Militari israeliani uccidono ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese e sparano a un insegnante

Tamara Nassar

9 novembre 2020 – The Electronic Intifada

Domenica scorsa le forze di occupazione israeliane hanno sparato ad un palestinese all’ingresso del campo profughi di al-Fawwar, vicino alla città di Hebron in Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha affermato che quando hanno aperto il fuoco Ali Suleiman Amro, 40 anni, stava tentando di aggredirli con un coltello.

Come in molti casi precedenti di uccisione di un presunto aggressore palestinese, nel corso dell’accaduto nessun soldato israeliano è rimasto ferito.

L’esercito ha dichiarato che Amro è stato ricoverato in ospedale, ma i media israeliani hanno riferito che le sue condizioni erano ignote.

Dei testimoni palestinesi hanno filmato la sparatoria dal loro veicolo.

È possibile scorgere Amro mentre viene circondato da almeno tre soldati quando si sentono due colpi di arma da fuoco.

I media palestinesi hanno riferito che Amro era un insegnante di una scuola superiore nella città di Dura, vicino a Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Questo è il secondo episodio nel corso di questo mese in cui i soldati israeliani sparano a dei palestinesi asserendo di essere stati attaccati.

Il precedente è stato fatale.

Ucciso un capitano dell’Autorità Nazionale Palestinese

Mercoledì scorso dei militari israeliani hanno sparato e ucciso un uomo palestinese vicino al posto di blocco militare di Huwwara, principale punto di transito in entrata e in uscita della città di Nablus, in Cisgiordania.

L’uomo è stato identificato come Bilal Adnan Rawajba, 29 anni. Era un consulente legale con il grado di capitano delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’esercito israeliano ha affermato che Rawajba aveva aperto il fuoco contro i militari israeliani “mentre usciva dalla città“.

L’esercito ha affermato che i soldati lo hanno “neutralizzato”.

La famiglia di Rawajba avrebbe sostenuto che egli si stava recando per lavoro nella città di Tubas, nel nord della Cisgiordania.

Dei palestinesi in un veicolo vicino hanno filmato la sparatoria. Il video diffuso sui social media mostra un soldato israeliano che spara più volte contro l’auto di Rawajba a distanza ravvicinata.

I filmati di sorveglianza diffusi dai media locali mostrano un’auto bianca che si avvicina ad una postazione militare dove si trovano due soldati. I soldati inizialmente correndo si allontanano  dal veicolo.

Da una barriera di cemento sembra levarsi della polvere, probabilmente originata da un colpo di arma da fuoco. In nessuno dei due video è visibile Rawajba o qualsiasi arma potesse avere con sé.

I media locali hanno anche diffuso un’immagine grafica che mostra Rawajba ucciso all’interno della sua auto.

Nessun soldato israeliano è rimasto ferito durante il fatto.

“Coordinamento della sicurezza”

Mercoledì l’Organizzazione per la liberazione della Palestina in un tweet ha ritenuto Israele “pienamente responsabile” di quella che ha definito “l’esecuzione extragiudiziale” di Rawajba.

L’OLP ha anche accusato Israele di “aver impedito agli equipaggi delle ambulanze di raggiungerlo, lasciandolo morire dissanguato”.

“Chiediamo alla Corte Penale Internazionale di accelerare le sue indagini”, ha aggiunto.

A maggio l’Autorità Nazionale Palestinese ha sospeso il suo coordinamento “civile” e relativo alla “sicurezza” con Israele per protestare contro i piani israeliani di annettere vaste aree della Cisgiordania occupata.

Ciò si è ripercosso sui pazienti palestinesi che richiedono cure mediche fuori Gaza, i quali si affidano al coordinamento dell’ANP con l’esercito israeliano per ottenere i permessi.

L’ Autorità Nazionale Palestinese ha anche rifiutato di accettare le entrate fiscali che Israele raccoglie dai palestinesi per conto della stessa ANP. Ciò per protestare contro la sottrazione da parte di Israele del denaro pari agli importi che l’ANP versa alle famiglie dei prigionieri palestinesi.

Questo ha danneggiato i funzionari dell’ANP come Rawajba, che a causa della controversia ricevono solo metà dei loro stipendi.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz [quotidiano israeliano di orientamento progressista, ndtr.] ha affermato che la sospensione del coordinamento ha “danneggiato l’apparato di sicurezza palestinese più di quanto abbia fatto leva su Israele”.

La resistenza palestinese e le fazioni politiche Hamas e Jihad islamica hanno entrambe condannato l’uccisione di Rawajba.

Il partito politico di sinistra Fronte popolare per la liberazione della Palestina ha definito l’uccisione di Rawajba all’interno della sua auto “un altro crimine di guerra sionista da aggiungere all’elenco dei crimini contro il nostro popolo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Hebron, colpita dal coronavirus, lotta contro lo stigma sociale e l’occupazione israeliana

Mustafa Abu Sneineh

15 luglio 2020 – Middle East Eye

La più grande città della Cisgiordania è un microcosmo delle sfide che affrontano i palestinesi mentre cercano di combattere il Covid-19.

Se si cammina per le strade di Hebron è facile sentire le persone salutarsi con lo stesso modo di dire: “Ti bacerò sulle guance nonostante il coronavirus.”

È una frase che sta destando sempre più preoccupazione tra le autorità della più grande città della Cisgiordania.

Hebron è stata colpita duramente dalla seconda ondata di coronavirus, che si è manifestata all’inizio di giugno dopo che sembrava che la Cisgiordania avesse superato la fase peggiore della pandemia. In questa sola settimana sono morti di Covid-19 una bambina di 12 anni, tre donne e un uomo di 90 anni.

Complessivamente i territori palestinesi hanno registrato un tasso di mortalità relativamente basso, con 47 decessi contro i 371 di Israele. Ma il numero dei casi sta rapidamente crescendo, con 8.153 contagi da marzo in Cisgiordania, Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.

Mai al-Kauleh, la Ministra della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha affermato che sono stati identificati 27 focolai di coronavirus attivi in Cisgiordania, nei villaggi, nei campi profughi e nelle città.

Kaiuleh ha detto che attualmente sono ricoverati in ospedale 111 palestinesi, di cui sette intubati in terapia intensiva.

Hebron, città socialmente conservatrice, divisa dall’occupazione israeliana e centro propulsore dell’economia della Cisgiordania, è un microcosmo delle sfide che i palestinesi affrontano mentre cercano di combattere il coronavirus.

In base ad un accordo del 1997 firmato dal governo israeliano e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, la città è di fatto divisa in due parti.

Hebron è suddivisa in H1, sotto il pieno controllo amministrativo e di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e H2, sottoposta alla gestione amministrativa dell’ANP, ma controllata dall’esercito israeliano, che ha potere decisionale su chi entra e chi esce dall’area.

Tayseer Abu Sneineh, sindaco e capo del comune di Hebron, ha detto a Middle East Eye che questa divisione si è dimostrata una sfida per il personale medico che combatte la pandemia, con le ambulanze a cui spesso è impedito di entrare nella zona H2, dove circa 40.000 palestinesi vivono accanto a 800 coloni israeliani.

Nella zona H2 vi sono 18 checkpoint militari israeliani permanentemente presidiati.

L’occupazione israeliana, in generale, è un ostacolo allo sviluppo della città e controlla il confine, l’acqua ed ogni cosa. A partire dall’occupazione nel 1967, non è stato aggiunto un singolo posto letto all’ospedale pubblico di Hebron, fino a quando l’Autorità Nazionale Palestinese ha iniziato a governare la città negli anni ‘90”, ha affermato Abu Sneineh.

