Una tiratina d’orecchi ai soldati che hanno ucciso un palestinese-americano: l’amministrazione Biden ‘non è soddisfatta’

Yumna Patel

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

L’amministrazione Biden ha richiesto una ” approfondita indagine penale e (l’assunzione della) piena responsabilità” dopo l’inchiesta dell’esercito israeliano sulla morte di Omar Asaad, palestinese con cittadinanza americana. 

La scorsa settimana l’esercito israeliano ha concluso la propria indagine sulla morte di Omar Asaad, un ottantenne con doppia cittadinanza palestinese-americano che è stato ucciso a gennaio nel corso di un violento raid israeliano contro la sua città natale nella Cisgiordania occupata. 

Il 12 febbraio Asaad ha avuto un infarto dopo esser stato trascinato fuori dalla sua auto nel cuore della notte da soldati israeliani che l’hanno poi legato, imbavagliato e lasciato per ore al freddo in un magazzino abbandonato. 

Nella sua indagine interna, arrivata dopo crescenti pressioni da parte di funzionari USA, l’esercito ha concluso che la morte di Asaad è stata un “evento serio e grave risultante da fallimento morale e decisioni errate da parte dei soldati.”

Nel riepilogo dell’inchiesta l’esercito afferma che Asaad è stato fermato nel “quadro” di “attività di controterrorismo” ad Jiljilya, sua città natale nella Cisgiordania settentrionale. 

Sostenendo che Asaad non avesse con sé un documento di identità e si “fosse rifiutato di cooperare con i controlli di sicurezza,” l’esercito dice che i soldati hanno “risposto” ammanettandolo e imbavagliandolo per “un breve lasso di tempo.” L’esercito afferma che dopo mezz’ora è stato “rilasciato e liberato da manette e bavaglio”.

Però alcuni testimoni, tra cui quelli che erano stati ammanettati accanto a lui, al momento avevano detto che Asaad era stato trascinato e picchiato dai soldati, cosa di cui non c’è traccia nella relazione dell’esercito. Alcune persone del posto sostengono che quando Asaad è stato trovato giaceva sul pavimento ancora bendato e legato. 

L’indagine ha determinato che al suo rilascio i soldati non avevano notato segni di sofferenza o altri indicatori sospetti riguardo alle condizioni di salute di Assad. I soldati hanno ritenuto che Assad fosse addormentato e non volevano svegliarlo,” dice la relazione dell’esercito. 

I due palestinesi fermati con lui hanno detto al Washington Post che Asaad era “privo di sensi e non respirava più quando i soldati se ne sono andati.”

Nella dichiarazione dell’esercito si dice che la morte di Asaad viola “uno dei valori fondamentali dell’IDF [Forze di Difesa israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.]: proteggere la vita umana.”

Nel 2021 l’esercito israeliano ha ucciso 341 palestinesi, inclusi 86 minori, e nel 2022 fino ad oggi ha ucciso sei palestinesi. 

Parole vuote’

Nelle conclusioni dell’inchiesta l’esercito israeliano dice di “rammaricarsi profondamente per la morte” di Asaad che definisce “un chiaro errore di giudizio morale.” 

L’esercito afferma che il comandante responsabile dell’unità sarà “redarguito,” e che il plotone coinvolto e ai comandanti della compagnia “non verranno assegnati incarichi di comando per due anni.”

Tuttavia il Dipartimento di Stato USA ha detto di non essere soddisfatto delle conclusioni dell’esercito né dei provvedimenti disciplinari presi contro alcuni soldati e che si aspetta che gli ufficiali israeliani svolgano una “esaustiva indagine penale.” 

Gli Stati Uniti si aspettano un’accurata indagine penale e una piena assunzione di responsabilità in questo caso e gradirebbero ricevere ulteriori informazioni relative a queste iniziative il prima possibile,” dice in una dichiarazione il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.

E mentre l’esercito sostiene che l’uccisione di Asaad vada “contro i valori dell’IDF,” B’Tselem, gruppo israeliano per i diritti umani, fa notare che l’esercito israeliano raramente ritiene i propri soldati responsabili delle violazioni dei diritti umani contro palestinesi nei territori occupati. 

Persino quando i militari sono ripresi in filmati mentre compiono gravi violazioni dei diritti umani è molto raro che vengano condannati a pene detentive. B’Tselem condanna l’inchiesta dell’esercito dicendo che: “‘fallimento morale’ è solo un’espressione vuota quando accompagnata, come prevedibile, con il più flebile dei rimproveri.”

In realtà il fallimento morale di base è che le alte sfere israeliane guidano un regime di supremazia ebraica in cui la vita dei palestinesi non ha alcun valore,” conclude l’associazione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nel caso della morte di un anziano palestinese l’esercito israeliano ignora la questione principale

Amos Harel

1 febbraio 2022 – Haaretz

Il battaglione Netzah Yehuda, i cui soldati hanno lasciato morire al freddo un uomo di 80 anni, ha un passato preoccupante ed un’ideologia estremista – e qualcosa in comune con l’incidente di fuoco amico che ha ucciso due ufficiali israeliani

Le decisioni prese lunedì dal capo di stato maggiore dell’IDF [Israeli Defence Force, le forze armate israeliane, ndt] Aviv Kochavi erano assolutamente necessarie. Sono arrivate in seguito alla morte, dopo essere stato arrestato dai soldati del battaglione Netzah Yehuda, di Omar Abdalmajeed As’ad, un anziano palestinese. I risultati delle successive indagini – da parte dei media e dell’esercito israeliano – su quanto accaduto tra As’ad e i membri del battaglione ultraortodosso richiedevano una risposta adeguata.

Kochavi ha descritto il comportamento dei soldati come “insensibile” e ha ordinato che i comandanti del battaglione fossero rimproverati. Ha anche rimosso dai loro incarichi altri due giovani ufficiali che si trovavano sul posto. Un’indagine parallela della polizia militare è ancora in corso.

Tuttavia, si può ritenere che, data la gravità dell’incidente, il capo di stato maggiore avrebbe potuto permettersi di fare qualche passo in più. Innanzitutto la rimozione dei comandanti del plotone e della compagnia contiene una strana clausola: saranno esclusi dai ruoli di comando per due anni. E poi? Se, nel frattempo, non saranno coinvolti nella morte di altri anziani, agli occhi dell’IDF saranno nuovamente idonei al comando?

