L’esercito israeliano ha condotto un’azione psicologica online rivolta all’opinione pubblica israeliana durante la guerra di Gaza

Hagar Shezafand e Yaniv Kubovich

22 marzo 2023 Haaretz

L’esercito israeliano ha utilizzato falsi account di social media per diffondere il messaggio secondo cui stava “compiendo una dura rappresaglia contro Hamas”. Ha pubblicato decine di video #Gazaregrets [Gaza rimpiange] nei gruppi Facebook di Netanyahu taggando i politici di destra. Un alto ufficiale ha detto: “Questo è illegale, non si deve fare”, e l’esercito ha risposto: “Abbiamo sbagliato.”

Durante l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle mura] nel maggio 2021 a Gaza l’Unità portavoce delle Forze di Difesa israeliane ha condotto un’operazione di guerra psicologica rivolta ai cittadini israeliani con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle manovre offensive dell’esercito israeliano e sul “prezzo” che queste iniziative avrebbero imposto ai palestinesi.

I militari hanno utilizzato falsi account di social media per nascondere l’origine della campagna. Hanno usato Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per caricare immagini e clip degli attacchi dell’esercito a Gaza utilizzando l’hashtag #Gazaregrets con didascalie come “Perché mostrano solo Israele che viene attaccato invece dei nostri attacchi a Gaza? Dobbiamo dimostrare a tutti quanto siamo forti!” e “Condividi in modo che tutti possano vedere come reagiamo alla grande” o ” Facciamo in modo che Gaza si penta… Am Israel Chai [La Nazione israeliana è viva]”.

Haaretz ha appreso che questa “campagna di propaganda” è stata lanciata diversi giorni dopo l’inizio dei combattimenti, dopo che l’Unità portavoce dell’esercito israeliano ha ritenuto che l’opinione pubblica israeliana fosse più colpita dagli attacchi missilistici lanciati contro Israele da Gaza che dalle azioni dell’esercito israeliano all’interno della Striscia. Secondo il dibattito interno, l’uso da parte dell’Unità di account falsi – “bot” – aveva lo scopo di impedire che fossero “attribuiti” all’esercito. Questo, sperava l’esercito, li avrebbe fatti sembrare autentici, come se provenissero direttamente dall’opinione pubblica.

Per dare ulteriore voce alla campagna, l’Unità portavoce ha collaborato con discrezione con due popolari account Instagram israeliani – @idftweets e @pazam_gram – che hanno centinaia di migliaia di follower. Il primo giorno di questa campagna, @idftweets ha condiviso post e storie di un attacco dell’esercito israeliano con l’hashtag #Gazaregrets. Il contenuto ha ricevuto centinaia di like e commenti entusiasti come “uccideteli tutti” o “perché ci sono ancora degli edifici in piedi a Gaza?” @pazam_gram ha seguito l’esempio con altre storie sui propri account.

L’Unità portavoce dell’esercito intendeva utilizzare anche gli influencer dei social media per manipolare l’opinione pubblica israeliana.

Non è chiaro se l’esercito abbia pagato i titolari dell’account Instagram per i loro servizi. Secondo una fonte a conoscenza del funzionamento interno dell’Unità, questa non è l’unica volta in cui si è realizzata una simile collaborazione.

L’operazione Guardian of the Walls è stata lanciata il 10 maggio, dopo che Hamas aveva lanciato razzi contro Gerusalemme durante la Marcia delle Bandiere tenutasi in quella giornata di tensione, ed è stata seguita da una raffica di razzi puntati contro il centro di Israele. L’esercito israeliano ha risposto con massicci attacchi a Gaza, che hanno raso al suolo una serie di grattacieli. La campagna è durata 11 giorni e ha visto 4.000 razzi lanciati verso Israele, che hanno provocato la morte di dieci israeliani e tre cittadini stranieri. A seguito degli attacchi dell’esercito israeliano sono stati uccisi 350 abitanti di Gaza, la maggior parte dei quali miliziani di Hamas e della Jihad islamica.

Subito dopo l’inizio dei combattimenti, l’Unità portavoce dell’esercito ha deciso di lanciare la sua campagna di guerra psicologica contro i cittadini israeliani. Il 12 maggio ha aperto un falso account Twitter appartenente a “Moshe Vaknin” con la foto della bandiera israeliana.

Il soldato che gestiva l’account ha twittato 27 volte in sole tre ore. Con l’hashtag #Gazaregrets ogni post conteneva immagini degli attacchi israeliani a Gaza o della distruzione da essi prodotta. Per aumentarne la portata e la visibilità, ogni tweet è stato pubblicato come risposta a popolari account Twitter con decine di migliaia di follower: la maggior parte di questi account apparteneva a persone note per essere sostenitori del primo ministro Benjamin Netanyahu. I tweet hanno taggato anche politici di destra e personalità dei media.

In risposta a un tweet pubblicato dal parlamentare di estrema destra Itamar Ben-Gvir, che chiedeva di “trasformare in parcheggio il quartiere di Gaza con le ville di Hamas”, il soldato che gestiva il falso account ha risposto con l’immagine di un grattacielo crollato a Gaza e la didascalia “Itamar, condividilo subito in modo che tutto Israele possa vedere che #Gazaregrets”.

In risposta al tweet del conduttore televisivo israeliano di destra Yinon Magal, che prendeva in giro l’allora ministro della Difesa Benny Gantz, il falso “Moshe Vaknin” ha risposto con la foto di un attacco dell’esercito e la didascalia “Yinon #Gazaregrets condividi subito in modo che tutti possano vedere”.

Il 12 maggio è stato creato un altro account falso su Facebook con il nome Dana Lock e come immagine del profilo una ragazza drappeggiata con la bandiera israeliana. In due giorni l’account ha pubblicato otto video di attacchi israeliani con la didascalia “Non rimarremo in silenzio! Non siamo fessi! #Gazaregrets! Condividere!!”

Per raggiungere un pubblico più ampio, i video sono stati pubblicati su diversi gruppi Facebook di sostenitori di Netanyahu, per un totale di oltre 100.000 follower collegati.

Altri due falsi account su Instagram e TikTok hanno pubblicato 13 post simili.

Nel complesso, la campagna di propaganda ha coinvolto molto poco l’opinione pubblica israeliana: con l’eccezione di un solo video di TikTok che ha ricevuto alcune decine di like e commenti, il resto dei post sui social media non ha quasi provocato commenti, condivisioni o like. Fallito anche il tentativo di promuovere l’hashtag #Gazaregrets. Solo sei profili organici (cioè autentici) hanno utilizzato l’hashtag su Facebook, ma su altre piattaforme non si è visto alcun uso reale del tag.

Nonostante ciò, Haaretz ha appreso che una volta conclusa la guerra su Gaza del 2021 l’Unità ha ricevuto un premio per la “migliore campagna operativa” durante Guardian of the Walls. Il premio è stato assegnato al tenente colonnello Merav Stollar-Granot, capo del dipartimento media dell’Unità portavoce dell’esercito.

L’Unità Campagne del dipartimento opera come una sorta di ufficio stampa per l’esercito e organizza campagne interne ed esterne per aumentare la conoscenza delle diverse unità dell’esercito e le questioni militari. All’epoca era diretta da Yuval Horowitz, un civile assunto come attivista di marketing che ora lavora per Keshet Media [società di mass media israeliana privata il cui notiziario online è molto seguito, ndt.]. L’Unità è composta da riservisti che lavorano come pubblicitari e designer.

In risposta l’esercito ha dichiarato: “Durante la campagna Guardian of the Walls l’Unità portavoce ha diffuso filmati autentici dei combattimenti dall’interno della Striscia di Gaza, ottenuti dalle piattaforme dei social media. Tutti i contatti dell’esercito con gli influencer israeliani sui social media sono avvenuti a titolo ufficiale. Poiché il filmato è stato girato da palestinesi a Gaza, la sua diffusione non può essere attribuita all’esercito.

L’esercito ha infatti creato un certo numero di account falsi che hanno pubblicato il filmato sui social media al fine di massimizzare l’accesso del pubblico. In retrospettiva, l’uso di quegli account è stato un errore ed è stato limitato a 24 ore. Non vi è stato alcun ulteriore utilizzo negli ultimi due anni. L’Unità portavoce dell’esercito è impegnata nella verità ed esige rapporti affidabili e per quanto possibile accurati al fine di trasmettere informazioni all’opinione pubblica in modo corretto.”

Guerra psicologica

L’esercito ha impiegato per anni la guerra psicologica contro i nemici di Israele nel tentativo di sminuire le loro narrazioni, influenzare la popolazione (per esempio a Gaza, in Libano e in Iran) e pubblicizzare i propri risultati operativi. Un’unità di guerra psicologica è stata costituita nel 2005 sotto l’egida dell’intelligence militare. Come parte delle attività contro il “nemico”, l’intelligence israeliana ha raccolto informazioni che includevano l’opinione pubblica della popolazione nemica e le sue posizioni in quel momento sui governanti e sulla guerra. Ha anche cercato di influenzare il discorso pubblico dei nemici per seminare incertezza, minare la credibilità dei messaggi del potere dominante e incoraggiare la pressione dell’opinione pubblica sulla rispettiva leadership. La maggior parte di queste attività è stata condotta di nascosto e ha diffuso informazioni destinate ad essere utili in un modo o nell’altro a Israele.

Durante l’operazione Guardian of the Walls nel 2021 l’intelligence israeliana ha condotto una campagna sui social media in arabo diretta alla popolazione di Gaza con il titolo “Hamas sta uccidendo la Nazione” e “la colpa è di Hamas “.

L’intelligence militare poteva raggiungere le popolazioni civili a vari livelli. Tuttavia la legge israeliana vieta all’esercito di operare tali attività all’interno, il che significa che una guerra psicologica segreta contro i cittadini israeliani è illegale.

“Quelle competenze sono state sviluppate per identificare la mentalità dei Paesi nemici e per influenzarli dall’esterno – senza che l’esercito compaia – sulla situazione nazionale del popolo con cui Israele sta combattendo una guerra”, ha detto ad Haaretz un alto funzionario della Difesa. “Nessuna operazione di guerra psicologica è stata condotta contro cittadini israeliani. Questo è proibito dalla legge. [È una questione così delicata che] anche durante il COVID-19 l’esercito non è stato autorizzato a impiegare alcune di quelle competenze per individuare i casi conclamati”.

