Rapporto OCHA del periodo 3- 16 marzo 2020

Ultime notizie su COVID-19 nei Territori Palestinesi occupati

Il 5 marzo, per contenere la diffusione di COVID-19, il Primo Ministro palestinese ha dichiarato lo stato di emergenza in tutti i Territori occupati. Ad oggi, 19 marzo, in Cisgiordania sono confermati 47 casi: tutti, tranne sei, registrati nella città di Betlemme e in due cittadine vicine; nessuno nella Striscia di Gaza. Circa 6.900 persone sono in quarantena domiciliare.

Le Autorità palestinesi hanno dichiarato il coprifuoco nelle tre località dell’area di Betlemme colpite dal virus, ed hanno vietato tutti i viaggi non essenziali tra le città della Cisgiordania; per garantirne l’applicazione sono stati istituiti diversi posti di blocco. Nei Territori occupati tutte le scuole sono state chiuse. Non sono consentite riunioni pubbliche, comprese quelle di preghiera. Le persone che, dall’Egitto o dalla Giordania, entrano nei Territori, così come quelle che sono state in contatto con persone che hanno contratto il virus, devono mettersi in quarantena per 14 giorni.

Le autorità israeliane hanno vietato l’ingresso in Israele ai lavoratori palestinesi di età pari o superiore a 50 anni; parimenti hanno vietato l’ingresso nelle Aree A e B della Cisgiordania ai palestinesi di Gerusalemme Est e a tutti i residenti in Israele. A Gaza, il valico di Erez con Israele è chiuso, ad eccezione dei casi umanitari urgenti, principalmente i titolari di permesso per cure mediche negli ospedali di Gerusalemme Est ed Israele. Verso questi ospedali è continuato anche l’afflusso di pazienti provenienti dalla Cisgiordania.

Il Coordinatore Umanitario Residente delle Nazioni Unite, supportato dalla Equipe Sanitaria, ha sviluppato un piano di risposta inter-agenzie di 90 giorni, volto a sostenere le Autorità palestinesi nella prevenzione della diffusione dell’epidemia; inoltre, per l’attuazione del piano, ha chiesto alla Comunità internazionale 6,3 milioni di dollari USA.

Rapporto degli eventi nei Territori Palestinesi occupati

L’11 marzo, a sud di Nablus, durante scontri, le forze israeliane hanno sparato e ucciso un 16enne palestinese e ferito altri 132 palestinesi, tra cui 17 minori. Gli scontri sono scoppiati nel villaggio di Beita, durante una protesta contro i tentativi in corso, da parte di coloni israeliani, di impossessarsi di una collina vicina al villaggio (situato in Area B). Il ragazzo ucciso è stato colpito alla testa con armi da fuoco. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta. Le proteste sono in corso dal 28 febbraio e, ad oggi, hanno provocato un morto e 386 feriti, di cui 183 colpiti con proiettili di gomma, sette con armi da fuoco e i rimanenti per inalazione di gas lacrimogeni o per aggressione fisica. In tutte le proteste si sono verificati lanci di pietre contro le forze israeliane, tuttavia non sono stati riportati ferimenti di israeliani. Il 15 gennaio 2019, a seguito di una sentenza della Corte Suprema israeliana, le autorità israeliane hanno demolito un avamposto colonico a sud della città di Nablus, in Area B.

In Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 67 palestinesi, tra cui 20 minori [segue dettaglio]. Circa la metà di questi ferimenti (33) è stata registrata vicino al villaggio di ‘Araqa (Jenin) durante tentativi, attuati da palestinesi, di tagliare parti della recinzione ed entrare nell’area chiusa retrostante la Barriera [porzione di territorio Cisgiordano che Israele si è annesso deviando il percorso della Barriera dalla “Linea Verde”]. Ventidue palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso delle manifestazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso. Due minori, di 9 e 14 anni, sono stati feriti da proiettili di gomma durante scontri nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est, dove, da metà 2019, si registrano tensioni per le periodiche operazioni di polizia. Qui, lo scorso 15 febbraio, un bambino di 9 anni, mentre tornava a casa da scuola, era stato colpito da un proiettile di gomma ed aveva perso un occhio [vedi il Rapporto del periodo 4-17 febbraio]. Altri due ragazzi (16 e 17 anni) sono rimasti feriti vicino alla città di Qalqiliya, in una protesta contro il piano americano per il Medio Oriente.

Nel complesso, in Cisgiordania, nelle due settimane considerate dal Rapporto, le forze israeliane hanno effettuato 78 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 110 palestinesi, tra cui 16 minori. Si tratta di un calo rispetto al numero medio di operazioni (oltre 100) condotte in equivalenti periodi dall’inizio dell’anno. La maggior parte delle [78] operazioni sono state svolte a Gerusalemme Est (22) e nei villaggi di Ramallah (20).

Nella Striscia di Gaza, nelle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza, in almeno 28 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento per imporre [ai palestinesi] le restrizioni di accesso alle aree medesime [cioé, le cosiddette “Aree ad Accesso Riservato”]; non sono stati registrati ferimenti o danni. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ad est della città di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi, incluso un minore, che, a quanto riferito, stavano tentando di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione perimetrale; altri due sono stati arrestati mentre uscivano da Gaza attraverso il valico di Erez.

Il 5 marzo, le forze israeliane hanno demolito per ragioni “punitive” due case, sfollando sei palestinesi, incluso un minore. Le case demolite erano situate nelle città di At Tira e Birzeit (Ramallah), in area A e B; appartenevano alle famiglie di due palestinesi accusati di aver ucciso, nell’agosto 2019, una giovane colona israeliana e di averne ferito il fratello e il padre. Uno degli episodi di demolizione ha innescato scontri con le forze israeliane, durante i quali un palestinese è rimasto ferito.

Per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate altre 14 strutture di proprietà palestinese, sfollando 29 persone e causando ripercussioni su altre 60 circa. Dieci di queste strutture erano situate in Area C e cinque di esse erano state fornite a titolo di aiuto umanitario. Queste ultime comprendevano due tende residenziali nella Comunità di pastori di Ein ar Rashash (Ramallah) e una tenda residenziale, una latrina mobile e un sistema di pannelli solari nei pressi di Beit Jala (Betlemme). Le altre quattro strutture, di cui due demolite dai proprietari, erano a Gerusalemme Est. Dall’inizio dell’anno, a seguito di ordinanze delle autorità israeliane, a Gerusalemme Est sono state demolite 47 strutture, il 60% circa delle quali dai proprietari.

Nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito una sezione di una strada sterrata che collega cinque Comunità di pastori con il loro principale centro di servizi. Le Comunità, costituite da circa 700 persone, si trovano in una “zona per esercitazioni a fuoco” (Massafer Yatta), riservata da Israele all’addestramento dei suoi militari. Di conseguenza, per accedere al loro principale centro di servizi ed al mercato nella città di Yatta, i residenti devono percorrere una lunga deviazione. Tutti i 1.300 residenti in questa “zona per esercitazioni a fuoco” devono fronteggiare un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e almeno 385 alberi e 15 veicoli sono stati vandalizzati da assalitori che si ritiene siano coloni israeliani [segue dettaglio]. In tre episodi separati, avvenuti nella città di Al Auja (Gerico) e nella zona della città di Hebron a controllo israeliano (zona H2), coloni israeliani hanno aggredito e ferito fisicamente tre palestinesi, tra cui una donna. Ulteriori attacchi di coloni sono stati segnalati il 10 e l’11 marzo, nella stessa area H2, durante le celebrazioni della festa ebraica di Purim; in questi ultimi casi non ci sono stati ferimenti o danni. In altri tre casi, coloni israeliani, a quanto riferito, hanno abbattuto o sradicato 200 ulivi e 150 viti di agricoltori dei villaggi di Al Khader e Khallet Sakariya, piantati vicino alla colonia di Gush Etzion (Betlemme), ed altri 35 ulivi piantati vicino all’insediamento colonico di Bruchin (Salfit). Questi episodi portano a quasi 1.600 il numero di alberi che, secondo quanto riferito, sono stati vandalizzati da coloni dall’inizio del 2020. Cinque ulteriori episodi si sono avuti nel governatorato di Nablus: nella città di Huwwara sono state tagliate le gomme di 11 veicoli; nel villaggio di Einabus due abitazioni e quattro veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre, mentre nel villaggio di Burin è stata vandalizzata una casa disabitata. I residenti della Comunità di pastori di Ein ar Rashash (Ramallah) hanno riferito che 25 agnelli sono stati rubati da un colono residente in un adiacente insediamento colonico illegale.

Secondo una ONG israeliana, sulle strade della Cisgiordania, tre israeliani, tra cui un ragazzo e due donne, sono rimasti feriti e almeno 30 veicoli sono stati danneggiati in episodi di lancio di pietre [da parte di palestinesi].

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’isolamento della Cisgiordania non è iniziato con la pandemia del coronavirus

Lior Amihai 

11 marzo 2020 – +972 magazine

I principi che hanno guidato i governi israeliani durante 52 anni di occupazione sembrano caratterizzare la risposta al coronavirus nei territori occupati.

Lo scorso giovedì, con in pieno svolgimento sia il coronavirus che la crisi politica israeliana, il ministro della Difesa ad interim Naftali Bennett ha annunciato una chiusura militare totale di Betlemme, dopo che è stato confermato che un certo numero di abitanti della città ha contratto il COVID-19. Tre giorni dopo il ministero della Sanità ha annunciato che a chiunque sia stato a Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour viene richiesto di mettersi in quarantena volontaria per due settimane.

Gli abitanti di quelle comunità non possono più entrare in Israele, benché molti di loro vi lavorino. Tra quanti ora si trovano in quarantena dopo essere stati nella zona di Betlemme ci sono alcuni dei miei colleghi dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din [“C’è la legge”, ong israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.].

