Un bambino palestinese è rimasto orfano del padre disabile ucciso dall’esercito israeliano

Gideon Levy, Alex Levac

16 marzo 2018, Haaretz

A Hebron i soldati hanno ucciso Mohammed Jabri, un uomo mentalmente disabile incapace di parlare, che stava crescendo da solo il figlio di quattro anni.

Zain, poco più di 4 anni, fissa lo spazio nella sua piccola stanza con occhi spenti, senza emettere alcun suono. È seduto sulle ginocchia della nonna – anche se pensa che sia sua madre, perché così gli è stato detto. Ora gli hanno detto anche che suo padre è stato ucciso, anche se è improbabile che sia in grado di cogliere l’enormità della nuova catastrofe che lo ha colpito.

Tre anni fa, appena neonato, ha perso sua madre. Lo scorso venerdì ha perso anche suo padre, un giovane mentalmente disabile incapace di parlare. Con un gesto insensato, i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, usando veri proiettili, gli hanno sparato al petto da una distanza di 20 metri, uccidendolo.

Abbiamo incontrato Zain tre giorni dopo la tragedia, seduto in silenzio in grembo alla nonna. A causa della terribile situazione economica della famiglia, il bimbo finirà probabilmente in un orfanotrofio, dice la nonna, che promette di andare regolarmente a trovarlo.

Mancano le parole in questa casa di dolore; è un momento di angoscia e lacrime. La casa è una struttura in pietra nella città vecchia di Hebron, sopra la Tomba dei Patriarchi e il quartiere dei coloni, ma in H1 – l’area che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese. La penombra regna in casa.

Mentre gli occhi si abituano all’oscurità, una realtà incredibile prende forma. In questa casa vivono una coppia ed i loro 12 figli, quattro dei quali sono disabili, insieme ad alcuni giovani nipoti, tutti stretti in tre piccole stanze. I figli disabili soffrono di una varietà di problemi, tra cui malattia mentale e epilessia.

In questa casa viveva anche la giovane madre, morta a 18 anni di cancro, circa un anno dopo la nascita del suo unico figlio. E in questa casa viveva suo marito, Mohammed Jabri, 24 anni, che stava crescendo il loro giovane figlio, Zain, da solo. Adesso anche il padre è morto. Ucciso dalle forze di difesa israeliane.

Nel dimesso soggiorno vanno e vengono gli abitanti della casa, dando vita a scene indescrivibili. Ci sono il ventunenne Iyad, che ha l’epilessia e anche un handicap mentale; le sorelle Anwar, 20 anni, e Isra, 17, entrambe incapaci di parlare e che emettono solo suoni incomprensibili, esattamente come il loro fratello morto.

Ora sono tutti sconvolti dal dolore per Mohammed, figlio e fratello, ucciso vicino al recinto del liceo femminile in King Faisal Street a Hebron. Tre soldati, nascosti dietro il tronco di un ulivo secolare, stavano tendendo un agguato ai lanciatori di pietre nel cortile della scuola; improvvisamente sono balzati fuori dal loro nascondiglio e hanno sparato a Mohammed. Suo padre dice che non era in grado di cogliere un pericolo in arrivo.

“Mohammed era un semplice. Non si sarebbe accorto, per esempio, del pericolo di soldati che sparavano.” dice il padre Zain, col cui nome è stato chiamato il nipote. Né conosceva la differenza tra una banconota da cinquanta shekel e una moneta da mezzo shekel, in questa casa poverissima. “Per lui tutto era mezzo shekel”, aggiunge Zain.

A Hebron tutti conoscevano Mohammed a causa del suo strano comportamento, ed era chiamato “Akha, Akha” – un’eco dei suoni privi di significato che emetteva. “Akha, Akha” era ciò che abitualmente gridava ai soldati israeliani, alcuni dei quali sapevano anche chi fosse. Spesso li scherniva ai checkpoint tra le due parti della città, urlando loro suoni gutturali, a volte anche tirando pietre.

Era già stato arrestato due volte, ma in entrambe le occasioni fu rapidamente trasferito alla custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese, che lo ha riportato a casa dai suoi genitori a causa delle sue condizioni. L’ultima volta è successo un anno e mezzo fa. È stato anche ferito tre volte da spari alle gambe mentre lanciava pietre, ma le ferite non erano gravi.

Quindi “Akha, Akha” ha continuato a provocare i soldati, come lo scorso venerdì, in quello che si rivelò essere l’ultimo giorno della sua vita. “Il governo israeliano e l’esercito sapevano esattamente chi era Mohammed. Dopo tutto, lo hanno arrestato e rilasciato” ci dice Zain, durante la nostra visita di questa settimana.

Ablaa, la madre, piange mentre suo marito racconta la storia. Hanno entrambi 51 anni. Zain lavora in un garage nel villaggio di Husan, i cui clienti provengono per la maggior parte dal grande insediamento ultra-ortodosso di Betar Ilit, nelle vicinanze. Mohammed faceva occasionalmente lavori saltuari come la pavimentazione stradale, per quanto consentito dalle sue disabilità. Dopo che Duah, sua moglie e madre del piccolo Zain, morì, si risposò, ma la sua seconda moglie, Amal, lo lasciò dopo un anno. Probabilmente trovava difficile vivere insieme al marito disabile in questa triste e affollata casa di tragedie.

Solo il padre e una delle sue sorelle, Asma, riuscivano a capire cosa c’era nel cuore di Mohammed e a decifrare le sue strane espressioni. Mohammed non sapeva nemmeno leggere o scrivere, e comunicare con lui era difficile.

Suo padre racconta che Mohammed era triste dopo che Amal lo aveva lasciato e aveva mandato degli intermediari alla sua famiglia, per convincerla a tornare; chiese anche a Zain di riportarla indietro, ma fu inutile. Ablaa ricorda che l’ultima sera della sua vita Mohammed era particolarmente triste. Andò a dormire prima del solito e si alzò più tardi del solito il giorno seguente. Era così preoccupata per lui che andò a controllarlo alcune volte durante la notte per assicurarsi che stesse ancora respirando, dice ora tra le lacrime.

Erano già passate le 10 venerdì quando Mohammed si è svegliato. Suo padre era da tempo andato al lavoro al garage; sua madre mandò Mohammed a comprare del pollo. Dopo di che è andato alla moschea per pregare, ma non è mai tornato. Ablaa ricorda che aveva preparato il maqluba, un piatto tradizionale a base di carne e riso; poiché era in ritardo per il pranzo, gli aveva tenuto la sua porzione sul tavolo.

“Era così sensibile”, dice ora. “Non sapevi mai dove fosse.”

Mohammed non era ancora tornato quando Zain tornò a casa dal lavoro, si lavò le mani e si sedette a mangiare. Un parente chiamò Asma per dire che Mohammed era stato ferito alle gambe. “Possa Dio avere pietà di lui”, esclamò il padre sentita la notizia, aggiungendo adesso che aveva già il sentore che la situazione fosse più seria. Lui e Ablaa andarono in fretta all’ospedale Alia di Hebron, mentre lui recitava sottovoce i versetti da pronunciare in caso di morte: “Possa Dio compensarci.” Sua moglie cercava di calmarlo. Adesso dice: “Possa Dio punire i soldati che hanno ucciso Mohammed!” e ricomincia a piangere.

Dozzine di residenti locali stavano già affollando il pronto soccorso quando sono arrivati all’ospedale. Zain dice di essere stato l’ultimo a conoscere la verità sulle condizioni di suo figlio.

Lasciata la macchina in mezzo alla strada, era corso dentro. I medici gli chiesero chi fosse e lui si identificò. In quel momento stavano ancora cercando di rianimare suo figlio. Zain dice di non aver mai visto una cosa simile: l’intero corpo di suo figlio era coperto di sangue, anche il viso. Anche il pavimento era intriso di sangue. Riusciva a malapena a identificare Mohammed e chiese ai dottori di dirgli la verità. Uno di loro disse: “Possa Dio compensarti”.

In seguito, ricorda Zain, i soldati dell’ esercito israeliano sono arrivati in ospedale per arrestare Mohammed. La famiglia in fretta e furia ha fatto uscire di nascosto il corpo su un’auto privata e l’ha trasportato nell’altro ospedale della città, Al-Ahli.

L’unità portavoce dell’esercito ha dichiarato, in risposta a una domanda di Haaretz: “Venerdì 9 marzo 2018 è scoppiato un violento disordine nella città di Hebron, con dozzine di partecipanti palestinesi che lanciavano pietre, macigni e bottiglie molotov alle forze dell’esercito.

“Da una prima indagine, sembra che durante l’evento, i soldati abbiano sparato a un dimostrante che ha sollevato una bottiglia Molotov da distanza ravvicinata con l’intenzione di colpirli. Il dimostrante fu ferito dagli spari e in seguito, all’ospedale, fu dichiarato morto. Si continua a investigare sulle circostanze dei fatti.

“Diversamente da quanto affermato [nell’articolo], in nessun momento le forze dell’esercito sono venute in ospedale in merito al corpo del defunto.”

In lutto, il fratello epilettico di Mohammed, Iyad, arriva nella stanza. Quanti anni hai? Iyad risponde “Ho 16 anni”, in realtà ne ha 21. Sembra sconvolto. “Ho perso Mohammed, ho perso Mohammed”, mormora in continuazione, e si siede. Qualche minuto dopo si alza, evidentemente agitato – molto agitato, anche se non minaccioso – finché il padre non riesce a calmarlo.

Dice Zain: “Quando vogliono uccidere qualcuno, non fanno differenza tra ricchi e poveri, sani e malati, normali e malati di mente. Avrebbero potuto arrestarlo, avrebbero potuto sparargli alle gambe, ma hanno deciso di colpirlo con quel proiettile.

Si capisce che Mohammed è stato colpito da una pallottola vera entrata nel petto sul lato destro e uscita dalla schiena sul lato sinistro. Zain dice di voler sporgere denuncia alle autorità militari per l’uccisione di suo figlio, ma teme di veder confiscare i permessi di lavoro israeliani ad alcuni membri della famiglia.