E in secondo luogo, l’esercito si è astenuto dall’utilizzare la discussione sul caso per mettere in discussione l’esistenza stessa del battaglione Netzah Yehuda, anche se le sue prestazioni nel corso degli anni sono state mediocri e costellate di gravi violazioni dell’etica militare.

I risultati dell’indagine del Comando Centrale confermano quanto già riportato da Haaretz: una delle compagnie del battaglione ha allestito un posto di blocco a sorpresa nel cuore della notte fuori dal villaggio di Jiljilya, a nord di Ramallah, e ha fermato i conducenti palestinesi per perquisire i loro veicoli. As’ad, che era già agitato, quando è stato fermato si è messo a discutere con i soldati. I soldati poi lo hanno sopraffatto con la forza, lo hanno ammanettato e, per un po’ di tempo lo hanno trattenuto e gli hanno coperto la bocca.

È stato messo a terra, al freddo gelido, accanto ad altri fermati. Poco tempo dopo, quando gli altri conducenti palestinesi sono stati rilasciati, As’ad non ha risposto ed è rimasto prono a terra. I soldati, che in seguito hanno sostenuto di pensare che stesse dormendo, anche se hanno consentito agli altri di andarsene, lo hanno lasciato lì. Dopo la partenza dei soldati, gli abitanti del posto hanno chiamato un medico palestinese, che ha scoperto che As’ad era morto per un infarto.

Questa è un’orribile catena di eventi che dimostra, come alti ufficiali hanno dichiarato in seguito all’evento, che questi soldati non vedevano As’ad come un essere umano. Hanno ignorato il fatto che un uomo, che avrebbe potuto essere il loro nonno, non rappresentava una minaccia, lo hanno trattato con eccessiva rudezza e poi lo hanno lasciato morire, nonostante fosse evidente che c’era un problema.

Martedì mattina, il Magg. Gen. Yehuda Fuchs, a capo del comando centrale, ha descritto la condotta dei comandanti e dei soldati sulla scena come “ottusa” e ha affermato che hanno mostrato “scarsa capacità di giudizio”. È dubbio che queste affermazioni siano adeguate alla situazione.

La versione dei fatti dei soldati – di non aver picchiato As’ad e di non aver notato il deterioramento delle sue condizioni – non sembra convincente. L’ottusità non finisce a livello di compagnia o di plotone.

Noia e “burnout”

Poiché si tratta di mantenere l’occupazione, il battaglione Nahal Haredi, come si suole definire Netzah Yehuda, si trova in fondo alla piramide. Il battaglione trascorre nove o dieci mesi all’anno in Cisgiordania e riceve un addestramento minimo; altri battaglioni di fanteria trascorrono circa la metà del loro tempo in addestramento. L’esercito evita persino di spostarlo da un’area operativa della Cisgiordania all’altra. Il risultato per le truppe è la noia e il burnout che gli ufficiali cercano di mitigare con missioni di loro iniziativa. Così è nato un posto di blocco a sorpresa nel bel mezzo di un villaggio.

Un’operazione come questa può avere senso quando l’esercito è alla ricerca di una cellula terroristica dopo un attacco a fuoco. È molto meno necessario quando tutte le persone fermate in tale operazione hanno, secondo testimoni palestinesi, più di 50 anni.

Il tentativo di variare un po’ le missioni delle truppe ha creato un altro problema: ai soldati è stato detto di agire “clandestinamente”. Per farlo, hanno dovuto far tacere As’ad. Lo hanno fatto mettendogli una striscia di tessuto sulla bocca (l’IDF dice che è stata rimossa o è caduta dopo poco tempo).

Come già riportato da Haaretz, questo non è un incidente particolarmente insolito per il battaglione. Il suo mix di giovani che hanno abbandonato le istituzioni educative Haredi [degli Haredim, ebrei ultra ortodossi, ndt] e giovani coloni della cima delle colline [gruppo di coloni particolarmente violenti, ndtr.] ha creato un clima ideologico estremista tra i soldati, che né i vertici dell’esercito né gli ufficiali del battaglione hanno fatto molto per affrontare. Ciò si è trasformato in incidenti frequenti come picchiare i palestinesi, che in alcuni casi hanno portato a incriminazioni.

Il flusso costante di incidenti ha dato origine a raccomandazioni, sia all’interno che all’esterno dell’IDF, di sciogliere il battaglione o almeno spostarlo fuori dalla Cisgiordania in un’altra area operativa. Negli ultimi anni l’IDF ha sciolto o ridotto le sue unità su base etnica, come i battaglioni beduini e drusi. Ma sembra che il ministero della Difesa e il capo di stato maggiore temano entrambi che qualsiasi cambiamento riguardante Netzah Yehuda avrebbe un prezzo politico.

Lo scioglimento del battaglione, soprattutto dopo che una commissione interna dell’IDF ha scoperto che l’esercito per anni ha visto aumentare il numero di reclute ultra-ortodosse, potrebbe far notizia alla Knesset e nel governo. D’altra parte, i gruppi di destra potrebbero vederlo come una vessazione nei confronti dei soldati per motivi ideologici.

Ma c’è un’altra considerazione sullo sfondo che l’esercito è restio ad ammettere: Netzah Yehuda è una unità molto numerosa e i suoi soldati sono altamente motivati ​​a prestare servizio in Cisgiordania. La sua presenza lì libera battaglioni di qualità superiore per l’addestramento bellico. Questa è una risorsa a cui l’IDF è restio a rinunciare, nonostante tutti i segnali di pericolo.

Sulla vicenda le indagini della polizia militare non sono ancora terminate. Se il procuratore militare decidesse di processare alcune delle persone coinvolte, possiamo aspettarci che ne deriverebbe una tempesta politica. Questo è l’effetto a lungo termine del processo contro Elor Azaria [il soldato che a Hebron nel 2016 sparò in testa a un palestinese ferito a terra uccidendolo, ndt.]: ogni atto d’accusa che coinvolge la condotta dei soldati nei confronti dei palestinesi rischia di provocare uno tsunami da parte della destra indipendentemente dalla gravità delle accuse.