Attualmente nel distretto di Hebron ci sono diversi ospedali che si occupano di pazienti con coronavirus, compreso l’ospedale della Mezzaluna Rossa ad Halhul e l’ospedale Dura, aperto prima della data prevista in giugno. Si sta predisponendo anche l’apertura di un reparto nell’ospedale pubblico di Hebron.

Complessivamente questi ospedali sono a disposizione dei 215.000 palestinesi che vivono nella città e nei villaggi circostanti, un’area in cui ci sono quasi 120 checkpoint militari israeliani. Secondo Abu Sneineh 120.000 palestinesi di Hebron vivono in zone prive di ambulatori o persino di stazioni di polizia e la grande quantità di posti di blocco impedisce loro l’accesso agli ospedali del distretto.

Detto questo, le politiche dell’ANP e le risposte pubbliche alla pandemia non hanno fatto che aggravare una situazione già difficile.

A marzo l’ANP ha posto la Cisgiordania in completo isolamento fino alla fine di maggio, replicandolo per nove giorni a giugno quando i casi hanno ricominciato ad aumentare.

Ma Hebron, polo manifatturiero del territorio, non ha mai realmente aderito alle restrizioni ed ora ne sta subendo le conseguenze.

Purtroppo alcuni si rapportano ancora alla pandemia di coronavirus come se non esistesse e fosse parte di una cospirazione globale, e questo ha portato alla diffusione del virus”, ha detto Abu Sneineh.

Il Comune di Hebron ha istituito un centro di emergenza per coordinare la sua risposta ed ha pubblicato opuscoli e manifesti per mettere in guardia contro il rischio mortale del Covid-19, ma con scarsi risultati.

L’11 luglio le autorità hanno chiesto il rispetto delle misure di distanziamento sociale quando sono stati annunciati gli esiti degli esami della scuola secondaria, ma molta gente invece si è ammassata nelle macchine e ha fatto il giro della città per festeggiare.

Noi popolo palestinese abbiamo qualcosa nel nostro carattere che è lo spirito di sfida. Certamente sfidare l’occupazione è positivo, ma sfidare un virus in questo modo è una cosa negativa”, ha detto Abu Sneineh.

Bashar al-Atrash, un abitante della zona H1 che lavora nell’industria alimentare, ha detto a MEE di essere tornato a lavorare in fabbrica dopo aver rispettato i 20 giorni del primo isolamento.

Per Atrash il coronavirus è sconcertante perché molte persone risultate positive non hanno mostrato alcun sintomo.

Abbiamo appreso del coronavirus dai media, dalle autorità e dalla moschea, che dopo il richiamo alla preghiera ha fatto un annuncio dicendo alla gente di pregare a casa”, ha detto Atrash.

Che cos’è questo virus che non ti provoca tosse, mal di testa, febbre o diarrea? Cinque miei parenti sono risultati positivi ai test del coronavirus e quando sono andato a trovarli a casa dopo che sono usciti dall’ospedale sembravano sani e in buone condizioni. Allora che cos’è il coronavirus?”

Atrash ha mostrato a MEE un messaggio che è circolato sui social media ad Hebron, scritto da un sedicente dottore che ha proposto una “cura” per il Covid-19, che consiste nel tagliare a fette sottili l’aglio e mangiarlo crudo due volte al giorno durante i pasti.

Il messaggio diceva che “l’esperimento ha dimostrato… che è sufficiente per proteggersi dal coronavirus e dai virus dell’apparato respiratorio, a prescindere da quanto siano violenti e senza ricorrere alle misure di prevenzione.”

Atrash ha detto anche di aver sperimentato questa “cura”, ma di aver aggiunto uno spicchio d’aglio in base al consiglio di un parente.

Quando a marzo la pandemia ha colpito il mondo arabo, sui social media si sono diffusi molti messaggi di questo genere.

Il più famoso rimedio falso è stato proposto nel corso di un’intervista televisiva con un medico egiziano, che ha sostenuto che una cura per il coronavirus esiste già nel shalawlaw, un cibo copto consumato durante il digiuno della vergine Maria, costituito da molokhia [pianta simile alla malva, ndtr.] secca, aglio, acqua fredda, limoni e spezie.

Non sappiamo a chi credere: al governo, ai media, o alle autorità? Ognuno agisce di propria iniziativa per proteggersi”, ha detto Atrash.

Intanto Hebron resta aperta, con visitatori provenienti dalla comunità palestinese beduina dell’interno del Negev israeliano, famiglie di Gerusalemme est originarie della città e palestinesi cittadini di Israele provenienti da città come Oum al-Fahim, Nazareth, Kafr Qasim e Kafr Kanna, che vengono a fare acquisti e a pregare nella storica moschea di Ibrahim.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La guerra di Israele contro la storia palestinese

Jonathan Cook

7 settembre 2020 – Chronique de Palestine

Lo Stato utilizza diversi mezzi per dare l’impressione che la sua politica nei confronti dei palestinesi sia motivata da preoccupazioni per la sicurezza.

Quando nel 2002 l’attore palestinese Mohammed Bakri realizzò un documentario su Jenin – facendo le riprese immediatamente dopo che l’esercito israeliano si era scatenato nella cittadina cisgiordana, lasciando una scia di morte e distruzione – scelse per la scena di apertura un protagonista insolito: un giovane palestinese muto.

Quando l’esercito israeliano rase al suolo il vicino campo profughi terrorizzando la sua popolazione, Jenin venne isolata dal mondo per quasi tre settimane.

Il film di Bakri, ‘Jenin’, mostra il giovane che si aggira in silenzio tra gli edifici in rovina, servendosi del proprio corpo per mostrare dove i soldati israeliani avevano ucciso dei palestinesi e dove i bulldozer avevano demolito delle case, che a volte erano crollate sui loro abitanti.

Il messaggio generale di Bakri non era affatto difficile da capire: quando si tratta della propria storia, i palestinesi non hanno voce in capitolo. Sono testimoni silenziosi della propria sofferenza ed oppressione e di quella del loro popolo.

Ironia vuole che lo stesso Bakri abbia subito un analogo destino dopo l’uscita del film, 18 anni fa. Oggi a malapena ci si ricorda del suo film o degli atroci crimini che lui aveva filmato, se non per la battaglia legale senza fine per impedire al film di essere proiettato.

Da allora Bakri è perseguito dai tribunali israeliani, accusato di diffamazione nei confronti dei soldati che hanno compiuto l’attacco. Sta pagando un alto prezzo personale. Minacce di morte, perdita del lavoro e infinite spese legali, che lo hanno praticamente mandato in rovina. La sentenza dell’ultimo processo contro di lui, intentato questa volta dal procuratore generale di Israele, è attesa nelle prossime settimane.

Bakri è una vittima particolarmente conosciuta della guerra che Israele conduce da tempo contro la storia palestinese. Ma ci sono moltissimi altri esempi.

Da decenni parecchie centinaia di palestinesi residenti nel sud della Cisgiordania lottano contro l’espulsione, poiché i rappresentanti israeliani li definiscono “squatters” [occupanti abusivi]. Secondo Israele i palestinesi sono dei nomadi che incautamente costruiscono case su terre di cui si sono appropriati all’interno di una zona di tiro dell’esercito.

Le confutazioni degli abitanti furono ignorate fino a quando la verità non è stata recentemente riesumata dagli archivi di Israele.

La presenza di queste comunità palestinesi infatti compare su carte geografiche precedenti l’esistenza di Israele. Documenti ufficiali israeliani presentati in tribunale il mese scorso mostrano che Ariel Sharon, generale diventato uomo politico, ha concepito una politica consistente nello stabilire delle zone di tiro (dell’esercito) nei territori occupati, per giustificare l’espulsione in massa di palestinesi, come le comunità sulle colline di Hebron.

