Netanyahu voleva distruggere Hamas. Questa guerra potrebbe distruggere Israele

David Hearst

22 dicembre 2023 – Middle East Eye

La guerra di Gaza è stata un enorme errore di valutazione di Israele. Oltre a essere un disastro morale e militare, sta rinfocolando la resistenza e riaccendendo le braci della rabbia in tutto il mondo arabo.

Durante l’assedio di Beirut nel luglio 1982, dopo un bombardamento israeliano particolarmente intenso, il presidente degli USA Ronald Reagan chiamò il primo ministro israeliano Menachem Begin per chiedergli di porvi fine.

“Notte dopo notte qui sulle nostre televisioni vengono mostrati al nostro popolo i segni di questa guerra ed è un olocausto,” disse Reagan.

A differenza del democratico che siede oggi alla Casa Bianca, il presidente repubblicano poteva ed era pronto a sostenere con l’azione le proprie parole. Gli USA misero fine alle bombe a grappolo e alla vendita di F16 a Israele.

Il numero dei morti nella guerra del Libano varia enormemente. Secondo le stime libanesi nei quattro mesi che seguirono il lancio dell’invasione furono uccisi 18.085 libanesi e palestinesi. Le cifre dell’OLP sono di 49.600 civili uccisi o feriti.

In appena due mesi Israele ha ucciso lo stesso numero di persone, ma ha inflitto a Gaza un livello di distruzione molto maggiore. 

Secondo gli analisti militari intervistati dal Financial Times la devastazione di Israele nel nord di Gaza, dove dal 4 dicembre è stato distrutto il 68% degli edifici, è paragonabile al bombardamento alleato di Amburgo (75%), Colonia (61%), e Dresda (59%) avvenuto in quelle città dopo due anni di bombardamenti.

Circa 20.000 palestinesi, il 70% donne e minori, sono stati uccisi in metà del tempo che ci volle a costringere l’OLP a lasciare Beirut ovest nel 1982. Eppure la sete di sangue di Israele dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre non è ancora stata saziata. 

Interpretando un sentimento diffuso, Zvi Yehezkeli, corrispondente per gli affari arabi di Channel 13, ha detto che Israele dovrebbe uccidere 100.000 palestinesi. Daniella Weiss, capo del Movimento dei Coloni Israeliani, ha detto che Gaza deve essere rasa al suolo, in modo che i coloni possano vedere il mare.

Terra sacra

A differenza dell’assedio di Beirut o del massacro del 1982 nei campi profughi di Sabra e Shatila, il bombardamento notturno di Gaza viene trasmesso in diretta da Al Jazeera

Milioni di arabi non riescono a distogliere gli occhi dalle scene di orrore in tempo reale. Una signora di 91 anni ad Amman, in Giordania, ha detto al figlio di vergognarsi di mangiare davanti alla televisione mentre Israele sta riducendo Gaza alla fame. 

La fame forzata di massa non è un’esagerazione.

Human Rights Watch ha accusato Israele di usare la fame di massa come arma di guerra. La politica governativa di affamare Gaza è stata confermata da Miri Regev, ministra dei Trasporti, che, in un recente incontro di gabinetto ha chiesto se la fame potrebbe influenzare i leader di Hamas. I suoi colleghi hanno dovuto correggerla precisando che la fame è un crimine di guerra.

L’effetto che queste immagini sta avendo è una catastrofe non solo per questo governo, o per ogni futuro governo di Israele, ma anche per tutti quegli ebrei che decideranno di restare in questa terra quando il conflitto sarà finalmente terminato.

La distruzione di Gaza sta gettando le fondamenta per altri 50 anni di guerra. Generazioni di palestinesi, arabi e musulmani non dimenticheranno mai la barbarie con cui oggi Israele sta smantellando l’enclave. Gaza, di per sé un grande campo profughi, sta diventando terra sacra.

Crollo del sostegno all’ANP

Ci sono israeliani che hanno capito. Ami Ayalon, ex capo di Shin Bet e comandante della marina, è uno di loro. Ayalon ha identificato una debolezza fondamentale nel pensiero convenzionale nei circoli israeliani della sicurezza.

Ha detto ad Aaron David Miller, analista USA del Medio Oriente, che se l’esercito israeliano vede la vittoria attraverso il prisma dello strapotere – cioè più persone uccide e maggiore è la distruzione più pensa di aver vinto – Hamas considera la vittoria attraverso il prisma del potere di persuasione – più cuori e menti conquista, più grande è la vittoria.

Gli israeliani stanno commettendo lo stesso errore dei francesi in Algeria quando, fra il 1954 e il 1962, uccisero da mezzo milione a un milione e mezzo di algerini, dal 5% al 15% della popolazione, pensando che così facendo avrebbero vinto la guerra. Tuttavia alla fine della guerra dovettero andarsene e concedere l’indipendenza all’Algeria.

Null’altro può spiegare la spettacolare ascesa di Hamas nei sondaggi in Cisgiordania, Giordania e persino in posti come l’Arabia Saudita, dove i leader hanno cercato deliberatamente di seppellire la guerra organizzando dei festival.

Khalil Shikaki, sondaggista molto rispettato dell’OLP e che non ama molto Hamas, ha rilevato che il 72 % degli intervistati crede che Hamas sia stata nel “giusto” a lanciare il suo attacco del 7 ottobre, con l’82% di sostegno in Cisgiordania.

Allo stesso tempo il sostegno per l’Autorità Palestinese è di conseguenza crollato. Shikaki riporta che il 60% ne vorrebbe lo scioglimento.

Una serie di valutazioni dell’intelligence USA conferma la rapidissima ascesa della popolarità di Hamas dall’inizio della guerra. Funzionari a conoscenza delle diverse valutazioni dicono che il gruppo si è piazzato con successo in varie parti del mondo arabo e musulmano come difensore della causa palestinese e un combattente efficace contro Israele, come riportato dalla CNN.

Brutte notizie per tutti quei Paesi, naturalmente con gli USA in testa, che pensano che l’AP possa rimpiazzare Hamas a Gaza. Queste non sono solo cifre. È la nuova realtà politica dopo il 7 ottobre.

Ognuno degli alti papaveri di Fatah che la pensi diversamente viene immediatamente contestato. Oggi l’ambizioso esiliato palestinese Mohammed Dahlan [ex-capo della sicurezza di Fatah a Gaza, acerrimo nemico di Hamas e cacciato da Abu Mazen per corruzione, ndt.] e il suo clan sembrano sostenitori di lunga data di Hamas, non come quando si consideravano il fulcro di un piano internazionale per scacciare Hamas da Gaza nel 2007 dopo che aveva vinto le libere elezioni dell’anno prima.

Affare fatto

Ma Hussein al-Sheikh, segretario del comitato esecutivo dell’OLP e recentemente consacrato successore di Mahmoud Abbas, presidente dell’ANP, non ha ancora capito il cambiamento di atmosfera a Ramallah.

Sheikh, parlando a Reuters, ha attaccato Hamas dicendo che dal 2008 ha combattuto cinque guerre contro Israele e non ha ottenuto nulla con l’occupazione militare.

“Alcuni non accettano di credere che i suoi metodi e il suo approccio nella gestione del conflitto con Israele siano l’ideale e il migliore.

“Dopo tutte queste [morti] e dopo tutto quello che è successo, non vale la pena di fare una valutazione seria, onesta e responsabile per proteggere il nostro popolo e la nostra causa palestinese?

Non vale la pena discutere come gestire questo conflitto con l’occupazione israeliana?” dice Sheikh.

Sheikh sembra insinuare che la presa di potere dell’ANP a Gaza dopo guerra sia un affare fatto. Ha detto all’israeliano Channel 12 che Israele e l’AP si sono accordati su un meccanismo che permetterà all’Autorità di ricevere i fondi trattenuti [da Israele] fin dall’inizio della guerra.

Ci sono voluti due giorni interi a Sheikh per fare dietrofront sul suo attacco contro Hamas. Gli è stato chiesto come un leader di Fatah che nei sondaggi ha il 3% possa criticare Hamas, con il suo 48% sul suo stesso terreno.

Sheikh, questa volta parlando con Al Jazeera, ha detto che i suoi commenti sulle responsabilità di Hamas erano stati “fraintesi”: “L’Autorità Palestinese è la prima a difendere la resistenza,” ha detto nervosamente.

Divide et impera

L’offensiva israeliana contro Gaza ha certamente cambiato l’intero Medio Oriente, come aveva promesso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ma non in modi da cui trarranno beneficio il suo governo o quelli futuri.

Per 17 anni Gaza è stata dimenticata o ignorata dal resto del mondo, eccetto durante le guerre del 2009, 2012, 2014 e 2021, l’America e le maggiori potenze europee hanno fatto del loro meglio per rafforzare l’assedio di Gaza da parte di Israele e dell’egiziano Abdel Fattah el-Sisi.

Bene, con il 60% distrutto e la gran parte della sua popolazione di 2.3 milioni senza case, scuole, ospedali, strade, negozi o moschee a cui far ritorno, non c’è pericolo che Gaza venga più ignorata.

Se per 17 anni la politica di Israele è stata dividere per dominare, separando Gaza dalla Cisgiordania ed eliminando tutte le possibilità di prendere parte a un governo di unità nazionale, Gaza e la Cisgiordania sono riunite come mai prima.

Se la Giordania è stata tranquilla per 50 anni dopo la sanguinosa guerra fra il suo esercito e l’OLP, se le divisioni fra i giordani dell’est e i cittadini palestinesi della Giordania sono state improntate da mutua sfiducia, oggi la Giordania, sia giordani che palestinesi, è un calderone ribollente di odio contro Israele. Ci sono crescenti tentativi di contrabbandare armi verso la Cisgiordania nei 360 km di confine, lungo oltre quattro volte quello con Libano e Siria.

La Giordania stima che Israele avrà bisogno di cinque volte il numero di truppe schierate lungo il confine libanese per metterlo in sicurezza.

In Giordania, con 13 campi profughi e milioni di palestinesi che sono cittadini, c’è la più grande concentrazione della diaspora palestinese, circa sei milioni, superando in numero i palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza.

Se il 6 ottobre Netanyahu si è vantato dell’imminente vittoria dei sionisti, sventolando davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite una mappa di Israele dove la Palestina era cancellata, oggi le sue vanterie sembrano tristemente mal riposte; se la firma dell’Arabia Saudita sull’accordo che riconosce Israele era considerata solo una questione di tempo, oggi gli Accordi di Abramo si sono dissolti nel calderone che Israele ha acceso a Gaza.  

Lo scaricabarile di Netanyahu

E le opinioni in Arabia Saudita? L’ultimo sondaggio contiene due cifre sorprendenti per un Paese il cui leader sta deliberatamente cercando di scrollarsi di dosso vecchie abitudini, incluso il sostegno alla Palestina.  Il 91% concorda che la guerra a Gaza sia una vittoria per palestinesi, arabi e musulmani e il 40% ha un atteggiamento positivo su Hamas, un cambiamento di 30 punti dall’agosto di quest’anno.

Oggi se si legge e ascolta quello che hanno da dire sauditi, qatarioti, emiratini e bahreiniti, il riconoscimento di Israele assomiglia straordinariamente all’iniziativa araba di pace del 2002 che gli accordi [di Abramo] avrebbero dovuto sostituire.

La caratteristica principale degli Accordi di Abramo studiata dall’ex ambasciatore USA in Israele, David M Friedman, e da Jared Kushner [genero e consigliere di Trump, ndt.], era di rendere irrilevante il veto palestinese. Ora c’è di nuovo. Anche se altri Paesi li firmeranno ciò sta diventando irrilevante, dato che la vera lotta si è cristallizzata fra i palestinesi e Israele. 

Fra le rovine di tutti questi piani Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra hanno una sola direzione in cui possono andare: avanti. Non possono ritirarsi.

Per la propria sopravvivenza politica e giudiziaria Netanyahu deve continuare la guerra. Così come il sionismo nazional-religioso [l’estrema destra dei coloni, ndt.]. Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich [ministri di estrema destra, ndt.] sanno che perderebbero un’opportunità che si presenta solo una volta nella vita per cambiare l’equilibrio demografico fra ebrei e palestinesi in Cisgiordania se Netanyahu è costretto dal presidente USA Joe Biden a porre fine alla guerra.

Alla domanda di Middle East Eye su quali piani abbia Israele per il “giorno dopo” la fine della guerra, esperti analisti israeliani ed ex diplomatici sono stati unanimi nelle loro risposte: non ce ne sono. 

Eran Etzion, ex diplomatico e membro del Consiglio Nazionale di Sicurezza, ha detto che Netanyahu sta sicuramente pensando al giorno dopo, ma solo a come ciò influenzerà le sue possibilità di sopravvivenza politica.

È molto chiaro che si è già reso conto che gli americani stanno per fermarlo prima che abbia raggiunto gli obiettivi della guerra,” ha detto.

Si sta già preparando per lo ‘scaricabarile’, i suoi bersagli saranno Biden, i capi militari, i media, e come si dice in ebraico, tutto il mondo e sua moglie che gli hanno impedito di raggiungere la vittoria.