Siamo quindi andati sul luogo dell’uccisione. Alcune ragazze vagano nel campo di basket della scuola. Bisogna ricordare che questa parte di Hebron non è controllata da Israele. I soldati hanno invaso il sito, come al solito, all’inseguimento di persone che lanciavano pietre dal tetto di una casa sul vicino posto di blocco.

L’insediamento di Tel Rumeida si staglia sulla collina di fronte. King Faisal Street, via principale e rumorosa. Secondo Musa Abu Hashhash, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha indagato sull’incidente, erano solo Mohammed e altri tre o quattro giovani a fronteggiare i soldati in quel fatidico giorno, non di più.

Si vede un foro di proiettile sul cancello di ferro grigio argento della scuola femminile. Sulla strada c’è una macchia di sangue, ora secca.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 27febbraio- 12 marzo ( due settimane)

Nell’area di Nablus, durante scontri seguiti a cinque episodi di infiltrazione di coloni israeliani armati all’interno di comunità palestinesi, un palestinese è stato ucciso e altri 50 sono stati feriti dalle forze israeliane.

Quattro degli episodi si sono verificati attorno agli insediamenti colonici di Yitzhar e Bracha. Da lunga data questi insediamenti sono fonte di vessazioni e violenze sistematiche nei confronti dei palestinesi residenti nei sei villaggi circostanti. L’uccisione del palestinese ventiduenne [di cui sopra] ed il ferimento, con arma da fuoco, di un quindicenne sono stati registrati entrambi il 10 marzo, nel villaggio di ‘Urif (Nablus). Su questo episodio le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Nei giorni precedenti, in Burin ed Einabus, ed anche in ‘Urif, si erano già verificati scontri simili che avevano causato il ferimento di 44 palestinesi. I restanti quattro feriti sono stati registrati nella città di Nablus, durante scontri seguiti all’ingresso di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, in visita ad un sito religioso (la Tomba di Giuseppe).

Nei Territori palestinesi occupati, ulteriori scontri tra palestinesi e forze israeliane hanno portato all’uccisione di un palestinese e al ferimento di altre 478 persone, tra cui 219 minori. La vittima, un 24enne sordo, è stato ucciso il 12 marzo, nella città di Hebron, durante una manifestazione. Secondo l’esercito israeliano, gli spari che hanno provocato l’uccisione erano in risposta al lancio di bottiglia incendiaria. Testimoni oculari palestinesi hanno dichiarato che, quando gli hanno sparato, l’uomo non era coinvolto negli scontri. Cinquanta dei ferimenti di questo periodo si sono verificati in scontri vicino alla recinzione perimetrale di Gaza, i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi hanno avuto luogo durante le dimostrazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni all’accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh e Al Mazra’a al Qibliya (entrambi a Ramallah); altre durante le manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme quale capitale d’Israele, le più vaste delle quali si sono verificate in Al Bireh / DCO (Ramallah), nella città di Hebron e al checkpoint di Huwwara (Nablus); altre ancora nel corso di una protesta contro un’operazione militare condotta dalle forze israeliane nell’università di Birzeit (Ramallah). Ulteriori scontri, che non hanno provocato feriti, si sono verificati nella scuola di Lubban ash Sharqiya (Nablus), dopo che le forze israeliane hanno impedito agli studenti di entrare nella loro scuola, secondo quanto riferito, come punizione per aver lanciato pietre contro veicoli israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 457 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 243 palestinesi, compresi 21 minori. La maggior parte degli arresti (60, di cui 12 minori), si sono avuti nel governatorato di Gerusalemme, mentre nel governatorato di Ramallah è stato registrato il maggior numero di operazioni (84), compresa l’operazione nell’università di Birzeit (Ramallah), citata al paragrafo precedente.

In Cisgiordania, oltre alle incursioni riportate sopra, in dieci episodi di violenza ad opera di coloni, otto palestinesi sono stati feriti direttamente da coloni e proprietà palestinesi sono state vandalizzate oppure rubate. Tre di questi casi si sono verificati attorno ai già menzionati insediamenti di Yitzhar e Bracha a Nablus: l’aggressione fisica di tre contadini e il danneggiamento di un veicolo a Einabus; la vandalizzazione di 115 ulivi a Madama; il furto di un asino a Burin. Altri tre episodi di lancio di pietre contro veicoli palestinesi hanno provocato il ferimento di tre studenti che viaggiavano su uno scuolabus vicino a Salfit e danni a due veicoli. In tre diverse occasioni, coloni israeliani, secondo quanto riferito, provenienti dall’avamposto [= insediamento colonico non autorizzato da Israele] di Havat Ma’on, hanno danneggiato 18 alberi di proprietà palestinese nei pressi del villaggio di At Tuwani (Hebron). Dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi di coloni, con vittime palestinesi o danni alle proprietà, è aumentata del 50%, rispetto al 2017 e del 67% rispetto al 2016.

Il 4 marzo, ad est di Khan Younis, vicino alla recinzione perimetrale che circonda Gaza, nel contesto della persistente imposizione, da parte di Israele, delle restrizioni di accesso alle ARA [cioè le zone che Israele ha stabilito come “Aree ad Accesso Riservato”], un agricoltore palestinese di 59 anni, al lavoro sulla propria terra, è stato ucciso dalle forze israeliane. Secondo un gruppo per la difesa dei diritti umani, il contadino si trovava a circa 200 metri dalla recinzione [all’interno di essa]. In almeno altre 31 occasioni, nelle zone lungo la recinzione e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso contadini e pescatori, senza provocare feriti. Dall’inizio del 2018, in “Aree ad Accesso Riservato”, di terra o di mare, sono stati segnalati almeno 142 episodi di spari verso contadini o pescatori palestinesi, che hanno provocato 2 morti e 11 feriti. In un caso, undici pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e a nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane, dove sono stati arrestati; le loro barche e le reti da pesca sono state sequestrate. All’interno della Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, in cinque occasioni, le forze israeliane [sono entrate ed] hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo. Agricoltori palestinesi hanno riferito che, il 4 marzo, vicino alla recinzione nel nord di Gaza, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli.

Il 10 marzo, a Beit Lahiya (Gaza Nord), un palestinese è morto ed altri due sono rimasti feriti (tutti membri di un gruppo armato) dall’esplosione, nel sito del lancio, di un razzo che gruppi armati palestinesi di Gaza stavano tentando di sparare verso il sud di Israele.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato otto strutture di proprietà palestinese: non ci sono stati sfollamenti, ma sono stati colpiti i mezzi di sostentamento di circa 50 persone. Tutti gli episodi si sono verificati a causa della mancanza di permessi di costruzione. Quattro delle strutture colpite erano a Gerusalemme Est (Silwan, Beit Hanina e Al ‘Isawiya) e le altre quattro nell’Area C, ad Al’ Auja (Jericho) e Hizma (Gerusalemme).

Nell’area H2 di Hebron, controllata da Israele, a conclusione di una lunga controversia, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha ordinato l’evacuazione di alcune parti di un edificio di proprietà palestinese (Abu Rajab), che, nel luglio 2017, erano state occupate da coloni israeliani. Altre parti dell’edificio erano già state occupate da coloni nel 2012 e nel 2013. Nella città di Hebron, le politiche e le pratiche attuate dalle autorità israeliane e giustificate da ragioni di sicurezza, hanno portato al trasferimento forzato di palestinesi dalle loro case, riducendo una zona fiorente ad una “città fantasma”.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, sono stati segnalati almeno otto episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, da parte palestinese, contro veicoli israeliani: un israeliano è stato ferito e sette veicoli sono stati danneggiati. Gli episodi si sono verificati su strade vicino ad Al Khadr e Husan (entrambi a Betlemme), vicino al Campo profughi di Tuqu’ e Al ‘Arrub (entrambi in Hebron) e vicino a Gerico. Inoltre, a Gerusalemme Est, nella zona di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto solo per un giorno in una direzione, consentendo a 22 palestinesi di entrare a Gaza. Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per 7 giorni; quattro giorni in entrambe le direzioni e tre giorni in una direzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA del periodo 30 gennaio – 12 febbraio 2018 ( due settimane)

Il 30 gennaio, nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante un episodio di lancio di pietre, un ragazzo palestinese di 16 anni è stato ucciso dalle forze israeliane.

Il ragazzo è stato colpito al collo con arma da fuoco, secondo quanto riferito, dopo aver lanciato pietre contro due veicoli militari israeliani che attraversavano il villaggio. Secondo testimoni oculari e fonti della comunità locale, in quel momento nel villaggio non erano in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine da parte della polizia militare. Dall’inizio del 2018, questo è il quarto ragazzo palestinese ucciso nei territori occupati in episodi di lancio di pietre; gli altri minori sono stati uccisi in Iraq Burin (Nablus), Deir Nidham (Ramallah) e nel Campo profughi di Al Bureij (Deir Al-Balah).

Un colono israeliano e un palestinese sono stati uccisi in due distinte aggressioni con coltello. Un colono israeliano di 29 anni è stato accoltellato e ucciso al raccordo stradale di Ariel (Salfit); l’aggressore è fuggito. A quanto riferito, si tratta di un palestinese 19enne, cittadino di Israele. Il 7 febbraio, un giovane palestinese di 18 anni ha ferito con coltello una guardia di sicurezza dell’insediamento di Kermei Tsur (Hebron) e successivamente è stato ucciso da un’altra guardia; il suo corpo è stato trattenuto dalle forze israeliane. Il 12 febbraio, due soldati israeliani sono entrati inavvertitamente nella città di Jenin dove sono stati circondati da un folto gruppo di palestinesi; prima di essere soccorsi da poliziotti palestinesi sono stati bersagliati e feriti con lanci di pietre.

Tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane durante tre distinte operazioni di ricerca-arresto. Due di queste ricerche sono state effettuate il 3 ed il 6 febbraio nei villaggi di Birqin e Yamoun (entrambi a Jenin) e, a quanto riferito, erano finalizzate all’arresto dei presunti responsabili dell’attacco con armi da fuoco che, il 9 gennaio, ha provocato la morte di un colono israeliano. Sempre a quanto riferito, l’uomo ucciso a Yamoun era armato e, secondo le autorità israeliane, è risultato coinvolto nell’attacco del 9 gennaio. Un altro uomo, accusato del coinvolgimento nello stesso attacco, è stato ucciso dalle forze israeliane il 18 gennaio, durante un’operazione di ricerca. La terza uccisione registrata durante questo periodo (un giovane di 19 anni) è avvenuta il 6 febbraio, durante scontri con le forze israeliane scoppiati nella città di Nablus, nel corso di un’operazione di ricerca finalizzata all’arresto del presunto colpevole dell’aggressione con coltello avvenuta all’incrocio di Ariel (vedi sopra).

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 211 operazioni di ricerca-arresto di cui almeno sette hanno innescato scontri e conseguenti ferimenti (vedi sotto). Durante queste operazioni sono stati arrestati, in totale, 330 palestinesi, tra cui almeno 51 minori. A Gerusalemme Est, i residenti hanno tenuto dimostrazioni e recitato le preghiere del venerdì all’ingresso del quartiere di Al ‘Isawiya, come protesta per le ricorrenti operazioni di ricerca-arresto da parte delle forze israeliane.

Nei Territori palestinesi occupati, nel corso di scontri, le forze israeliane hanno complessivamente ferito 464 palestinesi, tra cui 92 minori. 365 di questi ferimenti (78%) sono stati registrati durante manifestazioni contro il riconoscimento da parte degli Stati Uniti (6 dicembre 2017) di Gerusalemme quale capitale di Israele. 85 delle lesioni totali sono state segnalate vicino alla recinzione perimetrale di Gaza e le rimanenti in Cisgiordania: il maggior numero nella città di Al Bireh vicino al DCO [District Coordination Office] di Beit El e, a seguire, al checkpoint di Huwwara (Nablus) e nelle vicinanze dell’ingresso nord della città di Qalqiliya. La maggior parte degli altri ferimenti (147) sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto: nella città di Nablus (l’operazione più vasta, in cui è stato ucciso un palestinese di 19 anni – vedi sopra), nel villaggio di Beita (Nablus) e nei villaggi di Birqa e di Al Yamun (entrambi a Jenin). Analogamente al precedente periodo di riferimento, più della metà delle lesioni (245, pari al 53%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeno necessitanti cure mediche, seguite da ferite da proiettili di gomma (122, pari al 26%).

Il 7 febbraio, nell’area H2 della città di Hebron controllata dagli israeliani, 58 minori in età scolare e due insegnanti hanno subito lesioni a causa dell’inalazione di gas lacrimogeno: in cinque scuole le lezioni sono state interrotte. Secondo fonti israeliane, le forze israeliane hanno lanciato bombolette di lacrimogeni in risposta al lancio di pietre, da parte di minori, contro veicoli di coloni israeliani. Nelle cinque scuole le lezioni sono state sospese per il resto della giornata, coinvolgendo oltre 1.200 studenti. Sempre nell’area H2, nel corso di alterchi verificatisi in diversi checkpoint, tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani, mentre un ragazzo palestinese di 15 anni che stava tornando a casa è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani.

Il 5 febbraio, le forze israeliane hanno svolto esercitazioni di addestramento militare nella parte settentrionale della Valle del Giordano, in prossimità della Comunità pastorale di Al Farisiya Ihmayyer, danneggiando circa 7 mila mq di terra coltivata e determinando la necessità di ricovero in ospedale di un bambino di quattro mesi. La Comunità si trova in un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” ed è considerata ad alto rischio di trasferimento forzato. Le “zone per esercitazioni a fuoco” coprono quasi il 30% dell’Area C e ospitano circa 6.200 persone in 38 comunità che vivono situazioni di elevato bisogno umanitario.

In tre diverse occasioni, gruppi armati palestinesi di Gaza hanno lanciato verso il sud di Israele tre razzi, tutti caduti, a quanto riferito, in aree non abitate di Israele. Questi lanci sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani, che hanno provocato danni ad un sito militare di un gruppo armato palestinese, ma anche a cinque appartamenti di un vicino edificio residenziale.

In Gaza, in almeno 46 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa: due pescatori sono stati colpiti da proiettili rivestiti di gomma e arrestati; successivamente sono stati rilasciati. Inoltre, quattro minori palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione. In un caso, nelle vicinanze della recinzione perimetrale di Khan Yunis, le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

In area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 25 strutture, tra cui una scuola finanziata da donatori. L’esecuzione di tali provvedimenti ha causato lo sfollamento di 33 palestinesi, tra cui 18 minori, mentre altri 135 ne sono stati diversamente colpiti. Il 4 febbraio, nella Comunità di beduini e rifugiati di Abu Nuwar (in zona C, alla periferia di Gerusalemme), sono state demolite due aule scolastiche che ospitavano 26 alunni palestinesi di 3a e 4a elementare. Questa è una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale che subisce un contesto coercitivo (compresi i progetti di ricollocazione da parte delle autorità israeliane) ed è a rischio di trasferimento forzato. Si stima che almeno 44 scuole (36 nella zona C e 8 a Gerusalemme Est) siano in attesa di ordini di demolizione o di blocco-lavori. Delle altre strutture prese di mira durante il periodo di riferimento, 15 erano a Gerusalemme Est (Silwan, Beit Hanina e Al ‘Isawiya) e nove nell’Area C, compresa la Comunità di pastori di Um al Jmal (Tubas) e in Wadi Qana (Salfit ).

Un palestinese è stato ferito e sono stati segnalati danni alle proprietà in distinti episodi che hanno coinvolto coloni israeliani o che si sono verificati in prossimità di insediamenti israeliani. Nelle vicinanze di Qabalan (Nablus), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese. Nell’area di Silwan, a Gerusalemme Est, e vicino a Khirbet Zakariya (Betlemme), otto veicoli palestinesi sono stati vandalizzati da coloni. In tre diversi episodi, secondo fonti locali, circa 246 alberi di proprietà palestinese, su terreni appartenenti a palestinesi dei villagi di Bitillu (Ramallah), Yasuf (Salfit) e Burin (Ramallah) sono stati vandalizzati da coloni israeliani provenienti, secondo quanto riferito, dagli insediamenti di Nahliel, Rechalim, Yitzhar. Inoltre, in tre diversi episodi, 12 palestinesi, tra cui un minore, sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane intervenute a seguito di risse tra palestinesi e coloni israeliani. Questi episodi si sono verificati dopo l’ingresso di coloni in terreno privato nel villaggio Madama (Nablus), e in seguito a risse presso Abu Dis (Gerusalemme) e vicino all’insediamento colonico di Kokhav Ya’kov a Gerusalemme.

Secondo resoconti di media israeliani, sono stati segnalati almeno 14 episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: feriti tre coloni israeliani, inclusa una donna, e danni a cinque veicoli privati. Gli episodi si sono verificati sulle strade vicine ai villaggi di Tuqu’a (Betlemme), Beit ‘Ur at Tahta e Ni’lin (Ramallah), nella città di Abu Dis e nel villaggio di Hizma (Gerusalemme). Dal 1 febbraio, l’esercito israeliano ha chiuso l’ingresso principale del villaggio di Hizma, affermando che ciò veniva attuato in risposta al lancio di pietre [ad opera di palestinesi] contro veicoli di coloni israeliani transitanti sulla strada 437. La chiusura ha condizionato direttamente gli spostamenti di circa 7.000 palestinesi che vivono nel villaggio.

Nel periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto, per tre giorni, in entrambe le direzioni, consentendo l’attraversamento a 1.894 persone (890 in uscita, 1.004 in entrata). Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La sorgente del conflitto

Ben Ehrenreich, The Way to the Spring: Life and Death in Palestine, Penguin Press, 2016.

Amedeo Rossi

Sono ottimista perché persino nella loro disperazione, senza nessun motivo di speranza, le persone continuano a resistere. Non posso pensare a molte altre ragioni per essere orgoglioso come essere umano, ma questa è sufficiente.”

 Così Ben Ehrenreich, figlio della famosa sociologa americana Barbara Ehrenreich e a cui il libro è dedicato, conclude il prologo a questo libro, che raccoglie le sue esperienze nei molteplici viaggi in Palestina dal 2011 al 2014 per alcune riviste statunitensi. Nei suoi racconti in effetti i motivi di speranza sono pochi, tante sono le ingiustizie ed i soprusi a cui ha assistito e che racconta. E sono molte le persone, i luoghi, le vicende, tanto che l’autore ha inserito all’inizio del volume un elenco di “personaggi ed interpreti” e una loro sintetica scheda per ognuno dei principali luoghi visitati, anche più volte nel corso degli anni. Per ragioni di spazio mi limiterò a citare solo quelli più presenti.

La sorgente del titolo è sia una vera e propria fonte d’acqua che una metafora della situazione nei territori palestinesi occupati. Si tratta di Ein al-Qaws, una fonte del villaggio palestinese di Nabi Saleh, di cui si è impossessata una colonia israeliana dei dintorni. Ma il riferimento alla sorgente del titolo è anche un richiamo più generale all’occupazione israeliana dei territori palestinesi ed alla conseguente appropriazione di terre e risorse.

Proprio le vicende di Nabi Saleh e della famiglia Tamimi, che l’ha spesso ospitato, occupano una parte rilevante del libro. Tutti i venerdì ci sono manifestazioni di protesta degli abitanti del villaggio, che si dirigono verso la sorgente, finché non vengono respinti dai soldati israeliani. Gli scontri hanno spesso avuto esiti drammatici, con vari morti, molti feriti, molti arresti.

La famiglia Tamimi è tra le più attive nella resistenza non armata. Alla fine del 2017 è divenuta suo malgrado ancora più famosa a causa dell’incarcerazione, insieme alla madre e ad una cugina, di una delle figlie, la sedicenne Ahed, per aver schiaffeggiato due soldati dopo che suo cugino era stato gravemente ferito alla testa da un proiettile di gomma. Ahed rischia una condanna a 10 anni. A proposito del protagonismo dei minorenni, Ehrenreich racconta che, quando qualche straniero chiede conto agli abitanti del villaggio della presenza dei figli alle manifestazioni, la risposta degli adulti è tragicamente realistica: L’esperienza ha dimostrato che non ci sono luoghi sicuri in cui nascondere i figli, e partecipando alle manifestazioni i bambini hanno imparato a superare la loro paura e a vedere se stessi come qualcosa di diverso da vittime passive.

