Gaza: la fame imposta da Israele è mortale per i bambini

Human Rights Watch

9 aprile 2024 – Human Rights Watch

Devastanti racconti di medici e genitori; denunce di una carestia imminente

(Beirut, 9 aprile 2024) – Da quando il governo israeliano ha iniziato a usare la fame come arma di guerra, un crimine di guerra, i bambini di Gaza stanno morendo per complicazioni legate alla fame, ha affermato oggi Human Rights Watch. A Gaza medici e famiglie hanno descritto bambini, così come donne incinte e madri in allattamento, affetti da grave malnutrizione e disidratazione, e ospedali mal attrezzati per poterli curare.

I governi interessati dovrebbero imporre sanzioni mirate e sospendere l’invio di armi per fare pressione sul governo israeliano affinché garantisca laccesso a Gaza degli aiuti umanitari e dei servizi di base, in conformità con gli obblighi di Israele ai sensi del diritto internazionale e della recente ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia in base alla denuncia di genocidio presentata dal Sudafrica.

Luso della fame come arma di guerra da parte del governo israeliano si è rivelato mortale per i bambini di Gaza”, ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch. Israele deve porre fine a questo crimine di guerra e a questa sofferenza e consentire agli aiuti umanitari di raggiungere senza ostacoli tutta Gaza”.

Il 18 marzo 2024 una partnership coordinata dalle Nazioni Unite di 15 organizzazioni internazionali e agenzie dell’ONU che indagano sulla crisi della fame a Gaza ha riferito che tutte le prove indicano un forte incremento delle morti e della malnutrizione”. L’organizzazione afferma che nel nord di Gaza, dove si stima che il 70% della popolazione soffra di una fame di dimensioni catastrofiche, la carestia potrebbe verificarsi in qualsiasi momento tra metà marzo e maggio.

Il 1° aprile il Ministero della Sanità di Gaza ha riferito che 32 persone, tra cui 28 bambini, erano morte di malnutrizione e disidratazione negli ospedali del nord di Gaza. Il 2 aprile Save the Children ha confermato la morte per fame e malattie di 27 bambini. Allinizio di marzo, funzionari dellOrganizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno trovato bambini che morivano di fame” negli ospedali Kamal Adwan e al-Awda, nel nord di Gaza. Nel sud della Striscia, dove gli aiuti sono più accessibili ma comunque decisamente inadeguati, a metà febbraio le agenzie delle Nazioni Unite hanno affermato che il 5% dei bambini sotto i 2 anni risultava gravemente malnutrito.

A marzo Human Rights Watch ha intervistato un medico nel nord di Gaza, un volontario che nel frattempo ha lasciato Gaza, i genitori di due bambini che i medici hanno dichiarato morti per complicazioni legate alla fame che ha colpito sia la madre che il bambino, e i genitori di altri quattro bambini affetti da malnutrizione e disidratazione.

Human Rights Watch ha esaminato il certificato di morte di uno dei bambini e le foto di altri due in condizioni critiche che mostravano segni di deperimento. Tutti erano stati curati all’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, nel nord di Gaza.

I consulenti sanitari di Human Rights Watch hanno anche esaminato immagini e video verificati online di altri tre bambini chiaramente emaciati che sono morti e di altri quattro in condizioni critiche che mostravano anch’essi segni di deperimento.

Il 4 aprile il dottor Hussam Abu Safiya, che dirige lunità pediatrica dellospedale Kamal Adwan, ha dichiarato a Human Rights Watch che solo nel suo ospedale 26 bambini erano morti dopo essere stati colpiti da complicazioni legate alla fame. Ha detto che almeno 16 dei bambini deceduti avevano meno di 5 mesi, almeno 10 avevano tra 1 e 8 anni e che era morto anche un uomo di 73 anni affetto da malnutrizione.

Il dottor Safiya ha detto che uno dei bambini è morto dopo soli due giorni di vita in seguito a grave disidratazione alla nascita, chiaramente aggravata dalla cattiva salute della madre: [Lei] non aveva latte da dargli”.

Nour al-Huda, una ragazzina di 11 anni affetta da fibrosi cistica, è stata ricoverata all’ospedale Kamal Adwan il 15 marzo. I medici hanno detto a sua madre che Nour soffriva di malnutrizione, disidratazione e un’infezione ai polmoni, e le hanno somministrato ossigeno e una soluzione salina. Nour al-Huda ora pesa 18 chilogrammi”, ha detto sua madre a Human Rights Watch. “Posso vedere sporgere le ossa del suo petto.”

Il diritto internazionale umanitario vieta la riduzione alla fame dei civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente i civili privandoli di quanto sia indispensabile alla loro sopravvivenza, compreso limpedimento doloso delle forniture di soccorso”, è un crimine di guerra.

Dopo gli attacchi di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023 il governo israeliano ha deliberatamente bloccato la consegna di aiuti, cibo e carburante a Gaza, impedendo al contempo lassistenza umanitaria e privando i civili dei mezzi per sopravvivere. I funzionari israeliani che ordinano o eseguono queste azioni stanno commettendo il reato di punizione collettiva contro la popolazione civile e di riduzione dei civili alla fame come metodo di guerra, entrambi crimini di guerra.

Le azioni del governo israeliano che compromettono le capacità dellAgenzia dell’ONU per il soccorso e loccupazione dei rifugiati palestinesi nel Medio Oriente (UNRWA) di svolgere il suo ruolo riconosciuto nella distribuzione degli aiuti a Gaza hanno esacerbato gli effetti delle restrizioni.

Un medico volontario presso lospedale europeo di Khan Younis, nel sud di Gaza, per due settimane alla fine di gennaio ha affermato che il personale è stato costretto a curare pazienti con scorte mediche limitate. Ha descritto la difficoltà di trattare la malnutrizione e la disidratazione a causa della mancanza di elementi essenziali come glucosio, elettroliti e sonde per l’alimentazione. Ha detto che la madre di un paziente, alla disperata ricerca di soluzioni, ha fatto ricorso a patate schiacciate per creare un liquido improvvisato per lalimentazione tramite sonda. Nonostante l’inadeguatezza sul piano nutrizionale, il medico ha riferito: Ho finito per dire agli altri miei pazienti di procurarsi delle patate e di fare lo stesso”.

Il 26 gennaio la Corte Internazionale di Giustizia, in una causa intentata dal Sud Africa, ha ordinato misure provvisorie, tra cui la richiesta a Israele di adottare interventi immediati ed efficaci per consentire la fornitura di servizi essenziali e aiuti umanitari di urgente necessità” e altre azioni per conformarsi con la Convenzione sul Genocidio del 1948. Il 28 marzo la Corte ha evidenziato che Israele non aveva rispettato questordine e ha imposto una misura provvisoria più dettagliata che richiedeva al governo di garantire la fornitura senza ostacoli di servizi di base e di aiuti in piena collaborazione con l’ONU, rilevando che la carestia è alle porte.”

I governi dovrebbero imporre sanzioni mirate, compresi divieti di viaggio e congelamento dei beni, contro funzionari e individui responsabili della continua messa in atto di crimini di guerra rappresentati da punizione collettiva, ostruzione deliberata degli aiuti umanitari e riduzione di civili alla fame come arma di guerra.

Diversi Paesi hanno risposto alle restrizioni illegali del governo israeliano sullassistenza inviando aiuti aerei. Gli Stati Uniti si sono anche impegnati a costruire un porto marittimo temporaneo a Gaza. Tuttavia, organizzazioni umanitarie e funzionari dell’ONU hanno affermato che tali sforzi sono inadeguati per prevenire una carestia. Un altro tentativo di consegnare aiuti via mare è stato interrotto dopo un attacco israeliano contro gli operatori umanitari il 1° aprile.

Il 4 aprile, evidentemente in seguito alle pressioni del governo degli Stati Uniti, il governo israeliano ha approvato diverse misure per consentire l’ingresso a Gaza di una maggiore quantità di aiuti.

I governi indignati dal fatto che il governo israeliano affami i civili a Gaza non dovrebbero cercare soluzioni provvisorie a questa crisi umanitaria”, afferma Shakir. Lannuncio di Israele sull’incremento degli aiuti dimostra che la pressione esterna funziona. Gli alleati di Israele come Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania devono premere per una consegna di aiuti a pieno regime e sospendere immediatamente l’invio di armi”.

Fame a Gaza

Si stima che prima delle attuali ostilità 1,2 milioni degli allora 2,2 milioni di abitanti di Gaza si trovassero ad affrontare una grave insicurezza alimentare e oltre l80% dipendesse dagli aiuti umanitari. Israele mantiene il controllo generale su Gaza, compreso il movimento di persone e merci, le acque territoriali, lo spazio aereo, le infrastrutture su cui Gaza fa affidamento e il registro anagrafico. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto a un blocco illegale per più di 16 anni, quasi interamente dipendente da Israele per laccesso a carburante, elettricità, medicine, cibo e altri beni essenziali.

Tuttavia, prima del 7 ottobre giungevano alla popolazione elevate quantità di aiuti umanitari. Prima di questa crisi a Gaza cera abbastanza cibo per nutrire la popolazione”, ha affermato il direttore generale dellOMS Tedros Adhanom Ghebreyesus. La malnutrizione era un evento raro. Ora le persone stanno morendo e molte altre sono malate”.

LOMS ha riferito che il numero di bambini sotto i 5 anni gravemente malnutriti è aumentato dallo 0,8% prima delle ostilità a Gaza al 12,4 e al 16,5% nel nord di Striscia. Il 3 aprile Oxfam ha affermato che da gennaio le persone nel nord di Gaza sono costrette a sopravvivere con una media di 245 calorie al giorno, meno di un barattolo di fave”.

Secondo unanalisi sulla vulnerabilità nutrizionale condotta a marzo dal Global Nutrition Cluster, una rete di organizzazioni umanitarie presieduta dallUNICEF, il 90% dei bambini di età compresa tra 6 e 23 mesi e delle donne incinte e che allattano in tutta Gaza hanno dovuto affrontare una grave insufficienza alimentare”, mangiando due o anche meno varietà di alimenti ogni giorno.

I bambini con patologie preesistenti sono particolarmente vulnerabili agli effetti devastanti della malnutrizione che indebolisce significativamente il sistema immunitario. E la fame, anche per i sopravvissuti, porta a danni persistenti, soprattutto nei bambini, causando arresto della crescita, problemi cognitivi e ritardi nello sviluppo.

L’8 marzo il Ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che a Gaza circa 60.000 donne incinte soffrivano di malnutrizione, disidratazione e assistenza sanitaria inadeguata. Una cattiva alimentazione durante la gravidanza danneggia sia il bambino che la madre, aumentando il rischio di aborti spontanei, morte del feto, compromissione dello sviluppo del sistema immunitario, impatti sulla crescita e mortalità materna.

Anche gli anziani sono particolarmente a rischio di malnutrizione che aumenta la mortalità tra coloro che soffrono di malattie acute o croniche. HelpAge International ha riferito che anche prima di ottobre il 45% degli anziani di Gaza andava a letto affamato almeno una volta alla settimana e il 6% ogni notte.

Limpatto sulla popolazione di Gaza delluso della fame come arma di guerra da parte del governo israeliano è aggravato dal collasso quasi totale del sistema sanitario. Secondo l’Ufficio dell’ONU per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) dei 36 ospedali di Gaza solo 10 sono operativi, nessuno di essi pienamente, sia a causa dei ripetuti, chiaramente illegali, attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari, nonché delle severe restrizioni allingresso di carburante e altre scorte.

Notizie da Gaza

Il 19 marzo Andrea De Domenico, capo dell’OCHA nei territori palestinesi occupati, ha visitato l’ospedale Kamal Adwan, dove ha riferito che ogni giorno arrivano circa 15 bambini malnutriti a causa della carenza di cibo, acqua e servizi igienici adeguati. Ha descritto le terribili condizioni dell’ospedale, sottolineando i danni in alcune aree e la dipendenza da un unico generatore.

Alcuni dei casi su cui Human Rights Watch ha indagato:

    • Un uomo di Beit Lahia ha detto che il figlio neonato, Abdelaziz, è morto poche ore dopo che sua madre, gravemente denutrita, lo aveva partorito nellospedale Kamal Adwan il 24 febbraio. Ha mostrato a Human Rights Watch il certificato di morte, in cui si afferma che Abdelaziz è nato prematuro. Suo padre ha detto che il personale dell’ospedale ha collegato Abdelaziz a un respiratore perché aveva difficoltà a respirare, ma che dopo poche ore il respiratore ha smesso di funzionare, avendo l’ospedale esaurito il carburante necessario. “Abdelaziz è morto immediatamente”, ha detto. Ha espresso preoccupazione per sua moglie, che sopravviveva con legumi e cibo in scatola, ponendo l’accento sul loro continuo lottare per avere un’alimentazione adeguata.

    • Il padre di due gemelle appena nate ha detto che una delle sue bambine, Joud, è morta all’ospedale Kamal Adwan il 2 marzo, otto giorni dopo la sua nascita, in seguito a malnutrizione. Ha affermato che prima della nascita delle bambine ha fatto di tutto per sfamare la sua famiglia, ma che avevano da mangiare solo pane, senza carne o proteine. Ha detto che, dopo la nascita delle gemelle, sua moglie non aveva latte per allattare le bambine e che quello in vendita nei negozi scarseggiava. Ha descritto il peggioramento delle condizioni di Joud, dicendo che “i suoi arti sono diventati molto freddi e respirava molto lentamente”. Sua suocera ha accompagnato Joud all’ospedale, dove poi è morta. Il padre ha espresso preoccupazione per la salute della gemella sopravvissuta.

    • Fadi, un bambino di 6 anni del quartiere al-Nasser di Gaza City, è affetto da fibrosi cistica, una malattia genetica che provoca danni ai polmoni. La madre di Fadi ha detto che a causa del blocco israeliano ha avuto difficoltà a procurarsi le medicine necessarie e a fornirgli unalimentazione adeguata. A metà gennaio la salute di Fadi era peggiorata al punto che non poteva più camminare, costringendolo al ricovero in ospedale. Prima della guerra Fadi pesava 30 chili, ora ne pesa 12”, afferma. Fadi è stato dimesso dall’ospedale Kamal Adwan il 23 marzo ed è in cura presso un ospedale del Cairo, ha detto un parente il 28 marzo.

    • Wissam Hammad, lo zio di Muhammad, 5 anni, che soffre di paralisi cerebrale, è intollerante al lattosio e al glutine e può mangiare solo cibi frullati, ha avuto grandi difficoltà a procurargli il cibo:

La maggior parte del suo cibo dovrebbe essere frutta e verdura, che è ciò che cerco di comprare. Ma tutto quello che riesco a trovare e permettermi sono le arance. Il problema è che non può masticare, quindi dobbiamo spappolargli il cibo. È tutto molto costoso.

    • Il dottor Ahmed Shahin, un pediatra, ha detto che prima di poter lasciare Gaza il 16 novembre, Osman, suo figlio di 14 anni affetto da paralisi cerebrale, che ha una gastrostomia e utilizza una sonda per l’alimentazione, aveva perso dall’inizio delle ostilità sette chili perché non avevano accesso né al cibo specifico di cui aveva bisogno, come le verdure, né all’elettricità per frullare gli alimenti.

Ostacoli alla fornitura degli aiuti

I continui bombardamenti e le operazioni di terra israeliane, la mancanza di garanzie di sicurezza da parte di Israele, i diffusi danni alle infrastrutture e le interruzioni delle comunicazioni rendono difficile la distribuzione dei pochi aiuti che arrivano a Gaza. Le organizzazioni umanitarie hanno riferito che le forze israeliane hanno attaccato i loro convogli umanitari e i loro operatori. Le forze israeliane hanno anche sparato e bombardato persone che si radunavano per la raccolta degli aiuti, uccidendone e ferendone centinaia.