Domenica Bennett ha annunciato che, come parte della lotta contro il coronavirus, stava prendendo in considerazione la totale chiusura militare di tutte le città palestinesi in Cisgiordania. Tuttavia lunedì, in seguito a un incontro con vari ministri, generali ed altri rappresentanti del governo, Bennett ha fatto retromarcia rispetto alla sua dichiarazione ed ha deciso di non bloccare i territori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ordini simili di blocco e quarantena non sono stati imposti ai quartieri ebraici della zona di Betlemme come Gilo, che si trova nei pressi di Beit Jala, o Har Homa, vicino a Betlemme. Oltretutto gli abitanti di Ashkelon, Gerusalemme, Ariel e Petah Tikvah, tutte città con casi confermati di COVID-19, non sono stati sottoposti ad estesa chiusura militare né a quarantena (salvo che per quanti sono attualmente malati).

Nella colonia di Einav, nella Cisgiordania settentrionale, quattro persone sono risultate positive al coronavirus e altri 100 abitanti sono in quarantena. Si tratta di circa il 12% dei coloni, eppure, nel momento in cui scrivo, l’insediamento non è ancora stato chiuso.

Ciò che difficile da fare per gli israeliani sembra essere facile per milioni di palestinesi che vivono sotto il flagello dell’occupazione israeliana.

Nel contempo a quanto pare il ministero della Salute non ha tenuto conto del fatto che la Tomba di Rachele, un luogo di pellegrinaggio ebraico molto frequentato, si trova al centro di Betlemme. I visitatori del luogo per ora non sono sottoposti all’obbligo di auto-quarantena di due settimane per chiunque sia stato nella zona di Betlemme. La tomba, che, nonostante la sua posizione, è sul lato israeliano del muro di separazione, è protetta da un’entrata molto sorvegliata ed è vietata ai palestinesi. Lunedì notte in quel luogo si è tenuta una preghiera di massa per bloccare il coronavirus.

E martedì a coloni israeliani nella Hebron occupata è stato consentito di realizzare i loro festeggiamenti annuali di Purim in coordinamento con l’esercito israeliano. La decisione di consentire che questo evento avvenisse nel centro di Hebron è un’ulteriore dimostrazione dell’enorme differenza dei rapporti del governo israeliano con le due popolazioni che vivono nello stesso territorio.

I passi che il governo israeliano ha intrapreso per prevenire la diffusione del coronavirus non sono esagerati. Al contrario sembra che le misure prese finora siano riuscite ad impedire un’esplosione di casi nelle ultime settimane.

Ma bisognerebbe ricordare che lo Stato di Israele, l’esercito che controlla i territori [palestinesi] occupati e noi come società abbiamo la responsabilità, imposta dalle leggi internazionali e dagli obblighi etici, di proteggere l’incolumità, la sicurezza e la salute di tutte le persone sotto il controllo israeliano – comprese quelle che vivono sotto occupazione israeliana.

L’emergenza totale provocata dal coronavirus ha proposto un test allo Stato di Israele. I palestinesi non dovrebbero essere percepiti come una popolazione che può essere isolata dagli israeliani con chiusure, assedi, leggi differenziate e strade per evitarli. I rischi per la loro salute e qualità di vita ricadono principalmente su di noi, in quanto potere che ne è responsabile.

Le decisioni di imporre una chiusura militare totale sui territori [palestinesi] occupati (escludendo le colonie), o su alcune zone dei territori, non possono essere prese quando le principali considerazioni riguardino le implicazioni per la popolazione e l’economia israeliane, per esempio la mancanza di lavoratori edili e di risorse umane. Al contrario, queste decisioni devono prima rispondere “sì” alla domanda: verrebbero prese le stesse decisioni se la popolazione coinvolta fosse ebraica?

Inoltre i palestinesi che vivono in Cisgiordania sono già sottoposti durante tutto l’anno a una chiusura militare e alla grande maggioranza di loro è vietato entrare in Israele. Di solito ci sono alcune “eccezioni”, palestinesi che hanno permessi temporanei che consentono loro di entrare in Israele per lavorare. Tuttavia negli ultimi giorni anche a quelli con permessi di ingresso è stato vietato di entrare in Israele, a causa della festa di Purim – che, come per ogni importante festa ebraica, ha portato Israele a chiudere totalmente la Cisgiordania. E quei coloni israeliani che hanno celebrato Purim a Hebron hanno usufruito delle stesse strade che sono state chiuse ai palestinesi per un quarto di secolo.

Sembra che gli stessi principi che hanno guidato i governi israeliani per 52 anni di occupazione – con il suo allontanamento, occultamento e disumanizzazione dei palestinesi – continuino a guidare il governo di Benjamin Netanyahu durante una pandemia che cambia le carte in tavola. Eppure, in contrasto con queste linee guida, è diventato ancora più chiaro che lo spazio in cui viviamo sia una ragnatela umana che non può essere separata artificialmente. Questa pandemia può essere la nostra opportunità per dimostrare che non abbiamo dimenticato come si comportano gli esseri umani.

E forse, all’ombra del coronavirus, gli abitanti di Betlemme e di altre città sottoposte a chiusura militare saranno liberati da incursioni notturne, improvvisi posti di blocco, arresti arbitrari, spedizioni militari e scontri quotidiani con il potere occupante.

Lior Amihai è direttore esecutivo di Yesh Din.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I coloni di Hebron partecipano al corteo di Purim mentre i palestinesi sono blindati per il coronavirus

Oren Ziv

10 marzo 2020 +972 Magazine

Ignorando la paura per il virus, i soldati e i poliziotti israeliani hanno accompagnato 250 coloni nel centro di Hebron pur impedendo agli spettatori palestinesi di avvicinarsi.

Con lo spettro della diffusione del coronavirus in Israele-Palestina, oltre 250 coloni israeliani hanno preso parte martedì all’annuale sfilata per la celebrazione della festa ebraica del Purim [“sorti” in ebraico. La festa commemora una vicenda biblica che sarebbe accaduta circa 2500 anni fa, ndtr.] nel centro di Hebron occupata.

I coloni, che hanno marciato dal quartiere di Tel Rumeida sino alla Tomba dei Patriarchi [luogo di devozione anche per i musulmani che lo chiamano Santuario di Abramo, ndtr.], sono stati accompagnati da centinaia di soldati e ufficiali di polizia israeliani che hanno impedito agli spettatori palestinesi di avvicinarsi.

I coloni si sono fatti vanto del fatto che la loro fosse l’unica festa del Purim autorizzata, dal momento che nelle città di tutto il paese erano stati cancellati i festeggiamenti a causa dei timori per il virus; tuttavia la partecipazione è stata più scarsa rispetto agli anni precedenti.

Nel frattempo, a soli 22 chilometri a nord, l’esercito israeliano ha posto il blocco a Betlemme dopo che sette casi di COVID-19 erano stati riscontrati in città, impedendo ai residenti di entrare o uscire dalla città.

La sfilata di martedì è iniziata presso la “Elor Junction”, dove nel marzo 2016 il soldato israeliano Elor Azaria uccise un assalitore palestinese già ferito mentre questi giaceva inerte sul terreno. Imad Abu Shamsiya, un palestinese di Hebron, si trovava a pochi metri di distanza e riprese l’incidente. La sua documentazione ha portato a un’indagine e a un successivo processo nei confronti di Azaria.

Poco prima delle 11, un gruppo di giovani coloni apparentemente ubriachi ha bussato alla porta di una famiglia palestinese che vive vicino alla famiglia di Abu Shamsiya. Quando un soldato israeliano ha cercato di allontanarli, uno dei coloni ha risposto dicendo: “Godiamoci un po’ il ‘Purim”. Quando il colono ha visto Abu Shamsiya nella casa adiacente, ha detto al suo amico che avevano sbagliato indirizzo.

“Spero solo che l’evento si concluda pacificamente”, ha detto Abu Shamsiya a bassa voce.

Dal 1967, il centro di Hebron è diventato il sito di numerosi insediamenti coloniali ebraici che Israele ha sviluppato all’interno della comunità locale palestinese. Per anni, i palestinesi che vivono nella zona sono stati sottoposti sia a restrizioni estreme imposte dai militari che a violenze di routine da parte di coloni estremisti. Di conseguenza, un numero enorme di residenti si è trasferito e centinaia di aziende sono state chiuse, lasciando la zona in [una condizione di] rovina economica.

Attualmente, circa 34.000 palestinesi e 700 coloni vivono nel centro della città. I palestinesi che risiedono lì sono soggetti a restrizioni negli spostamenti, inclusa la chiusura delle strade principali, mentre i coloni sono liberi di viaggiare dove desiderano. Inoltre, l’esercito israeliano ha emesso l’ordine di chiudere centinaia di negozi e attività commerciali della zona.

“Sebbene abbiamo avuto turisti di ogni provenienza, a Hebron il coronavirus non è arrivato”, ha detto Baruch Marzel, un importante attivista di estrema destra e residente della città, il quale indossava, durante la sfilata, un cappello con la scritta: “Make Hebron Great Again”. “Hebron è per gli ebrei una città forte e santa, dove i nostri antenati ci proteggono, mentre a Betlemme – ha aggiunto Marzel – che è sacra alla cristianità, il virus sta andando alla grande. 

I partecipanti al corteo, molti dei quali adolescenti con in mano bottiglie di vino, passavano davanti a negozi palestinesi, chiusi 25 anni fa in seguito al massacro della Grotta dei Patriarchi, dove, nel febbraio 1994, il colono Baruch Goldstein uccise 29 fedeli palestinesi. In risposta alle uccisioni, l’esercito israeliano iniziò a limitare il movimento dei residenti palestinesi di Hebron e ad applicare una politica di rigorosa segregazione tra loro e i coloni.