“Quindi per lui il giorno dopo è la continuazione della guerra a ogni costo, dato che lo scopo è restare al potere.”

Etzion ha fatto notare che, anche dopo due mesi di campagna, non c’è nessun contesto ufficiale o gruppo di politici che pianifichi la gestione del dopoguerra a Gaza, e non ci sono discussioni ufficiali fra l’establishment della difesa israeliana e i funzionari USA a Washington.

Incredibile errore di valutazione

La guerra potrebbe esaurirsi sotto la pressione USA e continuare come un conflitto caratterizzato da attacchi dell’esercito israeliano contro i leader di Hamas e una guerriglia prolungata di combattenti in piccole unità. 

Ma questo comporta che Israele non solo si impadronisca del valico di Rafah e sigilli i tunnel per impedire ad Hamas di rifornirsi con armi contrabbandate oltre confine, significa che Israele provveda all’amministrazione civile del nord di Gaza, che ha completamente distrutto.

Per la destra gli ostaggi che Hamas continua a detenere sono praticamente come già morti, ma Netanyahu subirà una pressione crescente dalle loro famiglie perché abbandoni la sua guerra.

I fantasmi del Libano stanno veramente ritornando indietro a perseguitare Israele. Ci vollero 15 anni perché Israele se ne andasse quando Beirut era diventata indifendibile, ma nel 2000 se ne andò. Quando lo fece Hezbollah diventò la forza militare e politica predominante in quel Paese.

Questa guerra è stata un incredibile errore di valutazione per Israele. È un disastro militare oltre che morale. Sta dando alla resistenza una popolarità e uno status nel mondo arabo mai visti in molti decenni.

Neppure la prima e la seconda intifada hanno avuto il successo di Hamas a Gaza negli ultimi due mesi. Gaza ha riacceso le braci della rabbia araba per le umiliazioni subite per mano degli immigrati ebrei.

Il risultato di questa guerra potrà essere un continuo stato di conflitto che priverà Israele della sua affermazione di essere diventato un normale Stato occidentale. In queste condizioni, l’allargamento della guerra esisterà sempre, come mostrano gli attacchi degli Houthi dello Yemen contro i cargo occidentali che passano attraverso il mar Rosso.

Mitut Hamas” (crollo di Hamas) slogan in ebraico e scopo del gabinetto di guerra israeliano. Dopo due mesi di una tale distruzione, potrebbero aggiornarlo con questo: “Mitut Israel”, perché è questo l’effetto che potrebbe avere questa guerra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è cofondatore e capo redattore di Middle East Eye. È un commentatore e conferenziere sulla regione e analista dell’Arabia Saudita. È stato capo redattore di politica estera per The Guardian e corrispondente in Russia, Europa e da Belfast. È arrivato a The Guardian da The Scotsman, dove si occupava del settore dell’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Palestinesi uccisi dall’esercito israeliano vicino a Ramallah

Zena Al Tahhan

3 ottobre 2022 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’affermazione dell’esercito israeliano secondo cui gli uomini avrebbero tentato di effettuare un attacco terroristico con un’auto.

Rettifica

Una precedente versione di questo articolo riportava, sulla base dei rapporti dell’agenzia di stampa statale palestinese Wafa e della stessa famiglia di Basbous, che Basel Basbous fosse uno dei due uomini uccisi dall’esercito israeliano a Jalazone. L’articolo è stato aggiornato mercoledì 5 ottobre 2022 dopo che è emerso che in realtà Basbous è rimasto ferito e che a Wafa e alla famiglia è stato erroneamente riferito il suo nome come uno degli uomini uccisi. Un portavoce del ministero della salute palestinese ha detto ad Al Jazeera che c’è stato “un errore di identificazione da parte degli israeliani”. L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni sui nomi degli uomini uccisi.

Ramallah, Cisgiordania occupata Le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi durante un raid vicino alla città di Ramallah, nella Cisgiordania centrale occupata.

I due uomini sono stati uccisi lunedì in un’auto appena fuori dal campo profughi di Jalazone, a nord di Ramallah.

Sono stati identificati come Khaled Anbar e Salameh Sharayah.

Un terzo uomo, Basel Basbous, è stato dato inizialmente come ucciso nell’attacco. Tuttavia mercoledì il portavoce del Ministero della Salute palestinese ha confermato che Basbous è sopravvissuto, ma è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in un ospedale israeliano.

La notizia degli omicidi è arrivata intorno alle 7:00 (04:00 GMT, 06 ora italiana) di lunedì.

Un testimone, che ha voluto rimanere anonimo, ha detto che la sparatoria è avvenuta davanti alla sua casa.

“Ho sentito il rumore degli spari intorno alle 3:30 del mattino, ho guardato fuori dalla mia finestra, c’era un’auto, all’interno i ragazzi a cui avevano sparato”, ha detto ad Al Jazeera.

I soldati li hanno tirati fuori dall’auto e li hanno messi sul ciglio della strada. Sono stati lasciati sanguinare a terra per circa 40 minuti. Dopodiché hanno preso i loro corpi”.

“Lo scenario più probabile è che i tre siano stati sorpresi dall’esercito”, afferma l’uomo, aggiungendo che i soldati israeliani erano appostati nascosti alla vista in diversi punti della zona intorno al luogo in cui si trovava l’auto degli uomini.

L’esercito israeliano ha affermato che i suoi soldati stavano tentando di arrestare un sospetto a Jalazone quando hanno pensato che i tre uomini stessero pianificando un attacco con l’auto contro di loro.

I membri della famiglia di Basbous lo negano fermamente.

Basbous, che lavora in una panetteria, è uno di 10 fratelli di cui uno si trova attualmente in una prigione israeliana.

Sua sorella Baraa dice che il fratello era uscito con i suoi amici per vedere cosa stesse succedendo avendo sentito che l’esercito israeliano stava compiendo un’irruzione nella zona.

Baraa, parlando con noi nella sua casa di famiglia a Jalazone, nega che suo fratello abbia attaccato i soldati israeliani.

“Mio fratello non ha fatto nulla”, riferisce ad Al Jazeera. “I suoi amici lo hanno chiamato e sono usciti, hanno pensato che non ci fossero grossi problemi, avrebbero semplicemente fatto un giro per vedere se ci fossero stati degli scontri”.

“Ogni giovane del campo che sente che c’è l’esercito va ad osservare, anche da lontano”, continua Baraa.

Un’altra sorella, Rasha, di 37 anni, dice che Basbous aveva trascorso la sera precedente con suo figlio.

“Ha accompagnato mio figlio a casa intorno alle 3 del mattino e poi, dopo che i suoi amici lo hanno chiamato, è andato a vedere cosa stava succedendo”, racconta Rasha ad Al Jazeera.

“Negli ultimi tre giorni l’esercito ha compiuto delle irruzioni nel campo e quando arrivano sparano indiscriminatamente”, prosegue.

“Non siamo al sicuro nemmeno nelle nostre case”, dice, aggiungendo che una volta mentre nel corso di un’incursione osservava fuori dalla finestra la sua casa è stata colpita da colpi di arma da fuoco.

“Dico a chiunque affermi qualcosa sui palestinesi, sono loro [gli israeliani] a venire da noi e non siamo al sicuro nemmeno nelle nostre stesse case … vengono e uccidono i nostri giovani con un proiettile”.

In un primo tempo la famiglia di Basbous, dopo che l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa aveva fatto il suo nome, era convinta che fosse stato ucciso dall’esercito israeliano.

Tuttavia, secondo il ministero della Salute palestinese, sembra che all’origine ci sia stato un errore di identità.

Il governatorato di Ramallah ed el-Bireh ha osservato lunedì uno sciopero generale con la chiusura completa dei negozi in segno di lutto per i due uomini uccisi.

Israele sta effettuando raid quasi quotidiani in Cisgiordania, in gran parte concentrati sulle città di Jenin e Nablus, dove si sono costituiti nuovi gruppi armati palestinesi.

Secondo il Ministero della Salute dall’inizio dell’anno nei territori occupati [in seguito alla guerra] del 1967 sono stati uccisi dalle forze israeliane circa 160 palestinesi di cui 51 ad agosto nel corso dei tre giorni di assalto israeliano contro la Striscia di Gaza assediata.

Organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno condannato ciò che chiamano uso eccessivo della forza da parte di Israele e “prassi di sparare per uccidere” contro i palestinesi, compresi dei sospetti aggressori, nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Secondo Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndt.] politici israeliani di alto livello hanno incoraggiato “i soldati e la polizia israeliani a uccidere i palestinesi sospettati di aver attaccato gli israeliani anche quando non rappresentino più una minaccia”.

L’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha rilevato nei rapporti che le forze israeliane “usano spesso armi da fuoco contro i palestinesi per un semplice sospetto o come misura precauzionale, in violazione degli standard internazionali”.

Giovedì nel corso di uno dei raid più recenti compiuto in una città vicino a Betlemme, un bambino di sette anni è morto dopo che i suoi famigliari gli hanno detto che era ricercato dai soldati israeliani [il bambino, Rayyan Suleiman, è morto in seguito ad un attacco cardiaco mentre i soldati israeliani facevano irruzione nella sua casa, ndt.].

Il Dipartimento di Stato americano ha chiesto che venga fatta un’indagine sulla morte di Rayyan Suleiman.

Sempre nel 2022 sono state uccise venti persone nel corso di attacchi compiuti da palestinesi in Israele e in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Kafka a Gaza: come Israele ha trasformato un operatore umanitario palestinese in un “terrorista”

Antony Loewenstein

8 settembre 2022 – +972 Magazine

Nel processo di sei anni contro Mohammed Halabi tutte le prove erano “segrete” o non plausibili. Ciò non ha impedito a Israele di condannarlo a 12 anni di prigione.

Dopo uno dei processi più lunghi nella storia israeliana, che ha compreso più di 160 udienze in sei anni, il 30 agosto un tribunale israeliano ha condannato l’operatore umanitario palestinese Mohammed Halabi a 12 anni di prigione con l’accusa di aver dirottato denaro verso Hamas. A giugno Halabi, che era a capo dell’ufficio di Gaza dell’organizzazione umanitaria cristiana World Vision, è stato dichiarato colpevole dal tribunale distrettuale di Be’er Sheva di aver deviato 50 milioni di dollari dei fondi dell’organizzazione alle autorità di Hamas che governano la Striscia di Gaza bloccata.

Durante il processo kafkiano, condotto in quasi totale segretezza dal momento dell’arresto di Halabi nel giugno 2016, e condannato da diverse delle principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, il palestinese di 45 anni ha sempre proclamato la sua innocenza. È stato separato dai suoi cinque figli e dalla sua famiglia a Gaza dal momento in cui si è rifiutato di capitolare alle richieste di Israele di ammettere la sua colpevolezza e accettare un patteggiamento fraudolento.

World Vision, che ha sostenuto Halabi durante tutto il processo, ha continuato a difendere il proprio collaboratore dopo la condanna. “Non abbiamo verificato nulla che ci faccia mettere in dubbio le nostre conclusioni che Mohammed sia innocente da tutte le accuse”, ha scritto in una dichiarazione ufficiale.

Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, è stato più diretto, definendo la sentenza un “grave errore giudiziario”. Ha condannato Israele per aver “trattenuto Halabi per sei anni sulla base di prove segrete confutate da numerose indagini” aggiungendo: “Il caso Halabi mostra come Israele usi il suo sistema giudiziario per fornire una patina di legalità al fine di mascherare il suo orrendo sistema di apartheid nei confronti di milioni di palestinesi. “

Il caso di Halabi è l’ultimo esempio di un sistema giudiziario israeliano truccato ed impegnato in una discriminazione contro palestinesi e non ebrei. Ma la sua storia fornisce più di un semplice spaccato dell’occupazione israeliana. Oltre al silenzio assordante degli alleati di Israele che pretendono di sostenere la democrazia, la sentenza di Halabi è un paradigma di quanto lontano si possa spingere Israele nel suo assalto alla società civile palestinese.

Parlando da Gaza alla rivista +972 dopo la sentenza il padre di Mohammed, Khalil, ha detto che “continuerà a lottare prima nei tribunali [distrettuali] israeliani e poi appellandosi [alla Corte suprema israeliana]” per ottenere giustizia. “Dopodiché [si rivolgerà] ai tribunali dei Paesi europei e in America”, fino a quando Israele non avanzerà le sue scuse per aver arrestato Mohammed, aggiunge.

Khalil, che ha lavorato per anni presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro (UNRWA) a Gaza, ha affermato che i figli di Mohammed comprendono che il loro padre è innocente. Ho sollevato loro il morale fornendo delle spiegazioni. Dico sempre loro che nel procedimento contro il padre la giustizia prevarrà. Il mondo è con lui così come gli israeliani che amano la giustizia e la pace”.

Una totale mancanza di prove

Israele ha arrestato Halabi al valico di Erez tra Israele e la Striscia di Gaza assediata nel giugno 2016 e per settimane non si è saputo niente di lui. Due mesi dopo, Israele ha annunciato che Halabi avrebbe confessato di aver dirottato 50 milioni di dollari nelle casse di Hamas, mentre l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto riferimento all’arresto senza menzionare il nome di Halabi.