Il 18 marzo un portavoce del governo israeliano ha dichiarato che gli aiuti che entrano a Gaza non incontrano nessun ostacolo a parte le preoccupazioni per la sicurezza. Altri funzionari hanno incolpato l’ONU per i ritardi nella distribuzione e hanno accusato Hamas di dirottare gli aiuti o la polizia di Gaza di non aver messo in sicurezza i convogli. Il 29 marzo lorganismo del Ministero della Difesa israeliano che governa gli affari civili nei territori palestinesi, il COGAT, ha contestato il rapporto umanitario del 18 marzo emesso dalle Nazioni Unite, che metteva in guardia sull’imminenza di una carestia, e ha affermato che non riflette la situazione nel suo insieme”. Il COGAT ha negato che il governo israeliano stesse intenzionalmente affamando la popolazione civile di Gaza. Il 2 aprile Human Rights Watch ha scritto al COGAT chiedendo commenti sui nostri riscontri, ma al momento della pubblicazione non ha ancora ricevuto risposta.

Tuttavia, l8 aprile lOCHA ha riferito che a marzo solo una delle quattro spedizioni di aiuti alimentari a Gaza che richiedevano un coordinamento è stata appoggiata dalle autorità israeliane. Dal primo gennaio sono arrivate al nord solo nove spedizioni di aiuti del Programma Alimentare Mondiale, l’ultima delle quali, composta da 18 camion, il 17 marzo. Il Programma Alimentare Mondiale ha affermato che sono necessari almeno 300 camion ogni giorno solo per il nord.

Gli Stati Uniti sono ricorsi al lancio di cibo a Gaza e progettano di costruire un molo galleggiante in mare per fornire aiuti, una proposta criticata da 26 organizzazioni non governative, tra cui Human Rights Watch, in quanto rischiosa, costosa e inefficace”. Il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Jamie McGoldrick ha sottolineato che il trasporto su strada è lunica soluzione praticabile per aumentare il flusso di aiuti.

Le restrizioni sulla distribuzione degli aiuti rendono particolarmente difficile laccesso al cibo per le persone che necessitano di una dieta specifica. Diversi rappresentanti di organizzazioni umanitarie hanno affermato di non essere stati in grado di fornire alimentazione ai bambini che seguono diete speciali o di raggiungerli. Un membro dello staff del Palestine Childrens Relief Fund ha affermato che erano in grado di fornire solo latte artificiale e non potevano rispondere ai bisogni dei bambini con esigenze dietetiche specifiche. Medical Aid for Palestine ha affermato che gli alimenti speciali che avevano in deposito si sono esauriti rapidamente e da allora non sono stati in grado di trovare e fornire a coloro che ne avevano bisogno alimenti speciali.

Gli aiuti stentano ad arrivare: un quarto della popolazione è a rischio carestia. In queste circostanze le persone con disabilità e quelle vulnerabili soffrono di più. Nell’ambito nutrizionale è difficile sostenere le persone che necessitano di una dieta specifica e di assistenza medica.

Il 1° aprile 2024, a seguito di un attacco aereo israeliano nel centro di Gaza che ha colpito tre veicoli con il contrassegno dellorganizzazione alimentare internazionale World Central Kitchen e ha ucciso sette operatori umanitari provenienti da diversi Paesi, Cipro ha annunciato che le navi che trasportavano circa 240 tonnellate di aiuti per Gaza sarebbero tornate indietro. Alla luce dell’attacco World Central Kitchen, Project Hope e ANERA, tutti fornitori di aiuti alimentari, hanno sospeso le loro operazioni a Gaza, e gli Emirati Arabi Uniti hanno sospeso il loro coinvolgimento nel fornire aiuti attraverso un corridoio marittimo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Meta accusata di ‘censura sistematica’ di contenuti filo-palestinesi

Redazione di Middle East Monitor

21 dicembre 2023 – Middle East Monitor

Martedì l’organismo di vigilanza di Meta ha dichiarato che il gigante dei social media, precedentemente noto come Facebook, ha commesso un errore nel rimuovere due video raffiguranti ostaggi e vittime provocati dal massacro militare israeliano contro i palestinesi di Gaza. La decisione è conseguente al fatto che Meta è accusata da Human Right Watch di “censura sistematica di contenuti palestinesi.”

Uno dei casi vede coinvolto un video Instagram che raffigura le conseguenze di un attacco aereo vicino all’ospedale Al-Shifa di Gaza, mostrando minori feriti e uccisi. Un altro video che si dice sia circolato è un filmato Facebook dell’attacco del 7 ottobre, che rappresenta una donna israeliana che implora i suoi rapitori di non farle del male mentre viene presa come ostaggio. L’organismo di vigilanza ha ritenuto che questi video fossero cruciali per “informare il mondo riguardo la sofferenza umana da entrambe le parti.” Tuttavia i sistemi di moderazione automatica di Meta inizialmente hanno rimosso i contenuti.

Sulla base della selezione della revisione dell’organismo di vigilanza, Meta è tornata sui suoi passi in entrambi i casi, ripristinando i video con un avviso prima della visualizzazione. Mentre l’organismo di controllo ha approvato il ripristino dei contenuti, ha espresso disaccordo sulla decisione di Meta di evitare che i video siano raccomandati agli utenti. In una dichiarazione l’organismo di controllo ha sollecitato Meta a rispondere più tempestivamente al cambiamento di circostanze sul terreno, sottolineando il delicato equilibrio tra l’importanza di dare voce alle persone e della sicurezza.

Mentre i due casi sono relativi ad entrambe le parti, le misure restrittive di Meta sui contenuti filo-palestinesi sono su su un livello diverso, dato che sono assoggettati ad una “censura sistematica”, secondo un nuovo rapporto rilasciato oggi da Human Right Watch.

L’organizzazione per i diritti umani documenta come il gigante dei social media Meta ha progressivamente ristretto il discorso in rete relativo alla Palestina sulle piattaforme come Facebook e Instagram. Nell’analisi si trovano più di 1.050 casi in cui il contenuto è stato rimosso, gli account sospesi, ha avuto luogo l’oscuramento e hanno avuto luogo altre forme di censura, tutte contro voci filo-palestinesi.

Secondo Debora Brown, la direttrice associata per la tecnologia e i diritti umani di Human Right Watch, queste restrizioni significano aggiungere “danno alla beffa in un periodo di indicibili atrocità e di una repressione che sta già soffocando l’espressione dei palestinesi.” Il rapporto sostiene che in mezzo ad attacchi devastanti a Gaza, in cui gli israeliani hanno ucciso oltre 20.000 civili, molti dei quali minori e donne, le misure restrittive di Meta servono ad “appoggiare la cancellazione della sofferenza dei palestinesi.”

Human Right Watch ha documentato quello che chiama un modello di cancellazione indebita e soppressione di un discorso protetto, che include espressioni di pace a supporto della Palestina e un dibattito pubblico riguardo ai diritti umani dei palestinesi. Il rapporto indica che il problema deriva da erronee politiche di Meta e dalla loro contraddittoria e sbagliata implementazione, da dipendenza eccessiva da strumenti automatici per moderare i contenuti e da una indebita influenza governativa sulla rimozione di contenuti.

Meta dovrebbe consentire di esprimere sulle sue piattaforme discorsi protetti, anche sulle violazioni dei diritti umani e dei movimenti politici, ha affermato Human Right Watch. L’azienda dovrebbe cominciare a rivedere le sue politiche riguardo a “organizzazioni e individui pericolosi” per adeguarle agli standard internazionali per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele: la fame utilizzata come arma di guerra a Gaza

Rapporto HRW

18 dicembre 2023 – Human Rights Watch

Ci sono prove che ai civili è deliberatamente negato l’accesso a cibo e acqua.

  • Nella Striscia di Gaza il governo israeliano sta utilizzando la fame dei civili come metodo di guerra, il che costituisce un crimine di guerra.

  • Governanti israeliani hanno fatto dichiarazioni pubbliche, che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, in cui hanno manifestato la loro intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante.

  • Il governo israeliano dovrebbe smettere di attaccare beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, togliere il blocco della Striscia di Gaza e riattivare [le forniture di] elettricità e acqua.

(Gerusalemme) – Oggi Human Rights Watch ha affermato che nella Striscia di Gaza occupata il governo israeliano sta affamando i civili come metodo di guerra. Le forze israeliane stanno deliberatamente bloccando l’erogazione di acqua, cibo e carburante impedendo nel contempo deliberatamente l’assistenza umanitaria, distruggendo chiaramente zone coltivate e privando la popolazione civile di beni indispensabili alla sopravvivenza.

Da quando combattenti di Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre 2023 importanti dirigenti israeliani, tra cui il ministro della Difesa Yoav Gallant, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben.Gvir e quello dell’Energia Israel Katz, hanno fatto dichiarazioni pubbliche che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, manifestando l’intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante. Altri politici israeliani hanno pubblicamente affermato che l’aiuto umanitario a Gaza sarebbe stato condizionato o al rilascio degli ostaggi illegalmente detenuti da Hamas o alla distruzione di Hamas.

Per oltre due mesi Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo ed acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da governanti israeliani di alto livello e che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra,” ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch. “I leader mondiali dovrebbero esprimersi contro questo abominevole crimine di guerra, che ha effetti devastanti sulla popolazione di Gaza.”

Human Rights Watch ha intervistato 11 profughi palestinesi di Gaza tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Essi hanno descritto le loro gravissime difficoltà per garantirsi le necessità fondamentali. “Non abbiamo cibo, elettricità, internet, assolutamente niente,” ha detto un uomo che ha lasciato il nord di Gaza. “Non sappiamo come siamo riusciti a sopravvivere.”

Nel sud di Gaza gli intervistati hanno descritto la scarsità di acqua potabile, la mancanza di cibo che ha portato a negozi vuoti, lunghe code e prezzi esorbitanti. “Sei alla costante ricerca delle cose necessarie per sopravvivere,” ha detto il padre di due figli. Il 6 dicembre il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (WFP) ha informato che 9 su 10 nuclei familiari nel nord di Gaza e 2 su 3 nella parte meridionale di Gaza avevano passato almeno un giorno e una notte di seguito senza cibo.

Il diritto umanitario internazionale e la legislazione di guerra vietano di affamare i civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente civili “privandoli di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’impedimento intenzionale ai soccorsi” è un crimine di guerra. L’intenzione criminale non richiede l’ammissione da parte dell’aggressore, ma può anche essere dedotta dal complesso delle circostanze della campagna militare.

Inoltre il continuo blocco israeliano di Gaza, così come i più di 16 anni di assedio, rappresentano una punizione collettiva della popolazione civile, un crimine di guerra. In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, come potenza occupante a Gaza Israele ha il dovere di garantire che la popolazione civile disponga di cibo e medicinali.

Il 17 novembre il WFP ha avvertito dell’“immediata possibilità” di carestia, evidenziando che l’approvvigionamento di cibo ed acqua era in pratica inesistente. Il 3 dicembre ha informato di un “grave rischio di carestia”, segnalando che il sistema alimentare di Gaza era sull’orlo del collasso. E il 6 dicembre ha dichiarato che il 48% dei nuclei famigliari nel nord di Gaza e il 38% delle persone sfollate nel sud aveva registrato “gravissimi livelli di carenza di cibo”.

Il 3 novembre il Consiglio Norvegese per i Rifugiati ha annunciato che Gaza era alle prese con “catastrofiche carenze di acqua, sanità e igiene.” Strutture per la sanificazione e desalinizzazione hanno chiuso le attività a metà ottobre a causa della mancanza di carburante ed elettricità, e secondo l’Autorità Palestinese per le Acque da allora sono rimaste inattive. Secondo l’ONU anche prima del 7 ottobre Gaza non aveva praticamente acqua potabile.

Prima dell’attuale conflitto si stimava che 1.2 milioni dei 2.2 milioni di abitanti di Gaza stessero affrontando una grave insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dall’aiuto umanitario.

Israele mantiene un controllo complessivo su Gaza, anche sul movimento di persone e beni, sulle acque, sullo spazio aereo e sulle infrastrutture del territorio da cui Gaza dipende, così come sull’anagrafe. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto per 16 anni a un blocco illegale, praticamente del tutto dipendente da Israele per l’accesso al carburante, all’elettricità, alle medicine, al cibo e a altre risorse essenziali.

Dopo l’imposizione di un “blocco totale” a Gaza il 9 ottobre, le autorità israeliane il 15 ottobre hanno ripristinato l’approvvigionamento idrico a zone del sud di Gaza e, il 21 ottobre hanno consentito l’arrivo di un ridotto aiuto umanitario attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 18 ottobre ha detto che Israele non avrebbe consentito assistenza sanitaria “in forma di cibo e medicinali” a Gaza attraverso i suoi valichi “finché i nostri ostaggi non saranno riconsegnati.”

Il governo ha continuato a bloccare l’ingresso di carburante fino al 15 novembre, nonostante avvertimenti riguardo alle gravi conseguenze di ciò, che hanno portato alla chiusura di forni per il pane, ospedali, stazioni di pompaggio delle acque reflue, impianti di desalinizzazione e pozzi. Queste strutture, che sono state rese inutilizzabili, sono indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile. Benché in seguito sia stato consentito l’ingresso di limitate quantità di carburante, il 4 dicembre la Coordinatrice Umanitaria per i Territori Palestinesi Occupati dell’ONU Lynn Hastings le ha definite “assolutamente insufficienti”. Il 6 dicembre il gabinetto di guerra di Israele ha approvato un “minimo” incremento nelle forniture di carburante al sud di Gaza.

Il primo dicembre, immediatamente dopo il cessate il fuoco di sette giorni, l’esercito israeliano ha ripreso i bombardamenti contro Gaza ed ha esteso la sua offensiva di terra, affermando che le sue operazioni militari nel sud avrebbero comportato “altrettanta forza” che nel nord. Mentre politici degli Stati Uniti hanno affermato di aver sollecitato Israele a consentire l’ingresso a Gaza di carburante e aiuto umanitario allo stesso livello di quanto visto durante il cessate il fuoco, il Coordinatore delle Attività Governative del Ministero dell’Interno [israeliano] nei territori il primo dicembre ha affermato di aver bloccato ogni ingresso di aiuti. Il 2 dicembre la consegna di aiuti limitati è ripresa, ma sempre a livelli molto insufficienti, secondo l’ufficio per il coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA).

Insieme al devastante blocco, gli estesi bombardamenti dell’esercito israeliano sulla Striscia hanno comportato vasti danni o distruzioni di beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile.

Il 16 novembre esperti dell’ONU hanno affermato che i gravi danni “minacciano di rendere impossibile la continuazione della vita dei palestinesi a Gaza”. Significativamente, come ha evidenziato l’OCHA, il bombardamento da parte delle forze israeliane il 15 novembre dell’ultimo mulino per cereali in funzione a Gaza ha fatto sì che nel prossimo futuro a Gaza non sarà reperibile la farina prodotta in loco. Inoltre l’ufficio dell’ONU per i Servizi di Progettazione (UNOPS) ha affermato che la distruzione della rete viaria ha reso ancora più difficile alle organizzazioni umanitarie distribuire aiuti a quanti ne hanno bisogno.

Forni per la panificazione e mulini, l’agricoltura e le strutture idriche e di depurazione sono stati distrutti, “ ha detto il 23 novembre alla Associated Press Scott Paul, un importante consigliere per le politiche umanitarie di Oxfam America.

Le azioni militari israeliane a Gaza hanno avuto un effetto devastante anche sul settore agricolo. Secondo Oxfam i massicci bombardamenti, accompagnati dalla carenza di combustibile e acqua, insieme all’espulsione di oltre 1.6 milioni di persone verso il sud di Gaza, hanno reso praticamente impossibili le attività agricole. In un rapporto del 28 novembre l’OCHA ha affermato che nel nord il bestiame sta morendo di fame a causa della mancanza di foraggio e acqua, e che i campi sono sempre più abbandonati e danneggiati per la mancanza di carburante per pompare acqua per l’irrigazione. I problemi esistenti, come la scarsità di acqua e l’accesso ridotto alla coltivazione della terra nei pressi della barriera di confine, hanno aggravato le difficoltà che gli agricoltori locali, molti dei quali sono stati sfollati, dovevano già affrontare. Il 28 novembre l’Ufficio Centrale di Statistica palestinese ha affermato che Gaza sta soffrendo una perdita nella produzione agricola di almeno 1.6 milioni di dollari al giorno.