Ma un giorno, se Canale 12 News [televisione privata israeliana, ndt.] invitasse in studio la madre di uno dei soldati accusati per l’affare As’ad, ricordiamoci le circostanze del caso. Secondo gli stessi risultati dell’indagine dell’esercito, quei soldati hanno lasciato un uomo di 80 anni a morire al freddo con la risibile scusa che pensavano stesse dormendo.

Risposte sproporzionate

Questa non è l’unica indagine rilevante arrivata questa settimana sulla scrivania del capo di stato maggiore. Kochavi è nel mezzo di una settimana impegnativa durante la quale ha tenuto una serie di incontri sull’incidente avvenuto alla base di Nabi Musa, dove due ufficiali dell’unità Egoz sono stati uccisi accidentalmente da un collega. Un comitato di esperti guidato dal Magg. Gen. (della riserva) Noam Tibon sta indagando sull’incidente, così come la stessa Egoz, che è un reparto speciale assegnato al Comando Centrale.

Come è stato riportato dopo l’incidente, il caso di fuoco amico ha messo in luce una serie di gravi carenze. Ad esempio, l’unità ha lasciato la base senza coordinarsi e senza ricetrasmittenti. Non ha operato seguendo la procedura prescritta e l’intera esercitazione di addestramento è stata particolarmente disordinata. Si scopre inoltre, come verificato da articoli di Haaretz, che nelle settimane precedenti l’incidente c’erano stati diversi furiosi inseguimenti di persone sospettate di aver rubato attrezzature in quei campi di addestramento.

Alcuni degli informatori degli articoli non sono d’accordo sulle quali questioni siano più rilevanti: gli errori commessi all’interno dell’unità Egoz o i fallimenti più ampi riscontrati in altre unità di fanteria che indicano una cultura organizzativa problematica. C’era anche la questione di quanto i cambiamenti nei regolamenti dell’esercito su quando aprire fuoco – e la confusione riguardo alle misure da adottare – abbiano contribuito all’incidente mortale. Due maggiori – Ofek Aharon e Itamar Elharar – sono rimasti uccisi nell’incidente.

È probabile che seguiranno altre polemiche su quali modifiche dovrebbero essere apportate a livello di comando in risposta a tali eventi. Al momento sembra che il comandante di Egoz, il tenente colonnello A., rischi di essere rimosso dal suo incarico. A., che è stato descritto come un eccellente ufficiale, ha avuto una menzione per il coraggio mostrato sotto il fuoco a Gaza. La prossima estate avrebbe dovuto essere promosso colonnello e nominato comandante di un battaglione della riserva. A causa degli errori rivelati dai risultati delle indagini molto probabilmente sarà punito.

Ma, come nel caso dell’indagine su Netzah Yehuda, sembra che ci siano implicazioni più profonde nell’affare Egoz che vanno oltre l’unità stessa. Si può anche trovare un comune denominatore tra i due episodi: N., il comandante della squadra di Egoz che ha sparato i colpi, si è messo alla ricerca di ladri d’armi nel deserto della Giudea con la pallottola in canna, come se stesse preparandosi a tendere imboscate a terroristi nel Libano meridionale. I soldati di Netzah Yehuda hanno trattato l’anziano As’ad come se fosse un pericoloso terrorista. È probabile che il “segreto” che era stato loro ordinato di mantenere nell’ambito dell’operazione abbia contribuito alla sua morte.

In entrambi gli incidenti, i soldati e i loro comandanti diretti hanno agito in modo sproporzionato, adottando misure eccessive rispetto alle missioni di scarsa rilevanza loro assegnate. Ciò ha portato, direttamente o indirettamente, alla perdita assolutamente inutile di vite umane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Centinaia di feriti, uno grave, per l’attacco di coloni e soldati ai villaggi di Nablus, Jenin e Tulkarem

25 dicembre 2021 – IMEMC News

Sabato notte la Mezzaluna Rossa (Croce Rossa) palestinese ha riferito che centinaia di palestinesi sono stati feriti, di cui uno con una grave ferita da arma da fuoco alla testa, quando centinaia di coloni illegali e soldati israeliani hanno sferrato ripetuti attacchi contro case palestinesi a Burqa, Beita, Sebastia, Bazaria, Silat ath-Thaher e altre aree a Nablus, Jenin e nel nord della Cisgiordania.

La Mezzaluna Rossa ha dichiarato che i soldati israeliani hanno ferito più di 135 palestinesi di cui almeno dieci sono stati colpiti da proiettili veri, trentacinque da proiettili d’acciaio ricoperti di gomma e almeno novantacinque hanno subito gravi conseguenze dall’inalazione di gas lacrimogeno; tra i feriti ci sono molte donne, anziani e bambini, compresi neonati.

Ha aggiunto che una donna incinta ha subito gravi conseguenze dall’inalazione di gas lacrimogeno prima di essere portata d’urgenza in ospedale con le doglie.

Anche due giornalisti palestinesi, identificati in Ehab Dmeiri e Fadi Yassin, sono stati feriti a Bazaria, a nord-ovest di Nablus.

Ehab, corrispondente dell’agenzia di stampa [dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] WAFA, è stato colpito da un proiettile d’acciaio rivestito di gomma, mentre Fadi, cameraman che lavora per la TV palestinese, ha subito i gravi conseguenze dall’inalazione di gas lacrimogeno oltre a ferite da taglio e contusioni.

Le moschee di zona a Jenin e Nablus hanno invitato i palestinesi a radunarsi per proteggere le famiglie di Burqa e Beita, in particolare dopo che decine di coloni israeliani illegali hanno attaccato case e famiglie, causando molti feriti e gravi danni alle proprietà.

Decine di palestinesi hanno poi lanciato pietre contro i coloni e i soldati invasori, ferendo un soldato al volto.

I soldati hanno anche preso di mira direttamente, sparando proiettili e candelotti lacrimogeni, molti giornalisti palestinesi a Tulkarem mentre riprendevano in diretta le invasioni in corso.

L’attacco ha ferito due fotoreporter identificati in Fadi Yassin e Hazem Bleidi.

Militanti della resistenza hanno anche avuto uno breve scontro a fuoco con i soldati invasori vicino al raccordo di Burqa a Nablus.