Organizzazioni umanitarie internazionali e Paesi donatori come la Germania e l’Australia hanno interrotto immediatamente tutti gli aiuti in denaro alla sede di World Vision a Gaza, lasciando migliaia di palestinesi in uno stato di incertezza sugli aiuti e centinaia senza lavoro. Da allora World Vision non è più stata in grado di operare a Gaza.

World Vision ha intrapreso una costosa verifica del suo lavoro a Gaza per determinare se mancasse del denaro. La società di revisione Deloitte e lo studio legale statunitense DLA Piper non hanno trovato prove di illeciti, azioni illegali e nessuna prova credibile che Halabi lavorasse per Hamas (in effetti, la sua famiglia era nota per l’opposizione al gruppo). L’organizzazione umanitaria ha anche affermato che il suo intero budget decennale per Gaza era di 22,5 milioni di dollari, ridicolizzando l’affermazione che El-Halabi avrebbe rubato 50 milioni di dollari.

L’Australia, uno dei principali finanziatori dei programmi di World Vision a Gaza, ha immediatamente condotto la propria indagine sulle gravi accuse di Israele. Anch’esso non ha trovato nulla.

L’allora capo di World Vision Australia, il ministro battista Tim Costello, ha detto a +972 che l’intero caso era un “insulto ai contribuenti australiani, alla nostra integrità. Il bilancio degli aiuti australiani è stato sottoposto ad un’indagine e tuttavia nessun denaro dei contribuenti è scomparso. Ci deve essere una risposta ufficiale del governo australiano, anche se a porte chiuse e in privato, per condannare la sentenza [contro Halabi]”.

Fino al momento in cui scrivo, il governo australiano è rimasto in silenzio, anche se tre senatori verdi del parlamento federale hanno condannato la sentenza. L’Australia è da molti anni uno degli alleati più fedeli di Israele.

È una decisione chiaramente ideologica”, dice Costello a +972. Israele vuole dire: siamo una democrazia con uguaglianza davanti alla legge, ma i palestinesi non godono di questa uguaglianza. Lascia che la giustizia scorra come un fiume” [ “Let justice roll on like a river” è una famosa frase, tratta dalla Bibbia, che Martin Luther King pronunciò nel 1963 a Washington, ndt.].

Confessione sotto costrizione

Halabi afferma di essere stato torturato dalle autorità israeliane durante la detenzione nel 2016, e di aver ricevuto tra l’altro un pugno alla testa che gli ha lasciato persistenti problemi di udito. È stato sottoposto forzatamente a prolungate posizioni di stress, privato del cibo e del sonno e rinchiuso in una cella con un informatore palestinese, un sedicente membro di Hamas. Tali tattiche coercitive non sono insolite: Israele ha una lunga storia di torture nei confronti dei palestinesi sotto custodia per costringerli a una falsa confessione e ad accettare un patteggiamento con una pena ridotta.

Dopo essere rimasto intrappolato per giorni in una stanza con quell’uomo Halabi ha detto al suo avvocato palestinese, Maher Hanna, che non poteva più sopportare quel trattamento. Halabi ha ammesso tutto ciò che volevano gli inquisitori dopo essere stato sottoposto a una coercizione intollerabile, ha detto Hanna. Diversi relatori speciali delle Nazioni Unite hanno ritenuto che la detenzione e l’interrogatorio di Halabi “potrebbero essere equiparati a tortura”.

Nel frattempo Halabi non credeva che nessun tribunale israeliano credibile avrebbe preso sul serio il processo, e così ha ritrattato la sua confessione. Ma per sei lunghi anni ha dovuto sopportare interminabili ritardi, mancanza di prove in aula e un sistema giudiziario israeliano che ha rifiutato di consentire l’audizione di testimoni credibili.

Per l’accusa israeliana il semplice fatto che i numeri non tornassero – che Halabi non avesse mai avuto accesso a nessun quantitativo di denaro che si avvicinasse a 50 milioni di dollari – era irrilevante. Avevano quella che sostenevano fosse un’ammissione da parte dell’operatore umanitario durante la sua detenzione, e questo era sufficiente. Niente di tutto questo è mai stato sottoposto a verifica in un tribunale equo e pubblico; al contrario, l’accusa è stata autorizzata a presentare tutte le sue cosiddette “prove segrete” nel corso di udienze a porte chiuse.

Durante questo processo-farsa la maggior parte della comunità internazionale è rimasta in silenzio o ha affermato di non poter intervenire fino alla sua conclusione, una posizione che andava a pennello per Israele.

Dopo la sentenza di fine agosto, ad esempio, il consolato britannico a Gerusalemme si è limitato a twittare di essere “preoccupato”, mentre la delegazione dell’Unione europea presso i palestinesi ha twittato che “si rammarica dell’esito“. L’UE è il principale partner commerciale di Israele, una solida relazione che sta crescendo nonostante la preoccupazione pubblica per i tentativi di Israele di schiacciare importanti organizzazioni della società civile palestinese, molte delle quali ricevono fondi da governi europei.

“Un moderno processo Dreyfus”

Il nocciolo della questione, come la scorsa settimana ha rilevato l’avvocato Maher Hanna a +972, è stata la riluttanza di Halabi ad ammettere un crimine che non ha commesso. Durante un’udienza del marzo 2017 un giudice del tribunale distrettuale israeliano lo ha incoraggiato a patteggiare perché avrebbe avuto “poche possibilità” di non essere ritenuto colpevole. “Ha letto i numeri e le statistiche”, ha continuato il giudice, alludendo ai tassi di condanna dei tribunali militari. “Sa come vengono gestite queste situazioni.”

“All’inizio gli sono stati offerti tre anni, poi quattro, poi sei e infine otto”, spiega Hanna da Gerusalemme. Ma Halabi ha rifiutato di accettare ognuna di queste offerte, e di conseguenza è stato condannato a 12 anni di carcere.

Nonostante la sentenza l’accusa ha minacciato di ricorrere in appello per ottenere una sentenza più severa. “È difficile capire il cambio di posizione dell’accusa”, dice Hanna. “Era disposta ad accontentarsi di una condanna a tre anni in caso di confessione, ma non ad accettare una condanna a 12 anni quando l’imputato si è dichiarato innocente per lo stesso presunto reato“.

Hanna aggiunge: “L’accusa, e anche la corte, ritengono importante trasmettere un messaggio a tutti i detenuti e prigionieri palestinesi secondo cui chiunque non accetti una pena detentiva in un patteggiamento e costringa il tribunale ad ascoltare la propria difesa sarà severamente punito”.

In un’indagine del 2019 per la rivista +972 Magazine ho dettagliato la serie dei motivi per cui il processo non è riuscito a soddisfare nemmeno i più elementari standard internazionali di equità. Lo stesso Halabi mi ha detto nello stesso anno che credeva che l’intero caso contro di lui fosse una battuta di pesca per tentare di accentuare l’assedio contro gli abitanti di Gaza. Non stavano attaccando soltanto me, ma l’intero sistema di aiuti umanitari a Gaza, di cui ero solo una parte”.

Hanna è rimasto scioccato dalla sentenza della corte e sconvolto dal fatto che i giudici abbiano respinto la maggior parte delle rimostranze di Mohammed. Hanno puntualmente ignorato tutte le incongruenze presenti nel caso come se quelle rimostranze non fossero state presentate. Sono rimasti molto sorpresi quando hanno ascoltato le rimostranze durante le argomentazioni per la condanna e hanno ammesso la possibilità di aver sbagliato, ma per loro “è necessario mantenere una coerenza”.

Israele sta attualmente conducendo una guerra più estesa contro la società civile palestinese, con la determinazione di chiudere le ONG principali e neutralizzare la loro autorevolezza nella battaglia davanti all’opinione pubblica globale. Come per il caso Halabi, in cui non esistono prove per dimostrare la sua colpevolezza, il governo israeliano spera che le sue false accuse di terrorismo contro le principali ONG palestinesi le metteranno a tacere e le dissuaderanno.

Intanto Hanna continua a nutrire delle speranze per Halabi. “A questo punto ci aspettiamo che la Corte Suprema annulli una simile sentenza”, afferma. “Questo è un moderno processo Dreyfus e lo Stato di Israele non può permettersi di portare una macchia del genere nel suo sistema giudiziario”.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente, autore di best seller, regista e co-fondatore di Declassified Australia [Rivista australiana progressista di giornalismo investigativo, ndt.]. Ha scritto per The Guardian, The New York Times, The New York Review of Books e molte altre testate. I suoi libri includono Pills, Powder and Smoke: Inside The Bloody War On Drugs, Disaster Capitalism: Making A Killing Out Of Catastrophe e My Israel Question. I suoi documentari includono Disaster Capitalism e i film inglesi di Al Jazeera: West Africa’s opioid crisis e Under the Cover of Covid. Ha lavorato a Gerusalemme Est dal 2016 al 2020. Il suo prossimo libro, in uscita nel 2023, è The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo Corbyn, la lobby israeliana prende di mira il mondo accademico britannico

Jonathan Cook

19 ottobre 2021- Palestine Chronicle

Sembra che la lobby israeliana si stia preparando a una campagna per sradicare gli accademici di sinistra che nel Regno Unito sono critici verso la continua oppressione israeliana del popolo palestinese, impegnandosi in sforzi simili a quelli messi in atto contro l’ex leader laburista Jeremy Corbyn.

Come per gli attacchi contro Corbyn, quello contro gli accademici è guidato dal Jewish Chronicle, settimanale inglese che si rivolge ai più ardenti sostenitori di Israele fra la comunità ebraica britannica.

La mossa segue il successo che la lobby ha ottenuto questo mese con le sue pressioni sull’università di Bristol affinché licenziasse uno dei suoi docenti, David Miller, anche dopo le indagini dalla stessa università, condotte da un giurista, che avevano concluso che le accuse di antisemitismo contro Miller erano infondate.

Miller è stato formalmente licenziato con la generica motivazione secondo cui egli “non risponde ai criteri di comportamento che ci si aspetta dai nostri dipendenti e dall’Università”.

La lobby ha mascherato a stento la propria soddisfazione dopo che, apparentemente per paura di pubblicità negativa, l’università di Bristol ha capitolato davanti a una campagna di affermazioni infondate in base alle quali Miller “ha vessato” gli studenti ebrei.

Miller, sociologo, è all’avanguardia per le sue ricerche sulle fonti dell’islamofobia nel Regno Unito. Il suo lavoro presenta un esame dettagliato del ruolo della lobby israeliana nel fomentare il razzismo contro musulmani, arabi e palestinesi.

Israele ha promosso da tempo l’idea di essere un baluardo contro la presunta barbarie islamica e il terrorismo, in quello che lo Stato e i suoi sostenitori presentano come uno “scontro di civiltà”.

Più di un secolo fa, Theodor Herzl, il padre del sionismo politico, sosteneva nel linguaggio colonialista dell’epoca che uno Stato ebraico in Medio Oriente sarebbe servito come “un muro di difesa per l’Europa in Asia, un avamposto di civiltà contro la barbarie”.

Questo è il concetto chiave a cui il movimento sionista fece ricorso per far pressione sulle principali potenze del tempo, principalmente l’Inghilterra, perché contribuisse a cacciare il popolo palestinese autoctono dalla maggior parte della sua patria in modo che potesse invece insediarsi l’auto-dichiarato Stato ebraico di Israele.

A tutt’oggi Israele incoraggia sia l’idea di essere vittima di una minaccia esistenziale permanente da parte di un odio apparentemente irrazionale e dal fanatismo dei musulmani, sia di giocare un ruolo cruciale di prima linea nella difesa dei valori occidentali. Di conseguenza i palestinesi si sono trovati isolatati a livello diplomatico.

Punta dell’iceberg’

A indicare la direzione che probabilmente la lobby intende seguire d’ora in poi, questo mese il Jewish Chronicle ha pubblicato un editoriale intitolato “Il licenziamento di Miller dovrebbe essere l’inizio, non la fine”. In esso si conclude: “Miller non è una voce isolata, ma è rappresentativo di una scuola di pensiero radicata quasi ovunque nel mondo accademico.”

Allo stesso tempo, sotto il titolo “Miller se ne è andato, ma lui è solo la punta dell’iceberg”, si riporta che, all’inizio dell’anno, studiosi in “74 diverse istituzioni britanniche di istruzione superiore” hanno firmato una lettera di sostegno a Miller rivelando “la vastità della rete che lo sostiene nelle università in tutto il Regno Unito”.

Si fa notare che fra i firmatari è incluso “un numero significativo di rappresentanti dell’establishment del Russell Group, costituito da 24 delle più prestigiose università britanniche”.

Il Chronicle sottolinea il fatto che 13 dei firmatari appartenevano all’università di Bristol e faceva il nome di parecchi docenti.

L’insinuazione appena velata è che ci sia un problema di antisemitismo nelle università britanniche e che sia tollerata dai piani alti.