Vent’anni dopo le restrizioni sono diventate ancora più severe. La Shuhada Street di Hebron, dove ha avuto in gran parte luogo la marcia di martedì, riguarda la più nota di queste restrizioni. Un tempo affollato centro commerciale, molte porte di negozi sono state ora saldate per ordine militare, conferendo alla zona l’aspetto di una città fantasma. Oggi [sulla facciata di] molti dei negozi chiusi è stata verniciata la stella di David.

Nel corso del Purim le restrizioni in vigore nei confronti dei palestinesi diventano ancora più estreme. Ai palestinesi che vivono lungo il percorso della marcia non è nemmeno permesso di aprire le porte delle loro case, mentre alcuni osservano la marcia attraverso le protezioni di metallo installate sui loro balconi per ripararli dalle pietre lanciate dai coloni.

È anche possibile vedere i soldati israeliani ballare con i coloni e i pochi posti di controllo improvvisati, attraverso i quali i palestinesi possono entrare in Shuhada Street con un permesso speciale, vengono chiusi. La musica ad alto volume, i balli e i costumi colorati spiccano ancora di più sullo sfondo della città fantasma, le porte dei negozi coperte di graffiti ebraici.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills e scrittore dello staff di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sugli alloggi a prezzi accessibili e su altre questioni socio-economiche, le battaglie contro il razzismo e contro la discriminazione e la lotta per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 26 novembre – 9 dicembre 2019

Nella Striscia di Gaza, ad est di Khan Yunis, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese 16enne e ferendo altri otto palestinesi, tra cui sei minori.

L’episodio è avvenuto venerdì 29 novembre, quando un gruppo di giovani si è avvicinato alla recinzione perimetrale israeliana che circonda Gaza, scontrandosi con le forze israeliane. Secondo fonti israeliane, i giovani avevano bruciato pneumatici e lanciato pietre ed ordigni esplosivi contro i soldati israeliani.

Sempre nei pressi della recinzione perimetrale che circonda Gaza, altri 90 palestinesi, tra cui 36 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante le dimostrazioni della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR); queste sono riprese il 6 dicembre, dopo una pausa di tre settimane. Secondo il Ministero della Salute Palestinese di Gaza, quarantaquattro [dei 90] feriti sono stati ricoverati in ospedale. Fonti israeliane hanno riferito che, in diverse occasioni, i manifestanti si sono avvicinati alla recinzione ed hanno lanciato contro le forze israeliane ordigni esplosivi e bottiglie incendiarie; nessun israeliano è rimasto ferito. Dal 30 marzo 2018, data di inizio della GMR, durante le proteste le forze israeliane hanno ucciso 213 palestinesi (tra cui 47 minori).

Il cessate il fuoco, concordato a metà novembre, è stato generalmente rispettato ma, in alcune occasioni, le fazioni armate di Gaza hanno lanciato missili contro la regione meridionale di Israele che, a sua volta, ha effettuato attacchi aerei su Gaza, colpendo siti militari e aree aperte e provocando il ferimento di due palestinesi, tra cui una donna. Nelle città di Gaza e Rafah numerosi siti militari, case e strutture civili hanno subito danni. Il 29 novembre, un membro di un gruppo armato è deceduto in conseguenza delle ferite riportate durante l’ultimo confronto armato; sale quindi a 36 il numero di vittime palestinesi degli scontri del 12-14 novembre (nella cifra sono inclusi almeno 14 civili, di cui otto minori).

In almeno 13 occasioni, non riferibili a proteste e scontri, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [imposte da Israele] sulle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale ed al largo della costa. Non sono stati segnalati feriti. Vicino alla recinzione perimetrale le forze israeliane hanno arrestato due uomini; secondo quanto riferito, stavano tentando di entrare in Israele.

Il 30 novembre, nel villaggio di Beit ‘Awwa (Hebron), le forze israeliane hanno sparato e colpito mortalmente un giovane palestinese di 18 anni; secondo quanto riferito, aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro una pattuglia militare israeliana; il cadavere è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Durante lo stesso episodio sono stati arrestati altri due palestinesi, tra cui un minore.

In Cisgiordania, durante molteplici proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 181 palestinesi, tra cui almeno 18 minori. Oltre la metà dei [181] ferimenti è stata registrata il 26 novembre, durante le proteste contro una recente dichiarazione del Segretario di Stato americano, attestante la legalità degli insediamenti israeliani. Le proteste erano anche connesse alla morte di un prigioniero palestinese, malato di cancro e detenuto in un carcere israeliano, oltre che in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Funzionari palestinesi hanno attribuito la morte del detenuto a negligenza medica. La maggior parte dei rimanenti ferimenti è stata registrata durante operazioni di ricerca-arresto, durante le ricorrenti dimostrazioni tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro le restrizioni di accesso, e nel corso di altri scontri scoppiati localmente. Di tutti i ferimenti, circa il 76% è da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeni richiedenti cure mediche e il 19% a proiettili di gomma.

A Hebron City, le tensioni sono aumentate dopo che, il 1° dicembre, le autorità israeliane hanno annunciato la loro intenzione di abbattere un ex mercato palestinese, chiuso nel 1994 per ordine militare israeliano; l’area sarebbe destinata alla costruzione di un nuovo insediamento colonico israeliano. In risposta, il 9 dicembre, i palestinesi hanno messo in atto uno sciopero generale (negozi e scuole compresi) ed hanno effettuato una protesta cittadina che si è evoluta in scontri con le forze israeliane e conseguente ferimento di tre palestinesi. Per diverse ore l’accesso dei palestinesi all’area della città in cui si trovano gli insediamenti israeliani è stato soggetto a restrizioni. In tale area le politiche e le pratiche israeliane hanno comportato lo sfollamento forzato di palestinesi dalle loro case e un peggioramento delle condizioni di vita di coloro che vi rimangono.

Nel corso di 11 distinti episodi, oltre 800 alberi e 200 veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati; si ritiene ad opera di coloni israeliani. Non sono stati riportati ferimenti di palestinesi. In concomitanza con la fine della stagione dell’annuale raccolta delle olive, sono stati registrati danneggiamenti di alberi (soprattutto ulivi) nei villaggi di Sebastiya (Nablus), Al Khadr (Betlemme) e As Sawiya (Nablus). In quest’ultimo villaggio (attaccato due volte in tre giorni), coloni israeliani hanno installato una tenda vicino al terreno preso di mira. Dall’inizio del 2019, oltre 7.500 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati, secondo quanto riferito, da coloni israeliani. Il 9 dicembre, nel quartiere Shu’fat di Gerusalemme Est, aggressori hanno tagliato le gomme di 189 auto palestinesi ed hanno imbrattato i muri di diversi edifici con scritte, in ebraico, tipo “questo è il prezzo”. Altri veicoli sono stati vandalizzati o incendiati nei villaggi di Khallet Sakariya (Betlemme), Deir Ammar e At Tayba (entrambi a Ramallah).

Citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 22 strutture di proprietà palestinese in Area C ed una in Gerusalemme Est, sfollando 49 persone e creando ripercussioni su altre 800. La metà delle strutture demolite in Area C era stata precedentemente fornita come assistenza umanitaria. Quattro delle località, colpite dalla demolizione di dieci strutture, sono Comunità beduine palestinesi situate all’interno, o nel circondario, di un’area destinata [da Israele] all’espansione degli insediamenti colonici (piano “E1”); sono pertanto a rischio di trasferimento forzato. Altre otto delle strutture demolite erano localizzate in aree [da Israele] dichiarate chiuse e destinate all’addestramento militare israeliano (“zone per esercitazioni a fuoco”); oltre il 20% di tutte le strutture prese di mira finora nel 2019 erano situate in zone “per esercitazioni a fuoco”; esse coprono circa il 30% dell’area C.

Il 28 novembre, nel villaggio di Beit Kahil (Hebron), in Area B, [amministrazione palestinese e controllo militare israeliano] le forze israeliane hanno demolito “per punizione” quattro case e tre cisterne d’acqua, sfollando 15 persone, tra cui sei minori. Le strutture appartengono alle famiglie di quattro palestinesi accusati del rapimento e uccisione, nell’agosto 2019, di un soldato israeliano non in servizio. L’episodio ha innescato scontri con le forze israeliane: sei palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti. Finora, quest’anno, questo è il settimo caso di demolizione “punitiva” giustificato da “necessità di deterrenza”. Le demolizioni punitive sono illegali ai sensi del Diritto internazionale.

Secondo media israeliani, almeno sei veicoli israeliani sono stati colpiti con pietre e danneggiati da palestinesi. Gli episodi sono avvenuti su strade vicino ai villaggi di Tuqu’, Al Khader (entrambi a Betlemme), Beit Ummar (Hebron) e Huwwara (Nablus) e al Campo [profughi] di Al Aroub (Hebron).




Cisgiordania. Colonie e disastro ambientale

Francesca Merz

27 novembre 2019 Nena News

Oltre all’utilizzo massiccio di acqua per le coltivazioni e l’allevamento, non è da sottovalutare l’ingente uso di risorse idriche del territorio da parte dei coloni israeliani nelle unità abitative

All’interno delle colonie ci sono tutti i servizi necessari, e il panorama è quello tipico di un outlet all’aperto, con piante, architetture e stili di vita che possono ricordare da vicino la Florida. I centri commerciali all’interno hanno prezzi molto bassi, riforniti secondo economie di scala e fornitori che lavorano per tutte le colonie. Le casette a schiera costruite sono in netto contrasto con il panorama e la vita che si trova all’esterno, fatta ancora di piccoli insediamenti rurali, e case sparse dei pochi beduini che ancora non sono stati cacciati da quelle terre. Superati i controlli, le sbarre e l’esercito entrando in questi grandi set cinematografici costruiti nel deserto, i nostri occhi evidenzieranno la contrapposizione tra il benessere e la presunta povertà degli allevatori (palestinesi) che pascolano le loro pecore, dovremo invece valutare il terrificante impatto culturale, ambientale ed economico delle colonie sul territorio, e provare a recuperare la storia di quelle terre, ricche di risorse e in perfetto equilibrio fino ad un secolo fa.