Inoltre, decine di coloni hanno attaccato molte case nella città di Sebastia, a nord di Nablus, e sparato proiettili veri contro i palestinesi accorsi in aiuto delle famiglie.

L’esercito israeliano ha affermato che vicino a Nablus molti proiettili veri sono stati sparati contro una postazione militare da un’auto palestinese in corsa.

Nel frattempo, i soldati israeliani hanno chiuso molte strade e incroci e imposto severe restrizioni alla libertà di movimento dei palestinesi, consentendo allo stesso tempo a centinaia di coloni fanatici di marciare nell’area e dirigersi verso il sito dell’ex colonia di Homesh, dove hanno iniziato a ricostruire e predisporsi a ristabilire la colonia sulle terre palestinesi rubate.

Anche vicino a Sebastia i soldati hanno sparato contro i palestinesi una raffica di candelotti lacrimogeni, bombe a concussione [a combinazione ionica/protonica; creano un globo di 6 metri con una forza d’urto che smembra chi è vicino, ndtr.] e molti proiettili veri, causando molti feriti.

Massicce proteste hanno avuto luogo anche in varie aree di Jenin e Nablus, prima che i soldati sparassero proiettili veri, candelotti lacrimogeni e bombe a concussione.

Notizie simili riferiscono di massicce proteste nella città di Silwan, a sud della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme occupata, dopo che l’esercito ha occupato il quartiere di Batn al-Hawa e invaso le case.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’esercito israeliano modifica le regole di ingaggio riguardo a quando sparare, ora chi lancia pietre è un bersaglio

Redazione di PC

21 dicembre 2021– Palestine Chronicle

Media israeliani hanno informato che l’esercito ha modificato le regole per aprire il fuoco, consentendo ai soldati di sparare a manifestanti palestinesi che lancino pietre contro auto dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata anche se non rappresentano più una minaccia immediata.

Questa politica sarebbe stata inaugurata circa un mese fa, ma all’epoca l’esercito israeliano aveva evitato di renderla pubblica.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato lunedì le modifiche al quotidiano Times of Israel [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndtr.] solo dopo notizie riguardo alle regole per aprire il fuoco pubblicate dai media.

Citando media israeliani RT [Russia Today, rete televisiva russa finanziata dallo Stato, ndtr.] ha informato che, in base alle nuove norme, le forze di occupazione israeliane hanno il permesso di mettere in atto l’intero protocollo di arresto, compreso l’uso di forza letale contro palestinesi “sospetti”, se li vedono lanciare pietre e bottiglie molotov contro veicoli, anche se non hanno più alcun oggetto in mano.

In precedenza ai soldati israeliani dell’occupazione era consentito in teoria sparare a palestinesi solo quando, durante l’arresto, stavano ancora lanciando pietre o bombe incendiarie. Tuttavia nella pratica spesso i giovani palestinesi sono stati colpiti in vario modo e si è indagato ben poco riguardo a vittime palestinesi uccise o ferite dall’esercito israeliano.

RT ha anche informato che, secondo il portavoce militare israeliano, le modifiche sono state necessarie perché in molti casi le precedenti regole di ingaggio consentivano a presunti aggressori palestinesi di evitare di pagare per le proprie azioni.

I cambiamenti introdotti dall’esercito israeliano sono già stati contestati da alcuni giuristi. Liron Libman, ex-capo della procura militare, ha detto a Times of Israel che “una persona che sta scappando non rappresenta una minaccia” e che l’uso della forza letale dovrebbe “essere solo una misura estrema.”

Eliav Lieblich, docente di diritto all’università di Tel Aviv, afferma che le nuove regole contravvengono alle leggi internazionali sui conflitti armati dato che non è in corso un conflitto in Cisgiordania, così come le leggi sui diritti umani, in quanto non rispondono alle esigenze di autodifesa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I coloni hanno un nuovo obiettivo da attaccare: le scuole palestinesi

Gideon Levy, Alex Levac

 16 dicembre 2021 Haaretz

I soldati israeliani impediscono con la forza ai bambini palestinesi di raggiungere la scuola e sparano lacrimogeni nelle aule. I coloni li maledicono, li picchiano e umiliano i loro insegnanti. Immaginate che specie di sentimenti vi ribollano.

Nessuno riceve lezioni migliori sulle teorie dell’occupazione e dell’apartheid dei bambini di Lubban al-Sharqiyah, un villaggio di 4.000 persone situato a 15 chilometri a sud di Nablus. Non è difficile indovinare che tipo di sentimenti vi si stiano sviluppando e quali generazioni usciranno in futuro dalle due scuole elementari, una maschile e una femminile, di Lubban e di altri due villaggi. Gli edifici si trovano entrambi vicino all’autostrada 60, la strada più trafficata della Cisgiordania, utilizzata sia dai coloni che dai palestinesi, dove si sono verificati molti incidenti con lancio di pietre da parte di bambini palestinesi.

I bambini di questo villaggio hanno visto di tutto. Hanno visto soldati israeliani impedirgli con la forza di raggiungere la scuola e coloni che li maledicevano e li picchiavano. Hanno patito il soffocamento a causa dei gas lacrimogeni e sono stati colpiti da proiettili di metallo ricoperti di gomma sulla strada per la scuola e ritorno. Hanno visto i loro insegnanti umiliati – secondo le testimonianze, i soldati hanno costretto più volte di fronte ai loro alunni gli insegnanti a inginocchiarsi– e hanno visto soldati lanciare lacrimogeni nelle aule e nei cortili delle scuole.

A Lubban al-Sharqiyah, i genitori mandano a scuola i figli la mattina senza sapere in quale stato torneranno. In verità il capo del Consiglio locale, Yakub Iwassi, racconta che arriva all’ingresso del villaggio ogni mattina alle 6:30 per accompagnare i bambini a scuola e garantire loro sicurezza. Sebbene si siano verificati incidenti con lancio di pietre sull’autostrada, secondo il capo del Consiglio, sono un ricordo del passato. Non ci sono stati incidenti da più di due settimane, aggiunge Iwassi, e lui e il suo staff stanno facendo tutto il possibile per prevenirli. Recentemente gruppi di genitori si sono offerti volontari per filmare e documentare ciò che accade vicino alle scuole.