La famiglia Tamimi è spesso presente nel libro sia per il rapporto di amicizia che si è instaurato con l’autore, sia per il protagonismo della resistenza popolare di Nabi Saleh contro l’occupazione e i molti episodi drammatici che l’hanno segnata. Ma ci sono anche le descrizioni della tragica situazione di Hebron, che l’autore presenta con una lista di cose che i palestinesi del luogo considerano normali, tra cui: “Venire presi di mira da armi da fuoco, da lanci di pietre e di bottiglie molotov contro la propria casa; soldati che sparano lacrimogeni contro gli scolari per segnare l’inizio e la fine delle lezioni; essere arrestati, interrogati per ore e rilasciati senza imputazioni né scuse; avere un soldato con un fucile automatico piazzato tutto il tempo proprio dietro o davanti a casa; ecc.” La presenza di qualche centinaio di coloni fondamentalisti nazional-religiosi che hanno occupato alcune case nel centro storico della città condiziona la vita dei 200.000 abitanti palestinesi anche nei minimi dettagli della vita quotidiana. L’autore vi incontra un altro dei dirigenti più noti della resistenza popolare all’occupazione, Issa Amro, il leader dello YAS (Giovani contro l’Occupazione), e si trova ad affrontare insieme a questo gruppo di palestinesi le provocazioni dei coloni e la repressione dei soldati.Altrettanto difficile è la vita dei beduini di Umm al-Kheir, un villaggio più volte distrutto e sempre tenacemente ricostruito dai pastori che vi abitano, accampati in tende e costruzioni precarie, sempre minacciati dagli interventi dell’esercito e dagli abitanti della colonia di Carmel che vogliono impossessarsi delle loro terre. Due di questi hanno presentato una richiesta di danni (più di 20.000 €!!) e di demolizione contro il rudimentale forno utilizzato dai beduini per cuocere il pane, sostenendo che il suo fumo danneggia la loro salute e quella dei loro figli: “Lo chiamiamo il forno di Chernobyl”, racconta uno dei palestinesi a Ehrenreich, che commenta: “Principalmente il fumo del forno puzzava di altre persone, altri che i coloni non potevano capire e neanche lo volevano, e che semplicemente si rifiutavano – cocciutamente e con una testardaggine che doveva risultare esasperante – di morire o di andarsene.” Un’altra vicenda emblematica che evidenzia l’approccio che i coloni, e gli ebrei israeliani in generale, hanno nei confronti della presenza dei palestinesi.

Quando Ehrenreich dopo qualche tempo è tornato nel villaggio, sempre più misero, l’esercito israeliano aveva distrutto per tre volte il forno e gli abitanti l’avevano sempre ricostruito. Camminando con il giornalista, Eid, uno dei beduini, “ha detto qualcosa a proposito dell’importanza di non perdere la speranza. Gli ho chiesto come farlo. ‘Abbiamo solo quest’unica vita’ ha detto Eid. “Ed è sacra [] non dobbiamo sprecarla.” Una riflessione che segna ancor più la distanza dai coloni, che dedicano la propria vita a rendere invivibile quella degli altri. Al contempo questa riflessione ben rappresenta un’altra forma di resistenza dei palestinesi, il sumud, la sopportazione e la resistenza passiva, perché non andarsene nonostante tutto è la principale forma di protesta contro la pulizia etnica che è il principale obiettivo dell’occupazione.

Insieme agli avvenimenti a cui ha assistito personalmente, l’autore cita il contesto politico e diplomatico in cui essi si inseriscono: i viaggi del segretario di Stato John Kerry e i tentativi falliti di riannodare i cosiddetti “colloqui di pace, le vicende della politica interna israeliana e di quella palestinese, la situazione in Medio Oriente.

Non mancano i riferimenti critici nei confronti dei dirigenti palestinesi, di Hamas e soprattutto dell’ANP. È particolarmente significativo il capitolo dedicato a Rawabi, una città di cinquemila appartamenti e con i relativi servizi in via di costruzione nei pressi di Ramallah. Bassem Tamini la descrive come “Una nuova città palestinese. Come una colonia.” Ma, spiega Ehrenreich, la parentela non è solo estetica. La mega-speculazione edilizia, destinata ad ospitare la nuova classe media fiorita all’ombra dell’ANP, coinvolge l’ex-primo ministro palestinese Fayyad, un tecnocrate molto amato a Washington, una società finanziaria pubblica, AMAL, come garante degli investimenti, una società privata statunitense nel cui consiglio di amministrazione siedono molti ex-politici di amministrazioni sia repubblicane che democratiche, il governo del Qatar e personalità israeliane legate all’esercito e all’occupazione. L’autore spiega: “Quando inizi a mettere insieme le varie istituzioni coinvolte in Rawabi, o con qualunque altro importante progetto di sviluppo in Cisgiordania, cominciano a saltar fuori gli stessi gruppi o individui, la seducente opacità di società tra presunti nemici.

Al di là delle esperienze di vita raccontate, questo libro è ricco di spunti e suscita nel lettore indignazione, ma anche molte riflessioni su come e perché tutto ciò sia possibile senza che la comunità internazionale intervenga. In ex ergo al prologo l’autore cita una frase dello scrittore ed intellettuale libanese Elias Khoury: “Sono spaventato da una storia che ha un’unica versione. La storia ha decine di versioni, e perciò cristallizzarla in una sola non può che portare alla morte.” Le vicende che Ehrenreich racconta sono molte e diverse tra loro, alcune seguite dall’autore nel corso degli anni. Ma la visione complessiva che se ne ricava non può che essere una durissima critica delle politiche israeliane di occupazione e di colonizzazione. La “storia con un’unica versione” è quella continuamente ripetuta dalla propaganda israeliana e dai mezzi di comunicazione che se ne fanno portavoce. Una narrazione che questo libro contribuisce a smentire.




Cosa è successo quando una colona ebrea ha schiaffeggiato un soldato israeliano.

Noa Osterreicher

Haaretz, 4 gennaio 2018

Sia Ahed Tamimi che Yifat Alkobi sono state sottoposte a interrogatorio per aver schiaffeggiato un soldato in Cisgiordania, ma non ci sono altre somiglianze tra i due casi, semplicemente perché una è ebrea e l’altra palestinese.

Questo schiaffo non ha aperto i notiziari della sera. Questo schiaffo, che è finito sulla faccia di un soldato delle unità Nahal a Hebron, non ha portato ad una condanna. Il soldato schiaffeggiato stava cercando di impedire il lancio di sassi da parte dell’assalitrice, che è stata fermata e interrogata, ma è stata rilasciata su cauzione il giorno stesso ed è potuta tornare a casa.

Prima di questo incidente, la ragazza era stata condannata cinque volte –per lancio di sassi, per aggressione a un poliziotto e per disturbo della quiete pubblica– ma non è stata in prigione nemmeno una volta.

In un caso era stata condannata a un periodo di prova, e negli altri casi a un mese di servizi socialmente utili oltre a una simbolica multa di risarcimento per le parti offese. L’accusata aveva sistematicamente ignorato gli ordini di comparizione per interrogatori o per altre procedure legali, ma i soldati non erano andati a tirarla giù dal letto nel mezzo della notte e nessuno dei suoi familiari era stato arrestato. A parte un breve reportage del 2 luglio 2010 di Chaim Levinson sull’incidente, non c’erano state altre conseguenze allo schiaffo e ai graffi inflitti da Yifat Alkobi sulla faccia del soldato che l’aveva colta nell’atto di tirare pietre ai Palestinesi.

Il portavoce delle Forze Armate israeliane disse all’epoca che l’esercito “valuta con severità ogni atto di violenza contro le forze di sicurezza,” ma la schiaffeggiatrice era tornata a vivere in pace a casa sua. Il ministro dell’istruzione non aveva chiesto che fosse messa in prigione, i social media non si erano riempiti di appelli affinché fosse violentata o uccisa, e l’editorialista Ben Caspit non aveva raccomandato che fosse punita con le maggiori pene previste “in un posto buio, lontano dalle telecamere.”

Come Ahed Tamimi, anche Alkobi era nota da anni alle forze dell’esercito e della polizia del suo quartiere; tutt’e due sono considerate un fastidio o addirittura un pericolo. Ma la differenza tra di loro sta nel fatto che Tamimi ha aggredito un soldato che era stato mandato da un governo ostile che non riconosce la sua esistenza, ruba la sua terra, uccide e ferisce i suoi familiari, mentre Alkobi, una criminale abituale, ha aggredito un soldato del suo popolo e della sua religione, che era stato mandato dal suo Stato per proteggerla, uno Stato di cui lei è una cittadina che gode di speciali privilegi.

La violenza degli Ebrei contro i soldati è ormai da anni una cosa di routine nei territori occupati. Ma anche se sembra inutile chiedere ai soldati dei territori di proteggere i Palestinesi dalle violenze fisiche e dagli atti di vandalismo fatti dai coloni sulle loro proprietà, è difficile capire perché le autorità continuino a chiudere gli occhi, a coprire o chiudere il caso (o magari nemmeno ad aprirlo) quando le violenze vengono dagli Ebrei. Ci sono innumerevoli prove, alcune documentate fotograficamente. Eppure i responsabili dormono tranquilli nei loro letti, imbaldanziti dalla volontà divina e largamente finanziati da organizzazioni che ricevono contributi dallo Stato.