Il 28 novembre il Settore della Sicurezza Alimentare Palestinese, guidato dal WFP e dalla FAO, hanno informato che oltre un terzo dei terreni agricoli nel nord [di Gaza] è stato danneggiato dalle ostilità. Immagini satellitari esaminate da Human Rights Watch indicano che dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana il 27 ottobre terreni agricoli, compresi orti, serre e coltivazioni nel nord di Gaza sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane.

Il governo israeliano dovrebbe smettere immediatamente di affamare i civili come metodo di guerra, afferma Human Rights Watch. Dovrebbe attenersi al divieto di attacchi contro beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile e togliere il blocco della Striscia di Gaza. Il governo dovrebbe ripristinare l’accesso all’acqua e all’elettricità e consentire l’ingresso di cibo, medicinali e carburante disperatamente necessari a Gaza, anche attraverso il valico di Kerem Shalom.

I governi coinvolti dovrebbero chiedere a Israele di porre fine a queste violazioni. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Canada, la Germania e altri Paesi dovrebbero anche sospendere l’assistenza militare e la vendita di armamenti a Israele finché le sue forze continueranno a commettere impunemente gravi e massicce violazioni che rappresentano crimini di guerra contro i civili.

Con l’uso crudele della mancanza di cibo come arma di guerra il governo israeliano sta aggravando la punizione collettiva dei civili palestinesi e il blocco degli aiuti umanitari,” ha affermato Shakir. “La crescente catastrofe umanitaria a Gaza richiede una risposta urgente e concreta da parte della comunità internazionale.”

Il contesto

Gli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre hanno ucciso almeno 1.200 israeliani e cittadini di altri Paesi, e più di 200 persone sono state prese in ostaggio, azioni che rappresentano crimini di guerra. Il bombardamento e l’offensiva di terra di Israele che ne sono derivati hanno provocato, secondo le autorità di Gaza, più di 18.700 palestinesi uccisi, tra cui più di 7.700 minorenni.

L’OCHA ha informato che al 10 dicembre il bombardamento della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha distrutto più di metà delle infrastrutture civili, comprese più di 50.000 unità abitative, come affermato dal ministero dei Lavori Pubblici e dell’Edilizia a Gaza, così come ospedali, scuole, moschee, panetterie, reti idriche, fognarie ed elettriche. Secondo l’OCHA nella Striscia di Gaza solo il 4 e 5 novembre sette strutture idriche, tra cui serbatoi d’acqua a Gaza City, nel campo profughi di Jabalia e a Rafah, sono state direttamente colpite ed hanno subito gravissimi danni.

I ripetuti e palesemente illegali attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari hanno ulteriormente distrutto il settore medico-sanitario di Gaza, colpendo quindi la possibilità per la popolazione di accedere a cure salvavita, compresa la prevenzione di malattie, deperimento e morte legati alla malnutrizione, esacerbando le terribili conseguenze della mancanza di cibo. “Se non riusciamo a rimettere in piedi questo sistema sanitario vedremo più persone morire di malattie che per i bombardamenti,” ha affermato il 28 novembre Margareth Harris, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Conseguenze sul piano umanitario

Il 13 ottobre le autorità israeliane hanno emanato un ordine impossibile da rispettare di evacuazione dal nord di Gaza entro 24 ore a più di un milione di persone. Da allora, e mentre le condizioni nel nord peggioravano, centinaia di migliaia di persone sono state sfollate nei governatorati di Rafah e Khan Younis nel sud, dove è diventato sempre più difficile garantire i mezzi di sopravvivenza. In base alle leggi umanitarie internazionali l’evacuazione deve essere attuata in condizioni che garantiscano che gli sfollati abbiano accesso senza impedimenti all’aiuto umanitario, compresi cibo e lavoro sufficienti. In caso contrario ciò rappresenta un’espulsione forzata.

Le conseguenze umanitarie delle azioni militari di Israele a Gaza sono state molto gravi. Durante le prime otto settimane di ostilità il nord di Gaza è stato il centro dell’intensa offensiva di terra e aria dell’esercito israeliano. Salvo che durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre, durante il quale convogli dell’ONU hanno portato ridotte quantità di farina e gallette ad alto contenuto energetico, l’arrivo degli aiuti al nord è stato in gran parte interrotto. Secondo l’OCHA tra il 7 novembre e almeno fino al 15 novembre nessuna dei forni per il pane del nord era in funzione a causa della mancanza di carburante, acqua, farina di frumento e per danni strutturali.

Secondo il WFP a Gaza c’è un grave rischio di carenza di cibo e di carestia. Funzionari dell’ONU hanno affermato che 1.9 milioni di persone, oltre l’85% della popolazione di Gaza, sono sfollati interni, aggiungendo che in una zona meridionale sempre più ridotta nella Striscia di Gaza le condizioni potrebbe diventare “persino più infernali”.

Il 5 dicembre il capo dei servizi umanitari dell’ONU Martin Griffiths ha affermato che la campagna dell’esercito israeliano nel sud di Gaza ha portato a condizioni “apocalittiche”, rendendo impossibili significativi interventi umanitari.

Il 6 dicembre l’unico impianto di desalinizzazione nel nord di Gaza ha smesso di funzionare e l’acquedotto che fornisce acqua al nord da Israele è rimasto chiuso, accentuando i rischi di disidratazione e di malattie trasmesse dall’acqua derivanti dal consumo di acqua da sorgenti non sicure. Il 14 dicembre gli ospedali sono stati particolarmente colpiti, con solo un ospedale su 24 nel nord di Gaza in funzione e in grado di accettare nuovi pazienti, anche se fornendo servizi limitati.

Dall’11 ottobre in tutta Gaza la crisi umanitaria si è aggravata con una persistente interruzione della corrente elettrica, così come con una serie di blocchi delle comunicazioni che ha impedito alle persone l’accesso ad affidabili informazioni sulla sicurezza, sui servizi medici d’urgenza e ha ostacolato gravemente le operazioni umanitarie. Il 18 novembre l’OCHA ha affermato che l’interruzione delle telecomunicazioni tra il 16 e il 18 novembre, il quarto dal 7 ottobre, “ha portato a un quasi totale blocco della già problematica distribuzione di assistenza umanitaria, compresa l’assistenza salvavita a persone ferite o intrappolate sotto le macerie in conseguenza degli attacchi aerei e degli scontri”. Il 14 dicembre c’è stato un’altra interruzione delle telecomunicazioni. “

Immagini satellitari visionate da Huma Rights Watch indicano che fin dall’inizio dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano il 27 ottobre orti, serre e terreni coltivati sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane, aggravando le preoccupazioni per la gravissima insicurezza alimentare e la perdita di mezzi di sussistenza. Immagini satellitari indicano che la distruzione di terreni agricoli è continuata nel nord di Gaza durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre e terminato il 1 dicembre, quando l’esercito israeliano aveva il controllo diretto della zona.

Mentre durante il cessate il fuoco di 7 giorni terminato il primo dicembre per la prima volta dal 7 ottobre il governo israeliano ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza di un continuo e leggermente maggiore afflusso di aiuti umanitari, compreso gas da cucina, aveva in precedenza deliberatamente impedito l’ingresso di generi di soccorso nelle quantità necessarie per oltre un mese, imponendo un assedio che ha colpito tutta la popolazione civile. Ciò ha contribuito a una situazione umanitaria catastrofica con conseguenze di vasta portata, con oltre l’80% della popolazione sfollata internamente, molta della quale ospitata in condizioni di sovraffollamento, malsane e insalubri nei rifugi dell’ONU nel sud. Gli aiuti che sono entrati durante il cessate il fuoco “sono stati a malapena percepiti rispetto alle enormi necessità di 1.7 milioni di sfollati,” ha detto il 27 novembre il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric.

Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza circa 200 camion al giorno, comprese quattro cisterne che trasportavano 130.000 litri di carburante e quattro di gas da cucina. In confronto prima del conflitto entrava a Gaza ogni giorno una media di 500 camion di cibo e prodotti e 600.000 litri di carburante al giorno, necessari solo per far funzionare gli impianti per l’acqua e la desalinizzazione. Come sono ripresi i bombardamenti e le forze israeliane sono avanzate verso sud, l’accesso agli aiuti è stato di nuovo seriamente ostacolato. Il 5 dicembre per il terzo giorno consecutivo l’OCHA ha informato che a Gaza solo il governatorato di Rafah aveva ricevuto una ridotta distribuzione di aiuti. Ha affermato che nel vicino governatorato di Khan Younis la distribuzione di aiuti è stata largamente interrotta a causa dell’intensità degli scontri.

Testimonianze di civili a Gaza

Human Rights Watch ha parlato con 11 civili sfollati dal nord di Gaza verso la presunta sicurezza nel sud a causa dei pesanti bombardamenti, del timore di imminenti attacchi aerei o perché Israele ha ordinato loro di andarsene. Molti affermano di essersi spostati varie volte prima di arrivare a sud, mentre lungo il loro viaggio hanno lottato per trovare un rifugio adeguato e sicuro. Nel sud hanno trovato rifugi sovraffollati, mercati vuoti, prezzi alle stelle e lunghe file per ridotte quantità di pane e acqua potabile. Per proteggere la loro identità in tutte le interviste Human Rights Watch utilizza pseudonimi.

Devo camminare per tre chilometri per avere 4 litri (di acqua)” dice il trentenne Marwan, scappato il 9 novembre a sud con la moglie incinta e due figli. “E non c’è cibo. Se lo trovassimo, sarebbe in scatola. Nessuno di noi sta mangiando bene.”

Quello che abbiamo è tutto troppo poco,” dice Hana, 36 anni, scappata dalla sua casa nel nord a Khan Younis, nel sud con suo padre, la moglie di lui e suo fratello l’11 ottobre. Dice che nel sud non sempre hanno accesso ad acqua potabile e sono obbligati a bere acqua non potabile e salata.

Lavarsi è diventato un lusso, afferma, a causa della mancanza di mezzi per scaldare l’acqua, per cui devono andare a cercare della legna. Nelle situazioni disperate, dice, finiscono persino col bruciare vecchi vestiti per cucinare. Il processo di preparazione del pane presenta delle difficoltà a causa della scarsità di ingredienti che non possono permettersi. “Facciamo del pane cattivo perché non abbiamo tutti gli ingredienti e non possiamo comprarli,” afferma.

Majed, 34 anni, scappato a sud con la moglie e quattro figli sopravvissuti verso il 10 di novembre dice che, mentre la situazione nel sud è disastrosa, è incomparabile con quello che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare nel nord. Sono stati in una zona nei pressi dell’ospedale al-Shifa a Gaza City per oltre un mese dopo che il 13 ottobre la loro casa era stata bombardata uccidendo il figlio di sei anni di Majed:

In quei 33 giorni non abbiamo mangiato pane perché non c’era farina,” afferma. “Non c’era acqua, a volte compravamo acqua per 10 (dollari) a tazza. Non sempre era potabile. A volte (l’acqua che abbiamo bevuto) era del bagno e altre del mare. I mercati della zona erano vuoti. Non c’era neppure cibo in scatola.”

Taher, 32 anni, scappato con la sua famiglia l’11 novembre, descrive condizioni simili a Gaza City nelle prime settimane di novembre: “La città era priva di ogni cosa, di cibo e acqua,” dice. “Se trovavi cibo in scatola i prezzi erano altissimi. Abbiamo deciso di mangiare solo una volta al giorno per sopravvivere. Abbiamo finito i soldi. Abbiamo deciso di avere solo l’indispensabile, di avere meno di tutto.”

Standard internazionali e le prove di azioni deliberate

Affamare i civili come metodo di guerra è vietato in base all’articolo 54 (1) del Primo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo I) e dell’articolo 14 del Secondo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo II). Benché Israele non abbia aderito ai protocolli I e II, il divieto viene riconosciuto come riflesso del diritto umanitario consuetudinario internazionale sia in conflitti internazionali che non internazionali. Le parti di un conflitto non devono “provocare deliberatamente (una carestia)” o provocare deliberatamente “il fatto che la popolazione soffra la fame, in particolare privandola delle fonti o dei rifornimenti di cibo.”

Alle parti in guerra è vietato anche attaccare i beni indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile, come cibo e medicinali, zone agricole e impianti dell’acqua potabile. Sono obbligate a fornire assistenza umanitaria rapida e senza restrizioni a tutti i civili in stato di necessità e a non bloccare deliberatamente gli aiuti umanitari o limitare la libertà di movimento del personale dell’assistenza umanitaria. In ognuna delle precedenti quattro guerre a Gaza dal 2008 Israele ha garantito il flusso di acqua potabile ed elettricità a Gaza ed ha aperto i valichi israeliani per la distribuzione di aiuti umanitari.

Le prove dell’intenzione di utilizzare deliberatamente la mancanza di cibo come metodo di guerra possono essere rintracciate nelle affermazioni pubbliche di politici coinvolti nelle operazioni militari. Ci si può aspettare che i seguenti politici israeliani di alto livello possano aver giocato un ruolo significativo nel definire le politiche rispetto a consentire o bloccare il cibo e altri beni di prima necessità per la popolazione civile.

Il 9 ottobre il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto: “Stiamo imponendo un assedio totale contro (Gaza). Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e dobbiamo agire di conseguenza.”

Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir il 17 ottobre ha detto in un tweet: “Finché Hamas non rilascerà gli ostaggi, l’unica cosa che dovrebbe entrare a Gaza sono centinaia di tonnellate di esplosivo dal cielo, neppure un grammo di aiuto umanitario.”

Il ministro dell’Energia Israel Katz, che ha raccontato di aver ordinato il taglio di elettricità e acqua, ha detto l’11 ottobre:

Per anni abbiamo fornito a Gaza elettricità, acqua e carburante. Invece di ringraziarci, hanno inviato migliaia di animali umani a massacrare, uccidere, violentare e rapire bambini, donne e anziani. Per questo abbiamo deciso di interrompere la fornitura di acqua, elettricità e carburante e ora l’impianto di produzione di energia locale è crollato e a Gaza non c’è elettricità. Continueremo a mantenere un rigido assedio finché Israele e il mondo non saranno liberati della minaccia di Hamas. Ciò che è stato non ci sarà più.”

Il 12 ottobre Katz ha detto:

Aiuti umanitari a Gaza? Neppure un interruttore verrà acceso, non verrà aperta neppure una valvola, neppure un camion di carburante entrerà finché gli ostaggi israeliani non torneranno a casa. Umanità contro umanità. Che nessuno ci dia lezioni di moralità.”

Il 16 ottobre ha detto:

Ho appoggiato l’accordo tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Biden per la fornitura di acqua al sud della Striscia di Gaza perché è in linea anche con gli interessi israeliani. Sono totalmente contrario a togliere il blocco e a lasciar entrare a Gaza prodotti per ragioni umanitarie. Il nostro impegno è verso le famiglie degli assassinati e gli ostaggi rapiti, non verso gli assassini di Hamas e la gente che li ha aiutati.”

Il 4 novembre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che “per nessuna ragione” deve entrare carburante a Gaza. Poi, come riportato dal Jerusalem Post, ha definito la decisione del gabinetto di guerra israeliano di consentire l’ingresso nella Striscia di una piccola quantità di carburante “un grave errore” e ha affermato: “Si ponga termine immediatamente a questo scandalo e si impedisca che carburante entri nella Striscia”.