Durante il mandato dell’ex capo di stato maggiore Aviv Kochavi è stata data la massima priorità alla guerra psicologica, principalmente nei confronti dei palestinesi, e il nome dell’Unità è stato cambiato in Impact Division. Sebbene siano stati fatti tentativi per trasferirne l’autorità al portavoce dell’esercito – che si occupa del pubblico israeliano – rimane sotto la competenza dell’intelligence militare.

“Il tentativo è arrivato ai più alti livelli della dirigenza ma è fallito, almeno ufficialmente”, ha detto il funzionario. “Coloro che si sono opposti hanno ritenuto che la cosa potesse essere fatta solo da persone identificate come appartenenti all’esercito e in modo che fosse chiaro che il messaggio proveniva dall’esercito. È stato chiarito a tutti coloro che volevano cambiare la legge esistente che la cosa era inaccettabile”.

Questa fonte non era a conoscenza dell’operazione #Gazaregrets e si è stupita nello scoprire che fosse stata effettivamente condotta agli ordini dell’ex portavoce dell’esercito, il maggiore generale Hidai Zilberman, che Kochavi aveva nominato portavoce dell’esercito nel 2019. Prima di allora Zilberman aveva iniziato la sua carriera nel Corpo di artiglieria, e in seguito era diventato comandante senior nel Comando settentrionale e nella Direzione per la pianificazione dell’esercito. Nel 2021 è stato nominato addetto alla difesa e alle forze armate israeliane per gli Stati Uniti

Il quarto giorno dell’operazione Guardian of the Walls, l’esercito ha lanciato l’operazione Lightning Strike [Colpo di Fulmine], che mirava a utilizzare centinaia di aerei da combattimento per colpire la rete di tunnel di Hamas sulla base del presupposto che al momento la maggior parte del suo braccio armato e gli alti dirigenti di Hamas si trovassero lì.

Il portavoce dell’esercito ha ingannato i media riferendo che le forze di terra avevano iniziato a entrare a Gaza. L’idea era di far entrare rapidamente politici e combattenti di Hamas nei tunnel, dove sarebbero stati poi uccisi. L’operazione è fallita perché Hamas ha riconosciuto l’inganno per quello che era. Nonostante il lancio di centinaia di tonnellate di esplosivo, furono uccisi solo pochi giovani miliziani.

Tuttavia, quando è trapelata la notizia dell’inganno e solo per la stampa estera, la credibilità del portavoce e l’immagine mondiale di Israele sono state gravemente danneggiate.

Zilberman è stato costretto a scusarsi nel tentativo di ripristinare la fiducia dei media stranieri. È arrivato persino a scrivere una lettera al presidente dell’Associazione della stampa estera in cui diceva: “Mi scuso per l’errore. Il portavoce dell’esercito non intraprende guerre psicologiche, il suo ruolo è quello di riferire all’opinione pubblica nient’altro che la verità”.

Ciò che il portavoce dell’esercito non ha detto è che esattamente nello stesso momento i militari che prestavano servizio nell’Unità erano impegnati in un’operazione fraudolenta e senza precedenti nei confronti dell’opinione pubblica israeliana. “Non è meno scandaloso se l’operazione #Gazaregrets è uscita dall’ufficio del portavoce dell’esercito”, ha detto un alto funzionario della difesa quando gli sono state mostrate le prove raccolte da Haaretz. “Una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere.”

Nonostante l’assicurazione di Zilberman che l’Unità portavoce dell’esercito non avesse preso parte alla guerra psicologica, tre mesi dopo un’indagine di Haaretz ha scoperto che l’esercito aveva assunto Gilad Cohen – che gestisce il canale Ali Express Telegram [canale di blog informativi, ndt.] – come consulente per la “guerra psicologica” sui social media. La censura militare ha inizialmente vietato la pubblicazione del suo nome, ma dopo diversi giorni ha cambiato la sua decisione.

Ali Express ha più di 100.000 follower ed è diventata negli ultimi anni una delle fonti più influenti in Israele sui temi della difesa e del mondo arabo. Propone servizi esclusivi, video e immagini in cui appare il suo logo, mentre molti giornalisti la usano come fonte citandola direttamente. Più di una volta il portavoce dell’esercito ha indirizzato ad Ali Express i giornalisti che chiedevano cosa stesse succedendo a Gaza, chiarendo che la notizia “non è stata fornita da alcun funzionario militare”.

Cohen ha ricevuto la nomina nel 2019, quando è iniziata la Marcia del Ritorno con gli scontri al confine di Gaza, da Herzl Halevi, che era allora a capo del comando meridionale dell’esercito ed è oggi Capo di Stato Maggiore. Cohen ha continuato a lavorare con il successore di Halevi, Eliez Toledano. Ali Express non conferma che il suo manager funga da consulente retribuito per il comando meridionale dell’esercito. Allo stesso modo l’esercito non riconosce pubblicamente di collaborare con Cohen.

In testi anonimi Ali Express attacca spesso l’affidabilità e la professionalità di eminenti giornalisti israeliani che hanno criticato le politiche dell’esercito nei confronti di Hamas. Attacca anche i politici, tra cui l’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che aveva annunciato le sue dimissioni dall’incarico dopo un incidente in cui un’unità delle forze speciali dell’esercito era stata scoperta a Khan Yunis, a sud di Gaza. “Davvero non avresti potuto scegliere un momento migliore per dimetterti? Hamas ha regalato ai suoi cittadini un risultato incredibile, un incidente per cui Hamas è riuscito a far dimettere un Ministro della Difesa in carica”, scherza un post anonimo.

All’epoca l’esercito cercò di negare le attività di Cohen. Ma dopo aver saputo del problema creato nei confronti dei cittadini israeliani, l’esercito ha annunciato di aver rescisso il contratto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Rachel Corrie venne uccisa a Gaza dall’esercito israeliano. 20 anni dopo i suoi genitori stanno ancora lottando per ottenere giustizia

Andrew Buncombe

17 marzo 2023, The Independent

Esclusivo: nei due decenni trascorsi dalla morte della loro figlia attivista per la pace Cindy e Craig Corrie non sono riusciti ad assicurare i responsabili alla giustizia. Ma non hanno rinunciato alle loro speranze di pace, dichiarano ad Andrew Buncombe

Non poteva esserci un modo adatto per ricevere una simile notizia.

La madre di Rachel Corrie, Cindy, ricorda la chiamata telefonica da parte dell’altra sua altra figlia, Sarah, e del marito. Era ovvio che qualcosa non andava.

Le fu detto che c’era una “notizia molto triste” e riguardava Rachel. La giovane attivista si era recata a Gaza due mesi prima per cercare di proteggere le vite e le case dei palestinesi.

È morta? Chiese subito sua madre. Pose la domanda in modo così lapidario, racconta, nella speranza di poter escludere subito il peggio. Ma non c’era modo di sfuggire alla verità. Sì, credevano che fosse morta. L’avevano visto al telegiornale.

Cindy prese il cordless e lo portò al padre di Rachel, Craig, che stava facendo il bucato in un’altra stanza, impegnato con le faccende quotidiane.

Fecero quindi una raffica di telefonate, principalmente ad altri membri della famiglia di Rachel, volendo rivelare personalmente i dettagli prima che vedessero anche loro le notizie in TV. Parlarono anche con il Dipartimento di Stato. Craig chiamò il suo principale. “Non ho idea di cosa sia successo nella mia vita”, gli disse. “Ma è completamente cambiata.”

Sono passati quasi 20 anni da quel terribile giorno, il 16 marzo 2003, quando seppero che la loro figlia era stata uccisa nel sud di Gaza, schiacciata da un bulldozer D9 da 60 tonnellate costruito da Caterpillar Inc e utilizzato dalle forze di difesa israeliane (IDF). Rachel aveva fatto parte di un gruppo di attivisti palestinesi e internazionali che cercavano di fermare la distruzione di proprietà palestinesi. Quel giorno avevano agito come scudi umani per fermare l’abbattimento di una casa nel campo profughi di Rafah occupata dalle famiglie di due fratelli, Khaled e Samir Nasrallah.

Il fatto che nei due decenni successivi siano morte tantissime migliaia di palestinesi – la maggior parte, sostengono i palestinesi, uccisi illegalmente dalle forze israeliane – ripugna ai genitori di Rachel. Sono consapevoli delle critiche secondo cui la visibilità concessa alla morte della figlia sia stata di gran lunga maggiore rispetto al caso in cui venga ucciso un palestinese. I due fatti aiutano a motivarli a continuare il loro lavoro presso la fondazione che hanno creato a nome della figlia.

In pochi giorni si resero conto che la morte della figlia li aveva portati su una strada diversa. Non si poteva tornare indietro. Non esisteva un trucco per viaggiare nel tempo e riportare indietro la loro “meravigliosa e premurosa” figlia, che aveva sognato di diventare una poetessa o una ballerina.

Era stata uccisa, ma dovevano trovare un modo per continuare a vivere, per il bene degli altri loro figli – Rachel aveva anche un fratello, Chris – per se stessi e per la causa per la quale Rachel aveva dato la vita.

Hanno aderito ad una associazione di cui nessuno vorrebbe far parte: di genitori o parenti di una persona cara persa troppo presto, a causa della violenza della polizia, di una sparatoria a scuola o di una malattia rara di cui il mondo sa poco. Fin da allora diffidavano del discorso super abusato riguardo “l’elaborazione del lutto“. Magari, sembrava loro più appropriato l’accertamento delle responsabilità penali, ma sono ancora lontani dall’ottenerlo.

Proprio come quegli individui che cercano un significato nella campagna per una maggiore regolamentazione delle armi o per la riforma della polizia, i Corrie hanno guadagnato l’attenzione cercando di continuare il lavoro della figlia e raccontando la sua storia. In tal modo, agiscono come la figlia ha loro espressamente richiesto.

Nell’ultima e-mail ai suoi genitori, inviata quattro giorni prima della sua morte, scrisse: Ciao papà, grazie per la tua e-mail. A volte mi sembra di passare tutto il mio tempo a parlare con mamma supponendo che ti riferisca le cose, quindi vieni trascurato. Non preoccuparti troppo per me, in questo momento sono molto preoccupata della nostra scarsa efficacia. Non mi sento ancora particolarmente a rischio. Ultimamente Rafah mi è sembrata più tranquilla”.