È piacevole, d’inverno, sentirsi comodi e al caldo sotto questi doppi standard, ma c’è una domanda che ogni Israeliano dovrebbe farsi: Tamimi e Alkobi hanno commesso lo stesso reato. La punizione (o la mancanza di punizione) dovrebbe essere la stessa. Se la scelta fosse tra liberare Tamimi o imprigionare Alkobi, cosa scegliereste? Tamimi deve restare in carcere per tutta la durata del procedimento –processo in una corte militare ostile– ed è probabile che riceva una pena detentiva. Alkobi, che non è stata processata per questo reato ma ha avuto processi in tribunali civili per reati molto più gravi, è stata a casa sua per tutta la durata dei procedimenti. È stata assistita da un avvocato che non doveva far la fila a un checkpoint per assistere la sua cliente, e la sua unica punizione sono stati lavori socialmente utili.

I ministri del Likud e della Casa Ebraica non hanno alcun motivo per accelerare l’approvazione di una legge che imponga l’applicazione della legge israeliana nei territori occupati. Anche senza la legge, l’unica cosa che conta è se sei nato ebreo. Tutto il resto è irrilevante.

Traduzione di Donato Cioli




Rapporto OCHA del periodo 7 – 20 novembre 2017 (due settimane)

Il 17 novembre, in due episodi distinti ma consecutivi, prima all’incrocio Efrata e poi al raccordo stradale di Gush Etzion (Betlemme), un 17enne palestinese ha guidato il suo veicolo contro coloni israeliani, ferendone due; successivamente è stato colpito e gravemente ferito dai soldati israeliani.

In quest’ultima circostanza, prima di essere colpito, il giovane era uscito dall’auto e aveva tentato di accoltellare un soldato. Da ottobre 2015, presso il raccordo di Gush Etzion, si sono verificati 20 aggressioni e presunte aggressioni palestinesi che hanno causato l’uccisione di 4 israeliani e 12 palestinesi (questi ultimi, eccetto uno, tutti aggressori o presunti aggressori).

In Cisgiordania, durante scontri, 21 palestinesi, dieci dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; in sei casi si è trattato di ferite da arma da fuoco. Gli scontri più ampi sono scoppiati durante operazioni di ricerca-arresto svolte nei villaggi di Tuqu’ (Betlemme), Deir Nidham (Ramallah), Fahma (Jenin) e Azzun (Qalqiliya); durante scontri avvenuti per gli stessi motivi nel Campo Profughi di Al Jalazun (Ramallah); durante la dimostrazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed, infine, vicino ad uno degli ingressi all’area H2 (Bab az Zawiya) della città di Hebron, a controllo israeliano.

Nella zona H2 della città di Hebron, il 9 novembre, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni nel cortile di un complesso scolastico, provocando lesioni a cinque minori. Secondo fonti israeliane, il lancio di lacrimogeni è stato conseguente al lancio di pietre, effettuato dall’interno del complesso, contro veicoli di coloni israeliani. Sono stati arrestati anche due insegnanti e, per il resto della giornata, le lezioni sono state sospese per oltre 1.200 studenti. Inoltre, un 13enne palestinese, mentre tornava a casa nella zona H2, è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani. Infine, in tre casi, presso checkpoint della zona H2, tre palestinesi, tra cui un 17enne e una donna, sono stati arrestati perché in possesso di coltelli. Negli ultimi due anni, nella città di Hebron, migliaia di palestinesi che risiedono vicino agli insediamenti colonici israeliani sono stati soggetti ad intensificate restrizioni della mobilità e ad un contesto sempre più coercitivo che prefigura il rischio di trasferimenti forzati.

Per far osservare le restrizioni di accesso alle aree [interne della Striscia di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale ed alle zone di pesca della costa [della Striscia di Gaza], in almeno 27 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori; un pescatore è rimasto ferito. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate in Gaza, vicino a Beit Lahiya e Jabalia (nella parte nord di Gaza), ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale.

A scopo punitivo, le autorità israeliane hanno demolito un appartamento (danneggiandone altri due) in un edificio a Beit Surik (Ramallah) ed hanno sigillato l’ampliamento di una casa a Yatta (Hebron); 11 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati sfollati. L’appartamento apparteneva al responsabile di un attentato (settembre 2017) nel quale furono uccisi tre membri delle forze di sicurezza israeliane e lo stesso aggressore. L’ampliamento sigillato apparteneva all’autore di un attacco in cui furono uccisi quattro israeliani (giugno 2016). Dall’inizio del 2017, otto abitazioni sono state demolite o sigillate a scopo “punitivo”, provocando lo sfollamento di 44 palestinesi.

Per mancanza di permessi di costruzione, altre 17 strutture sono state demolite o sequestrate nell’Area C e a Gerusalemme Est, sfollando 49 palestinesi, tra cui 25 minori, e colpendone altri 81. Undici delle strutture prese di mira (tutte non abitative, tranne una) erano in Gerusalemme Est. Tre di queste sono state demolite dai proprietari per evitare multe. Le restanti sei strutture si trovavano in tre comunità parzialmente o totalmente situate in Area C, tra cui i villaggi Ni’lin (Ramallah), Al Jiftlik ash Shuneh e Frush Beit Dajan: questi due ultimi si trovano nella Valle del Giordano.

L’esercito israeliano ha emesso ordinanze militari che circoscrivono le aree in cui vivono tre comunità pastorali palestinesi; su tali aree ha imposto la “rimozione di tutte le proprietà”. Le comunità colpite sono: Ein al Hilwe e Um al Jmal, nel nord della Valle del Giordano, e Jabal al Baba, nel governatorato di Gerusalemme. Quest’ultima si trova nella zona inclusa nel piano di insediamento E1, progettato per collegare [l’insediamento colonico di] Ma’ale Adumim a Gerusalemme. Come conseguenza degli ordini di cui sopra, un totale di 520 strutture, tra cui 130 precedentemente fornite come aiuto umanitario, sono a rischio di distruzione o di sequestro e 419 persone, metà circa delle quali minori, sono ad elevato rischio di trasferimento forzato.

Il 10 novembre, e fino alla fine del periodo di riferimento di questo Rapporto, l’esercito israeliano ha bloccato tre delle quattro strade sterrate che collegano 12 comunità della parte meridionale di Hebron (Massafer Yatta) al resto della Cisgiordania. Di conseguenza è stato sconvolto l’accesso ai servizi e ai mezzi di sostentamento di circa 1.400 palestinesi, costretti a lunghe deviazioni. Questa zona è stata destinata [da Israele] all’addestramento militare e designata come “zona per esercitazioni a fuoco”, mettendo i residenti a rischio di trasferimento forzato.

Nel contesto della raccolta delle olive (ancora in corso), sono stati registrati tre episodi che hanno avuto coloni come protagonisti. In uno di questi, un gruppo di coloni israeliani ha attaccato contadini del villaggio di Urif (Nablus), ferendone due, colpiti alla testa con pietre. Gli agricoltori, che avevano ricevuto dalle autorità israeliane un’autorizzazione speciale, stavano raccogliendo le loro olive vicino all’insediamento di Yitzhar; dopo questo episodio, altre 40 famiglie che lavoravano nella zona hanno ricevuto l’ordine di andarsene. Negli altri due episodi, è stato riferito che coloni hanno raccolto le olive di alberi appartenenti ad agricoltori di Burin, anch’essi vicino a Yitzhar, ed hanno rubato un asino appartenente a contadini del villaggio di Jit (Qalqiliya). Sono stati segnalati ulteriori episodi di lancio di pietre da parte di coloni contro agricoltori palestinesi.

Gruppi di coloni israeliani sono entrati, sotto la protezione delle forze israeliane, in siti religiosi che si trovano in aree palestinesi, scatenando scontri che si sono conclusi senza feriti. I siti interessati includevano il complesso Haram ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est ed altri due siti: nell’area H1 della città di Hebron e nel villaggio di Halhul (Hebron).

Secondo resoconti di media israeliani, nella Città Vecchia di Gerusalemme e su strade vicino a Sinjil e Deir Nidham (entrambi in Ramallah), Tuqu’ (Betlemme) e il Campo Profughi di Al ‘Arrub (Hebron) tre coloni israeliani, tra cui una donna, sono rimasti feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati, a causa del lancio di pietre da parte di palestinesi.

Nella Striscia di Gaza, il valico di Rafah, sul lato controllato dall’Egitto, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (18-20 novembre) per casi umanitari urgenti, consentendo a 3.837 persone di attraversare in entrambe le direzioni. Questa è la prima volta, dal giugno 2007, che il lato del valico di pertinenza della Striscia di Gaza viene gestito da personale dell’Autorità Palestinese; il 1° novembre ne ha infatti assunto il controllo in base all’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas. Il valico è stato ufficialmente chiuso dal 24 ottobre 2014; per specifiche categorie di persone sono state consentite aperture sporadiche. Dall’inizio del 2017 i giorni di apertura sono stati 31.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Rilasciato dal carcere dell’ANP, Issa Amro avverte che la legge di censura sul web minaccia l’ultima linea di difesa contro Israele

Sheren Khalel,

20 settembre 2017, Mondoweiss

Rilasciato dal carcere una settimana fa, Issa Amro è immediatamente tornato al lavoro. In una casetta sulla collina nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron, che funge da quartier generale per ‘Youth Against Settlements’ (YAS) (‘Giovani contro le colonie’, ndt.), un’organizzazione fondata e guidata da Amro, sedeva circondato da un gruppo di militanti, operatori di ONG, un avvocato e amici che bevevano il caffè all’ombra degli alberi nel cortile davanti alla casa.

L’argomento, come sempre, era l’occupazione israeliana – comunque la scorsa settimana Amro non è stato rilasciato da un carcere israeliano, ma da quello dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e non è stato arrestato a causa del suo attivismo a Hebron, ma per un post su Facebook in difesa di un uomo con cui è politicamente in disaccordo.

Amro è stato arrestato il 4 settembre, un giorno dopo aver utilizzato i social media per criticare l’ANP in merito all’arresto di Ayman al-Qawasmeh, un giornalista palestinese direttore di Radio al-Hurriyeh (Radio Libertà) ad Hebron, ed è stato rilasciato dopo una settimana.