La lobby ha usato la stessa tesi con Corbyn, sostenendo, nonostante la scarsità delle prove, che lui e la sua cerchia più ristretta fossero indulgenti verso una ipotetica esplosione di antisemitismo all’interno del partito, insinuando in modo pesante che la stessero incoraggiando.

Le affermazioni della lobby sono state entusiasticamente amplificate dai media in mano ai miliardari e dalla burocrazia di destra del partito laburista, profondamente ostili al socialismo di Corbyn.

Riesumare la strategia

Negli ultimi tre anni il Chronicle è stato oggetto di un numero stupefacente di condanne da parte dell’Independent Press Standards Organisation (IPSO), la debole l’autorità garante della stampa nominata dall’industria stessa della carta stampata.

La maggior parte di queste distorsioni risale alla precedente campagna contro Corbyn, in cui il Jewish Chronicle ha giocato un ruolo centrale. Affermava sistematicamente che c’era una epidemia di antisemitismo fra i politici di sinistra in Inghilterra.

Sembra quindi che il Chronicle, con il resto della lobby filoisraeliana, stia riesumando la strategia che aveva usato contro Corbyn, sostenitore agguerrito dei diritti dei palestinesi, che, insieme a un gran numero di membri del partito laburista, si è visto calunniato con l’accusa di antisemitismo.

È memorabile come, nell’estate del 2018, il Chronicle e due altri giornali della comunità ebraica abbiano condiviso l’editoriale di prima pagina affermando che Corbyn costituiva una “minaccia esistenziale” per la vita degli ebrei nel Regno Unito.

L’editoriale era stato pubblicato alla vigilia delle elezioni generali di un anno prima, in cui Corbyn non era riuscito a conquistare la maggioranza dei seggi nel parlamento inglese solo per qualche migliaio di voti. Con il partito conservatore impantanato in una crisi permanente, a quel punto sembrava che fossero imminenti nuove elezioni.

La posta in gioco per la lobby era alta. Se Corbyn avesse vinto sarebbe probabilmente stato il primo leader di uno dei maggiori Stati europei a riconoscere lo Stato palestinese e a imporre sanzioni contro Israele, incluso il bando contro la vendita di armamenti, come era stato fatto per l’apartheid in Sudafrica.

Keir Starmer, successore di Corbyn, ha condotto una guerra, osannata dal Chronicle e da altri, contro la sinistra del partito usando di nuovo l’antisemitismo come pretesto.

Le rappresentazioni fuorvianti del giornale riguardo al partito laburista, che l’hanno ripetutamente messo nei guai con l’IPSO, l’autorità garante della stampa, sono ora messe al servizio contro gli accademici.

La manovra in due mosse del Jewish Chronicle nel caso Miller è abituale.

Primo, ha insinuato che il professore aveva perso il suo posto perché l’università aveva concluso che le sue azioni erano antisemite, quando invece tutto indicava che l’inchiesta era stata favorevole a Miller.

Secondo, il giornale ha insinuato con forza che più di 200 studiosi che avevano firmato una lettera all’università di Bristol esprimendo preoccupazione per l’indagine su Miller, condividevano le sue cosiddette idee antisemite. 

Placare la lobby

Così come il Chronicle, nonostante la mancanza di prove, ha cercato di dare l’impressione di una epidemia di antisemitismo nel Labour sotto Corbyn ora spera di insinuare che l’antisemitismo stia dilagando nelle università inglesi.

Infatti persino quelli che hanno firmato la lettera non condividono necessariamente le opinioni di Miller su Israele o sul suo ruolo nel fomentare l’islamofobia. La lettera difendeva soprattutto il principio della libertà accademica e il diritto di Miller di continuare la propria ricerca ovunque essa lo conducesse, senza timore di perdere il lavoro. Nessuno dei firmatari era d’accordo con tutte le conclusioni [delle sue ricerche] o con tutto quello che ha detto.

Ciò che è veramente scioccante è che non ci sia stato un numero maggiore di accademici ad accorrere in sua difesa, soprattutto alla luce del fatto che le accuse mosse dalla lobby israeliana contro di lui sono state smentite dall’inchiesta interna dell’università di Bristol.

Corbyn e la sua cerchia hanno scelto una linea di condotta simile a quella della Bristol, cercando di placare la lobby. Ma l’ufficio di Corbyn ha scoperto che ogni concessione da loro fatta alle calunnie di antisemitismo serviva solo ad alimentare la convinzione della lobby che la sua campagna intimidatoria stava funzionando e che la rete poteva essere ulteriormente ampliata.

Poco dopo la lobby ha sostenuto che non solo un diffuso sostegno della sinistra laburista in favore della lotta dei palestinesi contro decenni di occupazione israeliana fosse antisemita, ma che chiunque negasse che ciò fosse una prova di antisemitismo era a sua volta antisemita.

Come con i suoi attacchi contro Corbyn, le affermazioni del Chronicle contro Miller sono esagerate, dato che il giornale riporta in modo acritico che i membri del sindacato degli studenti ebrei a Bristol ha accusato il professore di “vessazioni, di prenderli di mira e di polemiche malevole”.

In realtà questa ipotetica “persecuzione” si riferisce o a una lezione di Miller sulla propaganda, basata sulla sua ricerca che cita la promozione dell’islamofobia da parte della lobby israeliana, o a considerazioni critiche da lui fatte sul sionismo e la lobby israeliana in in contesti diversi dalle lezioni.

Miller non ha perseguitato nessuno. Piuttosto quelli che si identificano come sionisti e per i quali Israele è una costante priorità politica hanno scelto di ritenersi offesi dalle sue scoperte. Non sono stati bullizzati, intimiditi o minacciati, come suggerisce il Chronicle. Le loro convinzioni politiche su Israele sono state contestate dal lavoro accademico di Miller.

Significativamente la ricerca di Miller mostra anche che i movimenti conservatori, come il partito di governo nel Regno Unito, hanno giocato un ruolo centrale nel promuovere l’islamofobia, in quanto parecchie figure chiave del partito conservatore britannico, come ad esempio la baronessa Sayeeda Warsi hanno ripetutamente messo in guardia.

Ma Bristol avrebbe seriamente indagato, per esempio, le affermazioni di studenti del partito Conservatore se fossero stati loro a essere “perseguitati” da Miller perché ha presentato la sua ricerca durante le lezioni o in suoi interventi a eventi politici fuori dall’aula? L’università avrebbe preso in considerazione il suo licenziamento basandosi su quelle affermazioni?

Non c’è neanche da porsi la domanda. La natura politica delle proteste e la loro minaccia alla libertà accademica sarebbe immediatamente ovvia a chiunque.

E in ciò risiede la speciale utilità per l’establishment della lobby israeliana. La sua campagna estremamente faziosa e politicizzata contro la sinistra, in modo iniquo ma troppo spesso efficace, può essere mascherata da antirazzismo o dalla promozione dei diritti umani.

Cresce l’analisi critica

Ma come il Chronicle implicitamente ammette nella sua chiamata a prendere di mira una cerchia molto più ampia di accademici inglesi, i sionisti più ardenti devono affrontare una sfida molto più grande di un singolo leader politico o un singolo docente.

Si sentono personalmente offesi se l’oggetto della loro passione politica, Israele, diventa oggetto di un’analisi critica crescente. Come il Chronicle, la speranza sionista di ribaltare i vari sviluppi politici degli ultimi dieci o vent’anni ha reso molto più difficile per loro difendere pubblicamente Israele.

Questi sviluppi includono:

* Il successo dal 2005 degli appelli della società civile palestinese per un boicottaggio internazionale di Israele per porre fine alla sua oppressione sui palestinesi;

* Le immagini orrende dei ripetuti assalti dell’esercito israeliano contro la popolazione palestinese che vive in quella che in effetti è diventata un’affollata prigione a cielo aperto nella Gaza assediata da Israele da 15 anni;

* il sabotaggio da parte di Israele della soluzione dei due Stati offerta dalla leadership palestinese con la costruzione illegale di sempre più colonie su terreni palestinesi, respingendo allo stesso tempo l’alternativa di un solo Stato che garantisca uguali diritti a ebrei e palestinesi nella regione;

* i recenti rapporti da parte di gruppi israeliani e internazionali per i diritti umani che chiaramente sostengono la tesi che Israele si possa considerare uno Stato d’apartheid.

Il Chronicle e gli ardenti sionisti nel Regno Unito a cui dà voce temevano che Corbyn rappresentasse il momento in cui questa visione di Israele irrompesse nel mainstream politico.

E ora essi temono che, a meno che si prendano drastiche iniziative, studiosi come Miller avviino un dibattito più puntuale nel mondo accademico su Israele, denunciando la lobby per il suo razzismo anti-palestinese.

Sanzioni pecuniarie

Minacciate da sanzioni pecuniarie dal governo di destra di Johnson, decine di università inglesi sono state costrette ad adottare una nuova definizione di antisemitismo.

Questo era il prezzo che la lobby ha cercato di far pagare a Corbyn. Egli è stato costretto ad accettare non solo l’imprecisa definizione di odio contro gli ebrei dell’Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, [IHRA, organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti allo scopo di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] ma anche gli 11 esempi in appendice che, nella maggioranza dei casi, confondono apertamente critiche dure contro Israele con l’antisemitismo. La lobby sostiene che confutare questi esempi costituiscano antisemitismo è anch’essa una forma di antisemitismo.

Descrivendo in recenti rapporti Israele uno Stato d’apartheid, sia Human Rights Watch, con sede a New York, che B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani più rispettata, sarebbero stati vittime dell’affermazione dell’IHRA’ secondo cui è antisemita descrivere Israele come “un’iniziativa razzista”.

Similmente, molti studiosi israeliani e quasi tutti quelli palestinesi e i loro sostenitori violerebbero l’esempio che si oppone al fatto che a Israele venga richiesto un “comportamento che non ci si aspetta o si richieda a nessun’altra Nazione democratica”.

Essi mettono in dubbio il concetto stesso che Israele sia una Nazione democratica. I ricercatori israeliani l’hanno invece definita “etnocrazia”, perché imita uno Stato democratico mentre concede diritti e privilegi a un gruppo etnico, gli ebrei, e li nega a un altro, i palestinesi.

Corbyn si è ritrovato rapidamente intrappolato dalla definizione dell’IHRA e dagli esempi connessi. Ogni supporto significativo per i palestinesi contro l’oppressione israeliana, incluse le sue azioni passate prima che diventasse leader laburista, potrebbe essere distorto e diventare prova di antisemitismo.

E ogni argomentazione in base alla quale l’antisemitismo è stato in tal modo utilizzato dalla lobby come arma potrebbe a sua volta essere usato come prova di antisemitismo. Si sono create le condizioni perfette per una caccia alle streghe contro la sinistra laburista.

Ora la lobby spera che le stesse condizioni possano bandire le critiche contro Israele a livello accademico.

Uno dei primi bersagli della nuova campagna della lobby sarà probabilmente il sindacato delle Università e dei College (UCU), un sindacato dei docenti universitari che rappresenta oltre 120.000 accademici e personale di supporto. Fino ad ora ha resistito alla campagna di pressione.

La sua resistenza sembra aver spronato anche alcune istituzioni accademiche a non cedere. In particolare, a febbraio il senato accademico dell’University College of London si è ribellato contro l’adozione della definizione dell’IHRA da parte del consiglio di amministrazione dell’università, definendo la formulazione “politicizzata e divisiva”.

In dicembre un rapporto del consiglio dell’UCL ha avvertito che la definizione dell’IHRA confonde i pregiudizi contro gli ebrei con il dibattito politico su Israele e Palestina. Ciò, afferma, potrebbe avere “effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, come istigare una cultura di paura o autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o in discussioni in aula su argomenti controversi”.

Ciò è esattamente quello che sperano la lobby israeliana e i suoi attivisti nel sindacato degli studenti ebrei che hanno preso di mira Miller. Con la loro nuova guerra contro il mondo accademico, aiutati da un governo di destra, potrebbero essere in grado di infliggere al sostegno degli accademici per i palestinesi tanti danni quanti ne hanno fatto ai politici che li appoggiano.

Jonathan Cook ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism. Fra i suoi libri ci sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ricostruire il Medio Oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sta scomparendo: gli esperimenti di Israele sulla disperazione umana] (Zed Books).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Human Rights Watch critica la censura di Facebook contro i palestinesi e chiede indagini

Redazione di Palestine Chronicle

8 ottobre 2021 –  Palestine Chronicle

In un rapporto (consultabile qui) pubblicato venerdì, Human Rights Watch ha dichiarato che Facebook ha “rimosso indebitamente” post di palestinesi e di attivisti pro-palestinesi.

Secondo l’ONG internazionale con sede a New York, Facebook ha rimosso ingiustamente i post che descrivevano le violazioni dei diritti umani commesse durante l’aggressione israeliana del maggio 2021.

“Facebook ha cancellato i contenuti pubblicati dai palestinesi e dai loro sostenitori che parlavano di questioni relative ai diritti umani in Israele e Palestina”, ha affermato Deborah Brown, ricercatrice senior per i diritti digitali e legale di HRW. “Con gli spazi dedicati a un tale sostegno a rischio in molte parti del mondo, la censura di Facebook minaccia di restringere una tribuna fondamentale per la conoscenza e l’impegno su quei problemi”.