Aggiungeva: Grazie anche per aver intensificato il tuo impegno contro la guerra. So che non è facile da sostenere, e probabilmente molto più difficile dove sei tu rispetto a qui, dove mi trovo.

Dopo la sua morte alcuni degli scritti di Corrie furono raccolti dalla famiglia e pubblicati con il titolo Let Me Stand Alone: The Journals of Rachel Corrie [Lasciatemi stare da sola: i diari di Rachel Corrie, ndt.]. (Questi scritti avrebbero anche costituito la base di un’opera teatrale, My Name is Rachel Corrie, scritta dalla giornalista del Guardian Katherine Viner e dall’attore Alan Rickman. Rickman ha diretto l’opera teatrale quando è stata rappresentata a Londra.) Un’e-mail contenuta nella raccolta custodisce una lunga lettera che aveva scritto a sua madre il 27 febbraio 2003: Voglio proprio scrivere a mia madre e dirle che sto assistendo a questo genocidio cronico e strisciante e sono davvero spaventata, e sto mettendo in discussione la mia fede di fondo sulla bontà della natura umana. Questo deve finire. Penso che sia una buona idea per tutti noi lasciare ogni cosa e dedicare le nostre vite a fermare tutto questo. Non penso più che nel fare ciò ci sia qualcosa di estremista”.

I Corrie dicono di aver incontrato molti genitori che affrontano altre tragedie, a volte simili.

“Penso che la cosa più urgente per le famiglie, per i sopravvissuti, sia non sperimentare quel dolore provato da un’altra famiglia”, dice il padre di Corrie.

Il peso della scelta è stato superato dal fatto che la loro figlia ha chiesto loro in modo così inequivocabile di dedicarsi alla sua causa, e dal fatto che essi sono finanziariamente in grado di farlo. Come strumento per questo lavoro hanno istituito la Rachel Corrie Foundation.

In tale lavoro c’è una qualche forma di salvezza”, aggiunge. Devi lavorare su qualcosa. È meglio che non avere alcun senso dopo una perdita così grande.

Rachel Corrie nacque nell’aprile del 1979 ad Olympia, la capitale dello Stato occidentale di Washington. Era la più giovane di tre figli e avrebbe goduto di quelli che i suoi genitori dicevano fossero i vantaggi di uno stile di vita della classe media.

Studiò alla scuola statale e per l’istruzione superiore frequentò l’Evergreen State College, un’istituzione progressista dove gli studenti possono progettare i propri corsi di laurea. Fu lì che divenne politicamente consapevole e si unì agli Olympians for Peace and Solidarity, un gruppo affiliato all’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione guidata dai palestinesi che utilizza azioni non violente per affrontare le tattiche dell’esercito israeliano.

Nel suo ultimo anno Rachel voleva vedere Gaza in prima persona. Anche se non ricevette crediti per i suoi scritti da lì e mentre viaggiava nel tempo libero, i suoi genitori consideravano ciò un’ampliamento della sua educazione.

Prima di partire scriveva: Siamo tutti nati e un giorno moriremo tutti. Molto probabilmente in una certa misura da soli”.

Aggiungeva: E se la nostra solitudine non fosse una tragedia? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di dire la verità senza avere paura? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di avventurarci – di sperimentare il mondo come una presenza dinamica – come qualcosa di mutevole e interattivo?”

Corrie e gli altri volontari accettarono di agire come scudi umani, ponendosi sulla traiettoria dei bulldozer corazzati utilizzati dalle IDF per sgomberare i palestinesi. Ciò accadde sullo sfondo di quella che divenne nota come la Seconda Intifada, una rivolta protrattasi per diversi anni contro ciò che i palestinesi consideravano gravi abusi. Comportò attentati suicidi e attacchi con razzi da parte di palestinesi, uccisioni mirate e bombardamenti aerei da parte delle IDF. Gran parte del mondo distolse lo sguardo. Alla fine di marzo 2003, pochi giorni dopo la morte di Corrie, gli Stati Uniti e il Regno Unito invasero l’Iraq col pretesto della ricerca di armi di distruzione di massa.

Quando Corrie fu uccisa, il 16 marzo 2003, tante altre persone assistettero alla sua morte, tra cui molti altri attivisti per la pace, che in seguito avrebbero testimoniato ciò che avevano visto. Un attivista, l’americano Greg Schnabel, avrebbe detto ai media che Rachel indossava una giacca arancione fluorescente ed era “chiaramente” visibile all’autista del bulldozer e ai soldati nel carro armato.

Rachel cadde sulle sue ginocchia in seguito al movimento del terreno. Il bulldozer andò avanti. Rachel cominciò ad essere ricoperta dalla terra. Eppure [il bulldozer] non si fermò”, ha riferito.

Aggiunge che non appena il bulldozer si allontanò, lui e altri attivisti si precipitarono verso di lei nel tentativo di prestare soccorso.

Era ovviamente in condizioni terribili. Il suo labbro superiore era spaccato e sanguinava”, dice, aggiungendo che chiamarono un’ambulanza. Stava respirando ma stava perdendo conoscenza rapidamente. Entro un minuto non era più in grado di darci il suo nome o parlare. Abbiamo continuato a parlarle, incoraggiandola, respirando con lei e dicendole che l’amavamo”.

Circa venti minuti dopo Rachel Corrie era morta.

L’autopsia è stata condotta dal primario patologo Yehuda Hiss. Il referto non venne reso pubblico ma una copia passata ai genitori di Corrie concludeva che era morta a causa di “una pressione sul torace (asfissia meccanica) con fratture delle costole, delle vertebre dorsali e delle scapole e lacerazioni nel polmone destro con emorragia nelle cavità pleuriche”.

I genitori di Corrie e altri attivisti incolparono subito le IDF. Ma Israele respinse quelle accuse di colpevolezza, dicendo che quanto accaduto era stato un incidente e mettendo persino in discussione i resoconti dei testimoni.

Nell’aprile 2003 un rapporto dell’IDF affermava: Contrariamente alle accuse, la signorina Corrie non è stata investita da un bulldozer, ma ha riportato ferite causate dalla terra e dai detriti caduti su di lei durante l’operazione del bulldozer. Al momento dell’incidente la signorina Corrie si trovava dietro un cumulo di terra e quindi nascosta alla vista dell’equipaggio del bulldozer. Accusava persino Corrie e altri membri dell’International Solidarity Movement di comportamento “illegale, irresponsabile e pericoloso”.

Una parte essenziale e tenace della lotta dei Corrie è stata quella di cercare di garantire i responsabili alla giustizia. Non possono riportare indietro la loro figlia. Ma credono che qualcuno o qualcosa – forse diverse persone, Paesi o organizzazioni – dovrebbero assumersi la responsabilità della morte della figlia. Hanno intentato azioni legali per cercare di incolpare sia i produttori del bulldozer che l’esercito israeliano. Quegli sforzi sono falliti.

Nel 2005 i genitori di Corrie, insieme a quattro famiglie palestinesi i cui parenti erano rimasti uccisi o feriti, intentarono un’azione civile contro la Caterpillar Inc. con sede in Texas. I bulldozer Caterpillar erano stati pagati dai contribuenti statunitensi e forniti a Israele come parte dei 3,3 miliardi di dollari che Israele riceve ogni anno da Washington. Accusarono Caterpillar di una serie di reati, inclusi crimini di guerra e uccisioni extragiudiziali.

Sostenevano che poiché Caterpillar sapeva che l’attrezzatura sarebbe stata utilizzata illegalmente era complice dei crimini per cui era stata utilizzata. Il caso venne archiviato da una corte d’appello nel 2007 senza che se ne esaminasse il merito, poiché la corte affermò di non poterlo prendere in esame senza un’indagine sulla liceità dell’invio da parte del governo di tali apparecchiature in Israele.

“Un tribunale non può dare ragione ai querelanti senza mettere implicitamente in discussione, e persino condannare, la politica estera degli Stati Uniti nei confronti di Israele”, sostenne la corte. “A questo proposito, siamo consapevoli di quale potenziale fonte di imbarazzo internazionale potrebbe costituire un tribunale federale nel caso compromettesse le decisioni di politica estera nel delicato contesto del conflitto israelo-palestinese”.

Caterpillar non ha risposto alle domande di The Independent. Anche le IDF e il ministero degli Esteri israeliano non hanno risposto. Un portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington DC ha detto che le domande di The Independent sarebbero state trasmesse ai funzionari in Israele.

I Corrie hanno fatto cinque viaggi a Gaza per vedere dove è stata uccisa la loro figlia e rimangono in contatto non solo con altri attivisti che conoscevano Rachel, ma anche con la famiglia la cui casa stavano cercando di salvare. Hanno visto dei veicoli Caterpillar utilizzati dalle IDF.

La madre di Corrie dice che ora si sente “un po’ risentita” ogni volta che vede macchinari Caterpillar su una strada americana, non importa quale.

“A causa dell’impiego a cui ho assistito dei veicoli di quell’azienda – pagati dal nostro governo – “, precisa. Ricordo sempre: lo strumento usato per fare questo era un veicolo Caterpillar. E… nel corso degli anni, noi e molti altri abbiamo affrontato la Caterpillar Incorporated… perché hanno continuato a effettuare quelle vendite e probabilmente lo fanno ancora”.

In Israele i genitori ebbero un po’ più di fortuna. Nel 2010 citarono in giudizio le IDF e il ministero della difesa israeliano chiedendo una sentenza e un risarcimento.

L’autista del bulldozer, che il giudice ordinò non fosse identificato pubblicamente e che testimoniò da dietro uno schermo, affermò di non essere stato in grado di vedere la figlia.

Nel 2012 il giudice Oded Gershon si pronunciò contro i genitori, assolvendo l’esercito israeliano e l’autista da qualsiasi illecito. Affermò che la responsabile fu la stessa Corrie poiché si era messa per scelta in un posto così pericoloso. “Non si è allontanata come avrebbe fatto qualsiasi persona ragionevole”, disse il giudice. “Ma ha scelto di mettersi in pericolo… e così ha trovato la sua morte.”

Tale sentenza venne successivamente confermata dalla Corte Suprema della Nazione.

“Siamo delusi e non sorpresi dal verdetto”, disse all’epoca il padre di Corrie alla CNN. In questo verdetto, come in quello dei tribunali di primo grado, è stato del tutto ignorato il diritto umanitario internazionale”.