In questo panorama occorre fare un brevissimo passo indietro, e parlare anche delle diverse tipologie di coloni presenti sul territorio, tralasciando di sottolineare la grande quantità di colonie illegali, la necessità è provare a focalizzarsi sullo stato dei fatti e sulla sostenibilità dei sistemi produttivi di questi insediamenti.

I coloni vengono solitamente distinti in alcune categorie: business man investors, uomini d’affari, gli “economic settlers” ovvero colonie che hanno come scopo fondamentale la produttività economica, e infine gli “ideological settlers”. Gli “economic settlers” sono i coloni che si sono spostati e hanno creato colonie per la produzione (agricola principalmente), gli “ideological settlers” sono coloni che si spostano non per investire in nuovi terreni, né per trovare lavoro, ma per ragioni ideologiche, ovvero per ritornare alla “terra promessa”, sono questi ultimi i gruppi più sostanziosi nelle aree della Cisgiordania o in zone quali Hebron, fondamentalisti pronti a insediarsi in luoghi ancora caldi della resistenza palestinese, con azioni ripetute di disturbo della vita della popolazione, che vanno, stando le denunce palestinesi, dall’uccisione dei capi di bestiame dei beduini, al rogo degli ulivi degli agricoltori palestinesi, fino a forme violentissime come nel caso della terribile condizioni dei bambini di At-Tuani (sud di Hebron), che devono affrontare ogni mattina il passaggio accanto ad alcune colonie abusive israeliane, per andare a scuola, con costanti e ripetuti lanci di pietre contro i bambini, solo per fare uno dei tantissimi esempi quotidiani tramite i quali i coloni esercitano un terrorismo costante nei confronti della popolazione palestinese.

Anche in questo caso, nella comprensione dell’utilizzo delle colonie come metodo di espansione concordato con il governo israeliano, ci viene in soccorso l’ottimo Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, con un’analisi impeccabile che non lascia spazio ai dubbi sulla volontà, sin dagli inizi del governo laburista, di utilizzare i coloni irregolari, fintamente osteggiati, come metodo di espansione dello Stato sionista. “In Lords of the Land, Idith Zartal e Akiva Eldar mostrano che i dirigenti laburisti come Simon Peres, Yitzhak Rabin, Yigal Allon e Moshe Dayan erano in massima parte favorevoli al progetto degli insediamenti. Pertanto, l’idea che il governo laburista e i coloni appartenessero a fazioni ideologiche opposte è vera solo se si è interessati alle differenze tattiche”. “La maggior parte dei resoconti tende a presentare il progetto degli insediamenti come un’impresa extra-governativa condotta dal movimento dei coloni in aperto contrasto con la politica del governo. In realtà la stragrande maggioranza degli insediamenti fu istituita dai diversi governi israeliani, e anche quelli apparentemente costruiti contro la volontà del governo dai circoli ebraici religiosi ottennero in definitiva l’autorizzazione dal governo e il suo supporto finanziario.”

“Dichiarare che Israele intendeva annettere le due regioni o anche pubblicare un piano esplicito sul modo in cui intendeva popolarle di ebrei avrebbe provocato senza dubbio la condanna internazionale e la massiccia resistenza palestinese. Questa è stata una delle ragioni per cui il governo israeliano ha rappresentato spesso i coloni ebrei come cittadini ribelli, anche mentre trasferiva milioni di dollari per sostenere il loro comportamento “ricalcitrante”. Far sembrare di non essere in grado di controllare i coloni ha consentito allo Stato, in caso di critiche, di assolversi dalle responsabilità attribuendo le confische a iniziative illegali compiute da gruppi di cittadini ideologizzati. E’ stato quindi politicamente vantaggioso presentare l’occupazione come temporanea e la creazione d’insediamenti come arbitraria. Per contro, in Cisgiordania, e nella striscia di Gaza, Israele ha eseguito una confisca graduale utilizzando il diritto ottomano e il Mandato britannico, i regolamenti dei sistemi giuridici giordano ed egiziano e le ordinanze militari emanate dai comandanti israeliani. Anche se il diritto internazionale umanitario obbliga il potere occupante a proteggere la proprietà degli abitanti sotto occupazione vietandone l’esproprio, Israele ha utilizzato diversi meccanismi giuridici per confiscare ampie porzioni della Cisgiordania e della Striscia di gaza. La maggior parte dichiarata proprietà di un assente o proprietà appartenente a uno stato o a un agente nemico.

L’Ordinanza Militare 58, emanata già il 23 luglio 1967, definisce “proprietà di un assente” quella “proprietà il cui possessore legale, o chi ne abbia ricevuto il potere di controllo per disposizione di legge, abbia abbandonato l’area prima del 7 giugno 1967 o successivamente”. Un rapporto del controllore di stato israeliano mostra che nei primissimi anni di occupazione le autorità israeliane registrarono circa 430.000 dunam confiscate (43mila ettari), circa il 7,5 % della Cisgiordania, come proprietà degli assenti. L’ordinanza militare 59, emanata il 31 luglio 1967, dichiara che ogni terra o proprietà appartenente a uno stato nemico diventa proprietà di stato. Fu così preso il 13% della Cisgiordania. I governi a guida laburista usarono parte di queste terre per creare quindici insediamenti nella Valle del Giordano. Un terzo metodo di confisca fu l’esproprio di terra per esigenze pubbliche, come osserva Eyal Weizman il “pubblico” che ha goduto dei frutti delle espropriazioni è sempre stato composto solo ed esclusivamente da ebrei”

Utilizzando le confische secondo la “legge della proprietà degli assenti” Israele ha creato 15 colonie nel cuore di Gerusalemme Est, facendovi trasferire 210mila coloni israeliani. L’ultimo rapporto della Coalizione civile per i diritti dei gerosolimitani indica che il 35% delle proprietà palestinesi a Gerusalemme sono state confiscate ricorrendo alla legge in questione e adottando sempre il pretesto dell’ordine pubblico. Il 22% delle proprietà palestinesi così confiscate sono state definite ‘area verde’, su un 30% vige il divieto di pianificazione edilizia e ai palestinesi resta appena il 13%. Israele ha fatto di più, esistono infatti delle tariffe agevolate esclusivamente riservate agli israeliani con incentivi tra i 20 e i 25mila dollari per un appartamento di 100 metri quadrati.

Abbiamo già parlato di come Israele cominciò ad applicare una legge ottomana sulla terra del 1858, al fine di trasformare la terra privata palestinese in terra di Stato. Secondo la legge ottomana, se un proprietario per tre anni consecutivi non coltiva la propria terra per motivi diversi da quelli riconosciuti dalla legge (arruolamento nell’esercito) la terra è allora chiamata makhlul, terra di cui il sovrano può prendere possesso o che può trasferire a un’altra persona. Israele inoltre crea gli insediamenti in stretta prossimità dei villaggi palestinesi per limitarne lo sviluppo e frantumarne le comunità in piccoli gruppi. Al fine di limitare il movimento palestinese ha introdotto un regime di “strade vietate” che ha posto restrizioni all’accesso degli abitanti alle più importanti arterie di traffico in Cisgiordania. Essere obbligati a viaggiare su tali strade alternative ha influito su tutti gli aspetti della vita quotidiana della Cisgiordania, tra questi l’economia e il sistema sanitario ed educativo.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele”. Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. In questo momento la situazione ambientale a Gaza è tragica, ma non sono i palestinesi che l’hanno causata, né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali, come spesso sentiamo dire dall’opinione pubblica. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite hanno documentato dettagliatamente come e perché la principale causa del disastro sia l’occupazione israeliana. Il motivo per cui le acque reflue a Gaza vengono smaltite in questo modo definito dagli israeliani “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio (vedi articolo sul Protocollo di Parigi).

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”; come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati. Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, anch’essi legati all’occupazione israeliana. L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele; il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua. Più fonti affermano che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

L’insostenibilità ecologica e strutturale è dunque un’evidenza, i principali effetti collaterali per ora si sono riverberati sulla sola popolazione palestinese. Israele sembra non aver calcolato, che la stessa terra che ospita liquami non depurati, scorie e materiale ad altissimo impatto ambientale, è la tanto bramata Terra promessa sulla quale, probabilmente, andranno ad abitare prossimamente cittadini ebrei che avranno il compito di costruire nuove colonie, di allontanare il nemico palestinese, vivendo però su cumuli di terra contaminata da oggi e per i secoli a venire.

È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni oggi palestinesi. Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente. Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi, questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Secondo uno studio condotto dall’Ufficio dell’Ambiente dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania, i coloni generano ogni giorno circa 145.000 tonnellate di rifiuti domestici. Non sorprende che gran parte di questi rifiuti, compresi i liquami, siano scaricati su terra palestinese senza alcun riguardo per l’ambiente o per le persone e gli animali che vivono lì. Nel solo 2016, 83 milioni di metri cubi di acque reflue hanno attraversato la Cisgiordania. Quel numero sta aumentando costantemente e rapidamente. La verità è che i palestinesi si sono dimostrati molto più “qualificati” per coesistere con la natura piuttosto che “sfruttarla”. Il costo di questo sfruttamento, tuttavia, non viene pagato solo dal popolo palestinese, ma anche dall’ambiente. Le prove sotto i nostri occhi e accentuano ulteriormente la natura coloniale ed egoista del progetto sionista e dei suoi fondatori, che continuano a dimostrarsi totalmente privi di una visione strategica e sostenibile per il futuro della “Terra Promessa”. Nena News




Israele approva una nuova colonia e ordina di demolire un mercato a Hebron

Kaamil Ahmed

1 dicembre 2019 – Middle East Eye

I palestinesi accusano il cambiamento di politica degli USA sulle colonie illegali

Israele ha approvato una nuova colonia sul luogo in cui si trova un mercato palestinese a Hebron, nella Cisgiordania occupata, provocando rabbia tra i palestinesi che accusano [per questa decisione] il recente cambiamento di politica degli USA. Domenica il ministro della Difesa Naftali Bennett ha dato il via libera alla nuova colonia, che implicherebbe la distruzione dell’antico mercato all’ingrosso e potrebbe a quanto si dice raddoppiare la popolazione dei coloni.