Questi abitanti hanno la fortuna che le loro rivendicazioni sono state ufficialmente confermate, anche se comunque sono in balia di una giustizia aleatoria esercitata da un tribunale dell’occupante israeliano.

Attualmente gli archivi israeliani sono posti sotto sigillo proprio per impedire il rischio che i documenti possano confermare la storia palestinese, da molto tempo esclusa ed ignorata.

Il mese scorso il Controllore di Stato di Israele, un organo di sorveglianza, ha rivelato che oltre un milione di documenti archiviati erano ancora inaccessibili, benché la data per la loro declassificazione sia scaduta. Tuttavia alcuni di essi sono trapelati tra le maglie della rete.

Per esempio, gli archivi hanno confermato alcuni dei massacri su grande scala di civili palestinesi compiuti nel 1948, l’anno in cui Israele fu creato attraverso l’espulsione dei palestinesi dalla loro patria.

Durante uno di quei massacri a Dawaymeh, vicino al luogo in cui oggi i palestinesi lottano contro l’espulsione dalla zona di tiro, furono uccisi a centinaia, anche se non opponevano alcuna resistenza, per spingere l’intera popolazione a fuggire.

Altri documenti hanno confermato le affermazioni palestinesi secondo cui Israele in quello stesso anno distrusse più di 500 villaggi palestinesi nel corso di un’ondata di espulsioni di massa, allo scopo di dissuadere i profughi dal ritornare.

Documenti ufficiali hanno anche smentito l’affermazione di Israele secondo cui esso avrebbe chiesto ai 750.000 rifugiati di tornare alle loro case. Di fatto, come rivelano gli archivi, Israele ha nascosto il proprio ruolo nella pulizia etnica del 1948 inventando una storia di copertura che sostiene che siano stati i dirigenti arabi ad ordinare ai palestinesi di fuggire.

La battaglia per sradicare la storia palestinese non si svolge solo nei tribunali e negli archivi. Inizia nelle scuole israeliane.

Un nuovo studio di Avner Ben-Amos, docente di storia all’università di Tel Aviv, mostra che gli alunni israeliani non imparano quasi niente di vero sull’occupazione, anche se molti di loro la metteranno presto in pratica in quanto soldati di un esercito che si pretende “morale”, che domina sui palestinesi.

Le carte nei manuali di geografia eliminano la cosiddetta “Linea verde”, cioè la frontiera che delimita i territori occupati, per presentare il Grande Israele da tempo sognato dai coloni. I corsi di storia e di educazione civica evitano qualunque trattazione dell’occupazione, della violazione dei diritti umani, del ruolo del diritto internazionale o delle leggi nazionali sul modello dell’apartheid, che trattano i palestinesi in modo differente dai coloni ebrei che vi vivono illegalmente accanto.

La Cisgiordania, invece che come tale, è conosciuta con i suoi nomi biblici di “Giudea e Samaria” e la sua occupazione nel 1967 è definita “liberazione”.

Purtroppo la cancellazione dei palestinesi e della loro storia viene riproposta all’estero da giganti informatici come Google e Apple.

I militanti della solidarietà con la Palestina lottano da anni per ottenere dalle due piattaforme che includano centinaia di comunità della Cisgiordania assenti dalle loro mappe, attraverso l’hashtag “#heresmyvillage” (#ecco il mio villaggio). Quanto alle colonie ebree illegali, hanno la priorità su queste mappe informatiche.

Un’altra campagna, “#Showthewall” (#mostrate il muro), preme sui giganti dell’alta tecnologia perché indichino sulle loro mappe il tracciato del muro israeliano di cemento e acciaio lungo 700 km., di fatto utilizzato da Israele per annettere parti del territorio palestinese occupato in violazione del diritto internazionale.

Ed il mese scorso delle associazioni palestinesi hanno lanciato un’altra campagna ancora, “#GoogleMapsPalestine”, che chiede che i territori occupati siano identificati come “Palestina” e non solamente come Cisgiordania e Gaza. L’ONU ha riconosciuto lo Stato di Palestina nel 2012, ma Google e Apple hanno rifiutato di farlo.

I palestinesi sostengono, a giusto titolo, che queste aziende riproducono il tipo di discriminazione dei palestinesi abituale nei manuali scolastici israeliani e che mantengono una “segregazione cartografica” che rispecchia le leggi di apartheid israeliane nei territori occupati.

I crimini dell’occupazione – demolizioni di case, arresto di militanti e di minori, violenze dei soldati ed espansione delle colonie – sono oggi documentati da Israele, come lo erano i suoi crimini precedenti.

Forse un giorno gli storici riesumeranno questi documenti dagli archivi israeliani e apprenderanno la verità, cioè che le politiche israeliane non erano motivate, come oggi pretende Israele, da preoccupazioni per la sicurezza, ma dalla volontà coloniale di distruggere la società palestinese e di spingere i palestinesi a lasciare la propria patria per far posto agli ebrei.

Le lezioni che i futuri studiosi impareranno non saranno diverse da quelle che hanno imparato i loro predecessori che hanno scoperto i documenti del 1948.

Ma in realtà non è necessario aspettare così tanti anni. Possiamo comprendere fin da ora quel che succede ai palestinesi, semplicemente rifiutando di contribuire a ridurli al silenzio. È tempo di ascoltarli.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale di giornalismo Martha Gellhorn. È l’unico corrispondente straniero che risiede in modo permamente in Israele (a Nazareth dal 2001). I suoi ultimi libri sono: “Israel and the clash of civilizations: Iraq, Iran and the paln to remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair” [Far sparire la Palestina: esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’espansione degli insediamenti costringe le famiglie palestinesi di Hebron a vivere in grotte

Taghreed Albb

31 luglio 2020 Al Monitor

HEBRON, Cisgiordania – Ai piedi delle montagne rocciose di Hebron, Munther Abu Aram, 48 anni, vive una vita primitiva in una grotta naturale con sua moglie e quattro figli. Quando le autorità israeliane hanno demolito la casa di Abu Aram, non hanno avuto altra scelta che vivere in una grotta senza infrastrutture, elettricità, acqua o servizi igienici.

La piccola grotta di circa 150 metri quadrati (500 piedi quadrati) si trova a Khirbet Janba nella Cisgiordania occupata. “La vita all’interno della grotta è molto difficile, ma ci siamo abituati dopo che i bulldozer dell’occupazione israeliana hanno demolito la mia casa nel 2018, costruita con mattoni e cemento , perché costruita senza licenza. È stato ricostruita  e demolita  di nuovo nel 2019 ”, 

Secondo un rapporto dell’agenzia turca Anadolu dal dicembre 2019, circa 19 famiglie palestinesi , in totale 100 persone , vivono nelle grotte del sud di Hebron , senza accesso all’elettricità o all’acqua, alle scuole o alle strade.

Israele proibisce ai palestinesi di costruire nell’area C e demolisce le case che costruiscono. Secondo un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ,pubblicato il 6 febbraio 2019, le forze israeliane hanno demolito 1.401 case palestinesi nell’area C, provocando lo sfollamento di 6.207 palestinesi, tra questi 3.134 bambini di età inferiore ai 16 anni, tra il 2006 e 2018.