In un video postato in rete il 4 novembre il colonnello Yogev Bar-Shesht, vice capo dell’Amministrazione Civile [ente militare che governa i territori occupati, ndt.] ha affermato in un’intervista da Gaza: “Chiunque torni qui, se ritornerà in seguito, troverà terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente. Non hanno futuro.”

Il 24 novembre, in un’intervista televisiva con la CNN, Mark Regev, consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha affermato che Israele ha privato Gaza di carburante dal 7 ottobre per rafforzare la posizione di Israele quando si tratterà di negoziare con Hamas il rilascio degli ostaggi. “Se lo avessimo fatto (consentire l’ingresso di carburante) … non avremmo mai avuto la restituzione dei nostri ostaggi,” ha detto.

Il 1 dicembre il coordinatore delle attività di governo nei territori del ministero dell’Interno, generale Ghassan Alian, ha affermato che l’ingresso di carburante e aiuti a Gaza era stato interrotto dopo che Hamas aveva violato le condizioni dell’accordo di cessate il fuoco. Il suo ufficio ha confermato la sua dichiarazione in risposta a una domanda del Times of Israel sostenendo: “”Dopo che l’organizzazione terroristica Hamas ha violato l’accordo e in più ha sparato contro Israele, l’ingresso di aiuti umanitari è stato bloccato nel modo previsto dall’accordo.”

Fin dal 7 ottobre altre fonti ufficiali hanno chiesto di limitare l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, affermando che ciò è utile agli obiettivi dell’esercito israeliano.

Il primo ministro Netanyahu il 5 dicembre ha risposto a una domanda riguardo al fatto che Israele potrebbe perdere un’arma di pressione contro Hamas se consentisse l’ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza affermando: “Gli sforzi bellici sono sostenuti da quelli umanitari… ciò perché seguiamo le leggi di guerra in quanto sappiamo che, se ci fosse un collasso – epidemie, pandemie e infezioni dovute alla falda freatica – ciò porrebbe fine alla guerra.”

Il ministro della Difesa Gallant ha affermato: “Ci viene chiesto di consentire il minimo dal punto di vista umanitario perché la pressione militare possa continuare.”

Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, ha detto il 17 novembre a una conferenza stampa: “Se c’è un’epidemia, i combattimenti finiranno. Se ci sono una crisi umanitaria e una protesta internazionale, in quelle condizioni non riusciremo a continuare a combattere.”

Il 18 ottobre l’ufficio del primo ministro ha annunciato che Israele non avrebbe impedito agli aiuti umanitari di entrare a Gaza dall’Egitto in seguito a pressioni degli USA e di altri alleati internazionali:

Alla luce della richiesta del presidente Biden Israele non ostacolerà soccorsi umanitari dall’Egitto finché si tratterà solo di cibo, acqua e medicinali per la popolazione civile del sud della Striscia di Gaza.”

Distruzione della produzione agricola e impatto sulla produzione di cibo

Durante le operazioni di terra nel nord di Gaza a quanto sembra le forze israeliane hanno distrutto la produzione agricola accentuando la carenza di cibo con effetti a lungo termine. Ciò ha incluso la distruzione di coltivazioni, campi e serre.

L’esercito israeliano ha affermato di condurre operazioni militari nella zona di Beit Hanoun, e anche in una zona agricola imprecisata a Beit Hanoun, per scoprire tunnel e altri obiettivi militari.

Campi e frutteti a nord di Beit Hanoun, per esempio, sono stati i primi ad essere danneggiati durante le ostilità in seguito alle operazioni di terra israeliane alla fine di ottobre. Bulldozer hanno scavato nuove strade, aprendo la via per veicoli militari israeliani.

Da metà novembre, dopo che le forze israeliane hanno preso il controllo della stessa area nel nordest di Gaza, immagini satellitari mostrano che frutteti, campi e serre sono stati sistematicamente distrutti, lasciando sabbia e polvere. L’8 dicembre Human Rights Watch ha chiesto un commento all’esercito israeliano, ma non ha ricevuto risposta.

Gli agricoltori della zona avevano piantato coltivazioni come alberi di agrumi, patate, pitaya [frutti originari dell’America centro-meridionale, ndt.] e fichi d’india, contribuendo al sostentamento dei palestinesi di Gaza. Altre coltivazioni includono pomodori, cavoli e fragole. Alcuni appezzamenti sono stati distrutti in un giorno. Gli alberi di agrumi, come i cactus della pitaya, richiedono anni di cure per maturare prima di dare frutti.

Immagini satellitari ad alta definizione mostrano che sono stati usati bulldozer per distruggere campi e piantagioni. Si vedono camion e montagne di terra sui limiti dei precedenti appezzamenti.

Che si tratti di distruzioni deliberate, di danni dovuti alle ostilità o all’impossibilità di irrigare o lavorare la terra, nel nord di Gaza i terreni agricoli sono stati drasticamente ridotti fin dall’inizio delle operazioni di terra israeliane.

Anche nel sud di Gaza aziende agricole e contadini sono stati colpiti. Action Against Hunger [ong francese che lotta contro la fame nel mondo, ndt.] ha scoperto che delle 113 aziende agricole del sud di Gaza interpellate tra il 19 e il 31 ottobre il 60% ha affermato che le proprie attività o coltivazioni sono state danneggiate, il 42% di non avere accesso all’acqua per irrigare i campi e il 43% di non essere in grado di raccogliere i prodotti.

Rettifica

18/12/2023: Questo comunicato stampa è stato aggiornato per riportare la data di ottobre in cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che Israele non avrebbe consentito assistenza umanitaria a Gaza “nella forma di cibo e medicinali” attraverso i suoi valichi “finché gli ostaggi (israeliani) non saranno restituiti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guerra Israele-Palestina: come i media statunitensi legittimano la barbarie di Israele contro i palestinesi

Gregory Shupak

20 ottobre 2023, Middle East Eye

Presentando la campagna terroristica di Israele contro i palestinesi come se fosse giustificabile, i media statunitensi fanno la loro parte nel farla continuare

I recenti editoriali apparsi sui principali giornali liberal statunitensi hanno regolarmente presentato l’incessante terrore di massa che Israele infligge ai palestinesi come legittimo.

I media hanno appoggiato l’assalto israeliano a Gaza e il finanziamento americano dell’attacco criticando allo stesso tempo coloro che propongono opinioni anche leggermente dissenzienti. La stampa americana ha ripetutamente conferito alla violenza israeliana un aspetto virtuoso, anche quando falcidia le persone – generosità non concessa alla controparte palestinese.

Il 12 ottobre il Washington Post ha pubblicato un editoriale in cui elogiava il presidente americano Joe Biden per la sua “condanna senza riserve del terrorismo di Hamas”, affermando: “A questo riguardo, le ferme parole di Biden sono anche in gradito contrasto con le ambiguità di un piccolo numero di membri di sinistra del suo stesso partito al Congresso che la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha espressamente sconfessato.”

Il collegamento alle parole di Jean-Pierre segnala che le “ambiguità” contestate dal Washigton Post sono le affermazioni che “suggeriscono che l’attacco di Hamas contro Israele dovrebbe essere considerato nel contesto delle precedenti azioni di Israele”, o che “si oppongono sui social media agli aiuti militari statunitensi per Israele e chiedono un immediato cessate il fuoco nel conflitto.”

Il giorno prima della pubblicazione di quest’editoriale le associazioni per i diritti umani Mezan, al-Haq e il Centro Palestinese per i Diritti Umani avevano documentato congiuntamente che solo nel periodo tra il mezzogiorno del 10 e dell’11 ottobre Israele aveva distrutto gli interi quartieri di al-Qarm, Ezbet Abdrabbo e al-Sikka, con le squadre di soccorso che “recuperano dozzine di corpi” mentre “altri sono ancora sotto le macerie”; “hanno preso di mira l’Università islamica di Gaza e hanno bombardato l’edificio del Programma di Borse di Studio Al-Fakhoura”, attacchi che hanno ucciso 57 palestinesi, tra cui 20 bambini. Hanno inoltre segnalato gli attacchi aerei e i bombardamenti di Israele sui terreni agricoli del Distretto dell’Area Centrale e sulle “aree residenziali, in particolare nei tre campi profughi densamente popolati di Al-Bureij, Al-Nusairat e Deir al-Balah”, uccidendo almeno 49 palestinesi 15 dei quali bambini.

Per il Post, “equivocare” sulla questione se gli Stati Uniti debbano finanziare tali atrocità o cercare di mettervi fine con un cessate il fuoco è “[in]accettabile”.

Giustificare il linguaggio “genocida”.

Nel suo editoriale più recente, il Washington Post esprime preoccupazione per i palestinesi ma continua a sostenere la campagna militare di Israele: “Dopo il massacro dei suoi civili, Israele – come qualsiasi altro Stato – ha tutto il diritto di rispondere militarmente”.

Per il Washington Post la violenza dell’occupante è giusta e quella degli occupati no: Israele può “rispondere militarmente” alle forze palestinesi che uccidono israeliani ma i palestinesi non hanno lo stesso diritto, anche dopo 75 anni di pulizia etnica, anche sotto un regime di apartheid.

Un editoriale del New York Times del 14 ottobre sostiene fermamente gli attacchi di Israele, affermando che Israele “è determinato a spezzare il potere di Hamas e in questo sforzo merita il sostegno degli Stati Uniti e del resto del mondo”. Gli autori proseguono affermando che “la fine del controllo di Hamas su Gaza è un passo essenziale”.

L’editoriale del New York Times contiene specificazioni quali: Israele “non dovrebbe perdere di vista il suo impegno a salvaguardare coloro che non hanno imbracciato le armi”.

Il comitato editoriale contraddice le proprie affermazioni sul presunto “impegno” di Israele a proteggere i civili citando il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che definisce i palestinesi “animali umani”, cosa che gli autori giustificano dicendo che l’osservazione avviene “in un’atmosfera di intensa emozione”.

Naturalmente, Gallant non è l’unico funzionario israeliano ad usare un linguaggio genocida dopo l’escalation della guerra contro la Palestina. Il portavoce militare israeliano, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha affermato che Israele ha sganciato “centinaia di tonnellate di bombe” su Gaza e che “l’accento è sui danni e non sulla precisione”.

Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto: “C’è là un’intera nazione che è responsabile. Non è vera questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti. Non è assolutamente vera”. Ha aggiunto: “Stiamo difendendo le nostre case, stiamo proteggendo le nostre case, questa è la verità, e quando una nazione protegge la sua casa combatte e noi combatteremo finché non gli spezzeremo le reni”.

Non solo i leader israeliani hanno ripetutamente segnalato di non aver intenzione di “tutelare” i non combattenti, ma Israele li ha deliberatamente massacrati in massa.

Ad esempio il giorno prima della pubblicazione dell’editoriale il pluripremiato gruppo per i diritti umani Defense for Children International Palestine ha riferito che nell’attacco contro Gaza Israele aveva ucciso fino a quel momento quasi 600 bambini palestinesi, un terzo del bilancio complessivo delle vittime.

Affermazioni assurde

Anche se Israele respinge qualsiasi impegno a proteggere i civili sia nelle parole che nei fatti, il New York Times mette ripetutamente in buona luce la politica militare israeliana a fronte di quella delle forze palestinesi, scrivendo che “Israele si sta preparando a mandare i suoi giovani uomini e donne in battaglia, dove affronteranno un nemico che non rispetta le stesse regole di guerra a cui loro si sono impegnati.”

Dire che la violenza dello Stato israeliano è moralmente superiore a quella dei gruppi di resistenza palestinesi trasmette il chiaro messaggio che la prima è legittima mentre la seconda no.

Il New York Times ha fatto la stravagante affermazione secondo cui “Israele sta combattendo per difendere una società che valorizza la vita umana e lo stato di diritto”.

Dal momento che non viene fatta alcuna affermazione del genere sui “valori” palestinesi, il messaggio è che massacrare i palestinesi sia legittimo: se la società palestinese (o importanti settori di essa) valorizza la criminalità omicida, allora è implicito che sia auspicabile venga spazzata via da una forza che si presume più civile.

Nel frattempo, due giorni prima che l’editoriale andasse in stampa, Human Rights Watch (HRW) ha affermato che Israele aveva utilizzato il fosforo bianco – che, al contatto, può “bruciare le persone, termicamente e chimicamente, fino alle ossa” – sia sul porto di Gaza City che in aree rurali lungo la linea dell’armistizio tra Israele e il Libano.

HRW ha affermato che l’uso del fosforo bianco a Gaza, una delle aree più densamente popolate del mondo, “amplifica il rischio per i civili e viola il divieto del diritto umanitario internazionale di esporre i civili a rischi inutili”.

Come ha osservato HRW, Israele ha utilizzato quest’arma a Gaza anche nel 2009 e nell’attuale ciclo di combattimenti Israele ha “tagliato elettricità, acqua, carburante e cibo a Gaza in violazione al divieto del diritto umanitario internazionale contro la punizione collettiva”.

Per “una società che valorizza la vita umana e lo stato di diritto”, Israele compie un’enorme quantità di uccisioni e di violazioni della legge.

Una patina etica

Allo stesso modo il Los Angeles Times ha dichiarato che “Israele ha tutto il diritto di usare la forza militare per prevenire” attacchi come quelli compiuti da Hamas il 7 ottobre e che Israele “deve rimanere fedele ai suoi valori facendo tutto il possibile per ridurre al minimo le sofferenze degli innocenti residenti palestinesi di Gaza.”

Il pezzo applaude Biden per aver affermato che chiederà al Congresso “un pacchetto di sostegno senza precedenti per la difesa di Israele” e per aver vagamente suggerito a Israele di riflettere se l’uccisione di migliaia di palestinesi aiuterà a “raggiungere i [suoi] obiettivi”.

L’editoriale poi afferma: “Che Israele non prenda di mira i civili è di scarso conforto per le famiglie delle persone uccise o ferite”.

Forse gli autori ritengono che sia magnanimo menzionare le circa 3.000 vite palestinesi che Israele ha ucciso in 11 giorni. Ma tali simpatie sono peggio che inutili quando sono confezionate con una menzogna che giustifica tutte le uccisioni e crea alibi per tutte le uccisioni future: ad esempio, due giorni prima dell’editoriale l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) osservava: “Molti edifici residenziali in aree densamente popolate sono stati presi di mira e distrutti” da Israele, tra cui un “edificio residenziale a Jabalia, nel nord di Gaza, dove sono stati uccisi dieci palestinesi; un edificio residenziale nella zona Musabah di Rafah, dove almeno 11 palestinesi, tra cui donne e bambini, sono stati uccisi; e l’edificio di un’organizzazione di beneficenza a Rafah, dove sono stati uccisi 11 palestinesi e molti altri sono rimasti feriti. Il 16 ottobre, al mattino, secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno preso di mira un edificio residenziale a Khan Yunis, uccidendo 22 palestinesi.”

Inoltre il 15 ottobre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato: “Quattro ospedali nel nord di Gaza non funzionano più a causa di danni e attacchi. 21 ospedali nella Striscia di Gaza hanno ricevuto istruzioni dalle forze israeliane di evacuare. L’OMS ribadisce che devono essere prese tutte le precauzioni per proteggere gli operatori sanitari e le strutture sanitarie, compresi i pazienti e i civili che vi trovano rifugio.”

Queste fantasie su un presunto risparmiare i civili da parte di Israele e sui suoi presunti “valori” umani presentano tutta la crudeltà – le uccisioni spietate, le raccapriccianti ferite fisiche e psichiche, il sadismo dell’assedio – come incidenti in buona fede lungo il percorso verso una giusta causa; è retorica intesa a mascherare la brutalità israeliana con una patina etica.

Ma la causa di Israele è la violenza coloniale. La violenza dell’espropriazione, della tortura e di un massacro dopo l’altro. Perché nessuno Stato etnico in cui i palestinesi rimangano una minoranza perseguitata nella propria patria è possibile senza una violenza spietata e incessante.