“Ad essere sincero, non ho un buon rapporto con Ayman”, ha detto francamente Amro. “Non sono affatto d’accordo con lui, in realtà quando Radio Hurriyeh mi ha chiamato non ho mai accettato di fare un’intervista con loro, ma per me si tratta di una questione di principio – i giornalisti devono essere rispettati – il governo non dovrebbe arrestare i giornalisti. Non dovrebbe arrestare nessun palestinese che abbia semplicemente espresso la propria opinione, ognuno ha la libertà di parola per dire che Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas) non lo rappresenta, è una nostra libertà, abbiamo questo diritto. Quando hanno arrestato Ayman (al-Qawasmeh) hanno lanciato il messaggio che avrebbero arrestato altri giornalisti, ed è ciò che stanno facendo – è ciò che hanno fatto.”

Inizialmente Radio al-Hurriyeh è stata chiusa dalle forze israeliane con l’accusa di istigazione. Frustrato dall’incapacità dell’ANP di proteggere la popolazione palestinese da simili azioni da parte delle forze israeliane, al-Qawasmeh ha messo su Facebook un caustico post in cui chiedeva le dimissioni del presidente Mahmoud Abbas, del primo ministro Rami Hamdallah e del governatore di Hebron Kamel Hmeid. Tre giorni dopo è stato arrestato dalle forze dell’ANP.

“Quando ho visto che era stato arrestato ed ho scritto il post contro l’arresto, l’ANP ha pensato che avrei iniziato a mobilitare la gente contro l’arresto di Ayman. Sanno che sono in grado di mobilitare i media e lo temevano – ma alla fine il lavoro l’hanno fatto loro, arrestandomi hanno mobilitato loro stessi i media. Quando mi hanno arrestato li ho avvertiti che era una cattiva idea. Ho detto: ‘Non arrestatemi, interrogatemi e portatemi in tribunale, ma non arrestatemi, perché questo danneggerà l’ANP.’”

Amro ha detto che era preoccupato che il suo arresto potesse portare l’attenzione sul suo lavoro al di fuori di Israele, puntando i riflettori sull’ANP, un obiettivo più facile, ma che lui considera secondario rispetto all’occupazione.

“Ho cercato di spiegare che non avevo mai avuto intenzione di spostare tutta la solidarietà nei miei confronti che è contro Israele dirigendola contro l’ANP, perché so che la solidarietà collegata a me contro Israele non sarebbe nulla in confronto alla solidarietà che potrei sollevare contro l’ANP, ma ciò non è mai stato quello che volevo. Ho spiegato loro che la solidarietà contro di loro sarebbe stata dieci volte più forte perché molti hanno paura di Israele”, ha detto, spiegando che molte istituzioni, organizzazioni e figure diplomatiche americane ed europee non vogliono criticare pubblicamente Israele a causa della loro politica interna, mentre è facile per loro prendere di mira l’ANP.

“Ero anche preoccupato che l’opposizione palestinese potesse usarmi come veicolo contro altri palestinesi – ecco perché ho mantenuto un basso profilo quando sono stato rilasciato – il mio nemico principale è l’occupazione e il mio principale impegno è contro Israele, non contro l’ANP, anche se sono molto in disaccordo con la sua politica. Non intendo attaccare l’ANP mentre Israele è qui ad occupare la mia terra ed a far pressione sull’ANP perché faccia ciò che sta facendo. Voglio contrastare la causa principale, non l’effetto collaterale.”

Durante la settimana di detenzione, Amro è stato interrogato quotidianamente, con l’ANP che insinuava che l’attivista fosse una spia straniera, una tattica utilizzata dai governi totalitari in tutto il mondo.

Ha detto: “Sono stato a lungo interrogato sul fatto se io do informazioni a organizzazioni europee o delle Nazioni Unite o ad altre organizzazioni internazionali. Volevano sapere se io do giudizi sul lavoro dell’ANP, o delle sue forze di sicurezza. Mi hanno chiesto tante volte se sono una spia delle agenzie internazionali o dei servizi segreti internazionali che lavoravano contro l’ANP, passando informazioni su di essa. Hanno cercato di impostare le cose in modo da farmi ammettere che forse sono una vittima di questo genere di gruppi, insinuando che magari erano venuti a farmi delle domande e io non avevo capito che cosa stesse accadendo.”

La legge sui reati informatici

Amro è stato incarcerato in base alla nuova legge dell’ANP sui reati informatici, che prevede pesanti sanzioni pecuniarie e l’arresto per chiunque critichi sul web l’ANP – compresi giornalisti e informatori.

In ultima analisi, Amro è convinto che l’ANP l’abbia arrestato per due motivi: primo, lui pensa che il governo gli stia alle costole da tempo perché si è sempre rifiutato di inserire il suo movimento, “YAS”, rispettato a livello internazionale, all’interno del partito Fatah; secondo, pensa che, arrestando una persona politicamente rilevante come lui, l’ANP abbia voluto mandare il messaggio che “nessuno è al sicuro” dall’essere perseguito in base alla nuova legge dell’ANP sulla censura.

“Pensano che noi siamo contro l’ANP, ma non è vero. Noi siamo contro la corruzione e contro la legge sull’informatica – come tutti i palestinesi – e contro l’arresto e l’intimidazione dei giornalisti,” ha detto. “Sosteniamo la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di espressione, questo è ciò che dichiariamo. Nello YAS non abbiamo reali posizioni politiche perché siamo per l’unità, non siamo per o contro Fatah, siamo per la Palestina e contro l’occupazione, questo è il nostro unico obbiettivo.”

Abbas ha promulgato la “Legge sui reati informatici” a luglio con un decreto presidenziale. La legge è stata criticata da ONG e organizzazioni umanitarie di tutto il mondo, compresa Amnesty International, che ha documentato che essa è sufficientemente estensiva da poter essere usata contro normali cittadini che mettono post sui social media, che potrebbero ricadere sotto di essa per aver semplicemente ritwittato notizie o i post di altre persone.

Secondo Amnesty International, in base alla nuova legge chiunque sia accusato di violare la norma postando qualcosa che potrebbe costituire turbativa dell’“ordine pubblico”, dell’ “unità nazionale” o della “pace sociale”, potrebbe essere condannato al carcere e fino a 15 anni di lavori forzati.

Amro ha detto che la legge è un perfetto esempio di come l’ANP si aggrappi a varie alternative nel contesto di un’amministrazione sempre più impopolare.

“Durante il mio interrogatorio, mi hanno detto di considerare quanti attacchi ricevesse l’ANP dalla gente e mi hanno chiesto in quale altro modo avrebbero potuto fermarli se non con una legge come questa,” ha detto. “Ho detto loro che non avrebbero dovuto fermarli, ma lasciare che le persone esprimano la propria opinione e che dovrebbero cercare di comportarsi meglio, e ancora che quello che le persone dicono è affar loro, dovrebbero dare spazio alla gente perché condivida le proprie idee ed imparare da essa.”

A luglio almeno dieci giornalisti sono stati convocati dall’ANP per essere interrogati, mentre in agosto almeno sei giornalisti sono stati arrestati. Inoltre l’ANP ha chiuso o bloccato l’accesso ad almeno 29 siti web, la maggior parte dei quali sono siti di informazione collegati a rivali di Fatah.

Al-Qawasmeh è stato rilasciato il 6 settembre, dopo aver trascorso tre giorni nel carcere dell’ANP. La sua stazione radio rimarrà chiusa per almeno sei mesi. Anche se Amro raramente concorda con il punto di vista di al-Qawasmeh, ha detto che i palestinesi devono agire insieme per difendere il diritto alla libertà di parola per tutti.

“Con questa legge sulla censura ci stanno distruggendo. Noi usiamo i diritti umani e la libertà di espressione come strumenti per attaccare l’occupazione, per distruggere la falsa immagine che Israele ha costruito – stiamo usando le nostre voci per mostrare che Israele è un Paese occupante e che eseguendo questo tipo di arresti contro attivisti, giornalisti ed altri gruppi ci stanno togliendo questo strumento, perché il popolo si ritroverà perseguitato da entrambi i governi,” ha detto. “Come può il popolo sostenere l’ANP, se arrestano le persone che lo difendono? Stanno attaccando uno dei pochi strumenti che ancora possiamo usare contro Israele – la nostra voce.”

Mentre è stato rilasciato su cauzione, l’attivista ha ancora delle imputazioni da parte dell’ANP, compresi il disturbo dell’“ordine pubblico”, l’“aver provocato conflitti” e l’“oltraggio alle massime autorità”.

L’ANP non ha ancora fissato un processo. Inoltre Amro ha a suo carico 18 imputazioni da parte di Israele per il suo attivismo, comprese, fra le altre, quelle di “manifestazione non autorizzata”, “ingresso in zona militare chiusa”, “istigazione” e “intralcio a pubblico ufficiale”.

Amro ha affermato di non aver intenzione di lasciare che il suo arresto impedisca il suo lavoro o influenzi il suo normale comportamento.

“ Niente di tutto ciò mi fermerà, perché questo è il mio compito ed ho i miei principi – sono un difensore dei diritti umani – non posso essere tale ed al tempo stesso avere paura di Israele e dell’ANP”, ha detto Amro. “Sono certo che ci sarà un prezzo, c’è sempre, per ottenere un cambiamento bisogna pagare un prezzo, e se non lo si vuole pagare non si può essere un leader del cambiamento.”

Sheren Khalel è una giornalista multimediale freelance, che si occupa di Israele, Palestina e Giordania. Il suo interesse si incentra sui diritti umani, le questioni femminili ed il conflitto israelo-palestinese. Khalel ha lavorato per l’agenzia Ma’an News a Betlemme ed attualmente vive a Ramallah e Gerusalemme. La si può seguire su Twitter all’indirizzo @Sherenk

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’arresto del militante della Cisgiordania Issa Amro rivela il comune interesse dell’ANP e di Israele nel dissuadere azioni di disobbedienza civile

Amira Hass, 11 settembre 2017,Haaretz

Si dice che il coordinamento della sicurezza palestinese con Israele sia stato drasticamente ridotto su ordine del Presidente Mahmoud Abbas. Allora perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato Issa Amro, una delle costanti spine nel fianco del potere occupante israeliano ad Hebron?