L’insegnante di religione della scuola femminile, Iman Daragme, è madre di Ziyad, 14 anni, che frequenta la scuola maschile. L’alunno frequenta la terza media ed è stato ferito ad un occhio durante l’ultimo giorno di disordini vicino alla scuola, il 17 novembre. Quella mattina, racconta Ziyad, è uscito come al solito ma quando è arrivato all’incrocio appena fuori dal villaggio, ha visto dozzine di coloni lungo la strada che porta alle scuole – pensa che fossero in 200 – e soldati dell’Esercito Israeliano in piedi accanto a loro. I coloni stavano protestando contro il lancio di pietre sull’autostrada e i soldati hanno impedito ai bambini di avanzare. Ma Ziyad dice che quel giorno non c’era stato alcun lancio di pietre.

Sua madre si occupa molto di lui. Al momento ha un braccio fasciato, ma non a causa degli eventi di quel giorno: domenica se l’è rotto cadendo dalla bicicletta.

Erano le 7:30 di quel mercoledì mattina, qualche settimana fa. La situazione iniziava a surriscaldarsi. I bambini si sono affrettati verso la scuola, i coloni hanno continuato la loro manifestazione e i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per disperdere i bambini e costringerli a tornare al villaggio. Per quanto lo riguarda Ziyad è sicuro che i coloni stiano rendendo impossibile la vita agli scolari come parte di un piano: “I coloni vogliono chiudere la scuola in modo da impadronirsene”, ci dice. “Hanno già occupato il vecchio mercato vicino al villaggio”.

Gli scontri sono continuati sulla strada per la scuola sino al tardo pomeriggio. La maggior parte degli abitanti del villaggio è arrivata all’incrocio, il posto sembrava un campo di battaglia. Secondo un membro del Consiglio del villaggio, Falastin Noubani, quel giorno 60 bambini hanno patito in qualche modo il gas lacrimogeno e non sono mai arrivati a scuola; 40 sono stati feriti da proiettili ricoperti di gomma, quasi tutti in modo non grave. Ma un ragazzo, Ziyad Salame, 11 anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma. Inizialmente si è temuto per la sua vita, a causa di un ematoma cerebrale. Alla fine l’emorragia si è fermata e il pericolo è passato. E Ziyad Daragme, il figlio dell’insegnante, è stato colpito all’occhio da una scheggia o da qualcos’altro. È stato portato a Salfit all’ospedale governativo Yasser Arafat Martire, e da lì è stato inviato all’ospedale oftalmico Hugo Chavez a Turnus Aya, vicino a Ramallah, dove è stato curato.

L’Unità Portavoce dell’Esercito Israeliano in settimana ha emanato questa vaga risposta sulla situazione di Lubban al-Sharqiya: “Alla luce dei recenti eventi di scontri e disordini nelle vicinanze del villaggio, che ricade sotto la giurisdizione della Brigata territoriale Binyamin, alcune misure sono state prese dall’Esercito Israeliano in coordinamento con i rappresentanti del villaggio per arginare il problema. A seguito di queste misure, gli scontri nell’area sono notevolmente diminuiti”.

Le due scuole di Lubban sono vicine l’una all’altra ed entrambe si trovano proprio a ridosso della Strada Statale 60, a circa due chilometri dal centro del paese. Nel 2014 l’Amministrazione Civile, un ramo del governo militare in Cisgiordania, ha costruito una barriera lungo l’autostrada per proteggere gli scolari dalle auto in corsa, e per loro ha costruito anche un marciapiede. Ai palestinesi è proibito costruire qualsiasi cosa in quest’area: l’autostrada è nell’Area C, amministrata da Israele. Prima di queste migliorie, nel corso degli anni circa 20 bambini erano stati uccisi in incidenti stradali sulla strada per la scuola e ritorno.

Gli alunni iscritti alle due scuole sono 661: 421 nella scuola maschile e 240 nella femminile. La scuola maschile è stata costruita nel 1944, quella femminile nel 1971, molto prima di tutti gli insediamenti che stanno ora soffocando il paese da ogni lato; alcuni sono stati costruiti su terreni di proprietà del villaggio.

In una conversazione nel suo ufficio, Iwassi, capo del Consiglio, un uomo d’affari di 58 anni tornato nella sua casa in Cisgiordania dopo aver trascorso 15 anni a Tampa in Florida, ci racconta che negli ultimi mesi è stato minacciato dai soldati dell’Esercito Israeliano che brandivano fucili mentre accompagnava i bambini a scuola. Dice che è stato colpito due volte con proiettili rivestiti di gomma e aggiunge che due settimane fa i soldati hanno afferrato un ragazzo che stava andando a scuola e lo hanno arrestato. Quando Iwassi ha protestato, i soldati gli hanno detto che il ragazzo, Muayid Hussam, 11 anni, aveva lanciato pietre sull’autostrada tre giorni prima mentre andava a scuola. Hussam è stato preso in custodia e rilasciato quattro ore dopo. Iwassi ha indagato sulla vicenda e ha scoperto che il giovane sospettato quel giorno non era nemmeno andato a scuola.

Il capo del Consiglio ci dice che per salvaguardare i bambini ha messo un insegnante ogni 100 metri lungo il percorso che porta alle scuole. In alcuni casi, dice, i coloni si piazzano sul ciglio della strada e minacciano i ragazzi. Gli hanno riferito, per esempio, che un colono aveva gridato che le loro scuole sarebbero passate ai coloni, e addirittura diceva ai bambini che erano stati scelti nuovi nomi: “Brooklyn” per la scuola femminile, “Bnei Yisrael” per quella maschile.

Issawi conserva nel suo cellulare le informazioni che ha raccolto nell’ultimo anno. L’esercito ha fatto irruzione nelle scuole otto volte mentre si teneva lezione; le truppe hanno impedito agli alunni di raggiungere le scuole 76 volte. I droni sono stati avvistati nell’area cinque volte: non è chiaro se li abbiano lanciati l’esercito o i coloni, ma hanno disturbato e spaventato i bambini. Sono stati lanciati gas lacrimogeni nelle aule sette volte e ogni volta gli edifici hanno dovuto essere evacuati. Gli alunni sono stati picchiati 13 volte, ma non hanno riportato ferite. Tredici alunni sono stati fermati per qualche ora o per alcuni giorni. L’Esercito Israeliano ha chiuso i cancelli delle scuole 15 volte. I coloni hanno attaccato violentemente gli alunni sette volte. E ci sono stati circa 100 incidenti, dice Issawi, in cui soldati o coloni stavano minacciosamente vicino agli ingressi delle scuole.