Ciò fa seguito alla decisione degli USA in novembre di non considerare più illegali in base alle leggi internazionali le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

La decisione israeliana di costruire una nuova colonia illegale nella Hebron occupata è il primo risultato tangibile della decisione USA di legittimare la colonizzazione; essa non deve essere decontestualizzata,” ha detto Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Il mercato palestinese destinato ad essere coinvolto è chiuso dal 1994, quando il colono israeliano Baruch Goldstein uccise 29 palestinesi all’interno della moschea di Abramo, che gli ebrei conoscono come la Tomba dei Patriarchi, e Israele rispose accentuando la sua presenza militare attorno alla Città Vecchia.

Circa 800 coloni israeliani vivono nei pressi della Città Vecchia di Hebron, molto vicino ai suoi abitanti palestinesi, e sono accompagnati da una pesante presenza militare che secondo i palestinesi impone loro un sistema simile all’apartheid.

La colonia a Hebron è il volto peggiore del controllo israeliano nei territori occupati,” hanno affermato in un comunicato gli attivisti di Peace Now [organizzazione israeliana contraria all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] contro le colonie.

Per mantenere la presenza di 800 coloni in mezzo a 250.000 palestinesi, intere vie di Hebron sono chiuse ai palestinesi, negando loro la libertà di movimento e con gravi ripercussioni sulle loro condizioni di vita.”

Il portavoce della comunità di coloni di Hebron Yishai Fleischer ha ringraziato Bennett per la decisione ed ha affermato che il terreno su cui sorge il mercato è stato di proprietà di ebrei dal 1807.

Tuttavia secondo Peace Now la terra appartiene legalmente al Comune di Hebron e i suoi abitanti hanno goduto di un affitto tutelato che non ha consentito che venissero espulsi senza basi legali, benché ciò sia stato ignorato dai tribunali israeliani, che hanno aperto la strada alla nuova colonia.

Ayman Odeh, capo della Lista Unita, coalizione parlamentare di cittadini palestinesi di Israele, ha affermato che la decisione è parte di una “guerra contro la pace”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dirigente di un gruppo suprematista ebraico imputato di incitamento all’odio contro i palestinesi

Natasha Roth-Rowland

27 Novembre 2019 – +972

Come Benjamin Netanyahu, Benzi Gopstein deve affrontare un procedimento penale atteso da tempo. Ma l’incriminazione di entrambi non cambia niente riguardo al sistema razzista ed espansionista che li ha prodotti

Martedì [26 novembre] un tribunale di Gerusalemme ha incriminato Benzi Gopstein, capo del gruppo razzista anti-assimilazionista “Lehava”, ed ha bandito il candidato alla Knesset del partito Otzma Yehudit [Potere Ebraico] per incitamento alla violenza, al razzismo e al terrorismo e per essersi pronunciato in favore del massacro alla Grotta dei Patriarchi di Hebron da parte di Baruch Goldstein nel 1994. Il suo rinvio a giudizio rappresenta il culmine di una campagna durata otto anni da parte dell’“Israel Reform Action Center” [Centro di Azione Israeliano per la Riforma, ndtr.] (IRAC), braccio giuridico dell’ebraismo riformato, per far sì che Gopstein e Lehava rendano conto [della loro posizione politica].

L’incriminazione di Gopstein cita, tra le altre cose, video in cui egli ha giustificato l’uso della violenza contro i palestinesi che sono in rapporto con donne ebree; ha definito i “nemici tra noi” (cioè i palestinesi) un “cancro”, ha proposto che la soluzione sia togliere di mezzo la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa ed ha affermato che ogni palestinese che egli dovesse vedere ad un matrimonio ebraico finirebbe nel “più vicino ospedale”.

Gopstein, allievo del fondatore della “Lega per la Difesa Ebraica” e demagogo razzista Meir Kahane ed ex-attivista del Kach, movimento politico israeliano di quest’ultimo, ha una lunga e storica carriera di razzismo violento. Da giovane ha avuto a che fare con la giustizia, in particolare quando è stato arrestato (e in seguito rilasciato per mancanza di prove) nel novembre 1990 in quanto sospettato di essere coinvolto nell’uccisione di due palestinesi, a quanto pare come rappresaglia per l’assassinio di Kahane a New York all’inizio di quel mese.

Di tutti i discepoli di Kahane che occupano ancora un posto sulla ribalta, Gopstein si è forse impegnato in modo più assiduo per portare avanti la principale ossessione del suo mentore: evitare rapporti tra ebrei e palestinesi, soprattutto tra donne ebree e uomini palestinesi. Come fondatore e capo di “Lehava” (il cui nome in ebraico è un acronimo per “Evitare l’Assimilazione nella Terra Santa”), Gopstein ha progettato di persona accaniti e spesso violenti tentativi di distruggere rapporti misti [tra israeliani e palestinesi, ndtr.] – sia tramite l’istituzione di un “telefono rosso” in stile Stasi [polizia segreta della Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], in cui israeliani preoccupati possono dare informazioni su cittadini che sospettano avere rapporti misti, fino a violente proteste durante matrimoni musulmani in cui la moglie si sia convertita dall’ebraismo.

Questi incidenti hanno fatto di “Lehava” un parafulmine per le critiche all’estrema destra nel discorso pubblico israeliano. Ed è facile capire perché: l’organizzazione e le sue azioni sono emblematiche dei fenomeni che israeliani progressisti (e non tanto progressisti) evidenziano come i mali della loro società, in un modo che consente loro di evitare di approfondire i più profondi problemi strutturali in cui essi stessi sono coinvolti.

Come Kahane prima di lui, Gopstein ha cercato di reclutare intorno alla sua causa giovani disadattati e svantaggiati dal punto di vista socio-economico, portando nell’organizzazione mizrahim (ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani) della periferia sociale e geografica di Israele. La sua orchestrazione di proteste molto visibili – sia durante i matrimoni summenzionati o quelle del sabato notte in piazza Zion a Gerusalemme – garantisce che i media e i politici israeliani abbiano un archivio di immagini da condannare quando insistono che nel Paese la violenza della destra è esclusivamente un problema “mizrahi” (cioè: marginale e non istituzionale), invece che sistematico o “ampiamente diffuso” (cioè: ashkenazita [ebrei di origine europea, che dominano nella vita economica, politica e sociale di Israele, ndtr.]).

Analogamente lo stesso Gopstein – insieme al resto della sua coorte di “Otzma Yehudit”: Itamar Ben-Gvir, Baruch Marzel e Michael Ben-Ari — è liquidato come un fanatico religioso marginale, la cui ortodossia gli israeliani stentano ad evidenziare quando si scagliano contro la sua ideologia. Quindi, per esempio, durante un dibattito alla Knesset sulla messa fuori legge di “Lehava” nel 2015, il parlamentare laburista Itzik Shmuli denunciò trionfalmente Gopstein come “Isis con la kippah [il tradizionale copricapo ebraico, soprattutto degli ebrei praticanti, ndtr.]”.

Tali tentativi di definire come “diversi” i terroristi ebrei – siano Kahane, Yigal Amir [l’assassino di Rabin, ndtr.], Baruch Goldstein [autore della strage di 29 fedeli palestinesi nella tomba dei Patriarchi a Hebron, ndtr.], gli assassini di Muhammad Abu Khdeir [ragazzino palestinese bruciato vivo per vendicare la morte di tre giovani coloni uccisi da palestinesi nel 2014, ndtr.] o la “gioventù della cima delle colline” [gruppo informale di coloni estemisti, ndtr.] che incendia chiese, case e scuole [palestinesi] – è molto utile all’establishment israeliano. La condanna e l’occasionale incriminazione di questi personaggi consente al governo e ai suoi sostenitori interni ed internazionali di evidenziare un sistema giudiziario che funziona e un codice morale che rifiuta questa ideologia e queste azioni razziste. È lo stesso meccanismo che seleziona sporadicamente e in apparenza (anche se non realmente) in modo arbitrario soldati e poliziotti israeliani da punire per la continua serie di uccisioni extragiudiziarie di palestinesi, tra gli altri violenti misfatti.

In entrambi i processi, il sistema che produce violenza politica e abusi dell’esercito e li ricompensa con un’impunità quasi totale sfugge a una verifica.

Vale la pena di notare il tempismo dell’incriminazione di Gopstein: cinque giorni dopo l’incriminazione di Benjamin Netanyahu e nel bel mezzo dell’ultimo picco di violenza dei coloni in Cisgiordania durato sette giorni, compresa l’ultima fiammata dello scorso fine settimana a Hebron in cui circa una decina di palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un bimbo di 18 mesi.

L’incriminazione di Netanyahu è stata sbandierata come la prova decisiva di una democrazia israeliana in ottima salute – un sistema talmente sicuro da mettere sotto processo il suo stesso primo ministro. Tali analisi hanno misteriosamente ignorato il fatto che Netanyahu finora non ha dovuto affrontare alcuna conseguenza per il fatto di aver infranto ripetutamente la legge relativa alla campagna elettorale e alle elezioni, né per i suoi tentativi razzisti di sopprimere il diritto di voto [dei palestinesi] – azioni che, si potrebbe pensare, rivelano molto più dello stato della democrazia israeliana di quanto questi osservatori evidenzino. Non dimentichiamoci neppure che Netanyahu ha conferito una legittimazione senza precedenti a Gopstein e ai suoi colleghi di “Otzma Yehudit” intervenendo personalmente in loro favore prima delle elezioni dell’aprile 2019.