Ripensando ora alla sentenza i Corrie affermano di non essere riusciti a trovare qualcuno che potesse essere ritenuto responsabile della morte della loro figlia, o di quella che sostengono sia la “violenta occupazione” dei palestinesi da parte di Israele. Dicono di non essere stati nemmeno in grado di influenzare la politica americana nei confronti di Israele, che, con poche eccezioni, gode del sostegno indiscusso dei massimi rappresentanti governativi di entrambe i partiti.

La gente dirà che stavamo cercando di ottenere giustizia. Non so nemmeno più cosa significhi quella parola”, dice il padre di Corrie. “Penso che dovremmo cercare in Sud Africa alcune strade attraverso cui potremmo riuscire a ottenere giustizia”.

Ma dice che avverte come l’incapacità di trovare le responsabilità abbia lasciato il segno: “Tutto questo deve essere riconosciuto, e tra tutta questa violenza ora quello a cui penso stiamo assistendo è l’uccisione della speranza, e la speranza è in assoluto la prima cosa di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.

L’anniversario della morte di Corrie giunge mentre le relazioni tra Israele e le autorità palestinesi sono quanto mai tese.

Donald Trump ha dato la priorità al rafforzamento del potere di Israele rispetto alle richieste dei palestinesi. Questa mossa ha portato agli Accordi di Abramo, una serie di intese per normalizzare le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Questi accordi storici sono stati ampiamente accolti. Ma i palestinesi si sentono trascurati e Mahmoud Abbas, presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, è stato ampiamente messo da parte.

La violenza è continuata senza sosta ed è salita a livelli che non si vedevano da anni. L’anno scorso, mentre Israele lanciava l’operazione Breakwater, un’imponente azione repressiva, ha avuto luogo una serie di attacchi da parte dei palestinesi.

A gennaio un giorno ha visto la più letale operazione dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata dal 2005. Le truppe hanno ucciso nove palestinesi, tra cui uomini armati e una donna di 61 anni, durante un raid contro dei sospettati nel campo profughi di Jenin. Altre decine di persone sono rimaste ferite.

La continua violenza ha provocato il più alto numero di vittime in Cisgiordania dal 2004. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem l’anno scorso quasi 150 palestinesi sono stati uccisi dalle truppe israeliane. Questa cifra include la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh, anche lei uccisa nel campo profughi di Jenin.

Gli osservatori affermano che la situazione è peggiorata dopo la rielezione lo scorso novembre di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano a capo di un governo di coalizione di destra.

Tra i politici ora al governo che una volta erano considerati persino al di là della frangia estrema della politica israeliana c’è Itamar Ben-Gvir. Ben-Gvir ha chiesto l’espulsione dei palestinesi “sleali” nei confronti di Israele ed è un ex membro del partito fuorilegge Kach, considerato nella Nazione un’organizzazione “terrorista”. Netanyahu lo ha nominato ministro della sicurezza nazionale. La sua visita personale al sito religioso più sensibile di Gerusalemme, il complesso della moschea di Al-Aqsa, ha suscitato proteste e ha preceduto le recenti repressioni nel Paese.

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I Corrie non hanno mai rivelato dove hanno collocato i resti della figlia. Ma c’è un suo memoriale all’interno dell’Evergreen State College, incentrato su un’opera creata da Matteson, artista internazionale e laureato all’Evergreen Ross. Si intitola Reflecting on Peace and Justice” ed è una rappresentazione in bronzo e acciaio lucido di una colomba sulla punta di una piramide.

All’inaugurazione del memoriale la madre di Corrie ha detto ai presenti che aveva rimandato il momento della visita fino al momento dell’apertura al pubblico.

Ho voluto condividere il mio primo incontro con il memoriale in questo luogo molto speciale con tutti voi, che siete venuti per inaugurare questo ricordo di Rachel e della sua dedizione al vincolo della pace con la giustizia e la compassione”, ha detto. E anche per esaltare l’appello alla consapevolezza e all’azione che il memoriale e la storia di Rachel ci inviano”.

I Corrie organizzano sempre qualche evento per celebrare l’anniversario della morte della figlia e cercano di includervi vari elementi: sia costruire una comunità che educare le persone. Sanno che il 20° anniversario sarà sentito con maggiore intensità.

Penso che per ciascuno dei membri della nostra famiglia sia diverso. Quella che facciamo è una riflessione molto personale”, dice la madre di Corrie. Gli eventi organizzati dalla fondazione forniscono un focus, aggiunge.

Il padre di Corrie dice che nel corso degli anni hanno conosciuto “purtroppo troppe famiglie” colpite dal conflitto israelo-palestinese. Hanno amici tra i palestinesi che hanno perso i propri cari e amici tra gli israeliani che hanno subito un lutto simile.

Afferma che ogni famiglia che conosce vuole impedire ulteriori morti: Ovviamente, se guardiamo all’ultimo mese, abbiamo tutti miseramente fallito in questo sforzo, è vero. Ma si deve provare. Si deve fare tutto il possibile e abbiamo sicuramente incontrato sulla nostra strada brave persone che cercano di farlo. E penso che questo sia ciò che ci unisce.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Durante i fatti di Hawara l’Autorità Nazionale Palestinese non si è vista da nessuna parte

Amira Hass

2 marzo 2023 –Haaretz

Sebbene le ben addestrate forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese non abbiano trovato un modo per proteggere i loro compatrioti dagli attacchi dei coloni, sono sempre lì quando si tratta di reprimere i loro concittadini.

Le cinque ore durante le quali centinaia di ebrei si sono scatenati senza ostacoli attraverso Hawara, attaccando persone e proprietà e appiccando incendi, sono il risultato di decenni di incoraggiamento alla violenza dei coloni e delle calcolate disattenzione e clemenza da parte dell’esercito israeliano, della polizia, dei pubblici ministeri, dei tribunali e dei successivi governi. Ma quelle cinque ore hanno anche dimostrato ancora una volta quanto l’Autorità Nazionale Palestinese sia compiacente con la divisione artificiale della Cisgiordania nelle aree A, B e C, stabilita dagli Accordi di Oslo – una divisione che doveva essere temporanea e scadere entro il 1999.

Questa è una ragione in più per cui l’opinione pubblica palestinese disprezza e detesta la leadership dell’Autorità palestinese. Sebbene le sue forze di sicurezza, addestrate nei paesi arabi e occidentali, non abbiano trovato un modo per proteggere dagli attacchi dei coloni i loro compatrioti, sono sempre presenti quando si tratta di reprimerli.

L’ “Iniziativa da 14 milioni”, che sta tentando di rivitalizzare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di indire le elezioni per un consiglio nazionale e un’assemblea legislativa di tutti i palestinesi, aveva programmato un mercoledì una conferenza stampa in diretta dallo studio televisivo Watan. Considerando la parola “elezione” come una minaccia nucleare, le forze di sicurezza dell’ANP hanno assediato l’edificio che ospita lo studio e hanno fatto irruzione negli uffici per impedire la conferenza stampa. Non era la prima volta che accadeva: le forze di sicurezza hanno interrotto un altro degli incontri dell’iniziativa a novembre.

La scorsa settimana le forze di sicurezza palestinesi hanno istituito posti di blocco alle uscite di diverse città della Cisgiordania per impedire agli insegnanti delle scuole statali, in sciopero dal 5 febbraio, di partecipare a una manifestazione unitaria a Ramallah. L’ANP e il sindacato degli insegnanti della scuola pubblica avevano firmato accordi per un modesto aumento salariale del 15% e l’organizzazione di elezioni sindacali libere e democratiche nel maggio 2022. Ciò ha fatto seguito a un’iniziativa guidata da diverse associazioni educative senza scopo di lucro, gruppi di genitori e dalla Commissione indipendente per i diritti umani (un organo quasi governativo). Come era da prevedere non si è mai tenuta un’elezione. All’inizio di febbraio gli insegnanti hanno appreso che, nonostante l’accordo, gli stipendi di gennaio non includevano l’aumento concordato; sono rimasti addirittura all’80% dei normali livelli salariali, come prima. Ciò ha portato allo sciopero, giunto alla sua quarta settimana, a cui hanno aderito 50.000 insegnanti e che ha tenuto a casa un milione di studenti. I leader dello sciopero mantengono un profilo basso per paura di essere arrestati, come è successo con le precedenti proteste degli insegnanti.

Anche se i figli sono a casa, le associazioni dei genitori sostengono le richieste degli insegnanti. La crisi finanziaria è reale: Israele continua a trattenere ogni anno centinaia di milioni di shekel [1 shekel = 0,26 €] dell’ANP, equivalenti alle indennità che l’ANP paga alle famiglie dei prigionieri detenuti da Israele, ma l’opinione pubblica non crede che non ci siano soldi per stipendi decenti agli insegnanti.

Quindi il messaggio dell’ANP è chiaro: continua a rispettare i suoi accordi con Israele (compreso il coordinamento per la sicurezza), ma non quello con gli insegnanti, uno dei settori più importanti per garantire il benessere comune.

Hawara (e la strada congestionata che la attraversa) è stata classificata più di 25 anni fa come area B [cioè sotto controllo amministrativo palestinese ma israeliano per la sicurezza, ndt.], nella quale ai poliziotti palestinesi è vietato operare e sostarvi armati o in divisa. L’esercito pesantemente armato e la polizia di frontiera, tuttavia, sono una presenza costante vicino a garage e minimarket, stazioni di servizio e bancarelle di falafel. Tutti sanno chi sono stati mandati a proteggere. Le colonie della zona sono note per la loro violenza: Yitzhar e i suoi avamposti, che spuntano febbrilmente come funghi dopo la pioggia; Itamar e i suoi avamposti in espansione; l’avamposto di Givat Ronen, vicino alla colonia di Har Bracha.

I villaggi palestinesi di Burin, Madama, Einabus, Urif, Aqraba, Beita, Yanun e altri vivono da diversi decenni sotto la minaccia del terrore rappresentato da questi intrusi. Alberi abbattuti, raccolti di olive rubati, incendi dolosi, colpi di arma da fuoco contro i contadini, palestinesi aggrediti nelle loro case, sorgenti del villaggio sfruttate [a favore dei coloni, ndt.]: questi non sono atti di “vendetta” compiuti dopo un attacco agli ebrei. Costituiscono un piano calcolato per impossessarsi di più terra palestinese attraverso la violenza e l’intimidazione. Tutto, sia allora che adesso, è stato ed è fatto sotto gli auspici del monopolio esercitato dall’IDF [esercito israeliano, ndt.] sulla sicurezza.