Secondo il rapporto di HRW, diversi post sono stati rimossi anche da Instagram, il social network americano di condivisione di foto e video recentemente acquisito da Facebook. 

“In un caso, Instagram ha rimosso una schermata di titoli e foto da tre articoli di opinione del New York Times ai quali l’utente di Instagram ha aggiunto i suoi commenti che esortavano i palestinesi a ‘non cedere mai’ i loro diritti”, si legge nel rapporto.

HRW ha anche condannato la politica di Facebook di definire “pericolose” alcune organizzazioni limitando così la libertà di espressione.

“Facebook si basa, tra altre liste, sull’elenco delle organizzazioni che gli Stati Uniti hanno definito ‘organizzazione terroristica straniera’” afferma il rapporto di HRW. “Quell’elenco include movimenti politici che hanno anche un braccio armato, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e Hamas”.

Rimandando alle vaghe e generiche definizioni statunitensi, Facebook proibisce a leader, fondatori e membri di spicco dei principali movimenti politici palestinesi di utilizzare la sua piattaforma. Lo fa anche se, per quanto è reso pubblicamente noto, la legge statunitense non vieta ai gruppi nella lista di utilizzare piattaforme gratuite e liberamente disponibili come Facebook.

Nel suo rapporto, HRW ha chiesto un “controllo indipendente … (per) valutare la relazione di Facebook con la Cyber Unit del governo israeliano, che crea per il governo un sistema parallelo di procedure esecutive al fine di censurare contenuti senza ordini legali formali”.

Secondo HRW il gigante dei social media con sede in California non ha fornito spiegazioni esaurienti per giustificare il suo comportamento.

Facebook ha ammesso diversi problemi che interessano i palestinesi e i loro post, alcuni dei quali attribuiti a ‘problemi tecnici’ ed errori umani. Tuttavia, queste spiegazioni non giustificano lampiezza di restrizioni e rimozioni di contenuti che si è osservata”.

L’ONG ha infine chiesto un’indagine indipendente e ha esortato Facebook a garantire “che all’inizio dell’indagine gli inquirenti si confrontino attentamente con la società civile, in modo da riflettere le preoccupazioni più urgenti sui diritti umani di coloro che sono colpiti dalle sue politiche”.

Lo scorso aprile, HRW ha pubblicato un rapporto intitolato “Oltre la soglia: le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, concludendo che Israele sta commettendo il crimine di “apartheid” cercando di mantenere il “controllo” ebraico sui palestinesi e sulla propria popolazione araba.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano




Dopo che i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi in 3 mesi, il capo dell’esercito ha detto: ‘così non va, rilassatevi’

Dopo che i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi in 3 mesi, il capo dell’esercito ha detto: ‘così non va, rilassatevi’

Dopo che i soldati israeliani hanno ucciso “come se nulla fosse” più di 40 palestinesi in 2 mesi, il capo di stato maggiore dell’esercito ha detto: “Così non va bene” ed ha ordinato ai cecchini di “rilassarsi”. Ma quando il giornalista Ohad Hemo ha riportato l’accaduto al Forum della Politica Israeliana, la presidentessa Susie Gelman ha subito espresso le sue preoccupazioni riguardo all’evasione dei prigionieri palestinesi da un carcere israeliano.

 Philip Weiss

17 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Tre giorni fa un’associazione filoisraeliana ha tenuto un dibattito che ha rivelato la sua totale indifferenza nei confronti delle vite dei palestinesi. Il giornalista israeliano Ohad Hemo ha detto al Forum della Politica Israeliana, un’organizzazione lobbistica israelo-americana, che, dopo che i soldati israeliani hanno ucciso “come se nulla fosse” più di 40 palestinesi in Cisgiordania in due mesi, il capo dell’esercito ha detto: “Questo non va bene” ed ha ordinato ai cecchini di “rilassarsi”.

Susie Gelman, la presidentessa del Forum della Politica Israeliana, non ha risposto alla scioccante notizia, ma ha riportato la discussione sui suoi “motivi di preoccupazione” – l’evasione dei prigionieri palestinesi da un carcere israeliano.

Ecco la descrizione secondo Hemo di questa furia omicida:

Nelle ultime settimane è successo qualcosa in Cisgiordania. Posso dirvi che negli ultimi due mesi ci sono stati più di 40 palestinesi uccisi con armi da fuoco da Israele. E siamo arrivati al punto che il capo dell’esercito ha convocato tutti i comandanti impegnati in Cisgiordania e ha detto loro: ‘Aspettate un momento, così non va bene. Voglio dire che vengono uccise facilmente persone in incursioni, manifestazioni o altro. Perciò per favore parlate ai vostri cecchini. Parlate alla vostra gente nell’esercito. Solo questo, perché si rilassino’.

Hemo, il giornalista che si occupa della questione palestinese per il Canale 12 israeliano, ha preso spunto da un notiziario del 10 agosto. Dopo che i soldati israeliani avevano ucciso più di 40 palestinesi in tre mesi, compresi “civili…uccisi per errore”, Aviv Kochavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha richiesto dei cambiamenti.

Il Forum della Politica Israeliana palesemente non si preoccupa di queste uccisioni. Si stava svolgendo una discussione sull’evasione del 6 settembre in cui sei palestinesi sono fuggiti attraverso un tunnel dal carcere di Gilboa, e Gelman, che stava intervistando Hemo, ha ripetutamente espresso preoccupazione riguardo alle “conseguenze” di questa grave violazione della sicurezza”.

“Parlaci di questi sei prigionieri”, ha detto Gelman. “Voglio dire, questo genere di cose non dovrebbero proprio accadere. Vi sono ovviamente moltissime domande e sicuramente ci sarà un’indagine su che cosa sia andato storto…Come è mai possibile? …. Probabilmente alcune persone a causa di questo fatto perderanno il lavoro.”

Hemo ha detto: “Quattro di loro sono condannati all’ergastolo per aver ucciso degli israeliani o aver preso parte ad attacchi terroristici …. Mahmoud al-Arda è un killer, credetemi, è un vero terrorista della Jihad islamica.”

Hemo ha ripetutamente definito i palestinesi dei terroristi. Nessuno dei 4.500 palestinesi prigionieri di Israele sono prigionieri politici, ha detto Hemo, sono tutti “terroristi.”

“Stiamo parlando di circa 4.500 prigionieri attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Non parlo di prigionieri politici, parlo di terroristi.”

Gelman e Hemo non si sono mai posti l’ovvia domanda: ci sono state delle conseguenze per gli assassini israeliani degli oltre 40 palestinesi? La risposta è sicuramente ‘no’. L’associazione (israeliana) per i diritti umani B’Tselem ha documentato che solo “in casi molto rari” i soldati israeliani sono accusati di reato per aver ucciso o ferito dei palestinesi. E quando lo sono, raramente vengono condannati. Al contrario i palestinesi in Cisgiordania vengono condannati ad un tasso di quasi il 100% nei tribunali militari – che è uno dei motivi per cui Human Rights Watch lo scorso aprile ha affermato che Israele pratica l’apartheid.

Hemo si presenterà il mese prossimo ad un’altra associazione filoisraeliana.

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net ed ha fondato il sito nel 2005-06.

 

      (Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Vaccinare i palestinesi solo se è funzionale a Israele

Maureen Clare Murphy

12 marzo 2021 – The Electronic Intifada

Come direbbero i ragazzini, Il COGAT [Coordinatore delle attività governative nei territori: unità del ministero della difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ricomincia con le sue stronzate.

All’inizio di questa settimana l’ente militare israeliano ha twittato foto di lavoratori palestinesi mentre vengono vaccinati contro il COVID-19 ai posti di blocco in Cisgiordania.

Il COGAT, famigerato per la sua propaganda mediocre e strumentale, ha affermato che l’iniziativa sui vaccini “è un passo importante per assicurare la salute pubblica e la stabilità economica”.

“Fatevi vaccinare!” ha implorato il COGAT, il quale troppo spesso ritarda o nega ai palestinesi i permessi di viaggio per accedere alle cure mediche.

Tuttavia la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana, anche se lo volesse, non potrebbe essere vaccinata.

Mentre Israele si vanta della sua campagna di vaccinazione di tutti i suoi cittadini, ha rifiutato di fornire il vaccino ai palestinesi che vivono sotto occupazione, in base a quanto previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

Vaccinare i palestinesi a vantaggio di Israele

Israele ha recentemente iniziato a fornire vaccini a circa 130.000 palestinesi che lavorano nelle sue fabbriche, nei suoi cantieri e nelle sue colonie, il lavoro sottopagato e sfruttato da cui dipende l’economia israeliana.

Ma Israele non fornirà vaccini ai restanti oltre 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Come ha detto un palestinese alla Reuters “ Anche i lavoratori palestinesi che [gli israeliani] hanno vaccinato, lo hanno fatto a vantaggio della comunità israeliana, non in funzione del benessere dei lavoratori”.

 

Omar Shakir, direttore del programma di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] ha osservato che “vaccinare solo quei palestinesi che entrano in contatto con israeliani rafforza [l’idea] che per le autorità israeliane la vita palestinese conti solo nella misura in cui influisca sulla vita ebraica”.

Nel frattempo le unità di terapia intensiva degli ospedali di alcune aree della Cisgiordania stanno attualmente operando al 100% della capacità, poiché nelle comunità palestinesi del territorio i casi di COVID-19 sono in aumento.

Nelle ultime due settimane le città palestinesi hanno introdotto blocchi totali per controllare la crescita del numero delle infezioni da COVID-19, proprio mentre il vicino Israele ha iniziato a revocare le restrizioni procede con una delle campagne di vaccinazione più veloci al mondo”, ha riferito la Reuters.

Apartheid sanitario

La disparità nell’accesso ai vaccini COVID-19 è un chiaro esempio del regime israeliano di apartheid imposto dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

“Il regime israeliano mette in campo leggi, pratiche e violenze di Stato progettate per cementare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi”, ha affermato l’associazione per i diritti umani B’Tselem [organizzazione israeliana non governativa che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, ndtr.] in un recente studio.

La distribuzione del vaccino è una dimostrazione scioccante di come gli strateghi israeliani si muovano in modo di volta in volta differente riguardo ai gruppi sottoposti alle sue norme inique.

Mentre i palestinesi con cittadinanza o residenza israeliana hanno diritto a ricevere i vaccini da Israele, i palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania sono stati cacciati dai siti di vaccinazione gestiti da Israele.

L’apartheid sanitario nei territori sotto il controllo di Israele non è una novità.

Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani: ONG no profit con sede negli Stati Uniti che utilizza medicina e scienza per documentare le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che le disparità nelle condizioni della salute tra israeliani e palestinesi derivano direttamente dall’occupazione.

Uno studio del 2015 dell’organizzazione ha rilevato che l’aspettativa di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza è di circa 10 anni inferiore a quella in Israele.

Lo stesso studio ha rilevato che la mortalità infantile e la mortalità materna erano quattro volte superiori in Cisgiordania e Gaza rispetto a Israele.

Nello stesso anno, uno studio dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha individuato nell’assedio da parte di Israele una delle ragioni dell’aumento a Gaza, per la prima volta in 50 anni, del tasso di mortalità infantile.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani affermano che il regime dell’apartheid israeliano “ha portato per decenni alla frammentazione e al deterioramento del sistema sanitario” della Cisgiordania e di Gaza.

Ciò ha “negato ai palestinesi il diritto al soddisfacimento di standard ottimali di salute fisica e mentale”.

Vaccini al posto di blocco

La salute dei palestinesi è profondamente intrecciata con l’occupazione israeliana. Il COGAT lo dimostra inconsapevolmente nei suoi tweet sui lavoratori palestinesi che ricevono le vaccinazioni ai posti di blocco militari, che chiama eufemisticamente “punti di passaggio“.

Qualsiasi vaccino che i palestinesi ricevano, sia da Israele che da qualunque altro organismo, dovrebbe passare attraverso i posti di blocco israeliani.

Israele ha rallentato il primo trasferimento di dosi di vaccino agli operatori sanitari a Gaza poiché alcuni parlamentari hanno cercato di condizionare la spedizione a concessioni politiche da parte di Hamas.

Lo ha fatto mentre trasferiva vaccini in altri Paesi in cambio del loro sostegno politico:

giovedì i palestinesi di Gaza hanno ricevuto 40.000 dosi del vaccino russo Sputnik V.

Secondo quanto riferito, le dosi costituivano una donazione da parte degli Emirati Arabi Uniti, assicurata da Muhammad Dahlan, l’ex capo dell’intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese diventato signore della guerra e rivale del leader dell’ANP Mahmoud Abbas all’interno della fazione di Fatah.

Dahlan ha condotto una breve e sanguinosa guerra civile a Gaza dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 2006. Le sue forze sono state sconfitte e Dahlan ora vive in esilio nello Stato del Golfo ricco di petrolio.