Attraverso il suo arresto l’ANP ha palesato i suoi interessi comuni con Israele ed ha dimostrato ancora una volta che la sua stessa esistenza è diventata la sua ragion d’essere. Ha inoltre rivelato stupidità politica e disprezzo per la lotta popolare palestinese contro chi ruba la terra ed espelle la popolazione.

La scorsa settimana un tribunale palestinese a Hebron ha prorogato la sua detenzione di quattro giorni, prima di rilasciarlo domenica su cauzione. Amro è accusato di turbare la quiete pubblica, in in base alla controversa nuova ‘legge elettronica’ approvata recentemente dal governo di Ramallah. E’ accusato anche di aver provocato disordini interni e di aver offeso i più alti vertici dell’ANP.

Amro è co-fondatore di ‘Giovani contro le colonie’. Il gruppo documenta il folle comportamento dei coloni di Hebron e dei soldati che li difendono. Ha anche dato vita ad iniziative sociali per rafforzare la presenza palestinese nella Città Vecchia [di Hebron].

‘Giovani contro le colonie’ costituisce un modello di disubbidienza civile e mette un bastone tra le ruote ai piani israeliani di espulsione [dei palestinesi]. E’ un piccolo gruppo con grandi idee, divisioni, fallimenti e successi. Ha anche fatto crescere la consapevolezza tra gli ebrei della diaspora riguardo alla folle forma di apartheid che l’esercito, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndt.] ed i coloni di Hebron hanno creato.

Non per niente Israele arresta gli oppositori contro l’occupazione a Hebron e disperde con la forza le loro marce di protesta (che a volte coinvolgono attivisti israeliani). Non per niente un anno fa il procuratore militare israeliano ha costruito accuse contro Amro sulla base di vecchi reati (risalenti a prima del 2013), come manifestazioni, contestazioni ai soldati, spintoni al coordinatore della sicurezza militare della colonia di Kiryat Arba e incidenti simili, che solo una giunta militare potrebbe trasformare in un’incriminazione.

Poiché i presunti crimini sono stati commessi tanto tempo fa, il tribunale non ha potuto disporre l’arresto di Amro fino al termine delle procedure. A volte l’imbarazzo lega le mani anche alla giunta.

L’incriminazione israeliana nei confronti di Amro è finalizzata soprattutto a dissuadere altri giovani palestinesi dall’ unirsi alla disobbedienza civile a Hebron, dall’ osare resistere ai coloni ed alla loro costante violenza razzista e dall’ incrementare la loro presenza nella vecchia e tormentata Hebron.

L’esercito israeliano, i coloni e la polizia preferiscono i giovani palestinesi disperati ed isolati che, senza un piano, una strategia o una prospettiva, vanno ai checkpoint a suicidarsi per mano di un soldato o di un colono.

Il vero pericolo per l’esercito a difesa dei coloni sono i militanti che possono aprire un varco alla speranza, che possono pianificare diversi passi avanti e mirare ad una partecipazione di massa.

Il lavoro sporco, a quanto sembra, viene fatto anche da altri. I servizi di sicurezza palestinesi hanno arrestato Amro lo scorso lunedì mattina. Il giorno prima aveva pubblicato due moderati post su Facebook, invocando il rispetto dei principi di libertà di espressione e opinione. L’espressione più forte nel suo post affermava che i servizi di sicurezza palestinesi arrestano la gente sulla base di ordini dall’alto. Si riferiva all’arresto di uno dei dirigenti della stazione radio Minbar Al Hurriya [una delle radio più seguite a Gaza, ndt.], alcuni giorni dopo che l’esercito israeliano l’aveva chiusa.

Il direttore, Ayman al-Qawasmi aveva invitato Abbas ed il primo ministro palestinese Rami Hamdallah a dimettersi in quanto incapaci di difendere le istituzioni palestinesi. Qawasmi è stato rilasciato mercoledì scorso. Come già detto, domenica il tribunale palestinese ha rilasciato Amro su cauzione di 5.000 shekels (1.190 €).

Giovedì, diplomatici, rappresentanti di Amnesty International e giornalisti esteri si sono presentati alla prima udienza della causa di Amro – lo stesso gruppo che assiste alle udienze contro di lui nei tribunali militari israeliani. Tuttavia la causa presso il tribunale di Hebron si è tenuta a porte chiuse, per cui hanno dovuto restare fuori.

Nonostante il tribunale palestinese sia tornato sulle sue decisioni, il danno è stato fatto. L’ANP ha già fatto un regalo ai sostenitori israeliani delle espulsioni. Dal punto di vista dell’ANP, l’arresto di Amro è stato una follia perché, più di ogni altro atto antidemocratico, era chiaro che avrebbe attirato l’attenzione generale e gettato su di esso una luce negativa. Fosse anche solo per ragioni di convenienza, l’ANP avrebbe dovuto ricordarsi che stava arrestando un militante molto noto, la cui attività gode di grande rispetto all’estero.

Se l’ANP avesse tenuto in qualche conto la lotta popolare, avrebbe capito sin dall’inizio che un simile arresto l’avrebbe danneggiata. Ma alla fin fine l’ANP rifiuta le lotte popolari come strumento di cambiamento. Se ne serve solo come un ornamento per recuperare la reputazione di Fatah e dell’ANP come soggetti esclusivi della lotta per l’indipendenza.

Le autorità che lo hanno arrestato, dal vertice alla base, hanno pensato solo a sé stesse; alla loro sopravvivenza come apparato di comando; ai loro stipendi; alle loro promozioni. Le critiche esplicite deturpano la parvenza dell’apparato come rappresentante patriottico del popolo. Le critiche sono a volte indirizzate alla mancanza di libertà di espressione, a volte alla sospensione o ai brogli delle elezioni e a volte ai vantaggi economici di una ristretta classe al potere.

Quelle voci devono essere messe a tacere per il bene del sistema, che dipende direttamente dal mantenimento degli accordi eternamente temporanei con Israele. Perciò la lotta popolare ed i suoi militanti devono essere controllati e contenuti, in modo che non creino situazioni che minaccino accordi scaduti da molto tempo e che servono solo alla perpetuazione dell’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Coloni israeliani tentano di prendere il controllo di una casa palestinese ad Hebron

25 luglio 2017 Ma’an News

Hebron (Ma’an) – Secondo quanto raccontato a Ma’an da alcuni residenti, martedì sera decine di coloni israeliani hanno fatto irruzione in una casa palestinese nei pressi della moschea di Ibrahim [“Tomba dei Patriarchi” nella denominazione israeliana, ndt.] nella città di Hebron, nella zona meridionale della Cisgiordania, nel tentativo di prendere il controllo dell’edificio.

Gli abitanti della casa della famiglia Abu Rajab sono stati coinvolti per anni in una disputa giuridica con coloni israeliani, dopo che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato la propria intenzione di incoraggiarvi la fondazione di una nuova colonia israeliana illegale, con il nome di “Beit Hamachpela.”

Tuttavia le autorità israeliane non hanno concesso l’autorizzazione di costruire la colonia sulla base del fatto che i coloni non sono stati in grado di dimostrare il presunto acquisto della casa palestinese, in quanto i palestinesi li hanno accusati di aver falsificato i documenti.

Hazem Abu Rajab al-Tamimi, un abitante della casa, ha affermato che più di 50 coloni hanno fatto irruzione nella casa e che i soldati israeliani li hanno aiutati durante l’incursione.

Al-Tamimi ha detto a Ma’an che i soldati israeliani e le guardie di frontiera sono state schierate davanti alla casa durante le scorse 48 ore prima di consentire alla fine ai coloni di farvi irruzione martedì.

In risposta ad una richiesta di fare un commento, una portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che decine di israeliani sono entrati “in un piccolo edificio” adiacente alla moschea, ma ha negato che i soldati fossero presenti durante l’incursione dei coloni.

Ha detto che le forze israeliane sono arrivate sul luogo dopo che ciò era avvenuto ed erano attualmente presenti nella zona alle 21,30 circa.

“Al momento non c’è la decisione di farli sloggiare,” ha detto la portavoce, ed ha sottolineato che la situazione era in evoluzione.

Mercoledì mattina l’esercito israeliano ha detto a Ma’an che la casa era stata dichiarata zona militare chiusa, ma non ha potuto confermare se i coloni erano stati espulsi dall’edificio oppure no.

I coloni israeliani hanno sostenuto di aver comprato la casa dai proprietari, tuttavia i proprietari palestinesi hanno citato in giudizio i coloni israeliani e li hanno accusati di aver falsificato i documenti nel tentativo di impossessarsi della casa.

La casa della famiglia Abu Rajab è costituita da tre piani. Al-Tamimi ha detto che, in seguito al caso in corso relativo alla casa, il tribunale israeliano ha deciso che nessuno possa entrare al secondo e al terzo piano dell’edificio finché non verrà stabilita una decisione del tribunale.

Ha affermato che il tribunale ha anche deciso di mettere la casa sotto la “protezione” dell’esercito israeliano e dell’Amministrazione Civile [il governo militare nei territori palestinesi occupati, ndt.] israeliana.

L’Ong e osservatorio sulle colonie israeliano “Peace Now” ha rilasciato una dichiarazione in cui conferma che circa 15 famiglie di coloni sono entrate nella casa senza autorizzazione.

“La lunga controversia legale su chi sia il proprietario non è ancora arrivata alla fine, ma ciò non ha impedito ai coloni di invaderla oggi,” afferma il comunicato.

“Peace Now” ha spiegato che la commissione del registro dell’Amministrazione Civile israeliana ha rigettato le affermazioni dei coloni di averla acquistata, e i coloni che hanno impugnato la decisione stavano aspettando di comparire di nuovo davanti alla commissione.

“Finora i coloni non sono stati in grado di dimostrare la proprietà e i palestinesi sostengono che non è stata acquistata. Oltretutto i coloni rivendicano solo una proprietà parziale dell’immobile. Inoltre, anche se alla fine i coloni provassero di avere la proprietà, ciò non rappresenterebbe una ragione sufficiente per fondare un nuovo insediamento nel cuore della città palestinese di Hebron” afferma “Peace Now”.