“Con quale diritto i coloni armati vengono al cancello di una scuola?” chiede il capo del Consiglio. “Sai, se mi capitasse di camminare per strada armato, verrei arrestato immediatamente. In tutto il mondo i civili non possono andare in giro armati, solo la polizia e le forze di sicurezza. Allora perché i coloni possono farlo? A volte i coloni urinano davanti alle ragazze. Ho parlato con i soldati, ma non hanno fatto nulla. I coloni gridano ai bambini: ‘Questa è la nostra terra. Qui vivranno solo ebrei. Siete degli animali. Siete cani. Questa terra appartiene solo a noi. Morte agli arabi!’ “

“Questa non è vita”, continua. “I nostri figli non pensano ad imparare, ma solo a tornare a casa sani e salvi. Gli insegnanti hanno paura per gli alunni. Questa non è vita”. Noubani, membro del Consiglio, aggiunge: “I nostri figli hanno il diritto di camminare lungo il ciglio della strada per andare a scuola. Nessuno ci può dettare dove debbano camminare i nostri figli”.

Verso la scuola, da un’altra direzione, c’è anche un sentiero sterrato ma non raggiunge tutti gli abitanti del villaggio.

Iwassi: “Dobbiamo salvaguardare questo percorso, perché ci sono bambini che vengono dall’altra parte della strada. L’esercito può dirmi quali bambini stanno creando problemi e io mi occuperò di loro. Tutto ciò che vogliamo è che i nostri figli possano studiare in pace”.

Noubani racconta che negli ultimi anni gli attacchi da parte dei coloni sono stati continui, ma non erano mai arrivati alle scuole: “Che i coloni vadano lì è una novità. Vengono da tutta la zona, non solo dalle colonie vicine. Eravamo abituati al fatto che abbattessero i nostri alberi, ma gli attacchi ai nostri figli sono una novità”.

Iwassi è d’accordo, e osserva che anche se ci sono sempre stati attacchi da parte di soldati e coloni, non sono mai stati tanti quanti nell’anno passato. Perché pensa che la situazione sia peggiorata, gli chiediamo. “Perché questo governo è un governo di coloni. Questo è il problema. Quando il primo ministro è amico dei coloni, questo è il risultato. Questa è la direttiva. Il governo precedente era meno un governo dei coloni di questo”.

Nel corso degli anni, sono stati sottratti a Lubban circa 5.000 dunam (1.250 acri) di terra con la costruzione delle vicine colonie di Ma’aleh Levona, Eli, Shiloh e Givat Harel.

“Tagliano i nostri alberi e bruciano i campi”, dice Iwassi. “Ti alzi la mattina e tutti i tuoi ulivi sono stati abbattuti. Vogliono una scuola vuota e un villaggio vuoto e un paese senza palestinesi”.

L’ultimo giorno del Ramadan di quest’anno Ahmed Daragme, 34 anni, residente nel villaggio, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dai soldati all’incrocio di Tapuah mentre tornava a casa dopo aver acquistato dei dolci per la festa. I soldati pensavano che avesse in mano una pistola, ma non ce n’era traccia. Il suo amico Mohammed Noubani, 28 anni, che era con lui in macchina, è stato ferito gravemente e da allora è su una sedia a rotelle.

Abbiamo chiesto a Iman, insegnante di religione, qual è la cosa peggiore degli incidenti nelle scuole: “Le maledizioni che i nostri alunni si sentono lanciare dai coloni. E anche quando i soldati a volte stanno vicino alle finestre delle aule. Questo spaventa i bambini”.

Sul muro della scuola femminile c’è il disegno di un’insegnante con degli alunni. “Insegnaci l’aritmetica e non le botte”, dicono gli alunni all’insegnante con un gioco di parole in arabo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I giovani palestinesi alle prese con le conseguenze della fama sui social media

Mary Steffenhagen

14 dicembre 2021 – Teenvogue

Alcuni lamentano di essere stati etichettati come “vittime” o “attivisti.”

Sotto molti aspetti Adnan Barq è un tipico zoomer [i nati dal 1995 e il 2010, ndtr.]. È sempre su Instagram dove condivide pensieri e immagini di vita quotidiana: foto artistoidi della città, selfie buffi con la famiglia e gli amici, opinioni su film e show televisivi. (Se proprio volete saperlo il cast dei suoi sogni per ‘Cime tempestose’ vede Mena Massoud nei panni di Heathcliff e Lily Collins in quelli di Cathy.)

Ma condivide anche immagini di muri di cemento, recinzioni di filo spinato e dispositivi di sorveglianza. Ha filmato i soldati mentre fanno arresti violenti in strada, aprendosi un varco tra la folla cittadina carichi di armi pesanti. Quasi sempre aggiunge la sua didascalia sardonica o un hashtag nel tentativo di scaricare con l’umorismo parte della sua frustrazione.

Barq vive nella Città Vecchia di Gerusalemme, poco lontano da Sheikh Jarrah, il quartiere dove la Corte Suprema israeliana avrebbe dovuto pronunciarsi sulla rimozione di alcune famiglie palestinesi. Quindi persino prima del maggio 2021, quando è cominciato il trend online #SaveSheikhJarrah, era inevitabile che Barq postasse immagini del conflitto. Anche queste fanno parte della vita quotidiana.

I suoi post di solito ricevevano qualche migliaio di like. Ma a maggio la polizia israeliana ha compiuto un raid nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme inducendo Hamas a rispondere con lancio di razzi. Quando Israele ha sua volta lanciato attacchi aerei contro Gaza, Barq ha postato una storia su Instagram chiedendo ai suoi follower a Gaza di raccontargli i loro sentimenti. Ha ricevuto frasi come “Non dormiamo da due giorni…”

Abbiamo paura di andare a letto e non svegliarci mai più.”

L’inferno è a Gaza.” 

In pochi giorni aveva migliaia di follower sui social media da tutto il mondo. Il post ha ricevuto circa 60.000 like, a oggi il più popolare che abbia mai postato.

