscissero a trasferirla all’ospedale al-Ahli di Hebron.

Warasneh aveva iniziato a lavorare con l’agenzia locale di notizie Dream questa settimana e si suppone che mercoledì fosse al suo terzo giorno del nuovo lavoro.

Laureata alla scuola di giornalismo della università di Hebron, Warasneh aveva lavorato con alcune agenzie locali prima di passare alla Dream.

Sua madre ha riferito all’agenzia Wafa che Warasneh era stata precedentemente arrestata e detenuta per tre mesi per il suo servizio su una manifestazione pro-Palestina a gennaio e la sua attrezzatura fotografica era stata distrutta.

La madre di Warasneh (che è rimasta anonima) ha riferito all’agenzia Wafa che “Ghufran ha lasciato la casa presto per arrivare al lavoro in orario.

Ma poco dopo abbiamo sentito che gli occupanti [le forze israeliane, ndt.] avevano colpito a morte una donna all’ingresso del campo, ma abbiamo saputo molto tempo dopo che era mia figlia

La notizia è stata scioccante.”

Obiettivo: giornaliste donne

La giornalista palestinese Merfat Sadiq ha detto a Middle East Eye che la morte di Ghufran è stata “dolorosa” e parte della intensificazione degli attacchi contro i giornalisti palestinesi nell’ultimo anno.

Sadiq ha detto che “sembra che in particolare le giornaliste donne siano considerate un obiettivo più facile, Abbiamo osservato questo due giorni fa con ripetuti attacchi contro giornaliste donne che stavano seguendo la marcia delle bandiere a Gerusalemme e a Nablus.

La giornalista Ranin Sawaftah è stata colpita direttamente con una raffica di gas lacrimogeni.

L’accusa di un tentativo di aggressione non è credibile, il soldato avrebbe potuto arrestarla o spaventarla. Lei era vicina a loro, tuttavia è stata colpita nella parte superiore del corpo come le immagini hanno mostrato. È stato un assassinio premeditato,” ha aggiunto.

Il ministero degli esteri palestinese ha condannato l’assassinio come una “esecuzione sul campo”.

Stava andando verso il luogo di lavoro e lì non c’erano incidenti né pericoli per i colpevoli [della sua uccisione, ndt.]”, ha affermato in un comunicato.

Finora quest’anno le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso più di 50 palestinesi nella Cisgiordania occupata, inclusa la famosa giornalista Shireen Abu Akleh.

Venerdì le forze israeliane hanno colpito a morte un quindicenne palestinese vicino Betlemme, dopo uno scontro scoppiato tra gli abitanti di al-Khader e i soldati che hanno preso d’assalto la città per “mettere in sicurezza un incrocio vicino alla colonia illegale di Efrat”, secondo i media israeliani.

Ghonaim è il quindicesimo adolescente palestinese ucciso dal fuoco israeliano quest’anno.

Due giorni prima Gaith Yamin, di 16 anni, è stato ucciso dai soldati israeliani mentre proteggevano l’arrivo dei coloni israeliani alla tomba di Giuseppe, nei sobborghi di Nablus, città della Cisgiordania, un sito venerato da musulmani ed ebrei e un continuo luogo di conflitto tra palestinesi e israeliani.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Un microcosmo della lotta palestinese: la vita di una famiglia a Hebron

Louy Alsaeed

26 aprile 2022 – Al Jazeera

Gli al-Jaabari sono una delle numerose famiglie di Hebron la cui casa è schiacciata in mezzo alle colonie israeliane.

Hebron, Cisgiordania occupata – La vita quotidiana è un test di resistenza nella casa di due piani del sessantaquattrenne Abdulkareem al-Jaabari e della sua famiglia di 16 persone.

Nella città palestinese di Hebron, che si trova nel sud della Cisgiordania occupata da Israele, gli al-Jaabari sono una delle famiglie palestinesi le cui case sono strette tra le due colonie illegali di Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot. La famiglia afferma di essere esposta a continui attacchi ed incursioni da parte di coloni e di forze israeliane.

Hebron ospita circa 200.000 palestinesi e circa 700 coloni ebrei. Tuttavia il 20% della città è sotto il diretto controllo israeliano e i palestinesi che vi vivono o vi si trovano di passaggio, a differenza dei coloni ebrei, sono soggetti a posti di blocco e ad un divieto di transito su diverse strade principali.