Presentando tutta questa barbarie come se fosse giustificabile, i media statunitensi stanno facendo la loro parte affinché continui.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Gregory Shupak insegna Inglese e Studi sui Media all’Università di Guelph-Humber a Toronto. È autore del libro The Wrong Story: Palestine, Israel, and the Media [La storia sbagliata: Palestina, Israele e i media].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La visita di Herzog negli Stati Uniti nasconde i crimini israeliani, ma emergono motivi di speranza.

Majdi Khaldi

29 luglio 2023 – Middle East Eye

Il discorso del presidente israeliano al Congresso è stato un mero esercizio di pubbliche relazioni mentre l’appoggio statunitense ai diritti dei palestinesi sembrerebbe il più alto da sempre.

Proprio mentre il governo israeliano promuove un numero senza precedenti di unità abitative nelle colonie e adotta decine di leggi discriminatorie, i politici occidentali continuano a lodare i valori “democratici” e “liberali” di Israele.

È come se si affannassero a trovare ogni scusa per proteggere Israele qualunque cosa faccia.

Questo atteggiamento è stato il presupposto del recente discorso del presidente israeliano Isaac Herzog al Congresso USA, in cui ancora una volta il messaggio di impunità per le violazioni e i crimini israeliani è stato sostenuto oltre ogni considerazione per le leggi internazionali, i diritti umani o persino gli stessi principi del Processo di Pace per il Medio Oriente sponsorizzato a suo tempo dagli USA.

Il discorso di Herzog ha difeso adeguatamente gli interessi del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ha glorificato un Israele mitico come faro di democrazia e uguaglianza, come se decine di leggi israeliane che negano ai palestinesi i loro diritti non esistessero, mentre gli ebrei israeliani godono dei pieni diritti dello Stato. Sono in vigore più di 70 leggi discriminatorie contro i palestinesi che secondo diverse organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch e persino l’israeliana B’Tselem configurano il crimine di apartheid.

Tra gli esempi ci sono la legge dello Stato-Nazione del popolo ebraico, secondo cui l’autodeterminazione è riservata solo agli ebrei la legge del Ritorno, che consente solo agli ebrei di entrare e ottenere la cittadinanza dello Stato; la legge sulla Proprietà degli Assenti, che codifica il furto di proprietà dei rifugiati palestinesi da parte dello Stato; infine il divieto di riunificazione delle famiglie palestinesi, che nega alle famiglie palestinesi cristiane e musulmane di Gerusalemme o di Israele il diritto di vivere insieme se un coniuge ha la carta d’identità palestinese.

Nessun interesse per la pace

Herzog non ha parlato della soluzione a due Stati, ma dei “vicini palestinesi” di Israele come se non fossero sottoposti all’occupazione israeliana, giocando il classico gioco di incolpare gli altri. Ciò che Herzog ha anche dimenticato di citare è che i “vicini” includono più del 50% della popolazione dei territori controllati da Israele, che consegna alla sua minoranza demografica pieni diritti negando nel contempo i diritti civili e umani al popolo palestinese.

Inoltre non ha menzionato il fatto che il territorio occupato nel 1967, compresa Gerusalemme est, in base al diritto internazionale è della Palestina. È semplicemente vergognoso, anche per centinaia di migliaia di cittadini palestinesi-americani, che i politici statunitensi abbiano ospitato al Congresso la negazione della Nakba e l’occultamento dell’occupazione da parte di Herzog.
Si è trattato di un puro esercizio di pubbliche relazioni piuttosto che di un tentativo di fare la pace. Al massimo è stato un tentativo personale da parte del presidente israeliano di presentare le sue credenziali a Washington in un momento in cui i rapporti tra l’amministrazione Biden e Netanyahu sembrano essere tesi.

Tuttavia i loro problemi non riguardano il popolo palestinese, la cui negazione dei diritti a Washington sembra essere stata normalizzata, ma piuttosto le dispute interne a Israele riguardo alle riforme giudiziarie di Netanyahu.

In effetti lo stesso Congresso USA che sostiene le politiche israeliane contro il popolo palestinese non molto tempo fa appoggiava l’apartheid in Sud Africa. La vasta maggioranza delle iniziative prese dall’amministrazione Trump a sostegno all’annessione israeliana e alla negazione dei diritti dei palestinesi non è stata revocata dall’attuale governo, mentre il Congresso considera ancora l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina un gruppo terroristico proprio come fece con l’African National Congress [il partito di Mandela, ndt.]. Herzog rappresenta la tradizionale diplomazia israeliana che nasconde crimini di guerra con un sorriso e una stretta di mano. La sua descrizione del governo israeliano è stata raffinata e fatta su misura per un pubblico di persone già desiderose di concedergli il podio. Ovviamente non ha citato i sionisti religiosi radicali del suo governo perché sono una pubblicità negativa. Nel contempo sono stati attuati sul terreno i disastrosi progetti del colono di estrema destra e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che chiaramente invocano una seconda Nakba [la pulizia etnica di cui furono vittime i palestinesi nel 1947-49, ndt.] senza uno Stato palestinese, con l’espulsione forzata e l’apartheid.

Ragioni di Speranza

Ma ci sono ancora ragioni di ottimismo. Il boicottaggio che alcuni membri del Congresso hanno messo in atto contro il discorso del presidente israeliano è più significativo di quanto alcuni credono, in quanto rappresenta la crescente percentuale di americani che appoggiano i diritti dei palestinesi.

Nella comunità statunitense per i diritti umani c’è un crescente riconoscimento dell’apartheid israeliana e più comunità religiose ed altre organizzazioni della società civile stanno chiedendo di prendere misure concrete contro l’occupazione israeliana, anche attraverso il boicottaggio e il disinvestimento.

Quanti sostengono l’impunità di Israele sembrano essere sovrarappresentati rispetto all’opinione pubblica USA. Questi segnali potrebbero essere un punto di svolta nella lotta per la libertà, la giustizia, l’uguaglianza e la pace. Il popolo palestinese e i suoi alleati continueranno la lotta, ovunque siano, per la libertà e rinnovano appelli agli USA e ai Paesi europei perché prendano misure di responsabilizzazione per mettere in pratica, con molto ritardo, i diritti inalienabili del popolo palestinese. Ciò dovrebbe includere azioni contro il terrorismo dei coloni. Inoltre è adesso chiaro che il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo urgente che gli USA e l’UE dovrebbero prendere per confermare il loro sostegno a una soluzione politica piuttosto che rimanere in silenzio riguardo alle azioni di un governo di coloni e altri estremisti che dettano i termini dell’impegno.

I tentativi di sdoganare le politiche israeliane non faranno sparire il popolo palestinese. Nel momento in cui il governo israeliano sta mettendo in atto iniziative intese a consolidare l’annessione di tutta la Palestina storica, la risposta di quanti hanno a cuore la pace fondata su un ordine mondiale basato sulle leggi dovrebbe essere di prendere iniziative per la libertà dei palestinesi piuttosto che rafforzare l’occupazione israeliana.

Il discorso di Herzog al Congresso rappresenta la perpetuazione dello status quo, in cui i diritti dei palestinesi sono negati. Ma lo spostamento dell’opinione pubblica statunitense a favore dei palestinesi e i parlamentari che hanno boicottato la sessione con il presidente [israeliano] sono una fonte di speranza lungo il cammino per raggiungere la libertà e l’indipendenza dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

L’ambasciatore Majdi Khaldi è membro del Consiglio Nazionale Palestinese e consigliere diplomatico esperto del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’arte dei bambini palestinesi mette in luce il genocidio culturale israeliano

Ramzy Baroud

7 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il seguente messaggio di testo racconta l’intera storia di ciò per cui le comunità filo-palestinesi di tutto il mondo stanno combattendo e contro cui combattono i filo-israeliani: “Siamo lieti di annunciare che il Chelsea e il Westminster Hospital ha rimosso un’esposizione di opere d’arte disegnate da bambini provenienti da Gaza”.

Questo è il riassunto di una notizia pubblicata sulla homepage del gruppo lobbista filo-israeliano UK Lawyers for Israel [Avvocati Britannici per Israele, ndt.] (UKLFI). L’associazione è accreditata – se credito è la parola giusta – come lo schieramento che è riuscito a convincere l’amministrazione di un ospedale nella zona ovest di Londra a rimuovere alcune opere d’arte create dai bambini rifugiati nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Per spiegare la logica alla base della loro incessante campagna per la rimozione dell’arte dei bambini, UKLFI ha affermato che i “pazienti ebrei” in ospedale “si sentivano vulnerabili e colpevolizzati dall’esibizione”. Le poche opere d’arte raffiguravano la Cupola della Roccia nella Gerusalemme Est occupata, la bandiera palestinese e altri simboli che non dovrebbero realmente “colpevolizzare” nessuno. L’articolo dell’ UKLFI è stato successivamente modificato, con la rimozione del riassunto offensivo, sebbene sia ancora accessibile sui social media.

Per quanto ridicola possa sembrare questa storia, in realtà è l’essenza stessa della campagna anti-palestinese lanciata da Israele e dai suoi alleati in tutto il mondo. Mentre i palestinesi si battono per i diritti umani fondamentali, la libertà e la sovranità come sancito dal diritto internazionale, il campo filo-israeliano si batte per la totale cancellazione di tutto ciò che è palestinese.

Alcuni chiamano ciò genocidio o etnocidio culturale. Sebbene i palestinesi abbiano familiarità con questa pratica israeliana in Palestina sin dall’inizio dello stato di occupazione, i confini della guerra sono stati ampliati per raggiungere qualsiasi parte del mondo, specialmente nell’emisfero occidentale.

La disumanità dell’UKLFI e dei suoi alleati è abbastanza palpabile, ma l’associazione non può essere l’unica da biasimare. Quegli avvocati non sono che la continuazione di una cultura coloniale israeliana che osserva l’esistenza stessa di un popolo palestinese, inclusa l’arte dei bambini rifugiati, attraverso una visione politica, come una “minaccia esistenziale” per lo stato di occupazione.

Il rapporto tra l’esistenza stessa di un Paese e l’arte dei bambini può sembrare assurdo, – e lo è – ma ha una sua, seppur strana, logica: finché questi bambini profughi si riconosceranno come palestinesi continueranno a vedere se stessi, ed essere considerati da altri, come parte di un tutto più grande, il popolo palestinese. Questa autoconsapevolezza e il riconoscimento da parte di altri – per esempio, pazienti e personale di un ospedale di Londra – di questa identità palestinese collettiva, rende difficile, di fatto impossibile, per Israele vincere.

Per palestinesi e israeliani la vittoria significa due cose completamente diverse, che sono conciliabili. Per i palestinesi la vittoria significa libertà per il popolo palestinese e uguaglianza per tutti. Per Israele la vittoria può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione dei palestinesi sul piano geografico, storico, culturale e sulla base di ogni altro aspetto che potrebbe costituire parte dell’identità di un popolo.

Purtroppo il Chelsea and Westminster Hospital assume ora una parte attiva in questa tragica cancellazione dei palestinesi, allo stesso modo in cui nel 2018 Virgin Airlines [compagnia aerea privata britannica, ndt.] ha ceduto alle pressioni quando ha accettato di rimuovere il “cuscus di ispirazione palestinese” dal suo menu. All’epoca questa storia sembrò un bizzarro episodio del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”, anche se in realtà la vicenda rappresentava il nucleo stesso di questo “conflitto”.

Per Israele la guerra in Palestina ruota attorno a tre finalità fondamentali: acquisire terra; cancellare le persone; riscrivere la storia. Il primo obiettivo è stato in gran parte raggiunto attraverso un processo di pulizia etnica e di folle colonizzazione della Palestina dal 1947-48. L’attuale governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu spera solo di portare a termine questo processo. Il secondo compito va oltre la pulizia etnica, perché anche la semplice consapevolezza della loro identità collettiva da parte dei palestinesi, ovunque si trovino, costituisce un problema. Da qui il processo attivo del genocidio culturale. E sebbene Israele sia riuscito a riscrivere la storia per molti anni, questo compito viene ora sfidato, grazie alla tenacia dei palestinesi e dei loro alleati e al potere delle reti sociali e digitali.

I palestinesi sono senza dubbio i maggiori beneficiari dello sviluppo dei media digitali. Questi hanno contribuito al decentramento delle narrazioni politiche e persino storiche. Per decenni la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di cosa rappresentino “Israele” e “Palestina” nell’immaginario dominante è stata ampiamente controllata attraverso una specifica narrazione approvata da Israele. Coloro che deviavano da questa narrazione venivano attaccati ed emarginati, e quasi sempre accusati di “antisemitismo”. Sebbene queste tattiche siano ancora scatenate contro i critici di Israele, il risultato non è più garantito.

Ad esempio, un singolo tweet che descrive la “gioia” dell’UKLFI ha ricevuto oltre 2 milioni di visualizzazioni su Twitter. Milioni di britannici indignati e utenti di social media in tutto il mondo hanno trasformato quella che doveva essere una vicenda locale in uno degli argomenti riguardanti Palestina e Israele più discussi in tutto il mondo. Com’era prevedibile, non molti utenti dei social media hanno condiviso la “gioia” dell’ UKLFI, costringendo così il gruppo di pressione a riformulare l’articolo originale. Ancora più importante, in un solo giorno milioni di persone sono venuti a conoscenza di un argomento completamente nuovo su Palestina e Israele: la cancellazione culturale. La “vittoria” si è trasformata in un’assoluta figuraccia per la lobby filo-israeliana, forse addirittura una sconfitta.

Grazie alla crescente popolarità della causa palestinese e all’impatto dei social media, le iniziali vittorie israeliane quasi sempre gli si ritorcono contro. Un altro esempio recente è stato il licenziamento e la rapida reintegrazione dell’ex direttore di Human Rights Watch [una delle principali ong per i diritti umani, ndt.] (HRW), Kenneth Roth. A gennaio, il dottorato di Roth presso la Kennedy School dell’Università di Harvard è stata revocato a causa del rapporto di HRW che definisce Israele un regime di apartheid. Un’importante campagna avviata da piccole organizzazioni di media alternativi ha portato in pochi giorni alla reintegrazione di Roth. Questo e altri casi dimostrano che criticare Israele non determina più la fine di una carriera, come spesso accadeva in passato.

Israele continua ad impiegare tattiche obsolete per controllare il confronto e la narrazione sulla sua occupazione della Palestina. Sta fallendo perché quelle tattiche tradizionali non possono più funzionare in un mondo moderno in cui l’accesso alle informazioni è decentrato e dove nessuna censura può controllare il confronto. Per i palestinesi questa nuova realtà è un’opportunità per ampliare la loro rete di sostegno in tutto il mondo. Per Israele la missione è fragile, soprattutto quando le vittorie iniziali possono diventare in poche ore sconfitte totali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite esprime “sconcerto” per le colonie israeliane

Redazione Al Jazeera

20 febbraio 2023-Al Jazeera

La dichiarazione annacquata sostituisce la bozza di risoluzione che avrebbe condannato esplicitamente l’insediamento di colonie di Israele.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) ha espresso “profonda preoccupazione e sconcerto” per l’insediamento di colonie di Israele in una dichiarazione annacquata che sostituisce una bozza di risoluzione che avrebbe condannato esplicitamente le politiche israeliane.

La dichiarazione presidenziale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – approvata lunedì da tutti i 15 membri del consiglio, compresi gli Stati Uniti – ha anche sottolineato quello che ha definito “l’obbligo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di rinunciare al terrorismo e combatterlo”.

“Il Consiglio di sicurezza ribadisce che le continue attività di insediamento israeliano stanno pericolosamente mettendo a rischio la fattibilità della soluzione dei due stati basata sui confini del 1967”, ha affermato il consiglio.

Il provvedimento simbolico è arrivato in risposta a una decisione del governo israeliano all’inizio di questo mese di autorizzare migliaia di unità abitative nella Cisgiordania occupata e di legalizzare retroattivamente gli avamposti delle colonie costruiti illegalmente [anche secondo la legge israeliana, ndt.].