Mi hanno scritto le loro ultime parole e sono sicuro che adesso molti di loro sono morti,” dice Barq. Nel corso di undici giorni gli attacchi aerei israeliani hanno ucciso almeno 243 palestinesi. Durante il conflitto hanno perso la vita anche undici israeliani.

Molti giovani palestinesi si sono trovati al centro di un’attenzione internazionale nuova per i loro video girati nei quartieri durante gli attacchi delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) [l’esercito israeliano, ndtr.] e dei coloni, e il loro sdegno è diventato virale sui social. Questa viralità ha dato vita a una campagna online unificata che ha avuto un impatto senza precedenti sull’atteggiamento internazionale verso la Palestina. Ma mesi dopo alcuni giovani palestinesi percepiscono la tensione fra l’accettare questo nuovo seguito e l’essere visti dal loro pubblico come simboli unidimensionali. Persino mentre usano queste nuove piattaforme per combattere per la causa palestinese per far riconoscere la propria dignità umana si trovano a disagio perché etichettati con identità che li appiattiscono: militanti, vittime o attivisti.

Agli inizi di maggio 2021 la Corte Suprema Israeliana doveva decidere se confermare l’espulsione di sei famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah in seguito a un ordine di espulsione emesso da un tribunale di grado inferiore, una decisione a favore dei coloni israeliani. I palestinesi si sono mobilitati per protestare e prevenire le espulsioni che secondo le Nazioni Unite potrebbero essere considerate un crimine di guerra. Hanno condiviso sui social media video di soldati israeliani che maltrattavano i loro vicini o che sparavano pallottole di gomma e granate stordenti dentro la moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan. Forse il video più memorabile è quello di una ragazza, Muna El-Kurd, che affronta un colono che secondo lei si trovava all’interno della proprietà della sua famiglia.

Stai rubando la mia casa!” urla El-Kurd.

Ma se non la rubo io, lo farà qualcun altro,” risponde lui.

Muna e suo fratello Mohammed, entrambi ventitreenni, sono ora diventati due dei palestinesi più visti sui media internazionali. Recentemente TIME Magazine li ha inseriti nella lista delle 100 persone più influenti del 2021. A maggio, dopo la sua apparizione sulla CNN, Mohammed ha raggiungo circa un milione di follower tra Twitter e Instagram. La sua intervista è diventata virale. Ha contestato l’uso fatto dalla presentatrice del termine “sfratto” per descrivere quello che sta succedendo alla sua famiglia, definendolo invece un trasferimento illegale. Quando lei gli ha chiesto se sosteneva le “violente proteste” a favore della sua famiglia, lui ha ribaltato la domanda: “Lei sostiene il violento esproprio mio e della mia famiglia?”

“Mi sono detto: ‘aspetta un momento, qui io sto perdendo la mia casa. E lei mi fa delle domande sulle, cito testualmente, ‘proteste’ violente’? No, io penso che in queste situazioni sia importante ricordare la propria posizione politica,” racconta a Teen Vogue.

El-Kurd crede che i media perpetuino da tempo l’archetipo dei palestinesi come bambini indifesi, donne in lacrime o uomini violenti, ma crede che sia una rappresentazione che lui e altri sono riusciti a ribaltare. El-Kurd dice che quest’estate lui, sua sorella e altri si sono rifiutati di impersonare questo stereotipo, non solo esprimendo una gamma di emozioni, ma usando termini come decolonizzazione, apartheid e occupazione che, secondo lui, i media tradizionali tendono a evitare o a mettere in dubbio.

Si sono impossessati del nostro linguaggio, della nostra realtà in quanto popolo palestinese ed è questo che quest’estate siamo riusciti a ribaltare,” dice.”

Ma persino a maggio quando #SaveSheikhJarrah e #FreePalestine erano un trend sulle piattaforme online, molti hanno detto che cominciavano a notare che il loro contenuto filopalestinese era in qualche modo censurato. 7amleh, un’organizzazione la cui missione dichiarata è l’avanzamento dei diritti digitali dei palestinesi, ha pubblicato un rapporto che elenca le proteste per account chiusi, certi hashtag oscurati e contenuti cancellati.

Secondo BuzzFeed News, (sito statunitense di notizie), Instagram ha etichettato i post che si riferivano alla moschea di Al-Aqsa (luogo delle proteste e sacro all’Islam), come associati a “violenze o a un’organizzazione terrorista.” Facebook, proprietaria di Instagram, ha detto di aver erroneamente associato l’hashtag #AlAqsa a “varie organizzazioni censurate,” come i gruppi designati dal Dipartimento di Stato (americano) quali organizzazioni terroriste straniere che usano “Al-Aqsa” nei loro nomi. I post che usano l’hashtag #AlAqsa sarebbero stati rimossi o bloccati. (Secondo BuzzFeed un dipendente di Facebook ha scritto in un gruppo interno: “Se ci fosse un movimento chiamato ‘I sobillatori di Washington’ e se i post che menzionano solo la parola Washington venissero rimossi, sarebbe totalmente inaccettabile”). Da allora l’Oversight Board [la commissione di sorveglianza esterna] di Facebook ha raccomandato una revisione indipendente dei post relativi a Israele e ai palestinesi “per stabilire se la moderazione dei contenuti di Facebook in arabo ed ebraico, compreso il suo uso di automatismi, sia applicata senza preconcetti.” Anche TikTok è stato accusato di aver cancellato gli account di giornalisti palestinesi e di organi di stampa.

I rapporti indicano che in Palestina la visibilità online può accrescere il rischio di arresto. A giugno Mohammad Kana’neh è stato arrestato dopo aver condiviso immagini di un discorso che aveva pronunciato a una protesta e registrato da un altro partecipante. Aveva gridato a un poliziotto nelle vicinanze “vattene dall’esercito.” La rivista progressista Jewish Currents [Correnti Ebraiche, trimestrale di politica e sito con orientamento di sinistra, ndtr.] ha riportato che secondo Adalah, il Centro Legale per i diritti della minoranza araba che lo sta rappresentando, Kana’neh è stato arrestato per incitazione alla violenza o terrorismo. Nel 2016 Israele ha ampliato la portata delle sue leggi antiterrorismo, includendo i discorsi che “supportano un atto terroristico.” I palestinesi sostengono che la legge prende di mira la loro libertà di parola quando denunciano e resistono all’occupazione.