Questa situazione ha spinto migliaia di palestinesi ad andarsene, cosa che le associazioni per i diritti hanno descritto come espulsione forzata di massa.

Durante la settimana della festività ebraica di Passover (la pasqua ebraica, ndtr.), che quest’anno si è svolta dal 15 al 22 aprile, sovrapponendosi al mese sacro musulmano del Ramadan, migliaia di coloni israeliani e loro sostenitori, alcuni dei quali armati, hanno partecipato protetti dall’esercito israeliano ad eventi nelle strade del centro di Hebron, compresa la Città Vecchia.

Il 18 aprile si è svolta una manifestazione di coloni vicino alla Moschea di Ibrahim (la Tomba dei Patriarchi), in cui nel 1994 un colono israelo-americano massacrò 29 palestinesi mentre pregavano.

La scorsa settimana le forze israeliane hanno chiuso per diversi giorni la Moschea di Ibrahim ai fedeli palestinesi, agevolando invece l’ingresso a migliaia di coloni israeliani. Anche le strade verso la moschea sono state chiuse e decine di negozi nella Città Vecchia sono stati costretti ad abbassare le serrande.

Abdulkareem dalla sua casa ha detto a Al Jazeera “Abbiamo paura dei sabati e delle feste ebraiche”.

In tali occasioni la tensione sul campo cresce in quanto Israele dispiega un maggior numero di soldati e di poliziotti per proteggere i coloni e i palestinesi subiscono un aumento delle restrizioni di movimento e della violenza dello Stato e dei coloni.

Israele sostiene che la presenza dell’esercito e le restrizioni nei confronti dei palestinesi sono necessarie per motivi di sicurezza e per proteggere i coloni ebrei che vivono a Hebron dagli attacchi palestinesi.

A fine febbraio un tribunale israeliano ha deliberato che l’esercito israeliano possa continuare ad usare un edificio a Hebron costruito in gran parte su terreno privato palestinese, sostenendo che una presenza ebraica in Cisgiordania fa parte della politica di sicurezza dell’esercito israeliano.

Per i palestinesi di Hebron l’effetto di tale presenza diviene particolarmente pesante durante gli eventi speciali organizzati dai coloni.

Durante queste festività la destra israeliana mobilita i propri sostenitori provenienti dalla città e da fuori”, dice ad Al Jazeera Hisham al-Sharabati, un abitante di Hebron e attivista per i diritti umani, aggiungendo che normalmente gli attacchi dei coloni aumentano in questi periodi.

Attacchi continui’

La lotta che dura da vari decenni della famiglia al-Jaabari rappresenta un microcosmo della vita dei palestinesi sotto il dominio dell’esercito israeliano a Hebron.

La loro casa è circondata da filo spinato per proteggerla contro gli attacchi alla proprietà. La famiglia ha installato diverse telecamere di sorveglianza per documentare gli attacchi.

Secondo la famiglia tutti i suoi membri ad un certo punto sono finiti in ospedale, in seguito agli attacchi dei coloni.

Mi sono abituato alla paura quotidiana durante la mia vita qui”, dice Abdulkareem. “I continui attacchi ci hanno costretti ad essere preparati al peggio in ogni momento.”

Le Nazioni Unite hanno documentato diversi attacchi da parte di coloni contro la famiglia. I coloni le hanno sparato, lanciato pietre e sono entrati nella casa danneggiandola. Ha subito anche furti del bestiame e dei raccolti.

La figlia di Abdulkareem, Ayat, e suo figlio Adi dicono di aver subito attacchi da parte dei coloni – Ayat quando le è stata lanciata una pietra in testa provocandole una commozione cerebrale e Adi quando è stato accoltellato da un colono mandandolo in ospedale.

L’occupazione israeliana e i suoi coloni stanno cercando con ogni mezzo di cacciarci dalle nostre terre e dalle nostre case”, dice Abdulkareem, conosciuto anche col soprannome di Abu Anan.

Impadronirsi della terra

Nel 1968, poco dopo avere occupato la Cisgiordania, Israele creò Kiryat Arba – una delle prime e più estremiste colonie in Cisgiordania – a circa 80 metri di distanza dalla casa di Abdulkareem.

La colonia ora si estende su circa 5 chilometri quadrati ed è sede di un monumento dedicato a Baruch Goldstein, il colono che compì il massacro alla Moschea di Ibrahim.