L’inviato palestinese alle Nazioni Unite, Riyad Mansour, ha dichiarato lunedì ai giornalisti: “Siamo molto felici che ci sia stato un messaggio unitario molto forte da parte del Consiglio di sicurezza contro la decisione [di Israele] illegale e unilaterale”.

Ma secondo diversi organi di stampa statunitensi e israeliani, che citano fonti diplomatiche, l’ANP avrebbe accettato di abbandonare la sua ricerca del voto [su una vera e propria risoluzione dell’UNSC] per le pressioni del governo degli Stati Uniti, compresa la promessa di un pacchetto di aiuti finanziari.

Come parte dell’accordo le fonti hanno affermato che Israele sospenderà temporaneamente gli annunci di nuove unità di colonie e demolizioni di case palestinesi.

L’agenzia di stampa Reuters ha dichiarato lunedì che gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che avevano redatto la risoluzione insieme ai funzionari dell’ANP, avrebbero informato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che la risoluzione e il voto sarebbero stati ritirati.

La risoluzione avrebbe chiesto a Israele di “cessare immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento nei territori palestinesi occupati”.

Israele ha conquistato la Cisgiordania, comprese Gerusalemme Est e Gaza, nel 1967. Da allora ha costruito insediamenti che ospitano centinaia di migliaia di israeliani nelle terre occupate che i palestinesi rivendicano come parte del loro futuro stato.

Il diritto internazionale vieta esplicitamente alle potenze occupanti di trasferire la loro popolazione civile nei territori occupati. Un esperto delle Nazioni Unite ha in passato definito le colonie israeliane un “crimine di guerra”.

La dichiarazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di lunedì ha invitato tutte le parti a “osservare la calma e la moderazione e ad astenersi da azioni provocatorie, incitamento e retorica incendiari”.

Ha inoltre sollecitato “il pieno rispetto del diritto umanitario internazionale, compresa la protezione della popolazione civile”.

“Il Consiglio di sicurezza riafferma il diritto di tutti gli Stati a vivere in pace all’interno di confini sicuri e riconosciuti a livello internazionale e sottolinea che sia il popolo israeliano che quello palestinese hanno diritto in egual misura a libertà, sicurezza, prosperità, giustizia e dignità”, continua la dicharazione, facendo eco al linguaggio che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e i suoi principali collaboratori utilizzano regolarmente.

Israele ha respinto la dichiarazione come “unilaterale”, criticando specificamente Washington per averla appoggiata.

L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato: “La dichiarazione non avrebbe mai dovuto essere fatta e gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto aderirvi”.

Louis Charbonneau, direttore della delegazione presso le Nazioni Unite di Human Rights Watch, ha affermato che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe condannare chiaramente le colonie.

Ha scritto Charbonneau in un tweet: “Sebbene sia utile che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite critichi le violazioni dei diritti umani di Israele contro i palestinesi, la dichiarazione di oggi, attenuata sotto pressione degli Stati Uniti e di Israele, è ben lontana dalla condanna a tutto campo che la grave situazione merita”.

Lunedì, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’inviata statunitense Linda Thomas-Greenfield ha espresso senza ambiguità l’opposizione degli Stati Uniti all’attività di colonie di Israele, ma non ha condannato la politica israeliana.

Rispetto all’annuncio di Israele sulle colonie ha affermato: “Queste misure unilaterali esasperano le tensioni e danneggiano la fiducia tra le parti”. “Essi minano le prospettive di una soluzione negoziata a due Stati. Gli Stati Uniti non sostengono queste azioni, punto e basta”.

Nella sua dichiarazione al Consiglio lunedì, Mansour, l’inviato palestinese, ha avvertito che la situazione potrebbe presto “raggiungere un punto di non ritorno”.

Ha affermato “Ogni azione che intraprendiamo ora conta. Ogni parola che pronunciamo conta. Ogni decisione che rimandiamo conta”.

Israele, accusato di imporre un sistema di apartheid dalle principali organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, riceve annualmente almeno 3,8 miliardi di dollari di aiuti statunitensi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Cisgiordania: le nuove disposizioni sugli ingressi isolano ulteriormente i palestinesi

Human Rights Watch

23 gennaio 2023 – Human Rights Watch

Le direttive di Israele vietano di fare visite, studiare, lavorare

Gerusalemme – Le nuove direttive israeliane per l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania rischiano di isolare ulteriormente i palestinesi dai propri cari e dall’intera società civile, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Le disposizioni, entrate in vigore a ottobre 2022 e modificate a dicembre 2022, delineano dettagliate procedure per l’ingresso e il soggiorno di stranieri in Cisgiordania, procedure diverse da quelle per l’ingresso in Israele.

Le autorità israeliane hanno da tempo reso difficile per gli stranieri insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le nuove direttive codificano e inaspriscono le precedenti restrizioni, rischiando di rendere ancor più difficile per i palestinesi in Cisgiordania, che già subiscono pesanti limitazioni al movimento imposte da Israele, vivere con i familiari che non hanno una carta di identità cisgiordana e collaborare con studenti, accademici, studiosi ed altri stranieri.

Rendendo più difficile alle persone soggiornare in Cisgiordania, Israele sta compiendo un nuovo passo verso la trasformazione della Cisgiordania in un’altra Gaza, dove due milioni di palestinesi vivono da oltre 15 anni isolati dal resto del mondo”, ha detto Eric Goldstein, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch. “Questa politica è finalizzata a indebolire i legami sociali, culturali e intellettuali che i palestinesi hanno cercato di mantenere con il mondo esterno.”

Tra il luglio e il dicembre 2022 Human Rights Watch ha intervistato 13 persone che hanno descritto nei dettagli le difficoltà che hanno incontrato per anni per entrare o soggiornare in Cisgiordania e le loro preoccupazioni riguardo al modo in cui le nuove direttive li danneggeranno. Human Rights Watch ha anche intervistato gli avvocati israeliani che hanno rappresentato chi sfidava le restrizioni. Tra queste persone intervistate vi è uno psicologo americano docente in un’università palestinese, un’inglese madre di due figli che tenta di vivere con suo marito e la sua famiglia palestinese e un palestinese che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Cisgiordania ma non ha una carta di identità.

Inoltre a luglio 2022 le autorità israeliane hanno negato a Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per condurre attività di ricerca e patrocinio, appellandosi all’ampia autorità dell’esercito riguardo agli ingressi. La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha confermato il divieto a novembre, in seguito ad un ricorso presentato da Shakir e da Human Right Watch.

Il documento di 61 pagine denominato “Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Giudea e Samaria (intendendosi la Cisgiordania)” ha sostituito un documento di procedura di tre pagine redatto nel dicembre 2006. Esso definisce la politica e le procedure dell’esercito israeliano relativamente agli stranieri che cercano di entrare solamente in Cisgiordania, con esclusione di Gerusalemme est, o di estendere il soggiorno per una visita o per “uno scopo specifico”, per esempio studio, insegnamento, volontariato o lavoro. Le direttive sono diverse da quelle per l’ingresso in Israele che vengono normalmente applicate all’aeroporto Ben Gurion e in altri luoghi di ingresso. Chi possiede un permesso per la Cisgiordania ma non ha un visto di ingresso israeliano non è legalmente autorizzato ad entrare in Israele, né nella Gerusalemme est occupata.

Mentre spesso la gente visita la Cisgiordania con normali visti turistici israeliani, agli stranieri in possesso di questi visti non è permesso insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le autorità israeliane spesso rifiutano normali visti di ingresso per questi motivi o altri in cui si riconosca o si sospetti una collaborazione con attività filopalestinesi. Il permesso è l’unico modo per molti di soggiornare in Cisgiordania.

Le direttive sulla Cisgiordania consentono che siano rilasciati permessi solo a limitate categorie di visitatori. Alcuni di coloro che possono ottenere i permessi, come i parenti stretti di palestinesi, possono ottenere un’autorizzazione fino a 3 mesi dall’arrivo al ponte di Allenby/Re Hussein tra la Giordania e la Cisgiordania, in attesa di approvazione delle autorità israeliane in loco. Altri, compresi accademici, studenti, volontari e studiosi, devono richiedere dall’estero un permesso per la Cisgiordania, valido fino a un anno, ed ottenerlo prima del viaggio. Le precedenti disposizioni raccomandavano, ma non richiedevano, un accordo preventivo, anche se spesso le autorità israeliane nella pratica richiedevano un’approvazione preventiva. Altri visitatori, quali turisti o chi cerca di far visita alla famiglia allargata o ad amici o di partecipare ad una conferenza, non possono ottenere un permesso per la Cisgiordania.

Col pretesto del “rischio” che gli stranieri “si radichino”, le direttive precludono anche a tutti gli stranieri, tranne le mogli di palestinesi, tutte le vie per rimanere a lungo in Cisgiordania.

Le direttive concedono alle autorità militari israeliane ampia discrezionalità, consentendo che “considerazioni di politica generale” influenzino il processo decisionale e sottolineando che “l’applicazione di questa procedura dovrà essere condizionata alla situazione di sicurezza e alla politica israeliana in vigore, che viene rivista e modificata di volta in volta.”

Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha detto al Jerusalem Post che le disposizioni renderanno l’ingresso in Cisgiordania “più agevole”, probabilmente dettagliando la procedura, e perciò “porteranno beneficio a tutti gli abitanti dell’area.”

Tuttavia tutti coloro che Human Rights Watch ha intervistato hanno parlato di enormi ostacoli burocratici per restare legalmente in Cisgiordania e dell’impatto delle restrizioni sulle proprie vite. Una donna d’affari americana sposata con un palestinese, che era vissuta in Cisgiordania per un decennio e ha chiesto di restare anonima per paura di rappresaglie, ha detto di aver dovuto abbandonare il suo bambino e restare all’estero per diverse settimane nel 2019 dopo che le era stato negato il visto. Ha raccontato che lo stress e la sofferenza la avevano portata a “scoppiare in lacrime davanti alla scuola di mio figlio quando lo ho lasciato senza sapere se lo avrei ancora visto.” Il suo visto è stato ripristinato solo dopo l’intervento di diplomatici.

Se gli Stati hanno ampia discrezionalità riguardo all’ingresso nel proprio territorio sovrano, il diritto umanitario internazionale richiede però alle potenze occupanti di agire nel superiore interesse della popolazione occupata o di mantenere la sicurezza o l’ordine pubblico. Non vi sono evidenti giustificazioni basate sulla sicurezza, l’ordine pubblico o il superiore interesse dei palestinesi per il modo in cui le autorità israeliane pongono significative restrizioni ai volontari, agli accademici o agli studenti per entrare in Cisgiordania o ai familiari di palestinesi per rimanervi a lungo, afferma Human Rights Watch.

Limitando eccessivamente la possibilità delle famiglie di vivere insieme e bloccando l’ingresso di accademici, studenti e operatori di Ong che contribuirebbero alla vita sociale, culturale ed intellettuale in Cisgiordania, le restrizioni di Israele entrano in conflitto con il suo compito, che aumenta durante una prolungata occupazione, di agevolare la vita civile della popolazione occupata.

Questo comporta necessariamente vivere con la propria famiglia. Sia il diritto umanitario internazionale che le leggi sui diritti umani sottolineano l’importanza del diritto alla vita e all’unità della famiglia, incluso il diritto di vivere insieme. Significa anche facilitare il lavoro e l’attività delle università palestinesi, delle organizzazioni e degli affari della società civile e mantenere un rapporto costante con il resto del mondo.

I doveri di Israele in quanto potenza occupante gli impongono di facilitare l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania in modo ordinato. Previa una valutazione individuale di sicurezza e in assenza di obblighi di legge, le autorità israeliane dovrebbero come minimo concedere permessi di durata ragionevole agli stranieri che contribuirebbero alla vita della Cisgiordania, compresi i familiari di palestinesi e coloro che lavorano con la società civile palestinese, nonché la residenza ai parenti stretti.

Le restrizioni di Israele incrementano la sofferenza già imposta ai palestinesi in Cisgiordania attraverso il diniego su vasta scala dei diritti di residenza, le ampie restrizioni di movimento e gli attacchi alla società civile palestinese. Questa politica spiana maggiormente la strada alla frammentazione dei palestinesi in differenti aree e aggrava il controllo israeliano sulla loro vita. La severa repressione delle autorità israeliane sui palestinesi, attuata in conformità ad una politica di mantenimento del dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi, configura i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione, come hanno rilevato Human Rights Watch e importanti organizzazioni per i diritti umani israeliane, palestinesi e internazionali.

Un esercito occupante non ha alcun diritto di decidere quali docenti siano qualificati per insegnare nelle università palestinesi, di impedire ai difensori dei diritti umani di interagire con la popolazione occupata o di separare crudelmente le famiglie”, dice Goldstein. “Gli Stati americani ed europei dovrebbero far pressione sulle autorità israeliane perché rendano più facile, non più difficile per le persone, compresi i propri stessi cittadini, costruire rapporti significativi con le comunità della Cisgiordania.”

Richiedere permessi e proroghe per la Cisgiordania

Le disposizioni per l’ingresso in Cisgiordania sono state originariamente pubblicate nel febbraio 2022 e modificate a settembre e poi ancora a dicembre 2022. Esse identificano alcune categorie di persone, compresi accademici, studenti, volontari e “studiosi e consulenti in singole discipline e personale direttivo” che sono tenute a richiedere anticipatamente a Israele, direttamente all’esercito, presso un’ambasciata israeliana all’estero o attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese, i permessi (per entrare in Cisgiordania) a scopi specifici.”

La procedura per ottenere un permesso implica fornire informazioni personali importanti alle autorità israeliane. Diverse persone che hanno passato del tempo in Cisgiordania hanno detto che questa procedura scoraggia del tutto le persone a presentare richiesta, dato il numero record di dinieghi di ingresso da parte delle autorità israeliane a coloro che sono impegnati nel sostegno ai palestinesi. Come risultato, e alla luce della difficoltà di ottenere permessi per la Cisgiordania, alcuni programmi della Cisgiordania hanno a lungo consigliato i partecipanti internazionali di richiedere un visto turistico israeliano invece di un permesso per la Cisgiordania e di evitare di dichiarare il motivo della loro visita in modo da aumentare le possibilità di entrare.

Tra gli stranieri che possono ottenere il permesso di visitatori all’arrivo in Cisgiordania vi sono la moglie, il figlio o il parente di primo grado di un palestinese in Cisgiordania, uomini d’affari o investitori, giornalisti accreditati dalle autorità israeliane o coloro che presentano “situazioni eccezionali” e con “speciali situazioni umanitarie” che non hanno avuto precedenti problemi collegati al visto.

Le direttive limitano a tre mesi i permessi di visita di breve durata ottenuti al ponte di Allenby. I permessi possono essere rinnovati “per motivi eccezionali per un massimo di altri 3 mesi.” Ogni ulteriore proroga “necessita l’approvazione del funzionario autorizzato del COGAT sulla base di speciali considerazioni che vanno documentate.” 

I permessi per scopi specifici” ottenuti precedentemente all’arrivo durano un anno e le proroghe hanno copertura di 27 mesi, e chiunque voglia fermarsi più a lungo deve lasciare la Cisgiordania e fare nuovamente richiesta dall’estero. Le direttive pongono agli accademici e studiosi stranieri un limite massimo di cinque anni complessivi in Cisgiordania, una restrizione che non era scritta nelle direttive precedenti. Chi intende fermarsi più a lungo può fare richiesta di nuovo ingresso dopo nove mesi di lontananza, ma le direttive autorizzano proroghe addizionali fino ad altri cinque anni solo “in casi eccezionali e per motivi speciali.”

I palestinesi in Cisgiordania possono fare richiesta a Israele attraverso un procedimento separato di ricongiungimento familiare tramite l’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere carte di identità palestinesi rilasciate per le loro mogli e altri parenti in “circostanze eccezionali”, che consentirebbero loro di rimanere a lungo termine. Le autorità israeliane hanno esaminato 35.000 richieste alla fine degli anni 2000 e parecchie migliaia nel 2021 e 2022 come gesto nei confronti della ANP, ma a parte questo hanno di fatto congelato il processo.