Il 15 gennaio 1997, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e Israele hanno firmato l’ accordo di Hebron , noto anche come protocollo di Hebron, che prevede la divisione della città in due settori: H1 : l’80% dell’area della città è soggetta all’amministrazione palestinese. H2 il restante 20% della città,  costituito principalmente dal centro storico, è sotto il controllo di sicurezza israeliano. La sua popolazione è stimata in 40.000 persone.Abu Aram ha dichiarato: “L’occupazione israeliana vuole allontanarci da Khirbet Janba, confiscare la terra e trasformarla in aree militari chiuse . ampliare l’insediamento di Kiryat Arba e gli avamposti che la circondano”. Ha aggiunto che le autorità israeliane si rifiutano di fornire elettricità e acqua a Khirbet Janba e hanno rimosso e distrutto più volte i pali della rete elettrica e delle reti idriche.

Abu Aram e la sua famiglia coltivano e allevano  bestiame. Usa  un carro per asini per recarsi nelle città vicine e comprare acqua potabile e altre provviste, nonché per portare  i suoi figli nelle scuole del  villaggio più vicino , distante decine di chilometri .

Usa le lanterne a combustibile per illuminare la grotta e sua moglie prepara il cibo sul fuoco. Durante l’estate, la famiglia dorme fuori per paura dei serpenti e degli scorpioni che spesso fanno delle caverne le loro case.

Khalil Jabreen, 41 anni, vive con la sua famiglia in una grotta di 250 metri quadrati (820 piedi quadrati) vicino al sito della sua casa demolita a Khirbet al-Fakhit, distrutta dalle autorità israeliane nel 2000 e altre due volte nel 2015 e 2018.

 L’esercito israeliano ha dichiarato  che ogni volta che avesse ricostruito la sua casa,  l’avrebbe demolita .

“Le forze israeliane ci sfrattano costantemente dalla zona, ma rifiutiamo tutti i tentativi di sfollamento e vogliamo evitare che la nostra terra venga rubata da  loro per costruire nuovi avamposti”.

Ha spiegato che i coloni attaccano costantemente lui e i suoi figli, mentre le forze israeliane continuano a erigere checkpoint militari agli ingressi di Khirbet al-Fakhit per impedire loro di portare cibo, acqua e altro.

Jabreen ha aggiunto: “Nell’area  dove  viviamo mancano le scuole, i centri sanitari e le cliniche e ogni volta che si verifica un’emergenza, siamo  costretti  a fare un lungo e pericoloso viaggio ,su una carretta trainata da asini, per arrivare in ospedale o permettere ai  bambini di poter  frequentare la scuola.”

Abdel Hadi Hantash, membro del Comitato generale per la difesa della terra palestinese in Cisgiordania, ha dichiarato ad Al-Monitor: “Il governatorato di Hebron, nella Cisgiordania meridionale, comprende 27 insediamenti israeliani e 32 avamposti”. Ha osservato che Israele mira a giudaizzare Hebron e ad  annettere la Città Vecchia all’insediamento di Kiryat Arba, al quale il governo israeliano ha concesso lo status municipale.

Ha continuato, “Gli israeliani considerano Hebron una città religiosa”, sottolineando che i coloni in questa zona sono particolarmente caratterizzati dal fanatismo religioso e dall’estremismo politico.

Hantash ha osservato: “Esistono due tipi di insediamenti a Hebron. Il primo è certificato dal governo israeliano e dal consiglio degli insediamenti in Cisgiordania, che presenta i suoi piani attraverso canali politici, in modo da poter essere legittimati . Tuttavia  vi è  un’espansione non ufficiale degli insediamenti, effettuata attraverso organizzazioni sioniste e persone influenti nel governo israeliano .Le autorità israeliane hanno emesso oltre 16 ordini di demolizione nella zona di Masafer Yatta a Hebron, hanno confiscato 250.000 dunum e li hanno dichiarati aree militari chiuse. Ai palestinesi non è permesso vivere o costruire e  e le [forze israeliane] cercano costantemente di costringerli a lasciare le loro terre ”.

Hantash ha invitato le autorità ufficiali palestinesi a costruire infrastrutture nelle aree minacciate di confisca e sequestro. Dovrebbero fare appello alla Corte penale internazionale (ICC), che l’occupazione teme ,poiché può emettere mandati di arresto per i leader che commettono crimini di guerra e confiscano  terre.Dovrebbe  costringere la CPI a emettere decreti che rendano giustizia ai palestinesi e diano forza alla  loro resistenza. “

da Frammenti Vocali in Medio Oriente




Israele distrugge un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus a Hebron

Akram Al-Waara , Mustafa Abu Sneineh – Cisgiordania occupata

22 luglio 2020 – Middle East Eye

I soldati israeliani avrebbero assistito per due mesi alla costruzione di questa struttura indispensabile prima di inviare i bulldozer

Le autorità israeliane hanno distrutto un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus che doveva fungere da guida nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

La Cisgiordania fatica a contenere la seconda ondata di infezioni da coronavirus, dopo che sembrava aver avuto successo nel bloccare la pandemia con un rigido isolamento per parecchie settimane in marzo.

Hebron, la città più grande del territorio e locomotiva economica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), è stata particolarmente colpita. Fino ad oggi nei territori palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese ha registrato 65 decessi legati al coronavirus.

Il Comune di Hebron ha realizzato un centro di crisi dedicato al coronavirus, ma la stigmatizzazione sociale e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana hanno ostacolato il suo lavoro.

Raed Maswadeh, ingegnere trentacinquenne la cui famiglia possiede il terreno sul quale è stata costruita la struttura, riferisce a Middle East Eye che tre mesi fa il Comune si è rivolto ai palestinesi per raccogliere denaro per la costruzione di questo centro.

La mia famiglia ha deciso di donare il proprio terreno all’ingresso settentrionale di Hebron per costruire una clinica di tracciamento del COVID-19”, racconta Maswadeh.

È stata costruita in memoria del nonno, morto recentemente di coronavirus. Maswadeh riferisce che il progetto è costato alla sua famiglia circa 250.000 dollari.

Questo terreno si trova nella zona C, una parte della Cisgiordania sotto totale controllo di Israele, che non rilascia quasi mai i permessi edilizi agli abitanti palestinesi. I coloni israeliani nella regione invece non hanno alcun problema di questo genere.

Maswadeh dice che, come per molte strutture nella regione, hanno cominciato a costruire il centro senza il permesso edilizio.

Se lo avessimo richiesto non lo avremmo ottenuto. Pensavamo che forse, con il COVID-19, ci sarebbero state delle eccezioni”, spiega.

Strumento di pressione

Il progetto mirava ad alleviare la pressione sugli ospedali di Hebron dove vengono curati i pazienti colpiti dalla malattia, che hanno raggiunto la loro capacità massima.

Maswadeh racconta a MEE che la costruzione è stata inaugurata due mesi fa e che i soldati israeliani pattugliavano la zona. Hanno visto che i bulldozer e i materiali da costruzione entravano sul posto, ma non hanno detto niente, prosegue.

Tuttavia il 12 luglio hanno ricevuto un ordine militare, consegnato da un comandante dell’esercito israeliano, di interrompere la costruzione.

Farid al-Atrash, avvocato specializzato nei diritti umani ed attivista di Hebron, spiega a MEE che la città è stata colpita dalla crisi ed ha un disperato bisogno di questo centro.

In questo modo possiamo controllare meglio le persone che entrano ed escono da Hebron e controllare il virus”, spiega.

Secondo lui la demolizione potrebbe essere un modo per Israele di far pressione sull’ANP perché riprenda il coordinamento amministrativo, che è stato interrotto come segno di protesta contro i progetti israeliani di annessione di alcune aree della Cisgiordania.

In generale Israele complica la lotta contro il virus per i palestinesi. Dopo che l’ANP ha interrotto ogni coordinamento con Israele, gli israeliani usano ogni mezzo a loro disposizione per fare pressione sull’ANP perché lo ripristini”, sostiene.