Secondo la Reuters, Dahlan ha dichiarato che metà della spedizione di vaccini a Gaza sarebbe stata assegnata ai palestinesi in Cisgiordania.

I pochissimi vaccini che sono arrivati ​​in Cisgiordania non sono stati distribuiti equamente dall’Autorità Nazionale Palestinese che, secondo quanto riferito, li ha assegnati alle élite del partito di Fatah, agli organi di informazione allineati e ai loro familiari.

Resta da vedere se Israele consentirà il trasferimento delle dosi da Gaza alla Cisgiordania, o se il COGAT scoprirà in esso una utilità propagandistica.

E così i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare continueranno ad aspettare mentre la loro salute viene gestita da Israele, da Dahlan e dall’Autorità Nazionale Palestinese in termini di battaglia politica e mentre i Paesi terzi stanno a guardare senza far nulla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele, che ha distrutto il Libano, si atteggia a suo salvatore

Tamara Nassar  

6 agosto 2020 – Electronic Intifada

Anche nel pieno della catastrofe, l’ipocrisia di Israele non conosce limiti.

Martedì un’enorme esplosione ha scosso Beirut, uccidendo almeno 135 persone, ferendone più di 5.000 e costringendo centinaia di migliaia a sfollare.

È probabile che il bilancio delle vittime salga, con i soccorritori che perlustrano la devastata capitale libanese.

L’esplosione ha lasciato poco di intatto: i cittadini stanno pubblicando foto e video di case distrutte, auto danneggiate ed edifici crollati in tutta la città.

Si indaga ancora sulla causa dell’esplosione. I funzionari libanesi la imputano alle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio depositato da sei anni nei magazzini del porto senza misure di sicurezza.

Ora Israele sta sfruttando la tragedia per cancellare i propri crimini contro il Libano, distogliere l’attenzione dall’occupazione militare e ripulire la propria immagine – una strategia di propaganda chiamata bluewashing.

Il bluewashing

Attraverso i suoi canali diplomatici, Israele ha annunciato che offrirà aiuti umanitari al Libano.

“Questo è il momento di trascendere il conflitto”, ha twittato l’account ufficiale dell’esercito israeliano.

Mercoledì sera il municipio di Tel Aviv si è persino illuminato e issava la bandiera libanese.

L’incredibile ipocrisia non è passata inosservata fra gli utenti di Twitter, che hanno pubblicato foto famose scattate durante l’invasione israeliana del 2006. Le immagini mostrano bambini israeliani che scrivono messaggi sulle granate di artiglieria prima che l’esercito le spari sul Libano.

Un utente del social media ha scritto: “I vostri cesti regalo avranno la stessa firma dei missili?”.

L’offerta di aiuti “umanitari” proviene dallo stesso paese che ha ucciso e ferito decine di migliaia di civili palestinesi e libanesi e minaccia regolarmente di distruggere le infrastrutture civili del Libano, come ha già ripetutamente fatto.

Durante l’invasione del 2006, Israele ha scaricato sul Paese più di un milione di munizioni a grappolo.

“Abbiamo fatto una cosa folle e mostruosa, abbiamo sganciato bombe a grappolo su intere città “, ha detto ad Haaretz, quotidiano di Tel Aviv, un ufficiale dell’esercito israeliano.

Nel corso di quella guerra, Israele sganciò qualcosa come 7.000 bombe e missili e inoltre bombardò l’intero Libano con artiglieria terrestre e navale.

Più di 1.100 persone furono uccise e circa 4.400 ferite, di cui la stragrande maggioranza civili.

Un’indagine di Human Rights Watch ha totalmente smentito le affermazioni di Israele secondo cui l’orribile bilancio fosse il risultato di “danni collaterali” perché i combattenti di Hezbollah si sarebbero nascosti tra i civili o li avrebbero usati come “scudi umani”.

Human Rights Watch ha concluso che Israele ha indiscriminatamente preso di mira le aree civili – una strategia nota col nome di “Dottrina Dahiya”, dal nome del sobborgo meridionale di Beirut che Israele ha deliberatamente raso al suolo.

E i leader israeliani spesso minacciano di farlo di nuovo.

Ad esempio, nel 2018 Yisrael Katz, importante membro del governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha minacciato di bombardare il Libano fino a ridurlo all’ “età della pietra” e “all’epoca degli uomini delle caverne”.

E solo pochi giorni fa, dopo aver affermato che i combattenti di Hezbollah avevano tentato di attaccare l’esercito israeliano oltre la frontiera, Netanyahu ha fatto allusione alla guerra del 2006.

Il 27 luglio il leader israeliano ha dichiarato che nel 2006 il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah “ha commesso un grosso errore nel mettere alla prova la determinazione di Israele a difendersi, e lo Stato libanese ha pagato un prezzo pesante per questo”.

“Gli suggerisco di non ripetere l’errore”, ha soggiunto Netanyahu – minaccia appena velata di ripetere la stessa distruzione di massa.

Netanyahu ha ribadito le sue minacce poche ore prima dell’esplosione a Beirut.

Diffondere voci

Secondo quanto viene riportato, per la massima resa in termini di propaganda Israele insisterebbe nel mantenere il marchio ebraico su tutte le spedizioni di aiuti che potrebbe inviare in Libano, sebbene il Libano quasi certamente li rifiuterà.

Nel frattempo, Israele si è affrettato a diffondere voci infondate per accusare Hezbollah dell’esplosione.

“Dopo la tragedia di Beirut, Israele ha ufficialmente offerto assistenza umanitaria al Libano”, ha twittato 4IL [Defending Israel Online, sito “che combatte le bugie e l’ipocrisia della campagna BDS”, ndtr.], un organo di propaganda del Ministero degli Affari Strategici di Israele.

“Questo nonostante le prove che l’esplosione sia scoppiata in un magazzino di munizioni di Hezbollah”, aggiunge il resoconto.

Nessuna prova del genere è mai emersa.

 

L’ONU piazza Israele

 

Israele vìola regolarmente lo spazio aereo e la sovranità libanese, facendo volare aerei senza pilota e jet da combattimento sul sud del paese e persino sulla capitale.

Invece di condannare tali violazioni e chiedere giustizia per le vittime dei crimini di guerra israeliani in Libano, Nickolay Mladenov, l’inviato di pace delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, ha lodato Israele per la sua offerta d’aiuto.

Mladenov è sembrato usare cinicamente la tragedia come opportunità per portare avanti un’agenda politica di normalizzazione dei legami regionali con Israele.

L’account Twitter della propaganda in lingua araba di Israele ha continuato a lanciare spudorate affermazioni di “solidarietà” con il popolo libanese; tuttavia, non tutti erano compresi.

Moshe Feiglin, ex vice presidente del parlamento israeliano, ha celebrato l’esplosione a Beirut come un “grandioso spettacolo pirotecnico ” e una “celebrazione meravigliosa” in coincidenza con la data designata dagli ebrei per la festa dell’amore [festività minore israeliana simile al giorno di S. Valentino, ndtr.].

È lo stesso Feiglin che durante l’attacco israeliano a Gaza nel 2014 propose un piano per “concentrare” i palestinesi nei campi di confine e “sterminare” chiunque resistesse, distruggendo tutte le abitazioni e le infrastrutture civili.

Ma la maggior parte dei politici israeliani ha evidentemente ricevuto un promemoria che questo genere di dichiarazioni non è l’immagine che Israele vuole inviare.

Anche se Israele illumina il municipio di Tel Aviv in una cinica dimostrazione di sostegno, pochi libanesi dimenticheranno che quasi 14 anni fa Israele stava illuminando i cieli del Libano con missili e bombe.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




È ora di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese

Asa Winstanley

27 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’Autorità  Nazionale Palestinese (ANP) tiene sotto controllo i palestinesi in Cisgiordania dal 1993 e, nella Striscia di Gaza, fino al 2007. Sotto il regime israeliano dell’apartheid, l’ANP non ha l’autorità di fare altrettanto con i coloni israeliani che occupano illegalmente la Cisgiordania, tutto al contrario. Anzi, l’ANP li protegge.

Molti, persino nel movimento di solidarietà palestinese, ne fraintendono totalmente la natura.

L’ANP non ha una reale autorità e il nome è fondamentalmente sbagliato. Le forze di occupazione israeliane hanno un potere di veto totale su tutto quello che essa fa. Né appartiene veramente ai palestinesi, né agisce nell’interesse della loro liberazione.

Volendo essere sinceri, l’ANP agisce da sempre come un subappaltatore per l’occupazione israeliana. Non avrebbe potuto essere nient’altro.

Essa è strutturalmente concepita per servire gli interessi di Israele e della sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per quasi 30 anni è stata leale senza riserve nel ricoprire questo ruolo.

Hamas, il movimento islamico di liberazione palestinese, dopo la vittoria nelle elezioni libere ed eque del 2006, aveva tentato per un breve periodo di cambiare l’ANP dall’interno. Questo tentativo è subito fallito a causa di un colpo di stato. La CIA, Israele, la Giordania e altre potenze agirono insieme per eliminare Hamas, confinandolo con successo a Gaza.

Fin dall’inizio tutta la principale funzione dell’ANP è stata quella di reprimere i palestinesi e di sostenere l’occupazione israeliana. In questo modo svolge un utile servizio coloniale per Israele.

L’ANP è il subappaltatore autoctono per l’occupazione israeliana.

La condizione fondamentale delle forze armate dell’ANP, e che spesso non si vuole ammettere, risiede in quello che è eufemisticamente chiamato “coordinamento per la sicurezza”, cioè collaborare con Israele.

Secondo questo accordo, le forze armate dell’ANP arrestano i combattenti della resistenza palestinese e impediscono alla popolazione di fare dimostrazioni contro l’occupazione israeliana, distruggendo la libertà di espressione e altre forme di dissenso contro Israele e il suo subappaltatore, l’ANP.

Anni fa, Mahmoud Abbas, “presidente” a fine mandato dell’ANP, dichiarò in modo scellerato che per lui questa politica di collaborazione [con Israele] era “sacra”. Nessun segnale sarebbe potuto essere più chiaro: questa è l’unica vera funzione dell’ANP.

L’ANP è anche afflitta da corruzione, brutalità e gretta oppressione.

All’inizio del mese c’è stato un esempio particolarmente scioccante. Le forze dell’ANP hanno arrestato il giornalista palestinese Sami Al-Sai per un post su Facebook.

Qual era il suo reato? Forse aveva invocato il rovesciamento armato dell’ANP? Aveva forse incoraggiato le proteste contro di essa? Ne aveva forse svelato la corruzione? No: aveva postato un video totalmente apolitico in cui si vedono dei palestinesi che vendono delle angurie.

Ma, secondo Human Rights Watch, anche una community palestinese di una pagina locale di Facebook di Tulkarem, la città cisgiordana dove il video era stato girato, aveva postato lo stesso video. Gli abitanti del posto avevano pubblicato su quella stessa pagina Facebook delle lamentele relative a presunta corruzione e altri scandali in città, alcune critiche nei confronti di funzionari dell’ANP.

Secondo Human Rights Watch, Al-Sai è in carcere da giovedì.

L’intera faccenda sembra solo un pretesto per arrestare un giornalista e impedirgli di fare il proprio lavoro. Al-Sai è stato arrestato e perseguitato varie volte nel corso degli anni sia dall’ANP che dalle forze di occupazione israeliana.

L’ANP ha una lunga storia di detenzioni e soprusi nei confronti di giornalisti palestinesi i cui articoli non le sono piaciuti.

Nel 2012 ho scritto di parecchi giornalisti palestinesi incarcerati e interrogati dall’ANP in Cisgiordania semplicemente perché stavano svolgendo il proprio compito.

Yousef Al-Shayab ha denunciato un presunto scandalo relativo a un tentativo dell’ANP di controllare dei gruppi di studenti palestinesi in Francia. Anche Tariq Khamis è stato arrestato dopo aver scritto un pezzo su un gruppo di giovani palestinesi che avevano richiesto la fine dei negoziati con Israele.

Se l’ANP avesse fiducia in se stessa permetterebbe ai giornalisti di fare il proprio lavoro,” mi ha detto Khamis. “Ma a causa dei suoi errori e della sua corruzione ha paura di noi.”

A prescindere dalla protezione dei suoi piccoli feudi, la funzione primaria dell’ANP è la protezione di Israele.

È stata strutturata così. È scritto negli accordi di Oslo e nella serie di intese che ne sono seguite.

Intellettuali palestinesi di spicco come Joseph Massad e il compianto Edward Said l’avevano capito immediatamente. Said aveva definito Oslo in modo indimenticabile: “Uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese.” L’opinione di Said, allora controversa, era però obiettivamente corretta e ha resistito alla prova del tempo.

Come spiega Massad: “L’ANP aveva promesso di porre fine alla resistenza anti-coloniale e alla solidarietà internazionale a sostegno del popolo palestinese come parte della sua capitolazione al colonialismo degli occupanti israeliani, in cambio non di una diminuzione, ma di un aumento della colonizzazione israeliana, sommata a privilegi economici per i funzionari dell’ANP e per gli imprenditori palestinesi che sostengono che i loro profitti sono una specie di ‘vittoria’ sugli israeliani, invece che il prezzo per aver rinunciato ai diritti per il proprio popolo.”