Le direttive delineano una procedura per rilasciare permessi di un anno rinnovabili per le mogli straniere di palestinesi che hanno in corso una richiesta di ricongiungimento familiare che l’ANP ha inviato a Israele. Tuttavia stabiliscono che non saranno approvate richieste che non siano conformi alla complessiva “politica dei vertici politici”.

Le direttive danno alle autorità il potere di rivalutare le qualifiche accademiche dei docenti o ricercatori presso le università palestinesi, compresa la verifica che chi non è in possesso di diploma PhD abbia “competenze speciali”, e quali professioni siano sufficientemente “richieste o necessarie” a garantire di poter concedere a stranieri di lavorare al loro interno.

Un amministratore dell’università di Betlemme ha detto che il 70% del corpo docente in uno dei programmi della scuola viene dall’estero e l’amministrazione teme che le regole renderanno ancor più difficile assumere e trattenere i docenti. Un portavoce dell’università di Birzeit ha detto che tra il 2017 e il 2022 hanno perso otto membri del corpo docenti a causa delle restrizioni all’ingresso in Cisgiordania, il che hanno detto aver loro causato la perdita di eccezionali competenze ed aver inficiato la qualità dell’educazione fornita dalla scuola.

Un professore, Roger Heacock, nel 2018 ha lasciato la Cisgiordania con la sua famiglia dopo 35 anni, 33 dei quali spesi nell’insegnamento della storia a Birzeit, quando le autorità israeliane non hanno risposto in tempo alla sua richiesta di rinnovo del permesso, abbandonando gli studenti laureati cui sovrintendeva. Ha detto che quell’esperienza “ci ha spezzato il cuore. Non l’ho superata.”

Le direttive non si applicano agli stranieri che vogliono visitare Gerusalemme est occupata da Israele o le colonie israeliane in Cisgiordania, che sono illegali ai sensi del diritto umanitario internazionale. Per entrare in quelle aree devono ottenere un visto d’ingresso israeliano.

Le direttive non si applicano neanche a coloro che hanno nazionalità, sono nati o “hanno documenti” di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan, come neanche ai cittadini di Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele. Queste persone devono fare richiesta ad Israele tramite l’Autorità Nazionale Palestinese sulla scorta di una separata “Procedura di rilascio di permessi per visite di stranieri all’Autorità Palestinese”, che stabilisce che i permessi devono essere rilasciati solo in “casi eccezionali e umanitari”. Un’avvocata israeliana, Leora Bechor, ha descritto questi permessi come “quasi impossibili” da ottenere. Non esiste valida ragione per rendere più difficile entrare in Cisgiordania soprattutto ai cittadini della Giordania, che sono per la maggior parte palestinesi, rispetto ai cittadini di altri Stati, dichiara Human Rights Watch.

Casi individuali

Ayman”

Nato in Europa a metà degli anni ’90 da padre palestinese della Cisgiordania e madre europea, “Ayman” ha vissuto in Cisgiordania la maggior parte della sua vita. Ha chiesto che il suo vero nome non fosse rivelato per paura di ritorsioni. Racconta che suo padre lasciò la Cisgiordania negli anni ’70 per evitare l’arresto per le sue attività politiche, e fu costretto ad abbandonare i suoi documenti di identità. Fece rientro nel 1997, quando Ayman era bambino, insieme ad altri autorizzati a tornare all’indomani degli accordi di Oslo, ma le autorità israeliane non gli restituirono immediatamente la sua carta d’identità. Ogni membro della famiglia di Ayman ha richiesto carte d’identità palestinesi, ma solo suo padre ne ha ricevuta una all’inizio del 2022, a seguito di una domanda di ricongiungimento familiare presentata dal nonno di Ayman nel 2009.

Senza una carta d’identità palestinese, per il suo status giuridico Ayman fa affidamento sui visti rilasciati sul suo passaporto europeo in Cisgiordania, anche se la sua famiglia vive lì da generazioni e lui ha vissuto lì la maggior parte della sua vita. Ha detto che la Palestina per me è casa, poiché “la mia infanzia, la scuola, i compagni di classe, gli amici, la famiglia allargata, i parenti e i miei ricordi sono tutti quieppure risulto trovarmi in Palestina come turista, come cittadino europeo”.

Da bambino, dice Ayman, ha ricevuto i visti grazie al lavoro di sua madre in un programma affiliato a un’ambasciata straniera. Nel 2015, tuttavia, afferma che le autorità israeliane rifiutarono di rinnovargli il visto, sulla base del fatto che lui, a 20 anni, non poteva più rivendicare la dipendenza da sua madre. Poco dopo partì per studiare all’estero per un semestre. Tornò nel dicembre 2015 e dice di essere riuscito a ottenere diversi visti di breve durata che gli hanno permesso di rimanere in Cisgiordania nel 2016 e gran parte del 2017 in modo da completare gli studi universitari.

Nel settembre 2017 ha conseguito la laurea in Europa e si è recato in Cisgiordania tre volte come turista. Afferma di non aver potuto visitare la sua famiglia per due anni, tra marzo 2020 e febbraio 2022, a causa soprattutto di una normativa israeliana rivolta a limitare l’ingresso di stranieri in Cisgiordania a fronte della pandemia di Covid-19.

Ayman è preoccupato per il fatto che le nuove linee guida sugli ingressi gli rendono praticamente impossibile vivere in Cisgiordania creandogli persino delle difficoltà a visitarla, anche attraverso il limite di soggiorni di tre mesi salvo circostanze eccezionali e l’imposizione obbligatoria di periodi durante i quali deve partire e stare lontano dalla Cisgiordania. Per quanto le linee guida consentano l’ingresso a coloro che, come Ayman, stiano andando a trovare parenti di primo grado, si preoccupa di cosa potrebbe accadere quando suo padre, l’unico membro della sua famiglia con un documento d’identità palestinese, morirà. Potrei perdere il diritto di ingresso, dal momento che non avrò più un parente di primo grado, e con queste norme non potrò nemmeno entrare come turista, dice Ayman.

Margaret

“Margaret”, una cittadina britannica di 46 anni che ha chiesto di non rivelare la sua reale identità per paura di ritorsioni, vive a Ramallah con il marito palestinese, che ha un documento di identità della Cisgiordania, e i loro due figli, di 9 e 6 anni. Dice di vivere in Cisgiordania dal 1998 e di aver sposato suo marito nel 2005. Poco dopo, racconta Margaret, le autorità israeliane le hanno negato l’ingresso, nel quadro di una politica sistematica dell’epoca che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ha colpito migliaia di coniugi stranieri.

Margaret è riuscita a tornare nove mesi dopo e da allora è rimasta pressoché stabilmente in Cisgiordania. Riferisce di aver richiesto nel 2006 un documento d’identità palestinese nell’ambito del percorso di ricongiungimento familiare, ma di non averlo ricevuto. Invece ha usufruito di visti per soggiorni di breve durata, originariamente di un anno ma più recentemente di sei mesi, dovendo periodicamente lasciare la Cisgiordania per mantenere il suo status. Con tali visti il lavoro non è consentito, ma Margaret ha comunque lavorato senza mai rivelarlo alle autorità israeliane.

Quando nell’agosto 2021 le autorità israeliane hanno informato Margaret che doveva lasciare la Cisgiordania entro gennaio 2022, per rientrarvi per mantenere il suo status, temeva che le procedure aggiuntive imposte dalle autorità israeliane durante la pandemia di Covid-19 potessero bloccare la sua possibilità di tornare in famiglia. In particolare, le autorità israeliane richiedevano agli stranieri che entravano in Cisgiordania di coordinare con loro i loro piani, una prassi che, Margaret aveva sentito, per altre persone aveva richiesto tre o quattro mesi. Margaret dice che sentiva di non poter sopportare di stare lontana dai suoi figli così a lungo durante l’anno scolastico.

L’Autorità nazionale palestinese aveva annunciato alla fine del 2021 che le autorità israeliane avevano dato il via libera al rilascio di migliaia di documenti d’identità per le persone bloccate in situazioni come la sua. Nella speranza di essere tra coloro che avrebbero ricevuto un documento d’identità o in caso contrario di poter risolvere la questione con l’aiuto di un avvocato, ha preso la difficile decisione di sospendere il visto.

Margaret non ha mai ricevuto un documento d’identità e quindi è priva di status giuridico. Di conseguenza, afferma che dal gennaio 2022non lascio Ramallah. Non posso correre rischi”.

Susan Power

Susan Power, una cittadina irlandese di 43 anni, conduce ricerca e patrocinio legale per al-Haq, una delle principali organizzazioni palestinesi per i diritti umani. Power è entrata a far parte di al-Haq, il cui quartier generale è a Ramallah in Cisgiordania, nel 2013. Con un dottorato di ricerca incentrato sulla legge dell’occupazione, Power ha una competenza unica che ben si adatta al lavoro di al-Haq, che da più di 40 anni è incentrato sulla documentazione delle violazioni dei diritti umani derivanti dalla prolungata occupazione israeliana.

Power afferma che per entrare in Cisgiordania ha fatto ricorso ai visti per visitatori, che è stata in grado di prorogare. Ha detto che per ottenere il visto doveva mostrare un contratto di lavoro, anche se il visto non le dà il permesso di lavorare. Descrive il pesante iter che deve regolarmente affrontare per entrare, compreso il dover pagare a volte obbligazioni fino a 30.000 NIS (7.796 euro) per garantire che se ne andrà alla scadenza del visto. Dice che ogni volta si preoccupa che non le venga consentito l’ingresso e, quando si trova in Cisgiordania con un visto valido, generalmente rifiuta di viaggiare per visitare famiglie, partecipare a riunioni o per qualsiasi altro scopo al di fuori delle emergenze.

Le nuove linee guida renderanno le cose ancora più difficili, dice Power, richiedendole di coordinare i suoi piani e ottenere un visto in anticipo dall’ambasciata israeliana nel suo paese d’origine. Teme che nell’ambito di questo iter non le venga concesso un visto, data l’assenza nelle linee guida di disposizioni esplicite riguardanti il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e il limite di cinque anni per gli stranieri che vivono in Cisgiordania. Le autorità israeliane hanno anche messo al bando al-Haq, dichiarandola nel 2021 una “associazione illegale” ai sensi della legge militare applicabile in Cisgiordania e una “organizzazione terroristica” ai sensi della legge israeliana.

Queste restrizioni rendono più difficile per le organizzazioni della società civile palestinese attrarre e assumere esperti stranieri come Power. Anche se gli esperti sono in grado di entrare in Cisgiordania, “un’organizzazione non può funzionare o operare senza sapere se i suoi lavoratori potranno tornare” ogni qualvolta se ne vanno, afferma Power.

Power ha lasciato la Cisgiordania a dicembre, prima della scadenza del suo visto alla fine dell’anno. Dice di aver paura che non le sia permesso di tornare.

Laura

Laura, una cittadina statunitense di 57 anni che ha chiesto di non rivelare il suo vero nome per paura di ritorsioni, ha visitato per la prima volta la Cisgiordania nel 2012. È una psicologa clinica e ha detto che per due anni è tornata periodicamente per partecipare a conferenze e lavorare come consulente a breve termine, ottenendo il visto per visitatori all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion. Nell’estate del 2014 ha deciso di trasferirsi con il figlio di 10 anni in Cisgiordania per lavorare a tempo pieno con bambini a rischio e insegnare in un’università. Ha ottenuto un visto sulla base del suo contratto con l’università, anche se il visto le proibisce formalmente di lavorare, e ha vissuto in Cisgiordania, rinnovando il visto ogni anno, per i successivi quattro anni.

Riferisce che mantenere il suo status giuridico é stato stressante, anche per la necessità di aspettare per mesi i documenti suoi o di suo figlio. “L’incertezza, niente di chiaro, la burocrazia e la sensazione di mancanza di sicurezza durante il tempo di attesa, dopo aver fatto tutte le scartoffie, passato tutto al dettaglio”, dice.

Nell’autunno del 2017 Laura ha chiesto il prolungamento del visto, ma le autorità israeliane non hanno risposto per mesi e nell’aprile 2018 le hanno restituito il passaporto senza una decisione o un nuovo visto. Senza status giuridico, ha deciso nel maggio 2018, alla fine dell’anno scolastico di suo figlio, di lasciare la Cisgiordania. Afferma che all’Allenby Crossing le forze israeliane le hanno detto che non poteva tornare e l’hanno rimproverata pubblicamente per essersi trattenuta oltre la scadenza del visto. “Mi hanno detto che avevo rovinato le possibilità di mio figlio di tornare qui e gli avevo rovinato la vita”, dice.

È tornata negli Stati Uniti e ha assunto un avvocato israeliano per aiutarla a ottenere il permesso di vivere di nuovo in Cisgiordania. Dice che ho scelto di lottare per il mio visto perché la Cisgiordania è la nostra casa e la nostra vita. È dove abbiamo vissuto per anni, dove mio figlio è cresciuto e ha stretto amicizie. Ha pianto per tutto il tempo dopo che ci è stato detto che non saremmo potuti tornare indietro. Era lì da quando aveva 10 anni. Ho lasciato la mia carriera e tutti i nostri averi nella nostra casa, la sua PlayStation, la sua bicicletta e i nostri abiti“.

Grazie agli sforzi dell’avvocato, Laura e suo figlio sono riusciti a tornare alla fine del 2018, dopo aver versato una cauzione che sarebbe stata restituita solo quando avrebbe lasciato la Cisgiordania, e ad insegnare per alcuni mesi. Ma, data la loro persistente impossibilità di rinnovare i loro visti e i costi crescenti, anche per gli avvocati, Laura sentiva di non avere altra scelta che vendere tutto e tornare negli Stati Uniti nel dicembre 2019. Da allora è tornata [in Cisgiordania] solo una volta, con un visto di 30 giorni che le autorità israeliane le hanno concesso a condizione che pagasse una cauzione di 30.000 shekel (7796 euro) da restituire solo quando avesse lasciato la Cisgiordania.

Dato che le nuove linee guida impediscono agli stranieri la permanenza in Cisgiordania per più di cinque anni al di fuori di circostanze eccezionali, afferma che tali norme le impediscono effettivamente di rimanere più a lungo in Cisgiordania. Continua a insegnare per l’università a distanza, poiché afferma che nessun altro ha il background necessario per tenere i suoi corsi.

Omar Shakir

Nel luglio 2021 Omar Shakir, il direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, ha chiesto all’esercito israeliano un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per incontrare il personale di Human Rights Watch dell’area, informare i diplomatici dell’Unione Europea in risposta al loro invito e svolgere ricerche, anche sugli abusi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Shakir ha cercato di svolgere di persona un lavoro che non era stato in grado di svolgere da quando le autorità israeliane lo hanno espulso da Israele nel novembre 2019, affermando che la sua attività di difesa violava una legge del 2017 che vieta l’ingresso in Israele a persone che sostengono il boicottaggio di Israele o dei suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. Né Human Rights Watch né Shakir come suo rappresentante hanno mai chiesto il boicottaggio di Israele.

Dopo mesi passati senza ricevere una risposta affermativa o negativa, nell’aprile 2022 Shakir e Human Rights Watch hanno intentato una causa presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme contro l’esercito israeliano. Nel luglio 2022, l’esercito ha respinto la richiesta, citando “un’ampia discrezionalità” dell’Unità per il coordinamento delle attività governative dei Territori per quanto riguarda l’ingresso in Cisgiordania di cittadini stranieri e una clausola nelle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania secondo cui “tutte le relative disposizioni sono soggette alla politica del governo”.