Ovviamente nessuna agenzia di sicurezza palestinese ha tentato di sfidare questa situazione al fine di proteggere gli abitanti dai loro assalitori recidivi. Invece di ringraziare l’Autorità Nazionale Palestinese per la sua obbedienza e lealtà, il governo Netanyahu-Smotrich-Ben-Gvir la incolpa per ogni morto israeliano in un’area sotto il pieno controllo israeliano, vale a dire l’intera Cisgiordania e Israele vero e proprio. Allo stesso tempo, Israele chiede all’ANP di controllare i giovani palestinesi disperati e senza addestramento militare che si sono armati in Cisgiordania. Non c’è da meravigliarsi che il pubblico palestinese ami e ammiri quei giovani uomini armati, anche se non sono capaci, addestrati o preparati a proteggerlo fisicamente dagli attacchi dei coloni o a sventare il furto delle loro terre.

La notte in cui gli ebrei imperversavano ad Hawara, molti dei suoi abitanti che si trovavano fuori città non potevano tornare a casa. Attraverso i social media gli abitanti di Nablus hanno offerto loro ospitalità. A questo si è aggiunto l’apparato di sicurezza nazionale palestinese, che ha aperto loro il suo quartier generale. Le reazioni sono state taglienti, ha detto ad Haaretz un abitante di Nablus. “Cosa siete, un ente di beneficenza?” hanno chiesto con sarcasmo le persone infuriate.

L’esperienza ci insegna che i soldati dell’IDF e i poliziotti di frontiera avrebbero sparato e persino ucciso qualsiasi palestinese avesse cercato di opporsi agli aggressori e difendere la propria famiglia, i vicini o la proprietà con una pistola, un bastone o un coltello. Oppure potrebbe essere stato arrestato e condannato in un tribunale militare prima di essere condannato a molti anni di prigione per possesso di un’arma illegale, aver sparato e messo in pericolo vite ebraiche.

Anche se i poliziotti dell’Autorità Nazionale Palestinese fossero potuti arrivare rapidamente ad Hawara per proteggere i loro connazionali dagli assalitori ebrei, l’esercito li avrebbe bloccati o addirittura uccisi o imprigionati e i giudici militari li avrebbero condannati a lunghe pene detentive senza ascoltare le spiegazioni dei loro avvocati. Qualsiasi tentativo locale di organizzare una difesa usando le armi sarebbe finito in uno spargimento di sangue, soprattutto da parte palestinese, e con un’escalation incontrollabile. È comprensibile, quindi, perché un tale intervento sia ancora oggi improbabile.

Ma al di là delle dichiarazioni, delle condanne e delle richieste che le Nazioni Unite forniscano protezione internazionale, per anni alti funzionari palestinesi si sono astenuti, come risposta alla violenza dei coloni, dall’alzare la testa, revocare un accordo, o stabilire condizioni chiare e ben definite per continuare il coordinamento della sicurezza con Israele.

Invece di inviare le sue forze di sicurezza ad impedire conferenze stampa e manifestazioni che invocano la democratizzazione, e di spiare la propria gente, l’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe potuto dislocare permanentemente queste forze – disarmate e in borghese, ma addestrate al controllo antisommossa – nei villaggi frequentemente attaccati dai coloni. Avrebbe potuto informare Israele che lo stava facendo perché l’esercito e la polizia israeliani non stanno adempiendo ai loro doveri come dettato dal diritto internazionale e persino dagli Accordi di Oslo. Avrebbe potuto inviare i suoi comandanti di grado più alto in tournée regolari in questi villaggi, per partecipare all’aratura e alla raccolta delle olive, pascolare le pecore con gli abitanti del villaggio, mentre spiegava agli ufficiali israeliani di non essere disponibile per riunioni di coordinamento con l’IDF, lo Shin Bet e l’Amministrazione Civile, poiché era impegnata a proteggere la sua gente.

La conclusione ovvia è che le agenzie di sicurezza palestinesi e il loro comandante supremo Mahmoud Abbas considerano sacro non solo il coordinamento per la sicurezza con Israele, ma anche i confini dei Bantustan creati dalle divisioni temporanee e permanenti nelle aree A, B e C. Ecco come possono essere garantiti i ristretti interessi personali ed economici del gruppo dirigente, così slegato dal suo popolo.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Dopo aver aiutato le vittime del terremoto, un palestinese è stato ucciso dalla furia israeliana

Fayha Shalash

27 febbraio 2023 – Middle East Eye

Sameh al-Aqtash era appena tornato dal volontariato in Turchia quando i coloni hanno attaccato il suo villaggio in Cisgiordania

Quattro giorni fa Sameh al-Aqtash è tornato dalla Turchia, dove aveva sostenuto le vittime del terremoto come volontario. Domenica sera il 37enne palestinese è stato ucciso da coloni israeliani che si sono scatenati nel suo villaggio, Zatara, nella Cisgiordania occupata.

Zatara si trova a sud di Nablus, vicino a un famigerato checkpoint militare israeliano dove, secondo gli abitanti, i soldati vessano quotidianamente i palestinesi. A Zatara vivono solo 100 persone e sono tutti membri della stessa famiglia. La maggior parte di loro sono donne e bambini.

Gli attacchi dei coloni israeliani sono iniziati dopo che domenica pomeriggio un presunto palestinese armato ha ucciso due coloni vicino alla città di Huwwara. In risposta, centinaia di israeliani hanno attaccato città e villaggi palestinesi, ferendo quasi 300 persone e bruciando le case.

Nonostante Zatara si trovi a circa sei chilometri da Huwara, dove i coloni sono stati uccisi e la violenza della folla ha raggiunto il massimo, un gruppo di israeliani ha attaccato il villaggio e ha iniziato a tentare di rimuoverne il principale cancello di ingresso.

Abdel Moneim, il fratello di Aqtash, era con lui mentre si precipitavano a fermare il vandalismo dei coloni.

“Ci siamo affrettati tutti, incluso Sameh, e abbiamo fermato i coloni al cancello e impedito loro di entrare”, ha detto a Middle East Eye.

Ma dopo poco tempo i coloni hanno attaccato di nuovo, questa volta con la protezione dei soldati israeliani. I colpi di arma da fuoco hanno iniziato a prenderci di mira e poi Sameh è caduto a terra”.

Coloni e soldati stazionano insieme dopo la furia devastatrice. (Reuters)

Con i soldati israeliani e i coloni che bloccavano le strade, nessuna ambulanza ha potuto accedere a Zatara, così i fratelli di Aqtash hanno dovuto usare un veicolo privato e trasportarlo su una strada sterrata fino al vicino paese di Beita.

Mentre correvano lungo la strada accidentata, il sangue è uscito da un foro di proiettile nell’addome di Aqtash, che ha iniziato a perdere conoscenza.

Al centro medico di Beita i fratelli di Aqtash sono scoppiati in lacrime quando il medico ha detto loro che egli era morto per le ferite. Lascia tre figli, il più piccolo è una bambina di quattro mesi.

Abdel Moneim afferma: “Non c’erano scontri quando i coloni ci hanno attaccato. Sameh era una persona gentile che amava aiutare la gente: due giorni prima di essere ucciso aveva parlato con i capi dei consigli locali della nostra regione per raccogliere donazioni per le vittime del terremoto in Turchia e Siria”.

Città in fiamme

Le cicatrici degli attacchi senza precedenti dei coloni alle città e ai villaggi a sud di Nablus saranno difficili da cancellare. Case, negozi e automobili sono stati distrutti e incendiati. I coloni hanno massacrato il bestiame dei palestinesi.

Elias Dmaidi, un bambino di otto anni residente a Huwwara, ha detto che pensava che sarebbe stata l’ultima della sua vita.

“Non ho mai visto un attacco così grave: centinaia di coloni urlavano, insultavano, distruggevano tutto ciò che incontravano e davano fuoco alle case mentre le famiglie erano dentro”, ha detto Dmaidi ai giornalisti.

Huwwara, una città divisa da una strada principale frequentata da coloni e soldati israeliani, ha avuto una storia di conflitti crescenti.

La maggior parte delle sue terre sono state confiscate da Israele per costruire colonie ebraiche illegali, con varie strade ad uso esclusivo degli israeliani costruite per servirli e garantire la loro sicurezza.

Mentre il caos inghiottiva la città, l’esercito israeliano ha chiuso tutti i checkpoint intorno a Nablus, bloccando i palestinesi all’interno e all’esterno dell’area. Nonostante gli attacchi dei coloni, gli abitanti hanno aperto le loro case a tutti coloro che non potevano andarsene.

Al sorgere del mattino il sole ha rivelato l’entità dei danni. Nere strisce carbonizzate macchiavano case, negozi e alberi. Anche la scuola era stata attaccata. Temendo per la propria vita gli studenti lunedì sono rimasti a casa.

Palestinesi ispezionano i danni causati dalla furia dei coloni (AP)

Durante i disordini al personale medico e ai vigili del fuoco è stato impedito di raggiungere le aree colpite, con il risultato che centinaia di palestinesi feriti sono stati curati molto tempo dopo essere stati aggrediti.

Ahmed Jibril, direttore delle ambulanze e del dipartimento di emergenza della Mezzaluna Rossa palestinese, ha affermato che i medici sono stati oggetto di numerosi abusi durante l’attacco a Huwwara.

Ha proseguito: “I paramedici sono stati attaccati ed è stato impedito loro di entrare in città, anche le ambulanze sono state colpite. L’ aggressione non è stata opera solo dei soldati, ma anche dei coloni, che hanno aggredito il personale medico mentre cercava di trasportare un ferito”.

Bersagliati dentro casa

Anche Brin, una cittadina vicina che si trova accanto a blocchi di colonie, è stata oggetto di furiosi attacchi.

Ayman Soufan era a casa con moglie e figli quando i coloni li hanno attaccati e hanno dato fuoco alla loro casa.

Ha raccontato a Middle East Eye: “Più di 100 coloni ci hanno attaccati e si sono divisi in due gruppi, uno ha sfondato finestre e porte e l’altro ha rubato le nostre cose e le pecore dalla parte anteriore della casa”.

Poi le hanno dato fuoco. La famiglia di mio fratello e io siamo fuggiti dall’altra parte per proteggerci. Mio figlio è stato colpito alla spalla da una pietra lanciata dai coloni.”