L’ANP non può essere “riformata”, perché la sua sottomissione a Israele non è la conseguenza della sua corruzione, ma piuttosto il contrario. Fin dall’inizio è stata creata per servire Israele e ha svolto bene questa sua funzione.

È ora che l’ANP venga sciolta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La tortura sistematica dei palestinesi nelle carceri israeliane

Yara Hawari

28 novembre 2019 – al Shabaka

Sintesi

Il recente caso di Samer Arbeed ha evidenziato ancora una volta l’uso sistematico della tortura nei confronti dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. I soldati israeliani hanno arrestato Arbeed nella sua casa di Ramallah il 25 settembre 2019. Lo hanno picchiato duramente prima di portarlo per un interrogatorio al centro di detenzione di Al Moscobiyye a Gerusalemme. Due giorni dopo, secondo il suo avvocato, è stato ricoverato in ospedale a causa delle pesanti torture ed è rimasto in condizioni critiche per diverse settimane. L’autorità giudiziaria aveva autorizzato in questo caso il servizio segreto israeliano, lo Shin Bet, a utilizzare “metodi fuori dall’ordinario” per ottenere informazioni senza passare per un procedimento giudiziario. Ciò ha indotto Amnesty International a condannare ciò che è accaduto ad Arbeed in quanto “tortura autorizzata con strumenti legali”. (1)

Nell’agosto del 2019, poco prima dell’arresto di Arbeed, le forze di occupazione israeliane hanno iniziato una campagna mirata contro i giovani palestinesi e hanno arrestato oltre 40 studenti dell’Università di Birzeit. Gli arresti sono aumentati dopo la carcerazione di Arbeed e, poiché a molti studenti è stato negato il diritto di incontrare i loro avvocati, si suppone anche che molti siano stati sottoposti a tortura.

I fatti sopra riportati non rappresentano una novità. Dall’istituzione dello Stato di Israele nel 1948, la Israeli Security Agency (ISA) ha sistematicamente torturato i palestinesi usando una varietà di tecniche. E sebbene molti Paesi abbiano inserito il divieto di tortura nella loro legislazione nazionale (nonostante rimanga una pratica diffusa con il pretesto della sicurezza dello Stato), Israele ha intrapreso una strada diversa: non ha adottato una normativa nazionale che vieti l’uso della tortura e i suoi tribunali hanno permesso di utilizzare la tortura nei casi di “necessità”. Ciò ha dato all’ISA via libera nel fare ampio uso della tortura contro i prigionieri politici palestinesi.

Questo breve resoconto si concentra sull’uso della tortura nel processo detentivo israeliano (sia al momento dell’arresto che nelle carceri), tracciandone i momenti storici e i più recenti sviluppi. Basandosi sul lavoro di varie organizzazioni palestinesi, il documento sostiene che la pratica della tortura, incorporata nel sistema carcerario israeliano, è sistematica e legittimata attraverso l’ordinamento giuridico interno. [Il documento] indica chiaramente alla comunità internazionale la strada per inchiodare Israele alle sue responsabilità e porre fine a queste violazioni.

La tortura e la legge

La questione della tortura occupa un posto importante nelle discussioni su etica e moralità. Molti hanno sostenuto che la pratica della tortura riflette una società malata e corrotta. In effetti, la tortura prevede la totale disumanizzazione di una persona e, una volta che ciò si verifica, i confini dell’abbruttimento sono senza limite. Inoltre, mentre il pretesto comune degli apparati di sicurezza per l’utilizzo della tortura è che possa fornire informazioni vitali, ciò si è dimostrato del tutto infondato. Molti esperti prestigiosi, e persino funzionari della CIA, sostengono che le informazioni ottenute sotto tortura sono generalmente false. I prigionieri possono essere costretti a confessare qualsiasi cosa per fermare la sofferenza a cui vengono sottoposti.

Il sistema giuridico internazionale proibisce la tortura sulla base del diritto internazionale consuetudinario nonché di una serie di trattati internazionali e regionali. L’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma: “Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti”. Il diritto internazionale umanitario, che regola il comportamento delle parti durante il conflitto, include anche il divieto di tortura. Ad esempio, la terza Convenzione di Ginevra vieta la “violenza sulla vita e sulla persona, in particolare omicidi di ogni tipo, mutilazioni, trattamenti crudeli e torture”, nonché “oltraggi alla dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e degradanti”. Inoltre, la Quarta Convenzione afferma: “Nessuna coercizione fisica o morale deve essere esercitata contro le persone sotto tutela, in particolare per ottenere informazioni da loro o da terzi”.

Il divieto di tortura è così assoluto che è considerato jus cogens [norme di carattere imperativo, ndtr.] nel diritto internazionale, il che significa che non è derogabile e che nessun’altra legge può soppiantarlo. Eppure la tortura continua ad essere utilizzata da molti Paesi in tutto il mondo. Amnesty International la definisce una crisi globale, affermando di aver denunciato negli ultimi cinque anni violazioni del divieto di tortura da parte della grande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite.

La “guerra al terrore”, guidata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ha portato in particolare a terribili casi di torture sistematiche, inflitte soprattutto a prigionieri arabi e musulmani. Il campo di detenzione di Guantanamo Bay, istituito dagli Stati Uniti nel 2002 per detenere “terroristi”, è stato e continua ad essere un luogo di tortura. Immagini di prigionieri bendati, incatenati e inginocchiati a terra con tute arancione sono state diffuse in tutto il mondo. 

Tuttavia forse le immagini più esplicite di questa condizione storica sono giunte dal carcere militare americano di Abu Ghraib in Iraq. Foto trapelate e testimonianze di militari hanno rivelato che la prigione era un luogo di torture su larga scala, incluso lo stupro di uomini, donne e bambini. All’epoca, l’amministrazione americana condannò questi atti e cercò di far credere che si trattasse di incidenti isolati. Le organizzazioni per i diritti umani, inclusa Human Rights Watch [ong statunitense per i diritti umani, ndtr.], hanno riferito il contrario.

Inoltre, recenti testimonianze da Abu Ghraib rivelano legami sinistri tra gli interrogatori statunitensi e quelli israeliani. In un libro di memorie, un ex addetto americano agli interrogatori in Iraq ha affermato che l’esercito israeliano ha addestrato il personale americano in varie tecniche di interrogatori e torture, inclusa quella che è diventata nota come “seggiola palestinese”, in cui il prigioniero è costretto a sporgersi su una sedia in posizione accovacciata e con le mani legate ai piedi. La pratica, che provoca un dolore lancinante, è stata perfezionata sui palestinesi – da qui il suo nome – e adottata dagli americani in Iraq.

Nonostante questi scandali, sono state intraprese pochissime azioni per proteggere i prigionieri di guerra e la tortura continua ad essere giustificata in nome della sicurezza. Nella prima intervista di Donald Trump dopo che aveva prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, egli ha dichiarato che, nel contesto della “guerra al terrore”, “la tortura funziona”. Anche prodotti di cultura di massa, quali programmi televisivi come “24” e “Homeland” [Patria, in italiano “Caccia alla spia”, serie televisiva statunitense, ndtr.] ” normalizzano l’utilizzo della tortura, in particolare contro arabi e musulmani, e promuovono l’idea che essa sia giustificata in funzione del bene superiore. Vi è stato anche un recente incremento di serie televisive e film che mettono in scena le attività del Mossad e dello Shin Bet, come “Fauda”, “The Spy” [La Spia, ndtr.] e “Dead Sea Diving Resort” [Paradiso delle immersioni nel Mar Morto, ndtr.], ognuno dei quali rende eroiche le attività dell’ISA mentre demonizza i palestinesi come terroristi. Queste serie e film presentano al mondo un’immagine di Israele che gli consente di giustificare le sue violazioni del diritto internazionale, compresa la tortura.

Mentre Israele ha ratificato la Convenzione contro la tortura (CAT) nel 1991, non l’ha integrata nella sua legislazione nazionale. Inoltre, nonostante la commissione delle Nazioni Unite sostenga il contrario, Israele sostiene che la CAT non si applica al territorio palestinese occupato. (2) Ciò consente a Israele di affermare che non esiste alcun crimine di tortura in Israele, tortura che è effettivamente consentita in caso di “necessità”, come è stato affermato a proposito del caso Arbeed. Questa “necessità” è anche conosciuta come la “bomba pronta ad esplodere”, una dottrina sulla sicurezza utilizzata da molti governi per giustificare la tortura e la violenza in situazioni considerate come strettamente dipendenti da contingenze temporali.

Israele ha anche approvato diverse sentenze sulla questione della tortura che hanno rafforzato e giustificato le attività dei suoi servizi di sicurezza. Ad esempio, nel 1987 due palestinesi dirottarono un autobus israeliano e vennero in seguito catturati, picchiati e giustiziati dallo Shin Bet. Sebbene ci fosse un divieto di pubblicazione sui media israeliani, i dettagli della tortura e dell’esecuzione trapelarono e portarono all’istituzione di una commissione governativa. Mentre la commissione concluse che “la pressione [sui detenuti] non deve mai raggiungere il livello di tortura fisica … un grado moderato di pressione fisica non può essere evitato”. Le raccomandazioni della commissione erano incompatibili con il diritto internazionale a causa della loro vaga definizione di “un grado moderato di pressione fisica “, e in sostanza diedero allo Shin Bet carta bianca al fine di torturare i palestinesi.

Oltre un decennio più tardi, e in seguito alla richiesta da parte delle organizzazioni per i diritti umani, nel 1999 la Corte di Giustizia israeliana ha emesso una sentenza secondo cui durante gli interrogatori dell’ISA non sarebbe stato più permesso usare mezzi fisici nel corso degli interrogatori, mettendo così al bando l’uso della tortura. La corte ha stabilito che quattro metodi comuni di “pressione fisica” (scuotimento violento, incatenamento a una sedia in una posizione di tensione, essere costretto a lungo in una posizione accovacciata e la privazione del sonno) erano illegali. Eppure la corte ha aggiunto una clausola che ha fornito una scappatoia per chi conduce gli interrogatori, vale a dire che coloro che utilizzino la pressione fisica non dovranno affrontare una responsabilità penale se si evince che lo abbiano fatto in una situazione di pericolo imminente o per la necessità di difendere lo Stato – in altre parole, se il detenuto risulti essere una minaccia immediata per la sicurezza pubblica.

La necessità della tortura in nome della sicurezza è stata riaffermata nel 2017, quando l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha emanato una sentenza a favore dello Shin Bet, con cui ha ammesso quelle che ha denominato “forme estreme di pressione” sul detenuto palestinese Assad Abu Ghosh. La giustificazione è stata che Abu Ghosh fosse in possesso di informazioni su un imminente attacco terroristico. La corte lo ha ritenuto “un interrogatorio con tecniche avanzate” piuttosto che una tortura e ha dichiarato che fosse giustificato dalla dottrina della “bomba pronta ad esplodere”. Analoghe sentenze sono state costantemente ripetute.

Sebbene le organizzazioni palestinesi per i diritti umani presentino regolarmente denunce alle autorità israeliane, raramente ricevono una risposta e, quando succede, è spesso per informare che il caso è stato chiuso a causa della mancanza di prove. In effetti, dal 2001 sono stati presentati 1.200 reclami contro i servizi di sicurezza per tortura, ma nessun agente è mai stato perseguito.

Il sistema carcerario israeliano: luoghi di tortura sistematica

Ogni anno il sistema carcerario militare israeliano detiene e incarcera migliaia di prigionieri politici palestinesi, principalmente dai territori del 1967 [territori occupati da Israele dopo la “Guerra dei Sei Giorni” del 1967, conquiste mai riconosciute dall’ONU, ndtr.]. Dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e dell’istituzione della legge marziale in quelle aree Israele ha arrestato oltre 800.000 palestinesi, pari al 40% della popolazione maschile e un quinto della popolazione totale.

La legge israeliana consente inoltre ai militari di trattenere un prigioniero per un massimo di sei mesi senza accusa, secondo una procedura nota come detenzione amministrativa. Questo periodo può essere prolungato indefinitamente, mediante “imputazioni” tenute segrete. I prigionieri e i loro avvocati, quindi, non sanno di cosa sono accusati o quali prove vengono usate contro di loro. L’ultimo giorno del periodo di sei mesi chi è detenuto con tale modalità viene informato se sarà rilasciato o se la sua detenzione sarà ulteriormente prolungata. Addameer-the Prisoner Support and Human Rights Association [Sostegno ai prigionieri e associazione per i diritti umani, Ong palestinese costituita nel 1992, ndtr.] ha definito questa pratica come una forma di tortura psicologica.

È durante il periodo iniziale della detenzione, sia amministrativa che di altro tipo, quando i detenuti sono spesso privati del contatto con avvocati o familiari, che sono sottoposti alle forme più severe di interrogatori e torture. Se vengono sottoposti a processo, affrontano un giudizio da parte del personale militare israeliano e spesso si vedono negata un’ adeguata assistenza legale. Questo sistema è illegale ai sensi delle leggi internazionali e organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno documentato una vasta gamma di violazioni dei diritti umani.