Anni dopo fu costruito il vicino avamposto di Giv’at Ha-Avot, a circa 20 metri di distanza dall’altro lato della terra della famiglia al-Jaabari e la popolazione totale delle due colonie arrivò a circa 8.000 persone.

La terra di Abdulkareem, trasmessa nella famiglia per generazioni e da lui formalmente ereditata da suo padre nel 1991, divenne un sito strategico in mezzo alle due colonie.

I figli di Abdulkareem ora lavorano e i 10 chilometri quadrati di terra restano la principale fonte di reddito per la famiglia, che vive di agricoltura e allevamento.

Prima di costruirvi la casa nel 1976 la famiglia passava l’estate nei terreni prendendosi cura di decine di alberi.

Quel sereno stile di vita cambiò improvvisamente quando crebbe l’espansione dei coloni. Nel 2002 i coloni eressero una gradinata nel mezzo della terra di Abu Anan per collegare Kiryat Arba con l’avamposto di Giv’at Ha-Avot. Nel 2006 vi piazzarono un ampio tendone per usarlo come sinagoga.

Nonostante una sentenza del tribunale del 2015 che stabiliva che il tendone dovesse essere rimosso, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare ad usarlo. Ogni sabato vi arrivavano a decine, mentre durante le festività ebraiche il numero arriva alle centinaia.

Per i coloni la presenza di ebrei a Hebron è giustificata da motivi religiosi poiché è il sito della Moschea di Ibrahim, venerata sia dai musulmani che dagli ebrei, che la chiamano Tomba dei Patriarchi.

I coloni affermano anche che una comunità ebraica era esistita ad Hebron fin dal Medioevo e che l’uccisione di 67 ebrei per mano di palestinesi nel 1929 è la principale ragione per cui furono costretti ad andarsene, prima di farvi ritorno dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967.

Attacchi dei coloni

In un campionamento effettuato nel 2019 dalle Nazioni Unite su 280 famiglie palestinesi nelle zone su cui più hanno inciso le colonie a Hebron, quasi il 70% ha affermato che almeno un componente della propria famiglia ha subito violenze o attacchi di coloni a partire da ottobre 2015.

Per la famiglia al-Jaabari gli attacchi dei coloni sono stati più violenti che negli altri casi.

Hanno affermato che nel 2007 più di 300 coloni hanno fatto irruzione nella loro casa ed aggredito la famiglia.

Ho tre figli con disabilità e non sono stati risparmiati dall’attacco. I coloni hanno distrutto le loro sedie a rotelle, li hanno aggrediti ed hanno impedito alle ambulanze di soccorrerci”, ricorda Abu Anan.

In un episodio del 2008 documentato dalle Nazioni Unite un matrimonio di uno dei figli di Abdulkareem è stato attaccato da coloni che hanno lanciato pietre, uova e pomodori. Anche un altro matrimonio nel 2013 è stato attaccato dopo che i coloni avevano fatto incursione nella casa di famiglia. In entrambi i casi invitati alla cerimonia sono rimasti feriti.

Persino i nostri matrimoni sono macchiati di sangue e terribili”, dice Abdulkareem.

La famiglia afferma che le forze israeliane nella zona non solo ignorano le denunce contro i coloni, ma spesso offrono loro protezione durante gli attacchi. Esempi di tale cooperazione e addirittura attacchi congiunti di coloni ed esercito in tutta la Cisgiordania sono stati documentati da organizzazioni per i diritti.

L’esercito israeliano non ha risposto alla richiesta di rilasciare un commento sulle accuse nei suoi confronti.

Tra il 2000 e il 2008 Abdulkareem ha presentato almeno 75 denunce alla polizia e altre decine dopo di allora.

Una volta un colono mi ha sparato mentre raccoglievo le olive”, dice Abdulkareem. “Sono andato alla polizia israeliana, che si trovava a pochi metri da casa mia, per sporgere denuncia contro il colono. La polizia ha deciso di arrestare me e mio figlio per 17 giorni e ci ha comminato una multa, sostenendo che noi avevamo aggredito il colono.”

Il figlio di Abdulkareem, il 26enne Mohammad, ritiene inutile rivolgersi alle autorità israeliane.

Negli ultimi tre anni abbiamo deciso di non sporgere alcuna denuncia alla polizia israeliana ed abbiamo preferito difenderci da soli – qualunque sia il risultato”, ha detto ad Al Jazeera.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)