Né la squadra di quelli che dicono che “la corruzione rafforza la democrazia” segnala l’altro, più fondamentale ostacolo per le loro analisi, cioè che il sistema giudiziario che ha indagato e incriminato Netanyahu è lo stesso che appoggia l’occupazione della Cisgiordania e l’assedio contro Gaza; che consente l’espulsione di palestinesi dalle loro case e la loro demolizione; che gestisce un apparato giudiziario separato su base etnica nei territori occupati, uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. Ed è lo stesso sistema giudiziario che costantemente omette di considerare responsabili i propri soldati e civili per aver commesso soprusi, per aver aggredito e ucciso palestinesi ed ebrei etiopi, perché fa parte di uno Stato che, lasciando mano libera ai coloni violenti che agiscono in qualità di civili, ha rinunciato al proprio monopolio sull’uso legittimo della violenza.

In altre parole il sistema giudiziario che ha messo sotto processo Netanyahu e Gopstein in questo stesso momento sta anche consentendo ai coloni di aggirarsi per la Cisgiordania vandalizzando e incendiando proprietà palestinesi e aggredendo i proprietari. Queste due incriminazioni di alto livello non intaccano minimamente i progetti di espansione delle colonie, di esclusione su base etnica e di occupazione militare, azioni promosse dagli individui incriminati: la violenza nella relazione con i palestinesi continuerà anche se Gopstein verrà condannato, e la formalizzazione dell’annessione della Cisgiordania, insieme alla devastazione di Gaza che dura da molto tempo, sopravvivrà alla destituzione di Netanyahu.

Il sistema giudiziario che li ha messi sotto processo, per quanto possa essere disturbato dai loro quasi indistinguibili attacchi contro di esso come quinta colonna all’interno della società israeliana, continuerà ad approvare questi progetti.

È positivo che questi due uomini stiano affrontando le conseguenze attese da tempo per (alcune delle) loro azioni. L’ Israeli Religious Action Center, in particolare, deve essere elogiato per una battaglia quasi decennale per chiamare Gopstein a rispondere delle sue azioni. Ma non dobbiamo neppure fare di questa serie di avvenimenti altro che quello che sono: una foglia di fico che, puntando il dito contro due facili bersagli, rafforza piuttosto che indebolire il sistema che li ha prodotti.

Natasha Roth-Rowland è una dottoranda in storia all’università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica israeliana in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive sotto lo pseudonimo del suo vero cognome in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il proprio cognome in ‘Rowland’ quando cercò di rifugiarsi in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 29 ottobre – 11 novembre 2019 (due settimane)

Il 2 novembre, un civile palestinese 27enne è stato ucciso ed un altro è rimasto ferito durante una serie di attacchi aerei israeliani contro siti militari ed aree non urbane della Striscia di Gaza.

I due uomini sono stati colpiti a sud-ovest di Khan Younis; si trovavano all’interno di una struttura agricola che, secondo fonti israeliane, veniva utilizzata a scopi militari. Nei due giorni precedenti, un gruppo armato palestinese aveva lanciato verso la regione meridionale di Israele diversi missili; uno di questi aveva colpito un edificio nella città di Sderot, provocando danni.

Vicino alla recinzione israeliana che perimetra la Striscia di Gaza, sono proseguite le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno”, durante le quali le forze israeliane hanno ferito 396 palestinesi, tra cui 171 minori. Secondo il Ministero della Salute palestinese, 102 di loro, tra cui 39 minori, sono stati colpiti con armi da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi improvvisati, bombe a mano e bottiglie incendiarie e che ci sono stati diversi tentativi di violare la recinzione; non sono state riportate vittime israeliane.

In almeno 30 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle aree della Striscia di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e, in mare, al largo della costa; non sono stati segnalati feriti. In un caso separato, due pescatori palestinesi sono stati arrestati e la loro barca è stata confiscata dalle forze navali israeliane. In un altro caso, le forze israeliane hanno arrestato un minore palestinese che avrebbe tentato di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale. Le forze israeliane hanno anche compiuto tre incursioni [nella Striscia], effettuando operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale.

L’11 novembre, durante scontri all’ingresso del campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron), le forze israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese di 22 anni. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite, Nickolay Mladenov, ha dichiarato che le registrazioni video dell’uccisione mostrano che, al momento in cui gli hanno sparato, l’uomo ucciso non costituiva alcuna minaccia per le forze israeliane. Secondo resoconti di media israeliani, le autorità israeliane hanno avviato un’indagine penale sul caso. Gli scontri erano scoppiati durante una manifestazione che commemorava il 15° anniversario della morte del Presidente palestinese Yasser Arafat.

In Cisgiordania, durante molteplici proteste e scontri, 56 palestinesi, tra cui almeno 17 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Gli scontri più ampi sono stati registrati durante la summenzionata manifestazione nel campo di Al ‘Arrub; nel corso della protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e durante una protesta nel villaggio di Surif (Hebron) contro la confisca della terra. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 84 operazioni simili, tre delle quali hanno portato a scontri e a feriti.

Inoltre, 285 scolari e 35 insegnanti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni: nella Zona (H2) della città di Hebron, controllata da Israele, in tre diverse circostanze, le forze israeliane avevano sparato gas lacrimogeni e bombe sonore nei cortili di due complessi scolastici. Secondo varie fonti palestinesi, solo uno dei tre casi (il 3 novembre) era stato preceduto dal lancio di pietre contro le forze israeliane da parte di minori palestinesi.

Nel quartiere Al Isawiya di Gerusalemme Est, le operazioni di polizia hanno sconvolto, quasi quotidianamente, la vita di circa 18.000 palestinesi; la maggior parte di queste operazioni ha provocato scontri e arresti. Il 2 novembre, per protestare contro la violenza della polizia, il Comitato dei genitori ha dichiarato uno sciopero di due giorni in tutte le scuole del quartiere. Sebbene non sia stato possibile accertare il numero delle persone ferite durante gli scontri di cui sopra, c’è particolare preoccupazione per un bambino di otto mesi e una donna incinta che hanno inalato gas lacrimogeno. Diciannove residenti, tra cui sette minori, sono stati arrestati. Ad Al Isawiya, dallo scorso giugno, si registrano alti livelli di tensione e violenze.

Due palestinesi, un ragazzo 15enne e una donna di 37 anni, sono stati feriti dalle forze israeliane in due episodi separati: secondo quanto riferito, avevano tentato di aggredire con un coltello le forze israeliane; nessun israeliano è rimasto ferito. I due episodi sono avvenuti il 28 e il 30 ottobre, rispettivamente nella Città Vecchia di Gerusalemme e nella zona H2 della città di Hebron. I due sospetti autori sono stati arrestati. Vicino al villaggio di Qaffin (Tulkarm), le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese che aveva tentato di attraversare la Barriera senza permesso.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto le persone a demolire, 19 strutture: 49 palestinesi sono stati sfollati mentre altri 61 hanno subìto ripercussioni di diversa entità [segue dettaglio]. Sei di queste strutture, di cui quattro precedentemente fornite come aiuti umanitari, si trovavano in Comunità di pastori situate in aree da Israele dichiarate chiuse e dedicate ad “addestramento a fuoco” delle forze armate israeliane. Altre tre strutture (tutte abitative) erano situate nelle Comunità beduine palestinesi ad est di Gerusalemme, vicino a un’area destinata all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adummim (piano E1). Le rimanenti nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una casa in Al Isawiya, auto-demolita dai proprietari. Dall’inizio dell’anno ad oggi [11 novembre], il numero di strutture demolite (513) indica un incremento di quasi il 33%, rispetto al corrispondente periodo del 2018.

In diverse aree della Cisgiordania la raccolta delle olive è stata sconvolta dalla violenza di coloni israeliani che hanno danneggiato almeno 1.050 alberi e rubato diverse tonnellate di olive. Nove episodi documentati hanno avuto luogo [su terreni palestinesi] vicino ad insediamenti colonici; l’accesso dei palestinesi a questi luoghi è limitato e regolato dalle autorità israeliane. Le Comunità colpite includevano Qaryut, Burin, Al Lubban ash Sharqiya e Deir al Hatab (tutte a Nablus), Kafr Qaddum (Qalqiliya), Mas-ha (Salfit) e Umm Safa (Ramallah). Altri sette episodi che hanno visto coloni come protagonisti sono stati segnalati nei villaggi di Yatma, Sawiya e Burin (Nablus), Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Yasuf (Salfit). La raccolta delle olive, che si svolge ogni anno tra ottobre e novembre, è un evento basilare per i palestinesi, sia da punto di vista economico che sociale e culturale.

Altri cinque attacchi di coloni hanno provocato ferimenti e danni a proprietà palestinesi. In tre di questi episodi, accaduti sulle strade della Cisgiordania, un palestinese è stato ferito e tre veicoli palestinesi hanno subito danni a seguito del lancio di pietre. In altri due casi, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 32 veicoli ed hanno spruzzato scritte tipo “Questo è il prezzo da pagare” su tre case nei villaggi di Tublas (Gerusalemme) e Qabalan (Nablus). A Qarawat Bani Hassan (Salfit), coloni israeliani avrebbero danneggiato una baracca e dato fuoco a 400 balle di fieno. Finora nel 2019, OCHA ha registrato 299 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o danneggiato loro proprietà; nei corrispondenti periodi dei due anni precedenti, gli episodi erano stati 213 nel 2018 e 124 nel 2017.