Ai bambini non viene risparmiata l’esperienza della prigionia e della tortura all’interno del sistema militare israeliano e quasi sempre viene loro negata la presenza della tutela dei genitori durante gli interrogatori. Uno di questi esempi è del 2010, quando la polizia di frontiera israeliana ha arrestato il sedicenne Mohammed Halabiyeh nella sua città natale di Abu Dis. Al momento dell’arresto la polizia gli ha rotto una gamba e lo ha picchiato, prendendo intenzionalmente a calci la gamba ferita. È stato interrogato per cinque giorni consecutivi e ha dovuto affrontare minacce di morte e violenza sessuale. È stato quindi ricoverato in ospedale, dove gli agenti israeliani hanno continuato ad abusare di lui facendo penetrare siringhe all’interno del suo corpo e dandogli pugni in faccia. Halabiyeh è stato denunciato e sottoposto a processo come un adulto, come nel caso di tutti i minori palestinesi detenuti di età superiore ai 16 anni, in diretta violazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia. (3) Israele arresta, detiene e processa ogni anno da 500 a 700 minori palestinesi.

Attualmente ci sono 5.000 prigionieri politici palestinesi; tra questi 190 minorenni, 43 donne e 425 prigioniere in stato di detenzione amministrativa, di cui la maggior parte è stata sottoposta a qualche forma di tortura. Secondo Addameer, i metodi più comuni utilizzati dallo Shin Bet e dagli agenti addetti all’interrogatorio includono:

  • Tortura di posizione: i detenuti vengono obbligati a stare in posizioni forzate, spesso con le mani legate dietro la schiena e i piedi incatenati mentre sono costretti a sporgersi in avanti. Vengono lasciati in tali posizioni per periodi di tempo prolungati durante l’interrogatorio.
  • Pestaggi: i detenuti spesso subiscono pestaggi, sia a mani nude che con oggetti, e talvolta vengono tramortiti.
  • Isolamento: i detenuti vengono posti in isolamento o in confino solitario per lunghi periodi.
  • Privazione del sonno: ai detenuti viene impedito di riposare o dormire e sono sottoposti a lunghe sessioni di interrogatorio.
  • Tortura sessuale: uomini, donne e bambini palestinesi sono soggetti a stupri, molestie fisiche e minacce di violenza sessuale. Le molestie sessuali verbali sono una pratica particolarmente comune in cui i detenuti sono esposti a commenti su loro stessi o sui loro familiari. Questo tipo di tortura è spesso considerato efficace perché la vergogna per l’oltraggio sessuale impedisce ai detenuti di rivelarla.
  • Minacce per i familiari: i detenuti [devono] ascoltare minacce di violenza contro i familiari per essere spinti a fornire delle informazioni. Ci sono stati casi in cui membri della famiglia sono stati arrestati e interrogati in una stanza vicina in modo che il detenuto potesse sentire mentre erano sottoposti a tortura.  

I suddetti metodi di tortura lasciano danni permanenti. Mentre la tortura fisica può lasciare gravi danni fisici, tra cui ossa rotte e dolori muscolari e articolari cronici, soprattutto a causa di posizioni forzate o dell’essere costretti in un piccolo spazio, il danno psicologico può essere ancora peggiore, con condizioni come depressione profonda e duratura , allucinazioni, ansia, insonnia e pensieri suicidi.

Molti meccanismi di tortura richiedono la complicità degli attori all’interno del sistema giudiziario militare israeliano, incluso il personale medico. Ciò si verifica nonostante il codice deontologico, come definito dalla Dichiarazione di Tokyo e dal Protocollo di Istanbul, includa la clausola secondo cui i medici non devono collaborare con gli agenti che conducano interrogatori che comportino torture, non devono condividere informazioni mediche con i torturatori e devono opporsi attivamente alla tortura. In realtà i medici israeliani sono stati a lungo complici della tortura di detenuti e prigionieri palestinesi. Nel corso degli anni i giornalisti hanno scoperto documenti che rivelano che i medici approvano la tortura e riportano il falso per giustificare le lesioni inflitte durante gli interrogatori.

I medici sono anche complici dell’alimentazione forzata, un altro meccanismo di tortura, sebbene meno comune, usato dal regime israeliano. L’alimentazione forzata richiede che un detenuto sia legato mentre un tubo sottile viene inserito attraverso una narice e spinto fino allo stomaco. Il liquido viene quindi iniettato attraverso il tubo nel tentativo di alimentare il corpo. Il personale medico deve posizionare il tubo, che può finire per passare attraverso la bocca o la trachea invece che per l’esofago, nel qual caso deve essere retratto e sostituito. Questo non solo provoca grande dolore, ma può anche portare a gravi complicazioni mediche e persino alla morte.

Negli anni ’70 e ’80 diversi prigionieri palestinesi morirono per essere stati nutriti con la forza, provocando un ordine di cessazione da parte della Corte Suprema israeliana. Tuttavia, una legge della Knesset del 2012 ha ripristinato la legalità dell’alimentazione forzata nel tentativo di interrompere gli scioperi della fame dei palestinesi. In un documento inviato al primo ministro israeliano nel giugno 2015, l’Associazione Medica Mondiale [organizzazione internazionale che rappresenta i medici di tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che “l’alimentazione forzata è violenta, spesso dolorosa e contraria al principio di autonomia individuale. È un trattamento degradante, disumano e può equivalere a tortura.”

Fermare la tortura israeliana

Per i palestinesi, la tortura è solo uno degli aspetti della violenza strutturale che affrontano nelle mani del regime israeliano, che li rinchiude in una prigione a cielo aperto e li priva dei loro diritti fondamentali. Ed è anche un aspetto che riceve scarsa attenzione dalla comunità internazionale, di solito perché le autorità israeliane usano argomenti relativi alla sicurezza dello Stato, rafforzati dalla narrativa della “guerra al terrore”. Questo è stato il caso di Samer Arbeed, che i media israeliani hanno definito un terrorista, facendo sì che la maggior parte degli Stati mantenga il silenzio sul suo trattamento nonostante sia stato presentata una petizione e siano state fatte pressioni da molte organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani. Come per tutte le violazioni contro il popolo palestinese, la tortura israeliana sollecita una messa in discussione sull’utilità dell’ordinamento giuridico internazionale.

Il 13 maggio 2016, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha raccomandato a Israele più di 50 misure a seguito di una revisione della sua conformità alla Convenzione contro la tortura, tra cui il fatto che tutti gli interrogatori dovrebbero avere una documentazione audio e visiva, che ai detenuti dovrebbero essere concessi esami medici indipendenti e che la detenzione amministrativa dovrebbe essere eliminata. Queste sono, naturalmente, raccomandazioni importanti e si dovrebbe fare in modo che Israele le rispetti. Tuttavia, in un momento in cui gli attori di Paesi terzi non sono generalmente disposti a ritenere Israele responsabile della violazione del diritto internazionale e dei diritti dei palestinesi, non sono sufficienti.

Di seguito vengono riportati alcuni passaggi che coloro che si impegnano per i diritti dei palestinesi nei contesti internazionali e nazionali possono adottare allo scopo di interrompere il carattere sistematico della tortura israeliana:

  • Le organizzazioni e i gruppi dovrebbero raccogliere prove sulla responsabilità penale individuale, al di fuori di Israele e Palestina, di coloro che sono coinvolti nella tortura dei palestinesi. La responsabilità può essere estesa non solo a coloro che commettono la tortura, ma anche a coloro che aiutano, favoriscono e omettono informazioni al riguardo. Ciò include il personale che interroga, i giudici militari, le guardie carcerarie e i medici. Poiché la tortura è un crimine di guerra dello jus cogens, è soggetta alla giurisdizione universale, il che significa che terze parti possono presentare denunce penali contro singoli individui. 4) Sebbene la responsabilità penale individuale non affronti necessariamente la struttura sistematica della tortura contro i palestinesi, essa mette sotto pressione le persone israeliane coinvolte limitando i loro movimenti e i viaggi all’estero.
  • In quanto unico organo giudiziario indipendente a cui è possibile accedere in grado di porre fine all’impunità per le violazioni dei diritti dei palestinesi, la Corte Penale Internazionale ha il compito di ritenere Israele responsabile. L’ufficio del procuratore, con tutte le informazioni e le relazioni dettagliate che gli sono state presentate, dovrebbe avviare un’indagine formale sulle violazioni all’interno del sistema carcerario israeliano.
  • Gli Stati firmatari delle Convenzioni di Ginevra e le organizzazioni internazionali per i diritti umani devono fare pressione sul Comitato Internazionale della Croce Rossa affinché ottemperi al proprio mandato al fine di proteggere i detenuti palestinesi e aprire un’indagine su tutte le accuse di tortura. (5)
  • La società civile e le istituzioni palestinesi dovrebbero continuare a sostenere coloro che lavorano per aiutare le vittime della tortura. Tale sostegno può essere potenziato da uno sforzo mirato e specifico per espandere tali risorse e renderle accessibili in tutte le aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Ciò dovrebbe includere anche l’impegno rivolto a rompere il tabù della ricerca di interventi terapeutici e l’eliminazione dello stigma riguardante la violenza sessuale. Le aggressioni sessuali di solito non vengono trattate interamente perché le vittime si vergognano troppo di raccontare il loro calvario e il fatto di non parlarne rende la guarigione più difficile. Creare spazi più sicuri per le testimonianze individuali e collettive è la chiave per aiutare i sopravvissuti a riprendersi.

Con tali azioni concertate, i palestinesi e i loro alleati possono lavorare per limitare la pratica della tortura così profondamente radicata nel sistema carcerario israeliano e coperta dalla legge israeliana, impegnandosi anche per aiutare a guarire coloro che ne hanno subito le conseguenze dolorose.

L’autrice desidera ringraziare Basil Farraj, Suhail Taha e Randa Wahbe per il loro supporto e competenza nella stesura di questo articolo.

Note:

  1. Questo documento è stato prodotto con il supporto di Heinrich-Böll-Stiftung [fondazione politica, con sede a Berlino, nata nel 1997 col nome del noto scrittore, e facente parte del partito dei Verdi tedeschi, ndtr.]. Le opinioni espresse nel presente documento sono quelle dell’autrice e pertanto non riflettono necessariamente l’opinione dell’Heinrich-Böll-Stiftung.
  2. Secondo B’tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr-], “Israele sostiene di non essere vincolato dalle leggi internazionali sui diritti umani nei territori occupati, poiché essi non costituiscono un territorio israeliano ufficialmente sovrano. Mentre è vero che Israele non ha sovranità sui territori occupati, questo fatto non basta a sminuire il suo dovere di ottemperare alle disposizioni internazionali in materia di diritti umani. I giuristi internazionali non sono d’accordo con la posizione di Israele sulla questione, e questa è stata ripetutamente respinta dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e da tutte le commissioni delle Nazioni Unite che sovrintendono all’attuazione delle varie convenzioni sui diritti umani. Questi organismi internazionali hanno ripetutamente affermato che gli Stati devono rispettare le disposizioni sui diritti umani ovunque esercitino un controllo effettivo.”
  3. Nel 2009 Israele ha istituito un tribunale militare minorile per perseguire i minori di 16 anni – l’unico Paese al mondo a farlo. Secondo l’UNICEF, esso utilizza le stesse strutture e lo stesso personale giudiziario del tribunale militare per adulti.
  4. Lo dimostra il caso di Tzipi Livni; Livni è stata il ministro degli Esteri israeliano durante l’attacco a Gaza del 2009 che ha visto l’uccisione di oltre 1.400 palestinesi. Nello stesso anno, un gruppo di avvocati con sede nel Regno Unito è riuscito a ottenere che un tribunale britannico emettesse un mandato di arresto nei suoi confronti. Di conseguenza [Livni] ha dovuto annullare il suo viaggio nel Regno Unito ed è stata costretta ugualmente ad annullare il viaggio in Belgio nel 2017, quando la procura belga ha annunciato l’intenzione di arrestarla e di interrogarla sul suo ruolo nell’attacco.
  5. Di recente, in seguito all’arresto e alla tortura di Samer Arbeed, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha rilasciato una dichiarazione, ma invece di condannare le violazioni israeliane ha condannato gli attivisti che hanno manifestato e occupato l’ufficio della CICR a Ramallah per protestare contro il silenzio dell’organizzazione su Arbeed.

Yara Hawari

Yara Hawari è il Membro Anziano per la politica palestinese di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network [Al Shabaka significa “La Rete”, è un’agenzia indipendente palestinese di informazioni politiche, ndtr.]. Ha completato il suo dottorato di ricerca in politica mediorientale presso l’Università di Exeter. La sua ricerca si è concentrata su progetti di storia orale e politiche della memoria, inquadrati più ampiamente all’interno degli studi autoctoni. Yara ha tenuto vari corsi universitari presso l’Università di Exeter e continua a lavorare come giornalista indipendente, pubblicando per vari media, tra cui Al Jazeera in inglese, Middle East Eye e The Indipendent.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)