Quasi ogni mese vengono attaccati da coloni. protetti dai soldati israeliani, che vogliono prendere la loro casa e rubare la loro terra per espandere gli insediamenti vicini.

Soufan prosegue: “I coloni hanno cercato di bruciarci vivi all’interno della nostra casa, se non fossimo riusciti a scappare ora saremmo morti. Nonostante l’enorme incendio, i vigili del fuoco non sono riusciti a raggiungerci perché i soldati li hanno ostacolati e il fuoco è rimasto acceso finché non si è spento da solo. Dal 2000 viviamo la stessa spirale di aggressione”.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele colpisce a morte un diciassettenne palestinese durante un’incursione

Redazione di MEMO

14 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Le forze di occupazione israeliane hanno colpito a morte un ragazzo palestinese diciassettenne durante un’incursione nel campo profughi di Al-Faraa, nella citta di Tubas della Cisgiordania occupata.

Secondo l’agenzia di notizie Wafa, Mahmoud Majed Al-Aydi è stato colpito alla testa ed è stato portato in condizioni critiche in ospedale, dove è morto per le ferite ricevute.

Un numero elevato di forze israeliane di occupazione all’alba ha fatto una incursione nel campo profughi di Al-Faraa ed ha attaccato molti abitanti con proiettili e lacrimogeni, scatenando le proteste degli abitanti.

L’occupazione israeliana ha affermato che i soldati hanno sparato al ragazzo che si stava avvicinando a loro con un ordigno esplosivo mentre stavano facendo un arresto. Tuttavia non ci sono prove di quanto affermano.

Almeno cinque palestinesi sono stati feriti dopo essere stati colpiti da proiettili veri durante l’incursione e una persona è stata arrestata.

Mahmoud è il quarantottesimo palestinese ucciso dallo Stato di Israele dall’inizio dell’anno. La sua morte avviene due giorni dopo che il quattordicenne Qusai Radwan Waked è stato colpito a morte da un cecchino israeliano mentre giocava sul tetto della sua casa a Jenin.

Nei mesi scorsi c’è stato un incremento del numero delle incursioni israeliane in tutta la Cisgiordania occupata, insieme alle azioni violente dei coloni illegali che a volte hanno attaccato anche le forze israeliane.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




“Gli ho chiesto se avesse fatto irruzione a casa mia perché smettessi di fare il giornalista”

Basil Adra

5 febbraio 2023 – +972 Magazine

Prima di interrogarlo riguardo alla sua attività di giornalista, forze israeliane hanno arrestato Abdul Mohsen Shalaldeh di notte a casa sua, terrorizzando la sua famiglia.

Il 18 gennaio col favore delle tenebre un gruppo di soldati israeliani ha fatto irruzione in casa di un giornalista palestinese nel villaggio di Sa’ir, nella Cisgiordania occupata, tenendolo in arresto per 4 giorni sotto interrogatorio dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna israeliano, ndt.] prima di rilasciarlo senza imputazioni. Il giornalista, Abdul Mohsen Shalaldeh, dice che durante l’irruzione sua sorella, che soffre di un disturbo nervoso, è svenuta per la paura, un incidente che gli investigatori dello Shin Bet gli hanno riferito durante l’interrogatorio, secondo lui nel tentativo di intimidirlo.

Alle due di notte alcuni soldati sono entrati in casa mia e hanno detto di essere venuti ad arrestarmi,” racconta Shalaldeh, giornalista dell’organo di stampa palestinese di notizie J-Media. “Un uomo dello Shin Bet, che si è presentato come ‘Captain Kerem” [Capitano Kerem], è entrato in camera da letto e mi ha detto che vestirmi e seguirlo.”

L’irruzione in casa ha scioccato la sorella più giovane di Shalaldeh, la ventiduenne Rula, con cui egli vive insieme ad altri famigliari e che è svenuta in quanto l’irruzione ha scatenato il suo problema neurologico. “Quando si è svegliata e ha visto i soldati entrare in casa, Rula ha perso i sensi,” ricorda Shalaldeh. I soldati allora l’hanno bendato e l’hanno portato in una cella a Gush Etzion [colonia israeliana nei territori occupati, ndt.].

Prima dell’inizio dell’interrogatorio gli agenti hanno consentito a Shalaldeh di chiamare la sorella. “Ho cercato di calmarla, ma era in preda a un’estrema agitazione ed è stata ancora peggio quando ha sentito la mia voce,” afferma. Poi, durante l’interrogatorio, “Captain Kerem” ha menzionato la questione della salute di sua sorella, forse nel tentativo di spaventarlo riguardo alla condizione di lei.

Mi ha chiesto: ‘Ti sta bene quello che è successo in casa tua? Che tua sorella sia stata così male?’” Shalaldeh ricorda: “Gli ho detto: ‘Cosa intendi dire con bene? Non ti ho chiesto io di fare irruzione in casa mia nel cuore della notte. Perché non mi hai telefonato? Sarei venuto la mattina dopo.’”

Poi quello che l’ha interrogato ha passato la maggior parte del tempo a chiedere a Shalaldeh del suo lavoro come giornalista. “Ha chiesto perché vado a fotografare i prigionieri e le loro famiglie. Gli ho detto che è il mio lavoro. Gli ho chiesto se voleva che io smettessi di fare il giornalista e se era per questo che aveva fatto irruzione a casa mia. Ha detto di no, ovviamente no. Ma tutto l’interrogatorio ha riguardato quello che faccio come giornalista, e uno dei poliziotti mi ha persino chiamato ‘istigatore.’”

Lo scorso anno, durante un’inchiesta congiunta di +972, Local Call [edizione in ebraico di +972, ndt.] e The Intercept [sito internazionale di controinformazione, ndt.], abbiamo intervistato giornalisti palestinesi in Cisgiordania che hanno descritto il modo in cui lo Shin Bet conduce gli interrogatori: gli investigatori regolarmente etichettano i reportage giornalistici e la documentazione riguardante prigionieri, funerali e manifestazioni come “incitamento” e un pretesto per compiere arresti, per lo più senza alcuna base giuridica. In qualche caso i funzionari dello Shin Bet hanno cercato di reclutare i giornalisti come collaboratori.

L’inchiesta ha anche riscontrato che dall’inizio del 2020 fino all’aprile 2022 Israele ha incarcerato almeno 26 giornalisti palestinesi per periodi che vanno da qualche settimana a un anno e mezzo, nella maggior parte dei casi senza basi legali e senza accuse, tenendoli nel limbo giudiziario della detenzione amministrativa.

L’obiettivo è dissuadermi dal fare il mio lavoro”

Shalaldeh afferma che nel 2019 lo stesso funzionario dello Shin Bet lo aveva interrogato sul suo lavoro come giornalista e poi lo aveva messo in detenzione amministrativa. Allora è successo qualcosa di insolito: un tribunale ha accettato di accogliere il ricorso contro la sua detenzione, stabilendo che le affermazioni dello Shin Bet per tenerlo in arresto erano infondate. È stato rilasciato e rimandato a casa.

Non c’è niente di nuovo,” sostiene Shalaldeh. “L’interrogatorio riguardava esclusivamente il mio lavoro di giornalista. Non hanno niente di cui accusarmi. L’obiettivo è dissuadermi dal continuare il mio lavoro, così fanno irruzione in casa mia di notte e terrorizzano la mia famiglia e mia sorella. È anche per questo che mi hanno arrestato un giovedì mattina presto, in modo che potessero tenermi in carcere per tutto il fine-settimana con la scusa che i tribunali sono chiusi.”

Secondo Shalaldeh le condizioni nella prigione di Gush Etzion sono pessime. “Non ci sono materassi. Ti danno una coperta da mettere su una rete metallica. Venerdì le guardie ci hanno portato pezzi di pollo crudo che avevano bollito velocemente per darceli da mangiare. I prigionieri hanno rimandato indietro il cibo chiedendo di cuocerli con più cura, ma le guardie li hanno appena immersi nell’acqua e li hanno riportati ancora crudi. I prigionieri sono rimasti digiuni per un giorno e mezzo, chiedendo del cibo decente. L’ufficiale ci ha detto che avrebbero affrontato il problema della cucina, ma non so se l’hanno fatto dopo che sono stato rilasciato.”

Gli attacchi fisici contro giornalisti palestinesi hanno suscitato una sempre maggiore attenzione internazionale dopo che nel maggio del 2022 l’esercito israeliano ha ucciso Shireen Abu Akleh, la famosa giornalista di Al-Jazeera. Come a molti suoi colleghi, negli ultimi anni i soldati israeliani hanno sparato anche a Shalaldeh, ed è stato persino ferito.

Nel 2020, durante una manifestazione all’università di Hebron, è stato colpito alla testa da un proiettile ricoperto di gomma, che gli ha fratturato il cranio “nonostante indossassi un giubbotto con la scritta ‘stampa’ e i soldati potessero vedere che ero un giornalista.” Lo scorso anno è stato ferito di nuovo a Hebron, questa volta mentre fotografava scontri tra giovani palestinesi e soldati israeliani, “Tutti i giornalisti erano nei pressi di un muro. I soldati ci hanno visti ed era evidente che eravamo giornalisti, non eravamo neppure vicini ai giovani che lanciavano pietre. Ma (i soldati) hanno sparato deliberatamente contro di noi e mi hanno ferito a una mano con un proiettile ricoperto di gomma.”

Rispondendo alle domande di +972 riguardo all’arresto di Shalaldeh, il portavoce delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndt.] ha affermato: “Le strutture detentive in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) operano in conformità con gli ordini e le procedure e si fanno carico del benessere e delle condizioni di vita dei detenuti. Da quando è arrivato, il detenuto ha ricevuto un materasso e una coperta, come ogni carcerato della struttura, e non risulta alcuna negligenza nella sua sistemazione. I pasti che i prigionieri ricevono regolarmente sono forniti dalla cucina della struttura. È stata ricevuta una lamentela del detenuto riguardo al cibo e gli è stato sostituito con altra carne.” Lo Shin Bet si è rifiutato di rispondere.

Basil Adraa è un attivista, giornalista e fotografo del villaggio di a-Tuwani, sulle colline meridionali di Hebron.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’incursione israeliana a Jenin ha provocato l’attacco terroristico che aveva proclamato di voler contrastare

Gideon Levy

29 gennaio 2023- Haaretz

Cosa stavate pensando? Che l’uccisione di 146 palestinesi in Cisgiordania nel 2022, secondo B’Tselem, la maggior parte dei quali non combattenti, sarebbe stata accettata docilmente? Che l’uccisione di circa 30 persone ad oggi nell’ultimo mese sarebbe passata in sordina?