Faranno tutto ciò che possono per renderci la vita qui ancora più difficile.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 30 giugno – 13 luglio 2020

In Cisgiordania, il 9 luglio, nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese di 33 anni e ferendone un altro.

Fonti ufficiali israeliane hanno riferito che i soldati hanno aperto il fuoco contro due palestinesi visti lanciare una bottiglia incendiaria contro una postazione militare; uno dei due è stato ferito, mentre l’altro è fuggito. Successivamente il ferito [forse già morto] è stato prelevato da un’ambulanza palestinese. Fonti palestinesi hanno affermato che l’uomo rimasto ucciso era un passante. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine. Questo episodio porta a 17 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2020. Un altro palestinese è stato colpito e ferito da forze israeliane durante scontri scoppiati dopo il funerale dell’uomo ucciso. Un cancello all’ingresso principale di Kifl Haris, che era stato chiuso il giorno prima dell’accaduto, è rimasto chiuso fino al 12 luglio, ostacolando gli spostamenti degli oltre 4.300 residenti [palestinesi].

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 72 palestinesi [segue dettaglio]. Quaranta di questi feriti si sono avuti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel quartiere di Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Complessivamente, in tutta la Cisgiordania, ci sono state 150 operazioni di questo tipo, il 30% delle quali compiute a Gerusalemme Est e dintorni. Altri 30 feriti sono stati segnalati durante varie proteste contro attività riferibili a coloni: ad ‘Asira ash Shamaliya (Nablus), contro la creazione di un nuovo avamposto colonico in prossimità del villaggio; a Biddya (Salfit) per protestare contro i continui attacchi ad agricoltori (vedi sotto); a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le restrizioni di accesso di lunga data e contro l’espansione degli insediamenti colonici nell’area. Nella città di Hebron, un palestinese è rimasto ferito durante una protesta contro il Piano di annessione previsto da Israele, e un altro è stato ferito nel governatorato di Tulkarm, ad un checkpoint della Barriera. Tre dei ferimenti sono stati provocati da proiettili di arma da fuoco; i rimanenti sono da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Durante il periodo di riferimento, quasi ogni giorno e per diverse ore, uno dei principali checkpoint che controllano l’accesso all’Area riservata della città di Hebron è rimasto chiuso, ostacolando l’accesso dei residenti palestinesi ai servizi di base dislocati in altre parti della Città. Le chiusure sono state attuate durante e dopo le quasi quotidiane proteste anti-annessione e successivi scontri avvenuti vicino al checkpoint (al di fuori dell’Area riservata). Queste restrizioni hanno esacerbato il contesto coercitivo imposto agli oltre 1.000 palestinesi che vivono in questa area della città di Hebron, dove sono stati costituiti insediamenti israeliani dedicati.

Il 5 luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato tre missili contro la regione meridionale di Israele; a seguito del lancio, forze [aeree] israeliane hanno attaccato la postazione di un gruppo armato e diverse aree aperte di Gaza. Non ci sono state vittime da ambo le parti; tre case ed una fattoria palestinesi sono state danneggiate dai raid aerei israeliani.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso sia ad aree [interne alla Striscia, ma] prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni. Non sono stati registrati feriti, ma, in un caso, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato due barche; successivamente i pescatori sono stati liberati. Inoltre, in due casi, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che stavano tentando di entrare in Israele: uno attraverso la recinzione e l’altro dal mare. In tre casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione.

Per mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate trentuno strutture di proprietà palestinese, sfollando 13 persone e intaccando il sostentamento di oltre 100 altre [segue dettaglio]. Nella valle del Giordano, nella Comunità beduina palestinese di Fasayil, le autorità israeliane hanno demolito 12 abitazioni e strutture di sostentamento ad utilizzo stagionale. Quattro delle strutture colpite erano situate in quattro Comunità beduine, interne o attigue ad un’area destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (Piano E1). Due strutture della Comunità di At Taybeh (Hebron), anch’esse in Area C, sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che prevede la rimozione accelerata di strutture prive di licenza, in quanto ritenute “nuove”. Nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui due nel quartiere di Al ‘Isawiya; qui, il 19 febbraio 2020, il Comune di Gerusalemme aveva annunciato un arresto semestrale delle demolizioni.

In due località situate nell’Area C del governatorato di Hebron, le forze israeliane hanno spianato con bulldozer terreni agricoli, con la motivazione che l’area è designata [da Israele] come “terra di Stato” [segue dettaglio]. Ad Al Baq’a, vicino alla città di Hebron, 0,4 ettari di colture stagionali e un muro di sostegno sono stati distrutti con bulldozer, mentre vicino alla città di Sair sono stati sradicati 70 ulivi.

Cinque palestinesi sono stati feriti e decine di alberi e veicoli sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Tutti i ferimenti si sono verificati in due episodi accaduti nel villaggio di Biddya (Salfit), quando coloni hanno attaccato agricoltori al lavoro sulla propria terra: tre sono stati colpiti con armi da fuoco, uno è stato aggredito fisicamente e un altro è stato morso da un cane sguinzagliato da coloni. Nel villaggio di Burin (Nablus) sono stati incendiati decine di ulivi, mentre alcuni altri sono stati sradicati nella Comunità di As Seefer (Hebron), situata in un’area chiusa, dietro la Barriera. Coloni israeliani hanno anche fatto irruzione nel villaggio Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) dove hanno vandalizzato 12 veicoli.

Secondo una ONG israeliana, quattro israeliani, incluso un minore, che viaggiavano su varie strade della Cisgiordania, sono stati colpiti e feriti con pietre; un totale di 19 veicoli israeliani avrebbero subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La terra, radice della narrazione nazionale israeliana

Mehdi Belmecheri-Rozental

26 maggio 2020 – Orient XXI

Per lo Stato israeliano la storia palestinese non può esistere, perché perturberebbe la narrazione nazionale, basata sulla continuità storica dai tempi biblici alla fondazione di Israele. In nome di questo rapporto con la terra che sarebbe esclusivo, la politica israeliana fa di tutto per spogliare la memoria palestinese delle sue tradizioni e della sua cultura.

Ogni Nazione ha i suoi miti fondatori, scrive un’autorappresentazione nazionale al servizio dei propri interessi. Per la giovane Nazione israeliana una frase serve da matrice per la costruzione di questo immaginario: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Questa affermazione più volte smentita definisce ancor oggi la strategia israeliana per costruire la propria narrazione nazionale e dimostrare la legittimità di Israele su questa terra. Come diceva nel 1998 Ariel Sharon: “Tutti si devono muovere, correre a impossessarsi di quante più colline possibile per ingrandire le colonie, perché tutto quello che prenderemo rimarrà nostro”. La colonizzazione è, in effetti, una delle linee guida di tutti i governi che da decenni si sono succeduti alla testa del Paese.

Per Israele la posta in gioco non è solamente conquistare ettari di terreno in più, ma anche iscrivere la propria presenza su questa terra all’interno di una lunga storia. Nei territori palestinesi occupati come dall’altra parte del muro di separazione, ieri come oggi sono visibili le tracce di questa lotta per affermarsi come padrone della terra.