Media israeliani hanno riferito di sei episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani: due coloni sono rimasti feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 93 episodi in cui palestinesi hanno ucciso o ferito coloni o altri civili israeliani o danneggiato loro proprietà; quindi si registra un calo rispetto al numero di episodi verificatisi in periodi corrispondenti del 2018 (141 casi) e 2017 (211 casi).

¡

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Nelle prime ore del 12 novembre, l’aeronautica israeliana ha preso di mira e ucciso un comandante dell’ala armata del gruppo palestinese della Jihad islamica (PIJ) e sua moglie, mentre dormivano nella loro casa. L’episodio ha innescato, per circa 48 ore, un crescendo di ostilità tra Israele e varie fazioni armate palestinesi; ne è rimasta estranea Hamas. Secondo il Ministero della Salute palestinese (MoH), a Gaza, durante questi attacchi sono state uccise 34 persone, di cui 23 uomini, otto minori e tre donne. Delle vittime fanno parte otto persone appartenenti alla stessa famiglia; stando a quanto riferito, sono rimaste uccise durante un attacco diretto contro un agente PIJ di alto livello. Il MoH ha anche riferito che 111 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui almeno 41 minori e 13 donne. In Israele, sarebbero state ricoverate in ospedale, in stato di shock o ferite in vario modo, 77 persone, incluse donne e bambini. La mattina del 14 novembre, con la mediazione delle Nazioni Unite e dell’Egitto, è stato annunciato un cessate il fuoco informale che, al momento, pare tenere.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I nostri ragazzi: un’altra storia della superiorità morale di Israele

Joseph Massad

10 Ottobre 2019 – Middle East Eye

I tentativi cinematografici dei sionisti americani di rappresentare la colonizzazione della Palestina come una “lotta ebraica per la liberazione nazionale” ottennero un enorme successo con il film “Exodus” del 1960. Il film rese popolare la causa sionista e rimane d’ispirazione per i giovani sionisti americani ed europei.

Exodus” non fa menzione della conquista della terra dei palestinesi e dell’espulsione della maggioranza della popolazione nativa, in quanto i nativi palestinesi vengono mostrati come se non fossero altro che odiosi ostacoli per gli ebrei che costruivano una patria solo per sé.

Superiorità morale 

Un progetto cinematografico più recente che, benché di successo, non ha avuto lo stesso effetto di “Exodus”, è stato il film di Steven Spielberg “Monaco” del 2005.

Il film riguarda lo spirito degli ebrei in Israele negli anni ’70, nel contesto della campagna di Golda Meir [primo ministro israeliano dal 1969 al 1974, ndtr.] per assassinare intellettuali palestinesi in tutta Europa e vendicare l’attacco contro gli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

Come ho sostenuto nella mia recensione al film, concentrandosi sulla superiorità morale degli ebrei, “Monaco” non si allontana molto dalla propaganda israeliana, che sostiene che i soldati ebrei “sparano e piangono”. Il fatto che la violenza palestinese sia sempre stata in risposta alla conquista e agli assassini sionisti nella logica di “Monaco” è irrilevante.

Il bombardamento da parte dell’aviazione israeliana dei campi di rifugiati in Libano e Siria, che uccise centinaia di rifugiati palestinesi immediatamente dopo la morte degli atleti israeliani, non compare affatto nel film e non sembra compromettere lo spirito degli ebrei israeliani.

Monaco” si chiede se la politica terroristica contro singoli palestinesi scatenata da Meir possa essere stata sbagliata, ma insiste sul fatto che furono i palestinesi che imposero a Israele la scelta del terrorismo. La tesi di “Monaco” è che, poiché gli ebrei hanno un codice morale superiore, Israele non avrebbe dovuto rispondere ai palestinesi nello stesso modo.

I nostri ragazzi”

Questa è esattamente la premessa sottintesa alla nuova serie coprodotta dalla HBO [rete televisiva e di produzione USA, ndtr.] israeliana “I nostri ragazzi”, che recentemente è stata messa in onda su HBO e su Canale 12 in Israele. La serie inizia con il rapimento e l’uccisione di tre giovani coloni ebrei israeliani in Cisgiordania nel 2014 ad opera di due uomini palestinesi che, benché membri di Hamas, agirono di loro iniziativa.

Non veniamo a sapere molto sul rapimento degli adolescenti, la cui condizione di coloni viene appena menzionata, mentre i loro rapitori vengono semplicemente identificati come palestinesi. Questi ultimi non sono nominati fino all’ultimo episodio, quando veniamo informati che l’esercito israeliano li ha uccisi ed ha distrutto con un bulldozer le case delle loro famiglie.

Ma non sappiamo niente delle ragioni per cui i due palestinesi hanno rapito i tre giovani coloni, per non parlare delle loro vicende personali, o delle loro famiglie che vivono a Al-Khalil (Hebron) e della loro lotta contro l’occupazione israeliana e la violenza dei coloni ebrei.

La campagna israeliana che fece seguito al rapimento portò a incursioni dell’esercito israeliano in 1.300 case e negozi palestinesi, all’arresto di più di 800 palestinesi e all’uccisione di 9 di loro. Ma tutto questo non interessa a “I nostri ragazzi”, che si concentra sull’angoscia dell’opinione pubblica ebreo-israeliana.

É in seguito alla scoperta che i tre adolescenti erano stati uccisi, e alla successiva violenza popolare ebraica nelle strade di Gerusalemme e altrove contro civili palestinesi, che si sviluppa la storia dell’uccisione per “vendetta” del sedicenne palestinese Mohammad Abu Khdeir, bruciato vivo da tre coloni ebrei (due cugini adolescenti e il loro zio).

Il rapimento per vendetta

La storia dei tre adolescenti uccisi aleggia sulla serie come la causa principale di tutto quanto si svolge. La serie descrive angosciosamente la macabra vendetta del rapimento del ragazzo palestinese, che si trovava di fronte a casa sua quando venne rapito e strangolato dai due ragazzi ebrei, e poi picchiato con un piede di porco dallo zio che gli diede fuoco quando era ancora vivo.

L’angoscia della serie, e quella dell’opinione pubblica israeliana, è che non avrebbe potuto essere un crimine commesso da ebrei, perché, se gli ebrei lo avessero commesso, lo spirito e la moralità degli ebrei israeliani sarebbero stati compromessi.

Ci viene fornito ogni dettaglio sui terroristi ebrei. Vediamo lo zio suonare la chitarra e cantare per la figlia, preoccuparsi dei nipoti, lottare contro il sentimento di inadeguatezza con il padre (un rabbino mizrahi [ebreo di origini arabe, ndtr.] che tiene una propria scuola religiosa), preoccuparsi per la madre malata, cenare il sabato, fumare con i nipoti nel giardino della sua casa in una colonia ebraica in Cisgiordania, costruita su terra rubata ai palestinesi.

Scopriamo persino che ha traslocato là non per ideologia sionista, che motiva i coloni di destra ashkenaziti [ebrei di origine europea, ndtr.], ma per il basso costo delle case.

Vediamo anche i nipoti adolescenti nel loro contesto familiare. Il più giovane balbetta ed è emotivamente gravato dal peso delle aspettative dei suoi genitori ortodossi perché vada ad una scuola religiosa. Lo vediamo combattere con sentimenti di colpa e disperazione che manifesta durante sedute di cura con un terapista ashkenazita che si occupa della comunità ortodossa.

Sono preoccupazioni e problemi condivisi dal detective ortodosso dello Shabbak (servizio segreto interno di Israele) che risolve il caso. Proviene anche lui da un contesto ebreo ortodosso marocchino e si sente in colpa riguardo alla cura della sua anziana madre e per le aspettative di costei e del fratello ortodosso.

Disumanizzare i palestinesi

Nessuna di queste scene che rendono umani i personaggi riguarda i palestinesi che hanno ucciso i giovani coloni ebrei. In effetti gli unici palestinesi che meritano una piccola parte di scene umanizzanti sono quelle che riguardano i genitori di Abu Khdeir, ma non i suoi fratelli, salvo una minima attenzione per il fratello maggiore. Non vediamo la vita familiare di Abu Khdeir, se non nel contesto del lutto, con palestinesi anonimi che vanno a porgere le condoglianze.

Non li vediamo mai mentre cantano, cenano o si comprano regali a vicenda. Tuttavia li vediamo lavorare per clienti e padroni ebrei e assistiamo alla discussione tra il padre e il giovane Mohammad Abu Khdeir, innamorato di una ragazza profuga siriana a Istanbul, a cui ossessivamente scrive sul suo cellulare trascurando il lavoro.

Apprendiamo che Mohammad ama il ballo di gruppo, o dabkeh. Ma a parte questo, a Mohammad viene dedicata poca attenzione. Altri palestinesi che vengono fatti parlare non hanno una storia personale, tranne Abu Zuhdi, il cui figlio era stato ucciso dall’esercito israeliano e la cui casa è stata demolita come punizione per la sua resistenza all’occupazione.

Abu Zuhdi racconta rapidamente la sua storia, ma senza scene che umanizzino lui o la sua famiglia. A parte questo, i palestinesi vengono mostrati come una folla violenta che sconvolge la tranquillità della loro città occupata, dichiarata capitale di Israele.

Questa serie è trionfalista nel suo rispettare l’obiettività solo a parole, mostrando alcuni aspetti della sofferenza dei palestinesi e della situazione kafkiana in cui si trovano gli Abu Khdeir e gli interrogatori a cui vengono sottoposti.

Tuttavia la simpatia mostrata per gli Abu Khdeir impallidisce rispetto a quella mostrata per i tre terroristi ebrei e per le loro famiglie, al cui strazio e dolore “I nostri ragazzi” dedica la maggior parte delle scene.