Nella lettera dell’esercito a Shakir si rileva che la politica del governo in questa materia (che è stata inserita nella legislazione primaria in Israele) è quella di vietare la concessione di qualsiasi tipo di visto o permesso di soggiorno a persone che consapevolmente lanciano un appello pubblico al boicottaggio dello Stato di Israele o una qualsiasi delle sue istituzioni o qualsiasi area sotto il suo controlloe si cita la preoccupazione che Shakir possa utilizzare la sua visita per promuovere il boicottaggio di Israele e delle entità che operano in Israele e nell’area della Giudea e della Samaria [ovvero Cisgiordania, ndt.]. La decisione, in effetti, estende alla Cisgiordania occupata il divieto di ingresso in Israele per presunto sostegno ai boicottaggi.

Ad agosto Shakir e Human Rights Watch hanno presentato una petizione modificata sostenendo che l’esercito israeliano è andato oltre la sua autorità ai sensi del diritto internazionale umanitario, che limita gli interventi degli occupanti ad azioni che mantengano la sicurezza o l’ordine e l’incolumità pubblici o siano finalizzate al migliore interesse della popolazione occupata. Citando la discrezionalità più ristretta che un esercito di occupazione ha sull’ingresso nel territorio occupato rispetto a un Paese sul suo territorio sovrano, la petizione afferma che il diritto umanitario internazionale non consente all’esercito israeliano di negare l’ingresso in Cisgiordania per presunto sostegno ai boicottaggi. Sostiene che negare l’ingresso ai difensori dei diritti umani mina l’interesse pubblico dei residenti della Cisgiordania, che dovrebbero avere il diritto di coinvolgere rappresentanti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani.

A novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha confermato il diniego del governo, stabilendo che il divieto di ingresso basato sul presunto sostegno al boicottaggio rientra nell’ampia autorità che l’esercito ha di mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza” per i residenti del territorio occupato. La sentenza cita il presunto danno che le attività di boicottaggio arrecano ai coloni israeliani, che considera parte della popolazione locale nonostante il divieto del diritto umanitario internazionale di trasferire la popolazione dell’occupante nel territorio occupato, e ai lavoratori palestinesi che lavorano negli insediamenti coloniali. Indica inoltre le disposizioni delle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania che consentono all’esercito di prendere decisioni basate su considerazioni politiche e di altro tipo e che negano qualsiasi “diritto acquisito” ai cittadini stranieri di entrare in Cisgiordania, che l’esercito ha dichiarato zona militare chiusa nella sua interezza.

Sebbene il rifiuto di Israele di consentire la visita di Shakir non abbia causato tante difficoltà quanto il rifiuto di concedere permessi estesi a un membro di una famiglia palestinese o a un professore straniero a lungo termine, illustra come Israele abusi della sua autorità per controllare l’ingresso di stranieri nel territorio in cui non ha sovranità.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta e Cristiana Cavagna)

 




ONG internazionali di difesa dei diritti umani condannano fermamente il vertice UE-Israele

Elis Gjevori

3 ottobre 2022 – Middle East Eye

Mentre l’Unione Europea affronta una crisi energetica legata alla guerra in Ucraina, Israele intende approfittare del vertice per consolidare i propri interessi.

Organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani condannano il vertice UE-Israele previsto oggi, affermando che non farebbe altro che legittimare l’“apartheid” che colpisce attualmente i palestinesi.

Secondo un comunicato di Amnesty International “Israele commette un crimine di apartheid nei confronti dei palestinesi” e “qualunque forma di cooperazione deve focalizzarsi sullo smantellamento del brutale sistema di oppressione e di dominazione attuato da Israele.”

L’UE cerca di rilanciare i suoi rapporti con Israele in occasione del vertice previsto questo lunedì, il primo tra le due parti dal 2012, soprattutto a causa della necessità di diversificare le proprie risorse energetiche in seguito alla guerra in Ukraina.

Questo vertice, denominato “Consiglio di associazione UE-Israele”, è stato annullato da Israele nel 2013 dopo la pubblicazione da parte dell’UE di una direttiva che ha avuto l’effetto di una bomba, in base alla quale tutti i futuri accordi con Israele escluderebbero le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

Gli organismi israeliani che vogliono ottenere un finanziamento dall’UE dovevano quindi dimostrare attivamente l’assenza di qualunque legame diretto o indiretto con la Cisgiordania, Gerusalemme est o le alture del Golan occupate.

Pur se la politica ufficiale dell’UE a questo riguardo non è cambiata, Israele ha deciso di confermare il vertice. Tuttavia alcune organizzazioni in difesa dei diritti umani temono che Bruxelles finisca per cedere.

Le autorità israeliane impongono ai palestinesi requisizioni di terre, omicidi illegali, trasferimenti forzati e severe restrizioni alla circolazione, negando la loro umanità e l’eguaglianza di cittadinanza e di status”, afferma Amnesty International a proposito del vertice.

L’UE non può pretendere di condividere degli impegni in materia di diritti umani con uno Stato che pratica l’apartheid e che nei mesi scorsi ha chiuso gli uffici di note organizzazioni della società civile palestinese”, sottolinea Amnesty.

All’inizio di quest’anno le forze israeliane hanno perquisito e chiuso gli uffici di sette ONG palestinesi: Al-Haq, Addameer, Centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo, Difesa dei Bambini Internazionale-Palestina, Unione dei comitati di donne palestinesi, Unione dei comitati del lavoro agricolo e Unione dei comitati dei lavoratori della sanità.

Crimini contro l’umanità”

In un comunicato anche Human Rights Watch (HRW) ha condannato il vertice.

I responsabili europei devono sapere che stringeranno la mano a rappresentanti di un governo che commette crimini contro l’umanità e che ha messo al bando importanti associazioni della società civile che si oppongono a questi abusi”, afferma la ONG.

Grace O’Sullivan, eurodeputata del partito dei verdi irlandesi, intervistata da Middle East Eye, sottolinea che è anche improbabile che questo vertice offra ai dirigenti UE l’occasione di esternare le loro preoccupazioni ai dirigenti israeliani.

Mi è stato detto che il Primo Ministro Lapid non vi parteciperà nemmeno di persona”, aggiunge, ritenendo “deludente il fatto che l’UE abbia organizzato questo incontro nella settimana di Yom Kippur (importante ricorrenza religiosa ebraica, ndt.), poiché questo limiterà il (suo) impegno nei confronti dei dirigenti israeliani.”

L’eurodeputata precisa che seguirà da vicino ciò che Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, dichiarerà dopo l’incontro con i suoi interlocutori israeliani, in particolare per sapere se verranno menzionati i diritti umani e le colonie occupate.

Il trattamento dei palestinesi e la messa in atto di misure reali a favore di uno Stato palestinese dovranno essere al centro di questi incontri”, ritiene.

Mi piacerebbe anche vedere dei progressi per quanto riguarda l’uccisione della giornalista americana-palestinese Shireen Abu Akleh e l’arresto di oltre 25 giornalisti palestinesi da parte di Israele solo in quest’anno. La libertà di stampa è gravemente minacciata in Israele e nei territori occupati.”

Un ordine del giorno completamente diverso

Tuttavia l’attuale atmosfera a Bruxelles e a Tel Aviv lascia prevedere un ordine del giorno completamente diverso.

La visita effettuata il mese scorso in Israele dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, allo scopo di rafforzare la cooperazione energetica, non è passata inosservata in Israele, alla luce delle opportunità che potrebbe offrire al Paese.

Traduzione [del discorso di Von der Leyen]: “Sono molto felice di essere in Israele. Lavoriamo fianco a fianco per rafforzare la collaborazione tra UE ed Israele. La mia visita sarà incentrata sulla sicurezza energetica e alimentare, l’intensificazione della cooperazione nell’ambito della ricerca, della sanità e della protezione ambientale. Discuteremo anche della situazione regionale e degli sforzi verso la costruzione di un Medio Oriente sicuro.”

Contemporaneamente alla visita della dirigente, Oded Eran, ex ambasciatore di Israele presso l’Unione Europea, ha dichiarato che la delicata situazione energetica in Europa offre a Israele l’occasione di approfondire i suoi rapporti con Bruxelles.

In agosto Israele ha registrato un aumento del 50% delle tariffe derivanti dalle esportazioni di gas nel 2022, sostenuto da prezzi mondiali record, mentre l’Europa affronta una imminente scarsità energetica in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.

Anche se limitata, la capacità di Israele di rispondere alla domanda europea non è trascurabile. Così, mentre nel 2021 l’UE ha importato circa 155 miliardi di m3 dalla Russia, Israele potrebbe essere in grado di fornirle circa 10 miliardi di metri cubi all’anno.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I disordini di Nablus mettono in questione il futuro dell’ANP

Ramzi Baroud

26 settembre 2022 – Arab News

L’arresto la scorsa settimana da parte della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese di due attivisti palestinesi, tra cui un importante militante, Musab Shtayyeh, non ha rappresentato la prima volta in cui il noto Servizio di Sicurezza Preventiva ha arrestato un palestinese ricercato da Israele.

Questo servizio è strettamente legato a continui arresti e torture di attivisti contrari all’occupazione israeliana. In passato molti palestinesi, il più recente dei quali è stato Nizar Banat, torturato a morte lo scorso giugno, sono morti in conseguenza della violenza del Servizio di Sicurezza Preventiva. L’uccisione di Banat ha provocato una rivolta popolare contro l’ANP in tutta la Palestina.

Per anni varie associazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno criticato, molto spesso all’interno degli stessi rapporti sui diritti umani critici contro l’occupazione militare israeliana della Palestina, le pratiche violente dell’ANP contro i palestinesi dissenzienti. Anche il governo di Hamas a Gaza ha ricevuto una giusta dose di critiche.

Nel suo “Rapporto sul mondo 2022”, pubblicato in gennaio, Human Rights Watch ha affermato che “l’Autorità Nazionale Palestinese…arresta e tortura sistematicamente e arbitrariamente i dissidenti.” Questa non è la prima volta né sarà l’ultima in cui un’associazione per i diritti umani solleva una simile accusa. Il rapporto tra la violenza israeliana e quella palestinese contro i dissidenti politici e gli attivisti è chiaro alla maggioranza dei palestinesi.

A un certo punto alcuni palestinesi possono aver creduto che il ruolo dell’ANP fosse di fungere da transizione tra il loro progetto di liberazione nazionale e la piena indipendenza e sovranità sul terreno. Tuttavia circa 30 anni dopo la formazione dell’ANP questa idea si è dimostrata una pia illusione. Non solo l’ANP non è riuscita a ottenere il desiderato Stato palestinese, ma si è trasformata in un apparato totalmente corrotto la cui esistenza è funzionale principalmente a una piccola classe di politici e uomini d’affari palestinesi – e, nel caso della Palestina, si tratta sempre dello stesso gruppo.

Oltre alla corruzione dell’ANP e alla conseguente violenza, ciò che continua a irritare molti palestinesi è che col tempo l’autorità è diventata un’altra incarnazione dell’occupazione israeliana, che riduce la libertà di espressione dei palestinesi e procede ad arresti per conto dell’esercito israeliano. Tristemente molti di quanti vengono arrestati dall’esercito israeliano in Cisgiordania sono stati arrestati anche dagli scagnozzi dell’ANP.

Le scene di violenti disordini a Nablus in seguito all’arresto di Shtayyeh hanno ricordato rivolte contro le forze di occupazione israeliane nella città del nord della Cisgiordania e altrove nella Palestina occupata. A differenza di precedenti scontri tra palestinesi e polizia dell’ANP – ad esempio in seguito all’uccisione di Banat -, questa volta la violenza è stata generalizzata ed ha coinvolto manifestanti delle organizzazioni politiche palestinesi, compresa la fazione di Fatah, che è al governo.

Il governo dell’ANP, forse inconsapevole del massiccio cambiamento psicologico collettivo avvenuto in Palestina negli ultimi anni, ha cercato disperatamente di contenere la violenza. Conseguentemente il comitato che rappresenta l’unità delle fazioni palestinesi a Nablus ha dichiarato di aver raggiunto una “tregua” con le forze di sicurezza dell’ANP in città. Il comitato, che include importanti personalità palestinesi, ha detto all’Associated Press e ad altri media che l’accordo esclude ogni futuro arresto di palestinesi a Nablus, a meno che siano implicati nella violazione delle leggi palestinesi, non di quelle israeliane. Questa clausola di per sé implica la tacita ammissione da parte dell’ANP che gli arresti di Shtayyeh e Ameed Tbaileh siano stati motivati dalle priorità israeliane e non da quelle palestinesi.

Ma perché l’ANP dovrebbe cedere così in fretta alle pressioni provenienti dalla piazza palestinese? La risposta riguarda il cambiamento del clima politico in Palestina.

In primo luogo, per anni il risentimento nei confronti dell’ANP è andato aumentando. Un sondaggio dopo l’altro ha indicato la scarsa considerazione che la maggior parte dei palestinesi ha nei confronti dei propri dirigenti, del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e in particolare del “coordinamento per la sicurezza” con Israele.

In secondo luogo, la tortura e la morte del dissidente politico Banat lo scorso anno hanno tolto di mezzo qualunque forma di sopportazione dei palestinesi nei confronti della loro dirigenza, in quanto hanno dimostrato loro che l’ANP non è un alleato ma una minaccia.

Terzo, la cosiddetta Intifada dell’Unità del maggio 2021 ha rinfrancato molti segmenti della società palestinese nei Territori Occupati. Per la prima volta da anni ora i palestinesi si sentono uniti intorno a un unico slogan e non sono più ostaggio della conformazione della politica e delle fazioni. Una nuova generazione di giovani palestinesi ha avviato un dialogo ben al di là di Abbas, dell’ANP e della loro sconfinata e inefficace retorica politica.

Quarto, la lotta armata in Cisgiordania è cresciuta in modo talmente rapido che questo mese [settembre, ndt.] il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi ha affermato che da marzo circa 1.500 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania e che sarebbero stati sventati centinaia di attacchi contro l’esercito israeliano.

Di fatto stanno crescendo le prove di un’Intifada armata nelle regioni di Jenin e Nablus. Ciò che è particolarmente interessante e preoccupante dal punto di vista di Israele e dell’ANP riguardo alla natura del fenomeno della nascente lotta armata è che essa è in buona parte guidata dall’ala militare del partito Fatah al governo, in collaborazione diretta con Hamas e altre fazioni armate islamiste e nazionaliste.

Per esempio, lo scorso mese l’esercito israeliano ha assassinato, insieme ad altri due, Ibrahim Al-Nabulsi, un importante comandante militare di Fatah. Come reazione, non solo l’ANP ha fatto molto poco per impedire alla macchina militare israeliana di condurre ulteriori assassinii di questo tipo, ma sei mesi dopo ha arrestato Shtayyeh, un compagno di lotta molto vicino ad Al-Nabulsi. Cosa interessante, Shtayyeh non è un membro di Fatah, ma un comandante di Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Benché Fatah e Hamas siano considerati rivali politici accaniti, in Cisgiordania le loro divergenze politiche non sembrano essere rilevanti per i gruppi armati.

Sfortunatamente è probabile che ne segua un’ulteriore violenza, per varie ragioni: la determinazione israeliana a stroncare ogni Intifada armata in Cisgiordania prima che si diffonda in tutti i Territori Occupati, l’imminente transizione al comando dell’ANP a causa dell’età avanzata di Abbas e la crescente unità tra i palestinesi riguardo alla questione della resistenza.

Mentre la risposta israeliana a tutto ciò può facilmente essere dedotta dal suo retaggio di violenza, la futura linea di azione dell’ANP probabilmente determinerà i suoi rapporti da una parte con Israele e i suoi sostenitori occidentali e dall’altra con il popolo palestinese. Da quale parte si schiererà l’ANP?

Ramzy Baroud scrive di Medio Oriente da più di 20 anni. È un editorialista di fama internazionale, consulente dei media, autore di vari libri e fondatore del sito PalestineChronicle.com.

Avvertenza: gli autori di questa sezione sono responsabili delle opinioni da loro espresse, che non riflettono necessariamente il punto di vista di Arab News.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)