Non è facile sradicare la presenza di un popolo. Nel 1948, quando venne creato Israele, centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono in tutta fretta i loro villaggi per sfuggire alle milizie sioniste e all’esercito israeliano. Quest’ultimo fu il primo a utilizzare il termine “Nakba” (catastrofe) minacciando quei contadini in un volantino: “Se volete sfuggire alla Nakba, evitare il disastro, un inesorabile sterminio, arrendetevi.” Tuttavia questo termine è diventato un tabù nella società israeliana. La Nakba la ossessiona perché il suo ricordo scrosta la vernice israeliana. Se Israele riconoscesse di aver espulso con la violenza 800.000 palestinesi, confesserebbe la legittimità del diritto al ritorno dei loro discendenti. Come spiega il ricercatore Thomas Vescovi, l’idea “che al momento della creazione del Paese i suoi combattenti non siano stati vittime ma carnefici rovinerebbe la ‘purezza delle armi’, di cui si fregia l’esercito detto ‘di difesa’ di Israele.” È in questa prospettiva che Israele ha lavorato per cancellare la storia palestinese, per meglio riscrivere la propria.

Un villaggio nascosto sotto i cactus e i pini

A nord di Nazareth Emad mi accompagna sulle rovine del villaggio di Saffuriyya. Vi si reca regolarmente con i giovani palestinesi che vivono in Israele. Il suo obiettivo è di non lasciare che Israele soffochi il ricordo di questi luoghi. David Ben Gurion aveva detto: “Dobbiamo fare di tutto per assicurarci che i palestinesi non tornino più, i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno.”

Emad cerca di lottare contro questa cancellazione delle tracce della vita dei palestinesi. Girando per questi luoghi è difficile vedere i resti di questo villaggio. Ma Emad, grazie alle ricerche fatte e a numerosi documenti, racconta la sua storia. Davanti a un campo di cactus e a un bosco di pini ci spiega che sono stati piantati dagli israeliani per far sparire le tracce del villaggio, una pratica frequente in Israele. Un po’ più lontano, sulla cima di una collina, come per nascondere per sempre nella loro ombra i ruderi palestinesi, sono stati costruiti dei villaggi israeliani: Tzippori, ha-Solelim, Allon ha -Galil Hosha’aya.

E il villaggio di Saffuriyya non è affatto l’unico. Se Amadou Hampâté Bâ sosteneva che “in Africa quando muore un anziano è una biblioteca che brucia”, il motto si ripete in Palestina. Il villaggio di Lifta è uno dei pochissimi che non sia stato distrutto o nascosto, anche se il luogo è molto degradato. Yacoub è la memoria dei luoghi. Nel corso della visita alle rovine del villaggio mostra e parla con nostalgia dei forni tradizionali in cui sua madre faceva cuocere il pane. Questa terra che li ha nutriti è oggi minacciata di distruzione dalla vicina autostrada e dai programmi immobiliari in progetto che fioriscono nel quadro della colonizzazione di Gerusalemme.

In territorio israeliano ci sono centinaia di villaggi distrutti. L’Ong israeliana “Decolonizer”, fondata da due antropologi, ha creato una mappa che censisce tutte le località palestinesi demoliti dal XIX secolo fino ai giorni nostri, così come i villaggi palestinesi minacciati di distruzione. Questa mappa è un prezioso strumento di memoria contro i progetti dello Stato israeliano che si impegna a cancellare la storia palestinese per radicare meglio la propria storia in quelle terre.

In questo progetto Israele ridisegna anche i paesaggi, sradicando gli alberi che segnano una presenza storica palestinese e piantandone altri. Nel parco Ayalon-Canada, tra Tel Aviv e Gerusalemme, le rovine di tre villaggi palestinesi, Yalou, Imwas e Beit Nouba, distrutti nel 1967, sono invisibili, coperte dagli alberi. L’antropologa Chiristine Pirinoli ha quindi fatto una ricerca su come Israele ha cancellato la Palestina trasformandone il paesaggio: “Rimboschire, disboscare, piantare e sradicare sono azioni efficaci per agire sul paesaggio e trasformarlo in modo permanente – sono i mezzi per appropriarsi dello spazio e consolidare la propria supremazia; d’altra parte l’albero è il simbolo stesso del radicamento di un popolo sulla propria terra. In questo caso è al contempo il sostegno della memoria nazionale e una garanzia dell’appropriazione di una terra contesa.” Effettivamente “da una parte, rappresentando il successo di mettere radici nell’ ‘antica patria’, garantisce una continuità simbolica tra il passato descritto nella Torah e il presente; dall’altra consente di cancellare dalla terra ogni segno della storia palestinese che rischia di minacciare la sua trasformazione in territorio nazionale ebraico.”

Scavi di dimensione ideologica

Per sostituire la propria memoria a quella palestinese Israele investe anche negli scavi archeologici. A Gerusalemme, Hebron, Sebastia, ovunque Israele perfora e scava il terreno. Per affermarsi come proprietario legittimo di questa terra lo Stato israeliano intraprende o appoggia degli scavi archeologici per dimostrare una continuità storica tra il passato dei libri sacri e la sua creazione. Qualche anno fa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha sostenuto che “Israele non occupa una terra straniera: l’archeologia, la storia e il buon senso dimostrano che noi abbiamo dei legami particolari con questo territorio da più di tremila anni.” Dall’inizio dell’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, nel 1967, Israele ha realizzato degli scavi totalmente illegali nei territori palestinesi occupati.

A Gerusalemme gli scavi sono ampiamente visibili nella Città Vecchia, ma anche fuori dalle sue mura. Mahmoud, membro della comunità africana a Gerusalemme, una piccola comunità di musulmani originari del Senegal, del Ciad e del Niger che vive qui da parecchi secoli, è una delle memorie storiche della città. Guidandomi per le strade di Gerusalemme parla degli scavi archeologici di Israele nella Città Vecchia. Spiega che nel 1967, all’indomani della guerra dei Sei Giorni, Israele si è affrettato a radere al suolo il quartiere Harat al-Magharba (quartiere dei maghrebini). Esso si trovava ai piedi del Muro del Pianto. Vi risiedevano centinaia di abitanti e vennero distrutti edifici storici, costruiti in epoca ayyubide [dinastia curdo-musulmana fondata dal Saladino e durata dal 1174 al 1250, ndtr.].

Arrivando sulla spianata che si trova davanti al muro è impossibile immaginare che abbia preso il posto di un quartiere arabo raso al suolo. In compenso sono visibili grandi scavi. Sono stati intrapresi sotto la Spianata delle Moschee, con il rischio di indebolire le fondamenta su cui si trovano la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia. Questi lavori hanno come scopo ritrovare le tracce del tempio di Erode e di affermare la legittimità di Israele su questo spazio sacro. Nella società israeliana molte voci reclamano la ricostruzione del tempio e quindi la distruzione delle due moschee.

Nel 2016 l’Unesco ha adottato una risoluzione contro la politica israeliana in questi luoghi che appartengono al patrimonio dell’umanità. All’esterno delle mura della Città Vecchia, nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, anche una Ong sionista, Elad, scava per trovare l’originaria città di David. Gli scavi hanno danneggiato numerose case palestinesi in un quartiere che subisce la colonizzazione israeliana.

Dal 1967, nella più totale illegalità rispetto al diritto internazionale, sono stati realizzati da parte del governo o di Ong israeliane centinaia di scavi nei territori occupati. A Sebastia, per esempio, il villaggio è minacciato dagli scavi archeologici che intendono dimostrare che questo territorio è il sito della Samaria biblica. Di fronte alla forza militare israeliana gli abitanti del villaggio, come nel resto dei territori palestinesi occupati, hanno difficoltà a lottare contro questo fenomeno.

A Hebron si riscontra lo stesso processo attorno alla Tomba dei Patriarchi, dove i coloni portano avanti degli scavi per dimostrare in base ai racconti biblici la legittimità della loro presenza, cacciando al contempo i palestinesi dalle loro case con la violenza. La narrazione nazionale israeliana si costruisce con i bulldozer e distrugge ogni altra memoria che la potrebbe ostacolare.