Che i residenti del campo profughi di Shoafat, maltrattati ogni giorno e ogni notte da poliziotti e agenti della polizia di frontiera che invadono le loro case in pretestuose operazioni, dalle incursioni fiscali agli arresti notturni, distruggendo i loro beni e la loro dignità, facciano piovere riso sui loro aguzzini? Che qualcuno il cui nonno è stato assassinato da un colono e il cui amico di 17 anni è stato ucciso la scorsa settimana dalla polizia di frontiera non fosse incentivato a commettere un attacco?

E cosa stavano pensando i comandanti della folle operazione di giovedì nel campo profughi di Jenin? Qual era lo scopo dell’operazione, a parte una dimostrazione di potere? Sopprimere il terrorismo? Ha solo alimentato le fiamme.

Sapevano che se avessero fatto irruzione nel centro del campo ne sarebbe derivato un grande spargimento di sangue. Le forze di difesa israeliane e l’unità speciale antiterrorismo della polizia non possono più invadere questo coraggioso e determinato campo profughi senza versare molto sangue. Sapevano anche che nessun “enorme attacco terroristico all’interno di Israele” sarebbe stato sventato dall’operazione, come ha proclamato venerdì la voce dell’IDF nota anche come Yedioth Ahronoth. Hanno invaso il campo la mattina, mentre i bambini stavano andando a scuola – fortunatamente, almeno le scuole dell’UNRWA quel giorno erano in sciopero – solo perché potevano farlo.

“Se il Maggior General Yehuda Fuchs, capo del comando centrale, avesse saputo che questo sarebbe stato il risultato, avrebbe potuto non approvarlo”, ha detto il giornalista Alon Ben-David a Channel 13 News. E qual’ era l’opinione generale, che ci fosse un’altra opzione? In fin dei conti tutti sapevano che l’operazione Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza. Non è possibile invadere il campo profughi di Jenin senza un massacro, ho scritto qui dopo la mia visita circa tre settimane fa (Haaretz.com, 12 gennaio), e nessun massacro nel campo potrebbe passare inosservato.

I capi militari possono aver pensato di sventare attacchi terroristici, ma hanno alimentato una nuova ondata di attacchi e lo sapevano. Ne consegue, quindi, che non solo il sangue dei morti a Jenin, ma anche a Gerusalemme, indirettamente, è sulle mani di coloro che hanno effettuato l’operazione nel campo di Jenin.

Ancora una volta, Israele è quello che ha iniziato. Non c’è altro modo per descrivere la catena di eventi. Oggi nel campo profughi di Jenin ci sono dozzine di giovani uomini armati disposti a sacrificare la propria vita. Uccidere alcuni di loro non diminuisce la determinazione degli altri. Jenin è un campo profughi speciale, il cui spirito combattivo può essere oggi paragonato solo a quello nella Striscia di Gaza. La militanza del campo è sorta nei vicoli i cui abitanti sono cresciuti sapendo che la patria gli era stata tolta e che sono condannati a una vita di miseria. La tortura in corso sotto forma di uccisioni quasi quotidiane negli ultimi mesi in Cisgiordania doveva anche portare a Neve Yaakov [colonia israeliana a Gerusalemme est presso la cui Sinagoga è avvenuto l’attacco in risposta ai fatti di Jenin, ndt] e a Silwan [uno dei quartieri più popolati di Gerusalemme Est, ndt] .

Il fatto schiacciante che entrambi gli attacchi sono avvenuti negli insediamenti non può essere ignorato. Non c’è differenza tra Neve Yaakov e la Città di Davide, tra Esh Kodesh e Havat Lucifer [altre colonie israeliane, ndt]. Sono tutti nei territori occupati, tutti ugualmente illegali secondo il diritto internazionale, anche se Israele ha inventato un proprio mondo di concetti.

Anche ciò che verrà dopo è nelle mani di Israele. È dubbio che una terza intifada sia inevitabile, ma qualsiasi grandiosa operazione di vendetta israeliana getterà olio sul fuoco. Qualsiasi punizione collettiva non farà che aggravare la situazione, anche se soddisfa la sete di vendetta della destra.

Arrestare 42 membri della famiglia? A che fine, se non per soddisfare questa sete?

Radere al suolo la casa del colpevole? Dopotutto, la precedente demolizione a Shoafat, che comprendeva l’invasione del campo da parte di non meno di 300 poliziotti, grandi distruzioni e l’uccisione di un ragazzo innocente di 17 anni, ha solo spinto il residente del campo Khairi Alkam a prendere la pistola venerdì sera ed uscire per uccidere gli ebrei a Neveh Yaakov, lasciando Israele scioccato solo per la crudeltà dei palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I soldati israeliani uccidono un ragazzo palestinese a Nablus

Redazione di IMEMC News

5 gennaio 2023 – International Middle East Media Center

Giovedì all’alba soldati israeliani hanno invaso il campo profughi di Balata a Nablus, nella parte nord della Cisgiordania occupata, hanno colpito a morte un ragazzo e ferito tre palestinesi, di cui uno gravemente.

Il ministero dalla sanità palestinese ha confermato che i soldati hanno ucciso Amer Abu Zeitoun di 16 anni sparandogli alla testa.

Fonti d’informazione affermano che soldati in incognito si sono infiltrati nel campo profughi e hanno colto di sorpresa i palestinesi prima che molti veicoli dell’esercito che circondavano il campo vi facessero incursione.

Amer è stato colpito subito dopo essersi accorto che soldati in incognito si stavano nascondendo in un vicolo ed essersi messo a correre per avvisare gli abitanti della presenza dei soldati.

Molti palestinesi hanno protestato contro l’irruzione prima che i soldati sparassero una raffica di proiettili veri, proiettili rivestiti di gomma e lacrimogeni verso i palestinesi, ferendone tre con i proiettili veri, incluso uno ferito gravemente.

Durante l’irruzione l’esercito ha anche chiuso e isolato molte aree e strade.

Inoltre l’esercito ha invaso e perquisito molti edifici e ha posizionato i suoi cecchini sui tetti prima che i soldati circondassero e facessero irruzione nella casa di un ex prigioniero politico, Hasan Al-Araishi, lo sequestrassero dopo aver aggredito e ferito lui e molti membri della sua famiglia.

Fonti d’informazione affermano che i soldati hanno anche sequestrato un giovane palestinese dopo avergli sparato con proiettili veri.

Inoltre i soldati hanno fermato le ambulanze palestinesi mentre andavano verso Balata per fornire il necessario soccorso medico ai feriti.

Da parte sua, il gruppo unificato di resistenza la Fossa dei Leoni ha affermato che i suoi combattenti hanno avuto uno scontro a fuoco con i soldati che hanno invaso la città di Nablus e Balata.

Uno dei mezzi israeliani è stato danneggiato dopo essere stato colpito con una carica esplosiva prima che l’esercito facesse entrare altri carri armati nel campo profughi dopo averlo circondato e isolato.

Il ragazzo ucciso è il quarto palestinese ad essere ammazzato dei soldati israeliani nella Cisgiordania occupata nei primi quattro giorni del 2023.

Martedì 3 gennaio i soldati hanno ucciso un ragazzo Adam Essam Ayyad di 15 anni, dopo che l’esercito ha fatto irruzione nel campo profughi Deheishe a sud di Betlemme, nella Cisgiordania occupata.

Lunedì 2 gennaio all’alba decine di veicoli blindati militari, inclusi bulldozer, hanno invaso la città di Kafr Dan, ad ovest della città di Jenin nella zona settentrionale della Cisgiordania, hanno demolito le case di due palestinesi uccisi, hanno ucciso Mohammad Samer Houshiyya, di 22 anni, and Fuad Mohammad ‘Aabed, di 17 anni e hanno ferito almeno altre otto persone, di cui una gravemente.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Al Jazeera porta l’uccisione di Shireen Abu Akleh alla Corte Penale Internazionale CPI

La rete afferma che le prove presentate ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui la giornalista palestinese sarebbe stata uccisa da un fuoco incrociato.

Annette Ekin

6 dicembre 2022 – Al Jazeera

L’Aia, Paesi Bassi Al Jazeera Media Network ha presentato una richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare e perseguire i responsabili dell’uccisione dell’esperta giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh.

Abu Akleh, corrispondente televisiva di Al Jazeera per 25 anni, è stata uccisa dalle forze israeliane l’11 maggio mentre stava documentando un raid militare israeliano in un campo profughi a Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

La 51enne nativa di Gerusalemme e cittadina statunitense era un nome familiare e una giornalista molto rispettata che ha dato voce ai palestinesi attraverso la sua copertura dell’occupazione israeliana.

Una strategia più ampia’

La richiesta include un dossier con un’indagine approfondita svolta nell’arco di sei mesi da Al Jazeera che raccoglie tutte le prove rese disponibili da testimoni oculari e riprese video, oltre a nuovo materiale sull’uccisione di Abu Akleh.

La richiesta è presentata alla CPI “nel contesto di un più ampio attacco contro Al Jazeera e i giornalisti in Palestina”, ha affermato Rodney Dixon KC, un avvocato di Al Jazeera, riferendosi ad episodi come il bombardamento degli uffici della rete a Gaza il 15 maggio 2021.

“Non è un incidente isolato, è un omicidio che fa parte di una strategia più ampia su cui l’accusa dovrebbe indagare per identificare e incriminare i responsabili dell’omicidio”, ha detto.

Il focus è su Shireen, e su questo particolare omicidio, questo vergognoso omicidio. Ma le prove che presentiamo prendono in esame tutte le azioni contro Al Jazeera perché essa è stata presa di mira come organizzazione mediatica internazionale.

“E le prove dimostrano che ciò che le autorità [israeliane] stanno cercando di fare è farla tacere”, afferma Dixon.

Al Jazeera spera che il procuratore della CPI “avvii effettivamente le indagini su questo caso” dopo la richiesta della rete, dice Dixon. La richiesta integra la denuncia presentata alla CPI dalla famiglia di Abu Akleh a settembre, sostenuta dal Sindacato della stampa palestinese e dalla Federazione internazionale dei giornalisti.