Proteste contro la trasmissione

Eppure le discriminazioni che i palestinesi devono sopportare da parte della polizia, dell’apparato di sicurezza, delle leggi e dei tribunali israeliani sono ampiamente mostrati. Di conseguenza ciò ha suscitato la condanna da parte di israeliani che hanno scritto centinaia di lettere di protesta contro la trasmissione e da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, che l‘ha definita “antisemita” e ha chiesto il boicottaggio del canale israeliano che la mette in onda. L’uccisione degli adolescenti israeliani scatenò l’attacco israeliano contro Gaza nell’estate 2014, provocando l’uccisione di 2.251 palestinesi, compresi almeno 551 minorenni, e il ferimento di 11.231 palestinesi, tra cui 3.436 minori.

I nostri ragazzi” mostra di sfuggita, senza dettagli, come i bombardamenti su Gaza siano stati raccontati dalla televisione israeliana. In realtà il giorno prima dell’uccisione di Mohammad la deputata israeliana Ayelet Shaked aveva invocato su Facebook il genocidio del popolo palestinese, una dichiarazione che ottenne migliaia di condivisioni. Meno di un anno dopo diventò ministra della Giustizia di Israele. Per quanto riguarda la serie, questi avvenimenti non sembrano minacciare la moralità israeliana.

Ma la morale della storia che “I nostri ragazzi” vuole raccontare è che i palestinesi che non si oppongono al razzismo e al colonialismo israeliani e che lavorano con o per gli ebrei (lo stesso Mohammad lavorava in un ristorante di proprietà di un israeliano) non meritano di avere un figlio bruciato vivo, in quanto ciò pregiudica la superiorità morale ebraica e danneggia lo spirito degli ebrei israeliani.

Un progetto ideologico

Invece i palestinesi che resistono ad Israele sembrano meritare di essere bruciati vivi con le bombe israeliane senza che ciò rappresenti alcuna minaccia per la superiorità morale di Israele. In effetti la serie, intitolata in ebraico “Ha-Ne’arim”, che significa “giovani uomini”, e maldestramente tradotto in arabo come “Fityan” [che significa “novizi”, ndtr.], è reso in inglese con “I nostri ragazzi”, dove il pronome possessivo si riferisce a Israele.

Il titolo inglese tradisce il progetto ideologico dei produttori della serie (nessuno di loro è palestinese) e dei suoi tre registi israeliani, uno dei quali è un palestinese cittadino di Israele, l’altro un ebreo israeliano ashkenazita e il terzo un colono ebreo americano arrivato da New York con la sua famiglia ortodossa quando aveva 5 anni.

Alla fine della trasmissione i principi morali superiori di Israele e delle sue anime ebraiche sono vittoriosi, vista la condanna del tribunale contro i tre terroristi ebrei, anche se la corte si è rifiutata di accettare la richiesta degli Abu Khdeir di demolire le case degli assassini come Israele fa con i “terroristi” palestinesi.

A parte ciò, “I nostri ragazzi”, come il film “Monaco”, non si stanca di ricordarci che la minaccia alla superiorità morale di Israele e della sua anima ebraica viene dai palestinesi violenti che resistono e non dalle conquiste coloniali, dall’occupazione militare e dal razzismo istituzionalizzato di Israele.

Così facendo, “I nostri ragazzi” segue le orme dell’affermazione razzista di Golda Meir che riassunse perfettamente l’argomento principale della serie: “Possiamo perdonarvi di uccidere i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di farci uccidere i vostri.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Joseph Massad è professore di politica araba contemporanea e di storia del pensiero alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e di articoli accademici e giornalistici. I suoi libri comprendono: ‘Colonial effects: the making of National identity in Jordan’ [Effetti colonialisti: la creazione di un’identità nazionale in Giordania], ‘Desiring arabs’ [Arabi desideranti], ‘The persistence of the palestinian question: essays on zionism and the palestinians’ [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi], ed il più recente ‘Islam in liberalism’ [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e i suoi articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 17 – 30 settembre ( due settimane)

Il 27 settembre, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR) tenutasi ad est di Rafah, vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza ed Israele, un palestinese è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane. Altri 441, tra cui 193 minori, sono rimasti feriti; 90 [dei 441] presentavano ferite di arma da fuoco. Complessivamente, dal marzo 2018, data di inizio delle proteste della GMR, sono stati uccisi 210 palestinesi, tra cui 46 minori. Fonti israeliane hanno riferito che, durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi artigianali, bombe a mano e bottiglie incendiarie; inoltre ci sono stati diversi tentativi di aprire brecce nella recinzione.

Nel corso di tre distinti episodi di accoltellamento, due donne israeliane sono state ferite, una donna palestinese è stata uccisa e due ragazzi sono stati arrestati [segue dettaglio]. Il 18 settembre, presso il checkpoint di Qalandiya che controlla l’accesso a Gerusalemme Est da nord, una donna palestinese si è avvicinata ai soldati con un coltello: le forze israeliane hanno sparato, colpendola ad una gamba: la donna è morta per dissanguamento. Il 25 settembre, uno dei due ragazzi (un 14enne), ha accoltellato e ferito una colona ad una stazione d’autobus vicina al checkpoint della Barriera nella città di Maccabim (Ramallah) ed è stato successivamente arrestato. Il secondo ragazzo palestinese è stato arrestato dopo aver accoltellato e ferito, il 26 settembre, una poliziotta nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Sei palestinesi sono rimasti feriti da un razzo, lanciato da Gaza verso Israele; il razzo è caduto all’interno della Striscia, ad est di Rafah, vicino alla loro casa. Durante il periodo di riferimento non sono stati registrati attacchi aerei israeliani.

In almeno 16 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nelle aree della Striscia adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa [cioè le ARA, Aree ad Accesso Riservato]; non sono stati segnalati feriti. Le forze israeliane hanno effettuato quattro incursioni [nella Striscia] e compiuto operazioni di spianatura del terreno nei pressi della recinzione. Un palestinese è stato arrestato dalle forze israeliane al valico di Erez, dopo essere stato convocato per un colloquio con i funzionari della sicurezza,

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, nel corso di numerosi scontri, le forze israeliane hanno ferito un totale di 68 palestinesi, tra cui sette minori [segue dettaglio]. 19 sono rimasti feriti nella città di Al ‘Eizariya (governatorato di Gerusalemme), in scontri con le forze israeliane. In tale località gli scontri si sono protratti, con regolarità, per più di un mese. Altri 24 palestinesi sono rimasti feriti in operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane; 16 [dei 24 ferimenti] sono avvenuti nel villaggio di Azzun (Qalqiliya), dove le operazioni hanno anche implicato la chiusura dei negozi e del cancello posto sull’accesso principale del villaggio. Infine, due palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti. Oltre la metà dei feriti è stata curata per inalazione di gas lacrimogeno, il 20% per lesioni causate da proiettili di gomma ed i restanti per le aggressioni fisiche e le ferite di arma da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato un totale di 191 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 167 palestinesi. La maggior parte delle operazioni sono state condotte nei governatorati di Ramallah (58), Gerusalemme (45) ed Hebron (23).

Nel sud di Hebron, citando ragioni di sicurezza, le autorità israeliane hanno installato una barriera permanente lungo una strada chiave, ostacolando ulteriormente gli spostamenti delle vulnerabili Comunità di pastori. Tale barriera limiterà il movimento di circa 800 palestinesi appartenenti a quattro Comunità a rischio di trasferimento forzato. Esse, infatti, vivono in un’area (Massafer Yatta) che, in aggiunta ad altre pratiche restrittive, Israele ha designato come “zona per esercitazione a fuoco” per l’addestramento militare.

Coloni israeliani hanno compiuto quattro aggressioni che hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni ad ulivi; altri 12 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane in episodi collegati a coloni [segue dettaglio]. In due casi, avvenuti nella zona H2 (a controllo israeliano) della città di Hebron e nel villaggio di Beitin (Ramallah), coloni hanno lanciato pietre e ferito cinque palestinesi, tra cui un ragazzo di 14 anni. Gli altri due casi si sono verificati a Nablus: gli abitanti del villaggio di As Sawiya hanno riferito che coloni hanno rubato le loro olive ed hanno vandalizzato 47 alberi, mentre nel villaggio di Duma hanno spruzzato slogan sulle case e hanno vandalizzato un veicolo. Altri 12 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri scoppiati in concomitanza con la visita di coloni israeliani a siti religiosi delle città di Nablus e Halhul (Hebron). Infine, vicino all’insediamento avamposto di Havat Ma’on (Hebron) [insediamento colonico illegale anche per Israele], coloni hanno aggredito verbalmente ed intimidito i volontari internazionali che accompagnavano pastori palestinesi.

In Area C e Gerusalemme Est, durante il periodo di riferimento, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 12 strutture di proprietà palestinese, sfollando sette persone. Tutte le strutture, tranne una “tenda di protesta”, sono state demolite per mancanza di permessi edilizi israeliani. La tenda era stata eretta nella zona di Al Muntar, vicino alla città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme), per protesta contro un nuovo insediamento colonico avamposto. Palestinesi hanno riferito che l’avamposto è stato eretto sulla loro terra e che ne rende problematico l’accesso a circa 300 persone. Gli sfollamenti sopraccitati sono avvenuti a Gerusalemme Est, dove sono state demolite tre abitazioni nei quartieri di Beit Hanina, Silwan e At Tur. Le restanti proprietà demolite includevano quattro strutture di sostentamento, due case in costruzione, una cisterna per l’acqua e recinzioni in cemento in cinque località dell’Area C. Finora, in Cisgiordania, nel 2019 sono state demolite o sequestrate 439 strutture, con un aumento di oltre il 40% rispetto al periodo equivalente del 2018.

Secondo fonti israeliane, nell’area di Ramallah, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni a un’auto.

257

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it