La cucina come rapporto con la terra

Per inserirsi al meglio in questo spazio millenario, Israele non esita neppure ad appropriarsi della cucina palestinese. Nel campo di rifugiati di Ein El-Sultan, limitrofo a Gerico, Khader, un abitante del campo, invita a condividere una scodella di hummus e un piatto di dajaj mahlous a base di pollo, riso e sumac, una spezia acidula coltivata soprattutto nei dintorni di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Evoca una cultura gastronomica palestinese di “condivisione e convivialità”, tradizione venuta “dalle nostre campagne”. Khader si indigna quando evoca le vicine colonie “che ci rubano le terre, l’acqua e gli alberi.” Gerico si trova alle porte della valle del Giordano, di cui Israele prepara l’annessione. Questa valle è la zona più fertile della Palestina e l’86% dei terreni agricoli è stato rubato dai coloni israeliani, che si impossessano dei frutti di questa terra etichettandoli come “prodotti in Israele”. E questa appropriazione delle coltivazioni arriva fin nel piatto.

Nelle strade di Tel Aviv è frequente trovare ristoranti che cucinano questi piatti palestinesi con l’etichetta di “cucina israeliana”. Per Israele l’appropriazione culinaria dei piatti della Palestina e dei Paesi vicini si iscrive nella ricerca della stesura della propria narrazione nazionale, con l’eredità gastronomica a segnare il rapporto agricolo con questa terra. Rania, cuoca palestinese, spiega che “è una strategia israeliana molto aggressiva. È pura propaganda, il tentativo di ridefinirsi positivamente attraverso il cibo. […] È così che per un mese su una rete nazionale il pubblico francese si è beccato la promozione della “gastronomia israeliana” attraverso la trasmissione condotta dallo chef Cyrill Lignac: “Uno chef in Israele.”

Di fronte a questa situazione i palestinesi contrattaccano. Rania ha deciso di aprire un centro culturale, “ARDI”, per farne l’“incrocio di tutte le nostre eccellenze, che siano gastronomiche o artistiche. Un luogo per degustare un piatto tradizionale palestinese, rifornirsi di spezie palestinesi o orientali […] ARDI mi permette anche di mantenere un legame concreto con la Palestina e di sviluppare dei progetti con le donne di laggiù: la mia grafica è una giovane palestinese di Ramallah, le spezie saranno prodotte da cooperative di donne ed è in corso una collaborazione con le fabbriche di ceramica.” Così vengono diffuse forme di resistenza per difendere le radici dei palestinesi in questa terra.

Israele impone quindi con la forza la sua volontà di radicare la propria Nazione a spese di ogni altra memoria e cultura, dissoda questa terra patrimonio dell’umanità e del popolo palestinese per farne scomparire i semi e insediarvisi meglio. Ma costruire un Paese e unire una Nazione su un immaginario riduttivo sacrificando la memoria dell’Altro non è un simbolo di un nazionalismo disgustoso, origine di troppi conflitti?

Mehdi Belmecheri-Rozental

Laureato in scienze sociali all’École des hautes études [Scuola di Studi Superiori] (EHESS), la sua tesi ha riguardato “Il video come strumento di lotta in Palestina”.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 14 – 27 aprile 2020

Il 22 aprile, due speronamenti con auto, effettuati da palestinesi contro checkpoint israeliani, hanno provocato il ferimento di tre israeliani; uno degli attentatori è stato ucciso.

In uno dei due casi, verificatosi presso il checkpoint di Wadi an Nar (Gerusalemme), che controlla tutto il traffico palestinese tra nord e sud della Cisgiordania, un 25enne palestinese ha investito con la sua auto un ufficiale della Polizia di Frontiera, ferendolo. L’attentatore è uscito dal veicolo e, prima di essere colpito e ucciso dalle forze israeliane, ha tentato di pugnalare l’ufficiale. Nel secondo caso, riportato da giornali israeliani, un’auto con targa palestinese è stata lanciata contro un checkpoint temporaneo allestito presso l’insediamento [colonico] israeliano di Ateret (Ramallah): un altro ufficiale della Polizia di Frontiera e un civile israeliano sono rimasti feriti; il guidatore è riuscito ad allontanarsi con l’auto.

In Cisgiordania, nel corso di numerosi scontri con forze israeliane, 39 palestinesi sono rimasti feriti [segue dettaglio]. Venti di questi feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, otto per lesioni causate da proiettili di gomma, tre per ferite di arma da fuoco, mentre otto palestinesi sono stati aggrediti fisicamente. Gli scontri più gravi, che hanno provocato 15 feriti, sono stati registrati ad Ar Rihiya (Hebron) in seguito all’ingresso di una jeep militare israeliana nel villaggio. Altri sette palestinesi sono rimasti feriti durante un’operazione di ricerca-arresto effettuata [da forze israeliane] nel villaggio di As Sawahira as Sharqiya (Gerusalemme) a seguito dell’aggressione compiuta da un palestinese presso il checkpoint di Wadi an Nar [vedi paragrafo precedente]. Due, dei tre colpiti con armi da fuoco, pare che stessero tentando di infiltrarsi in Israele attraverso la Barriera, nei pressi di Qalqiliya; il terzo è stato colpito durante scontri vicino al villaggio di Kobar (Ramallah). I rimanenti ferimenti sono stati registrati in scontri spontanei nel Campo Profughi di Qalandiya (Gerusalemme), al checkpoint di Za’tara (Nablus), vicino ai villaggi di Tuwani (Hebron) e Qusra (Nablus) e durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya).

Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 99 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato oltre 100 palestinesi. La maggior parte delle operazioni (45) e degli arresti (55) è avvenuta in Gerusalemme Est, 18 nel governatorato di Hebron e 14 nel governatorato di Ramallah.

Il 22 aprile, un palestinese di 23 anni è morto in una prigione israeliana, in circostanze non chiare. Il Comitato dei Prigionieri Palestinesi ha affermato che la morte è da attribuire a negligenza medica. Secondo media israeliani, il Servizio Penitenziario Israeliano ha avviato un’indagine.

Al fine di far rispettare le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza [zone dichiarate da Israele come “Aree ad Accesso Riservato”], in almeno 48 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento. Un pescatore è stato ferito alla testa da un proiettile di gomma e due barche sono state danneggiate. In due occasioni, ad est di Jabaliya e di Rafah, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In quattro Comunità dislocate in Area C della Cisgiordania, a motivo della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture di proprietà palestinese, sfollando una famiglia di otto persone e causando ripercussioni su altre 19. Lo sfollamento ha avuto luogo nella Comunità beduina di Ein ad Duyuk at Tahta (Gerico), dove le autorità hanno demolito una roulotte abitata che era stata fornita come assistenza umanitaria. Altre cinque strutture di aiuto, tra cui tende residenziali (disabitate) e ricoveri per animali, sono state demolite nella vicina Comunità di Deir al Qilt. A Gerusalemme Est, da metà marzo, non sono state effettuate demolizioni. Il Coordinatore Umanitario, Jamie McGoldrick, ha chiesto alle autorità israeliane di fermare le demolizioni, in particolare durante la crisi per il COVID-19 e nel mese del Ramadan.