Un nuovo documentario su Fault Lines [programma televisivo americano di attualità e documentari trasmesso su Al Jazeera English, ndt.] di Al Jazeera mostra come Abu Akleh e altri giornalisti, indossando elmetti protettivi e giubbotti antiproiettile chiaramente contrassegnati con la parola “PRESS”, stavano camminando lungo una strada in vista delle forze israeliane quando sono finiti sotto il fuoco.

Abu Akleh è stata colpita alla testa mentre cercava di proteggersi dietro un albero di carrubo. Anche il produttore di Al Jazeera Ali al-Samoudi è stato colpito alla spalla.

Le nuove prove presentate da Al Jazeera mostrano che “Shireen e i suoi colleghi sono stati colpiti direttamente dalle forze di occupazione israeliane (IOF)”, ha dichiarato martedì Al Jazeera Media Network in un comunicato.

Il comunicato precisa che le prove ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa in un fuoco incrociato e “conferma, senza alcun dubbio, che non ci sono stati spari nell’area in cui si trovava Shireen, a parte quelli delle IOF diretti contro di lei”.

“Le prove dimostrano che questa uccisione deliberata è stata parte di una campagna più ampia che ha lo scopo di prendere di mira e mettere a tacere Al Jazeera”, afferma la dichiarazione.

Le truppe delle forze di difesa israeliane (IDF) non saranno mai interrogate, ha dichiarato martedì il primo ministro israeliano Yair Lapid.

“Nessuno interrogherà i soldati dell’IDF e nessuno ci farà prediche sulla morale del combattimento, certamente non la rete Al Jazeera”, ha detto Lapid.

Il ministro della Difesa Benny Gantz ha espresso le sue condoglianze alla famiglia Abu Akleh e ha affermato che l’esercito israeliano opera secondo “gli standard più elevati”.

I prossimi passi

Parlando davanti all’ingresso della CPI nella mattinata nuvolosa e frizzante dopo che Al Jazeera ha presentato la sua richiesta, Lina Abu Akleh, che indossava un distintivo con il volto di sua zia, ha detto che la famiglia spera di vedere “presto risultati positivi”.

“Ci aspettiamo che il pubblico ministero cerchi verità e giustizia e ci aspettiamo che il tribunale si impegni a condurre in giudizio per l’uccisione di mia zia le istituzioni e gli individui responsabili di questo crimine”, ha detto.

Il fratello maggiore di Abu Akleh, Anton, ha affermato che la presentazione [della richiesta di indagine] da parte della rete è stata importante per la famiglia.

“Questo per noi è molto importante, non solo per Shireen – niente può riportare indietro Shireen – ma come garanzia che tali crimini vengano fermati e, si spera, la CPI sarà in grado di agire immediatamente per porre fine a questa impunità“.

Walid al-Omari, a capo dell’ufficio di Al Jazeera a Gerusalemme e amico e collega di Abu Akleh, ha affermato che è fondamentale mantenere vivo il caso tra l’opinione pubblica. “Non pensiamo che Israele dovrebbe sfuggire all’obbligo di rispondere giuridicamente”.

Una volta che la CPI avrà esaminato le prove deciderà se indagare sull’uccisione di Abu Akleh nell’ambito delle indagini in corso.

Portare a giudizio i responsabili’

Nel 2021 la CPI ha stabilito la propria giurisdizione sulla situazione nei territori palestinesi occupati. La presentazione di Al Jazeera richiede che l’uccisione di Abu Akleh diventi parte di questa indagine più ampia.

“Stiamo facendo una richiesta per un’indagine che porti alla presentazione di accuse e al perseguimento dei responsabili”, ha affermato Dixon.

Le indagini condotte dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi e israeliane e dagli organi di informazione internazionali hanno concluso che Abu Akleh è stata uccisa da un soldato israeliano.

La famiglia Abu Akleh ha chiesto un’ “indagine approfondita e trasparente” da parte dell’FBI e del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per rivelare la catena di comando che ha portato alla morte di una cittadina statunitense.

“In breve, vorremmo che [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden facesse nel caso di Shireen ciò che la sua e le precedenti amministrazioni statunitensi non sono riuscite a fare quando altri cittadini americani sono stati uccisi da Israele: portare a giudizio gli assassini”, ha scritto Lina Abu Akleh su Al Jazeera nel mese di luglio.

A novembre gli Stati Uniti hanno annunciato un’indagine dell’FBI sull’uccisione di Abu Akleh, notizia accolta favorevolmente dalla sua famiglia.

Ma, ha ammonito Dixon, questa indagine non dovrebbe essere un motivo per cui la Corte penale internazionale non agisca.

“Possono, possono collaborare con… l’FBI, in modo che questo caso non scivoli tra le crepe e che i responsabili siano identificati e processati”.

Poco dopo la presentazione della richiesta alla Corte Penale Internazionale, gli Stati Uniti hanno dichiarato di respingere l’iniziativa.

“La CPI dovrebbe concentrarsi sulla sua missione principale”, ha detto ai giornalisti il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “E tale missione principale è servire come tribunale di ultima istanza per punire e scoraggiare i crimini atroci”.

Sfatare narrazioni mutevoli

Il documentario di Fault Lines esamina attentamente anche le mutevoli narrazioni di Israele.

Israele ha inizialmente incolpato per la morte di Abu Akleh dei palestinesi armati, ma a settembre ha affermato che c’era “un’alta probabilità” che un soldato israeliano avesse “colpito accidentalmente” la giornalista, ma che non avrebbe avviato un’indagine penale.

Hagai El-Ad, direttore dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha rapidamente smentito la falsa affermazione di Israele secondo cui un uomo armato palestinese sarebbe stato responsabile della morte di Abu Akleh, ha detto a Fault Lines: Sono anche molto abituati a farla franca sia nell’arena pubblica che in quella legale nel mentire sull’uccisione di palestinesi”.

Il motivo per cui Al Jazeera ha fatto questa richiesta è perché le autorità israeliane non hanno fatto nulla per indagare sul caso. In realtà hanno detto che non indagheranno, che non c’è alcun sospetto di crimine”, afferma Dixon.

Al Jazeera Media Network definisce l’omicidio un “palese omicidio” e un “crimine atroce”.

“Al Jazeera ribadisce il suo impegno a ottenere giustizia per Shireen e ad esplorare tutte le strade per garantire che gli autori siano ritenuti responsabili e assicurati alla giustizia”, ha affermato la rete.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Zona militare chiusa agli attivisti di sinistra

Editoriale di Haaretz

4 dicembre 2022 – Haaretz

Venerdì circa 300 persone si sono recate a Hebron per un tour organizzato da 30 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndt.], l’Associazione per i diritti civili in Israele, Peace Now [organizzazione sionista di sinistra contraria all’occupazione, ndt.] e B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.], sulla scia di diversi recenti episodi di violenza contro palestinesi e attivisti di sinistra in città. Ma le persone che hanno cercato di protestare contro la violenza sia nei loro confronti e dei palestinesi hanno scoperto che l’esercito aveva dichiarato Hebron zona militare chiusa.

“Sulla base della nostra valutazione della situazione, abbiamo deciso di dichiarare una zona militare chiusa in diverse parti della città di Hebron per evitare attriti in quelle aree”, hanno detto le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] “In linea con questo ordine, è stato vietato l’ingresso ai civili che non vivono in questa zona “.

La decisione dell’IDF di dichiarare Hebron zona militare chiusa al fine di impedire un tour delle organizzazioni per i diritti umani invia un messaggio politico inequivocabile: gli attivisti di sinistra sono da condannare per la violenza dei soldati contro di loro. Nel mondo capovolto dei territori occupati la fonte della violenza sono le persone che protestano contro di essa. La linea di fondo è che le IDF hanno soddisfatto la richiesta espressa sui cartelli tenuti dai contromanifestanti di Im Tirtzu [organizzazione israeliana di estrema destra, ndt.]: “Il popolo di Israele chiede che gli anarchici siano tenuti fuori da Hebron”. Hanno chiesto e ottenuto soddisfazione.

Le IDF hanno ricordato solo tardivamente che conviene prevenire “attriti” e “disturbi della quiete pubblica” limitando l’ingresso in città di non residenti. Dov’era questa idea responsabile due settimane fa, quando l’esercito ha fatto entrare a Hebron decine di migliaia di israeliani per la celebrazione annuale della porzione [parashah] di Hayei Sarah Torah [La parashah racconta le storie delle trattative di Abramo per assicurare un luogo di sepoltura alla moglie Sarah e la missione del suo servo per garantire una moglie a Isacco, figlio di Abramo e Sarah Isacco, ndt], israeliani che hanno provocato disordini, distrutto proprietà, lanciato pietre contro le case, picchiato e insultato sia abitanti palestinesi che membri delle forze di sicurezza e hanno persino ferito una soldatessa? Non solo l’esercito non ha impedito loro di entrare in città, ma ha ordinato agli abitanti palestinesi di Hebron di entrare nelle loro case e ha proibito le attività commerciali.

La scorsa settimana un soldato della Brigata Givati ha picchiato un partecipante a un tour dell’organizzazione Bnei Avraham, e un altro è stato filmato mentre diceva a un secondo membro del gruppo che “Ben-Gvir [politico di estrema destra e futuro ministro della Sicurezza Interna, ndt.] imporrà l’ordine qui” e a un terzo attivista, “ti spaccherò ala faccia”. Certo, il soldato che ha minacciato è stato mandato in cella per 10 giorni, ma poi la sua pena è stata ridotta a quattro giorni.

E a chi l’esercito ha vietato l’ingresso a Hebron? A un attivista palestinese che vive in città, Issa Amro, che ha filmato i soldati della Brigata Givati. Il giudice militare lo ha escluso dal suo stesso quartiere, Tel Rumeida, per sei giorni, dopo che un rappresentante della polizia lo ha definito un “istigatore” perché accompagna i tour degli attivisti israeliani a Hebron e ha affermato che questi “creano tensione”.

La decisione dell’IDF di escludere dalla città gli attivisti di sinistra è stata una decisione politica che mette soldati e coloni da una parte e persone di sinistra e palestinesi dall’altra. Dà slancio alla violenza contro i palestinesi e la sinistra. Se è così che si comporta l’esercito ancor prima che Benjamin Netanyahu abbia formato un governo con Itamar Ben-Gvir, l’indicazione è chiara: il peggio deve ancora venire.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale in Israele sia in ebraico che in inglese.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)