La dichiarazione continua: “La fondazione di un nuovo insediamento a Beit HaMachpela ostacolerebbe seriamente la libertà di movimento dei palestinesi e si aggiungerebbe alla crescente tensione nella zona.”

“Chiediamo che il governo ordini l’immediata evacuazione dei coloni che hanno invaso Beit HaMachpela. Dopo che le loro pretese di proprietà sono state rigettate, i coloni hanno deciso di farsi giustizia da soli e di costituire una colonia illegale che potrebbe incendiare la regione. Chiediamo al Primo Ministro e al Ministro della Difesa di rispettare la legge e gli interessi israeliani e di evacuare senza indugio gli intrusi.”

Situata nel centro di Hebron – una delle maggiori città della Cisgiordania occupata – la Città Vecchia è stata divisa tra zone sotto controllo palestinese e sotto il controllo israeliano, note come H1 e H2, in seguito al massacro della moschea di Ibrahim [nel 1994 un colono israeliano entrò nella moschea vestito da soldato ed uccise 29 palestinesi in preghiera prima di essere linciato dalla folla, ndt.].

Circa 800 coloni israeliani notoriamente molto aggressivi vivono ora sotto la protezione dell’esercito israeliano nella Città Vecchia, circondati da più di 30.000 palestinesi.

I residenti palestinesi della Città Vecchia devono fare i conti quotidianamente con una massiccia presenza di militari israeliani, con almeno 20 check point situati alle entrate di molte strade, così come della stessa moschea di Ibrahim.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA periodo 4 – 17 luglio ( due settimane)

Il 14 luglio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, presso uno degli ingressi del Complesso Haram Ash Sharif / Monte del Tempio, tre palestinesi, cittadini di Israele, hanno sparato e ucciso due poliziotti israeliani; sono stati a loro volta uccisi nel successivo scontro a fuoco all’interno del Complesso.

Nell’episodio è rimasto ferito un altro poliziotto. I corpi degli attentatori sono stati trattenuti dalle autorità israeliane. Sono stati segnalati altri due speronamenti con auto contro soldati israeliani: il 9 luglio, all’entrata del villaggio di Tuqu’ (Betlemme) e il 17 luglio, nella zona H2 della città di Hebron. Il primo – che, a quanto riferito, ha comportato anche un tentativo di accoltellamento – si è concluso con il ferimento di un soldato israeliano e l’uccisione dell’aggressore, un palestinese di 23 anni; mentre il secondo si è concluso con il ferimento e l’arresto dell’attentatore.

Le misure adottate dalle autorità israeliane dopo l’attacco a Gerusalemme Est hanno provocato tensioni e scontri. Le forze israeliane hanno fatto irruzione nel Complesso Haram Ash Sharif / Monte del Tempio, secondo quanto riferito, alla ricerca di armi. Per la prima volta dal 1969, il Complesso è stato chiuso totalmente, anche per la preghiera del venerdì. Tutti gli ingressi alla Città Vecchia di Gerusalemme sono stati ugualmente bloccati, salvo che per i residenti. Il Complesso è stato riaperto il 16 luglio, a seguito dell’installazione, in alcune porte del Complesso, di metal-detector per il controllo della sicurezza. Le autorità palestinesi e il Muslim Waqf [fondazione pia che cura i luoghi religiosi musulmani] hanno protestato contro questa misura e hanno invitato la popolazione a non entrare nel Complesso fino a quando i metal-detector non verranno rimossi. Nella Città Vecchia ed in altre zone di Gerusalemme Est (in primo luogo Silwan) sono stati registrati numerosi alterchi e scontri tra palestinesi e forze israeliane che hanno portato al ferimento di 58 palestinesi e di tre poliziotti israeliani.

Quattro palestinesi, compreso un minore, sono stati uccisi con armi da fuoco dalle forze israeliane durante tre distinte operazioni di ricerca-arresto. Due dei morti, un 21enne ed un 17enne, sono stati uccisi il 12 luglio durante un’operazione di ricerca-arresto nel Campo Profughi di Jenin: secondo fonti israeliane, i due sono stati implicati in uno scontro a fuoco. Un 18enne è stato ucciso il 14 luglio nel Campo Profughi di Ad Duheisha (Betlemme), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane. L’altro morto, un uomo di 34 anni, è stato ucciso il 15 luglio nel villaggio di An Nabi Saleh (Ramallah), secondo quanto riferito, dopo essersi opposto all’arresto. Secondo le autorità israeliane, poche ore prima l’uomo era stato coinvolto in una sparatoria e, prima di essere colpito dai soldati, aveva estratto una pistola artigianale.

Il 7 luglio, un bimbo palestinese di un anno è morto per le lesioni riportate il 19 maggio 2017, a seguito di una grave inalazione di gas lacrimogeno. Durante l’episodio, verificatosi all’ingresso principale del villaggio di ‘Abud (Ramallah), le forze israeliane avevano sparato, verso i palestinesi che tiravano pietre, bombolette di gas lacrimogeno, una delle quali era caduta all’interno della casa del bambino.

Complessivamente, nei Territori palestinesi occupati, durante diversi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 102 palestinesi, di cui nove minori. Trenta dei ferimenti, tutti causati da armi da fuoco, sono avvenuti durante scontri scoppiati dopo operazioni di ricerca-arresto (incluse quelle sopra citate). Le lesioni restanti, in gran parte dovute a proiettili di gomma e ad inalazione di gas lacrimogeno, sono state registrate presso la recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza durante proteste e scontri ad esse correlati, durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso dei già citati scontri verificatisi a Gerusalemme Est. Uno di questi ultimi scontri, in Silwan, ha anche causato il ferimento, per inalazione di gas lacrimogeno, di tre coloni israeliani residenti nella zona.

Il 17 luglio, la polizia israeliana è entrata nell’ospedale Al Maqased a Gerusalemme Est e vi si è fermata per una notte alla ricerca di un paziente: un 19enne palestinese ferito con arma da fuoco lo stesso giorno, durante scontri verificatisi in città, nel quartiere Silwan. La polizia ha lasciato l’ospedale il giorno successivo, dopo che il padre del ferito si era impegnato a consegnarlo alla polizia israeliana all’atto della dimissione dall’ospedale.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno dieci occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, causando il ferimento di due pescatori palestinesi. In altri due casi, le forze israeliane hanno effettuato livellamenti del terreno e scavi all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale.

Nella Striscia di Gaza, nel contesto della precarietà delle fonti di approvvigionamento energetico, le interruzioni di elettricità continuano per 18-20 ore al giorno, con grave impatto sull’erogazione dei servizi e sui mezzi di sussistenza. A causa del malfunzionamento delle linee di alimentazione, l’approvvigionamento di energia elettrica dall’Egitto è rimasto bloccato durante la maggior parte del periodo di riferimento, mentre la Centrale Elettrica di Gaza, avendo esaurito le riserve di combustibile, è stata ferma per un giorno. Più di 108 milioni di litri di acque reflue, quasi totalmente non trattate a causa delle carenze di elettricità e di combustibile, vengono scaricate in mare ogni giorno. Secondo l’ultimo test condotto dal Dipartimento di Qualità dell’Acqua di Gaza, il 73% delle spiagge di Gaza sono contaminate, presentando alti rischi per l’ambiente e per la salute pubblica. A causa della contaminazione del mare, le autorità israeliane hanno emesso un divieto di balneazione in alcune spiagge del sud di Israele.

In Gerusalemme Est e in Area C, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 23 strutture palestinesi, sfollando 15 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 96. Sedici delle strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; sale così a 94 il numero totale di strutture demolite dall’inizio del 2017, contro le 85 demolite nello stesso periodo del 2016. Le altre sette strutture demolite in Area C erano nelle comunità di Khirbet Tell Al Himma, nella Valle del Giordano, e di Wadi Abu Hindi e Al Muntar, nel governatorato di Gerusalemme.

Nello stesso contesto, le autorità israeliane hanno rilasciato almeno 13 ordini di blocco lavori e demolizione nei confronti di 13 strutture finanziate da donatori e fornite come assistenza umanitaria a comunità palestinesi dell’Area C. Esse comprendevano 12 strutture residenziali in Jinba, una comunità nella zona di Massafer Yatta di Hebron, ed una scuola primaria in ‘Arab ar Ramadin al Janubi, nell’area chiusa dietro la Barriera (Qalqiliya) [è un’area inglobata da Israele tramite la costruzione della Barriera all’interno del territorio della Cisgiordania]. Inoltre, sono stati emessi otto ordini contro una parte di rete elettrica nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya) e contro 7 strutture in Jabal al Baba (Gerusalemme).

A quanto riferito, due palestinesi sono stati feriti e 40 alberi di proprietà palestinese sono stati incendiati in tre distinti episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani. Nella zona H2 (a controllo israeliano) della città di Hebron e nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), coloni israeliani hanno fisicamente aggredito e ferito due palestinesi. Agricoltori del villaggio di Burin (Nablus) hanno riferito che 40 alberi di proprietà palestinese sono stati incendiati da coloni israeliani di Yitzhar o di attigui insediamenti avamposti [gli insediamenti avanposti sono formalmente illegali anche per la legge israeliana]. Dall’inizio del 2017, almeno 1.400 alberi, soprattutto nella zona di Nablus, sono stati vandalizzati da coloni; nell’intero 2016 furono 361.

Media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani nei pressi di Betlemme, Hebron e Ramallah; in almeno uno degli episodi ci sono stati danni a veicoli.

Il Valico di Rafah, controllato dall’Egitto, durante il periodo di riferimento è rimasto eccezionalmente aperto, ma solo per l’ingresso di combustibile, soprattutto per la Centrale Elettrica, mentre è rimasto chiuso al transito delle persone. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. L’ultima volta in cui il valico venne aperto al transito di persone fu il 9 maggio. Nel 2017, fino ad ora, il valico è stato aperto per 16 giorni.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo i resoconti dei media, il 18 luglio, al raccordo stradale di Beit ‘Enoun (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati israeliani, ferendone due: è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane.

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