Cinque palestinesi sono stati feriti e circa 470 ulivi e alberelli di proprietà palestinese sono stati danneggiati da coloni israeliani [segue dettaglio]. Quattro dei cinque ferimenti sono stati causati da aggressioni fisiche avvenute nella città Hebron, nell’Area H2 controllata da Israele, nei villaggi At Tuwani (Hebron) e Jibiya (Ramallah), mentre il quinto [ferimento] è stato causato, ancora in Area H2, dal lancio di pietre. Circa 200 ulivi appartenenti agli agricoltori dei villaggi di Turmus’ayya e Al Mughayyir (Ramallah) sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni del vicino insediamento avamposto [non autorizzato] di Adei Ad. La maggior parte di questi alberi si trovano su un terreno il cui accesso, per i palestinesi, è regolato da un sistema di “coordinamento preventivo”. Assalitori, che si ritiene provengano dallo stesso avamposto, hanno anche smantellato una recinzione attorno a un altro appezzamento di terreno ed hanno rubato decine di pali di legno. 120 alberi circa sono stati abbattuti nei villaggi di Ras Karkar (Ramallah), Kafr Qaddum (Qalqiliya), As Sawiya e Qaryut (entrambi a Nablus). Vicino al villaggio di Fuqeiqis (Hebron), coloni hanno sradicato circa 1.000 piantine di ortaggi stagionali e 150 alberelli di ulivo mentre, nel villaggio di Khirbet Samra (Tubas), hanno pascolato il loro bestiame su 10 ettari di terra coltivata a verdure di stagione, danneggiando le colture. Dall’inizio di marzo, la violenza dei coloni è in aumento: la media settimanale di episodi comportanti ferimenti o danni a proprietà è aumentata di oltre l’80% rispetto a gennaio-febbraio.

Sono stati segnalati diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani in viaggio lungo strade della Cisgiordania. Non ci sono stati feriti, ma, secondo una ONG israeliana, nei governatorati di Gerusalemme, Hebron e Ramallah, nove veicoli hanno subìto danni.

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Come un calzolaio palestinese ha avviato la prima e unica fabbrica di mascherine in Cisgiordania

Suha Arraf

23 marzo 2020 +972 Magazine

Quello che è iniziato come un esperimento pochi giorni dopo lo scoppio del coronavirus in Cisgiordania si è trasformato in una fabbrica che produce migliaia di mascherine al giorno

Due giorni dopo lo scoppio del coronavirus a Betlemme, Amjad Zaghir, proprietario di una fabbrica di scarpe nella città palestinese di Hebron, si è reso conto che la Cisgiordania sarebbe presto rimasta a corto di mascherine. In poco meno di tre settimane ne è diventato l’unico produttore: Zaghir ha repentinamente messo in piedi questa nuova attività grazie alla quale riesce a produrre migliaia di mascherine al giorno. È diventato eroe nazionale per aver aiutato i palestinesi a proteggersi dal virus.

Zaghir si è messo al lavoro non appena i giornali hanno riportato il primo caso di COVID-19 diagnosticato a Betlemme. Ha quindi comprato una mascherina e ha iniziato a studiarne la struttura, inclinandola a destra e a sinistra. Inizialmente aveva pensato di poterla produrre con i materiali utilizzati nella produzione delle scarpe. “Ho quindi chiesto consiglio ad un mio amico farmacista, chiedendogli quali materiali vengono usati nella produzione delle mascherine”, racconta Zaghir. “Mi ha spiegato che i materiali usati nella produzione di scarpe sono inadeguati e mi ha spiegato come realizzarle”.

Zaghir ha quindi iniziato a cercare il tessuto utilizzato nella produzione di mascherine a Hebron. Ha conosciuto un venditore che aveva acquistato il materiale dalla Turchia l’anno precedente, senza essere mai riuscito ad utilizzarlo a causa della competitività dei prezzi delle mascherine importate dalla Cina. Zaghir ha quindi deciso di acquistare questo materiale, che il suo amico farmacista ha poi confermato essere quello giusto per la fabbricazione di mascherine.

“Inizialmente ho provato a cucire le mascherine utilizzando la stessa macchina che usiamo per cucire le scarpe. Il tentativo non ha avuto successo perché il tessuto delle mascherine è molto sottile e si strappa facilmente” spiega Zaghir. Ho provato a stirare il tessuto per creare le pieghe, ma si bruciava”. Zaghir ha quindi provato a stirarlo presso una lavanderia a secco, ma il tessuto, troppo delicato, non resiste al calore elevato.

Zaghir non si è arreso, soprattutto dopo aver saputo che le mascherine si stavano esaurendo in Cisgiordania e che quindi questa poteva rivelarsi un’occasione d’oro. Discendente di una famiglia di commercianti (Zaghir ha infatti ereditato l’attività dal suo bisnonno), il trentenne ha un ottimo senso degli affari. Tuttavia, non è stato solamente il profitto a motivarlo: “Lo faccio principalmente per aiutare la mia gente e per offrire opportunità di lavoro”, ha detto. “A Hebron c’è la crisi e sono in molti ad essere disoccupati”.

Zaghir ha percorso la città consultando farmacisti e laboratori di cucito. Alla fine è venuto a conoscenza dell’esistenza di una macchina in città in grado di piegare e stirare le mascherine contemporaneamente. Per moderare i livelli di calore a 400 gradi ha sovrapposto mascherine e strati di carta. L’esperimento ha funzionato.

“Il primo giorno sono riuscito a produrre solo 500 mascherine. Il giorno successivo ne ho realizzate altre mille e ho quindi assunto venti lavoratori per aumentare la produzione”.

Il nome della fabbrica è ‘Zaghir’, che significa ‘piccolo’ in arabo. Sebbene la fabbrica sia piccola, è diventata la prima e unica attività di questo tipo in Palestina, producendo tra le settemila e novemila mascherine al giorno.

Eppure, Zaghir non è soddisfatto delle quantità prodotte: a partire dalla prossima settimana ha intenzione di espandere ulteriormente la produzione per rispondere alla domanda di mascherine in Palestina. Ha già trovato un laboratorio vuoto e assumerà nuovi lavoratori.

Le mascherine sono state vendute più velocemente delle frittelle, ha spiegato Zaghir. I suoi clienti sono impiegati statali, ospedali, e persino la polizia palestinese: soltanto questo sabato ha venduto cinquemila mascherine alla polizia di Nablus. Alle istituzioni ufficiali le mascherine vengono vendute al prezzo simbolico di 1,50 NIS, determinato dal governatore di Hebron. La tariffa è invece diversa per le farmacie a altri fornitori.

“Ho iniziato a ricevere richieste dalla Giordania, Kuwait, paesi del Golfo e Canada”, racconta. “Persino i venditori israeliani mi hanno contattato per comprare le mie mascherine, ma non ho assunto abbastanza lavoratori. Vorrei poter rispondere a tutte le richieste”.

Ma il materiale che Zaghir ha usato finirà presto. Ne ha già ordinato altro, ma i paesi hanno chiuso i confini per contenere la diffusione del virus, che ha già raggiunto la Turchia, paese da cui viene esportato il materiale.

Malgrado ciò, Zaghir è imperterrito: “sono fiducioso che sarò in grado di importare il materiale. Ho contattato la Camera di commercio palestinese, che a sua volta si è rivolta alla camera di commercio israeliana che ha contattato dogane e altre autorità per discuterne. Questa è una crisi sanitaria, una pandemia globale, uno stato di emergenza. Non si tratta dei soliti affari, motivo per cui sono abbastanza sicuro che faranno in modo che io possa importare le merci”.

Zaghir ritiene che tra una settimana potrà produrre centomila mascherine al giorno. “Oggi ho provato una nuova tecnica di cucito che si è rilevata molto efficiente e siamo riusciti a produrre 15 mila mascherine. Questa è la quantità maggiore da quando abbiamo iniziato a produrle”, ci spiega. “Il mio prodotto è unico, diverso da qualsiasi altro al mondo. Chiunque si imbatterà in questo prodotto saprà che è stato realizzato ad al-Khalīl (Hebron)”, ha aggiunto.

da Palestina Cultura è Libertà