Yara Hawari, analista senior di Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network [Al Shabaka significa “La Rete”, è un sito palestinese indipendente di analisi politiche, ndtr.] un think tank la cui missione consiste nell’ “educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani dei palestinesi e l’autodeterminazione nel quadro del diritto internazionale,” crede che l’incremento di attenzione sui social media sia uno sviluppo largamente positivo per la causa. Lei pensa che quest’estate, collegando volti noti con storie avvincenti come quelle di Muna e Mohammed El-Kurd, sia stata presentata al pubblico internazionale una narrazione più coerente.

È anche facile riconoscerli e mettersi in contatto e un sacco di gente può identificarsi con loro,” dice Hawari, che osserva anche che questa facilità è diventata un po’ una spada a doppio taglio. Collegare volti e nomi a un movimento può aiutare a diffondere un messaggio attraverso circuiti mediatici, ma carica anche le persone reali di una nuova responsabilità e livelli di attenzione che possono diventare pericolosi.

Hawari conclude che, col tempo, potrebbe persino danneggiare il movimento stesso. “L’abbiamo visto nel corso della storia. C’è un movimento e poi ci sono queste vittorie simboliche concesse per zittirlo,” dice Mohammed El-Kurd.

Lui pensa che la sua inclusione nella lista dei 100 di TIME sia una di queste vittorie simboliche che ignora le migliaia di palestinesi che quest’estate erano sul posto e hanno fatto le riprese, lottato contro la polizia e messo a repentaglio le proprie vite. È arrivata sull’onda degli attacchi di quest’estate delle IDF contro la moschea di Al-Aqsa e le continue demolizioni di case nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. Gli abitanti di Sheikh Jarrah, inclusa la famiglia El-Kurd, hanno recentemente rifiutato una proposta della Corte Suprema Israeliana che li avrebbe trasformati in inquilini protetti, invece che proprietari, definendolo solo un altro rinvio per progettare di sfrattarli per sempre dalle loro case.

El-Kurd si chiede se proprio questa determinazione a resistere al diventare un simbolo e alla celebrità sia ciò che fa di persone come lui e sua sorella dei portavoce perfetti per il pubblico occidentale. “Noi raccontiamo la storia meglio di chiunque altro, perché è la nostra storia,” dice. Ma gli è ancora poco chiaro se l’aumentata attenzione dei media sia un segnale di accoglienza duratura o solo una cinica cooptazione di voci radicali. “E fa audience in TV,” aggiunge.

Quando quest’estate Adnan Barq ha risposto alla mia chiamata su Zoom si è scusato. Stava camminando per Gerusalemme Ovest e aveva perso la nozione del tempo. “Vengo raramente qui, ma devo trovare un lavoro,” ha detto Barq. Ventunenne, si è laureato quest’estate presso l’Università di Betlemme. “Ero in un hotel a chiedere se avessero bisogno di qualcuno per la reception. Il receptionist era stupefatto: ‘Hai studiato letteratura inglese e giornalismo e vuoi lavorare all’accoglienza?’” mi ha chiesto.

Mentre parlavamo stava attraversando un centro commerciale all’aperto. È passato per un cortile con gente che pranzava godendosi il sole, vicino a una giostra di cavallini colorati e si è infilato sotto una tenda in un mercato affollato. Barq era imperturbabile nonostante le occhiate degli astanti perché teneva in alto il cellulare per farmi vedere la scena. “A Gerusalemme ovest sembra davvero di essere in occidente,” ha osservato. “È un nome adatto.”

Dopo la nostra chiacchierata si è diretto verso Gerusalemme Est, verso la Città Vecchia, verso casa. Sembra una zona militare, mi dice, con tutta questa sorveglianza. La prossima settimana rifarà la breve camminata per andare a Sheikh Jarrah e cercare di vedere alcuni amici e stare con le famiglie che stanno protestando. Ma incontrerà una recinzione con dei soldati di guardia. Loro lo respingeranno, dice.

Prima che a maggio il suo account avesse tanto successo, poteva sfogare senza limiti su Instagram la sua frustrazione per l’occupazione. Ma da allora sente che lo spazio che era il suo sbocco creativo personale è diventato qualcosa di più, qualcosa con cui non è completamente a suo agio. Dice di aver notato che influencer con enorme seguito seguono lui e viene persino fermato per strada da gente che lo riconosce. Sua madre è preoccupata che possa diventare troppo visibile e che un giorno lo arrestino.

La piattaforma di Barq è cresciuta in un modo che non aveva assolutamente previsto ed è grato che gli permetta di raggiungere più persone che sostengono la causa palestinese. Ma ha dei problemi con il nuovo ruolo pubblico che la piattaforma gli ha conferito: “Ho paura che resterò congelato per sempre in quest’immagine di attivista palestinese. Voglio fare altre cose nella mia vita, non rimanere intrappolato nel mondo dell’occupazione,” dice. “Vivo un conflitto interiore.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Coloni aggrediscono alcuni villaggi palestinesi dopo un’uccisione in Cisgiordania

Redazione di Al Jazeera

17 dicembre 2021 – Al Jazeera

Il giorno dopo che palestinesi armati hanno ucciso un israeliano nella Cisgiordania occupata sono avvenuti attacchi da parte di coloni.

Fonti ufficiali palestinesi hanno affermato che coloni ebrei hanno fatto irruzione in alcuni villaggi della Cisgiordania occupata danneggiando case e automobili e picchiando almeno due persone.

Gli attacchi di venerdì sono avvenuti il giorno dopo che palestinesi armati hanno ucciso un israeliano in un’imboscata nei territori.

La morte del colono Yehuda Dimentman, ucciso quando giovedì uomini armati hanno aperto il fuoco contro la sua auto nei pressi di un avamposto illegale nella Cisgiordania occupata, minaccia di infiammare ulteriormente la violenza tra gli abitanti palestinesi e i coloni israeliani.

Giovedì gli altri due passeggeri dell’auto di Dimentman sono rimasti lievemente feriti.

Ghassan Daghlas, funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese che controlla le attività di colonizzazione, ha affermato che venerdì mattina gruppi di coloni sono entrati in alcuni villaggi nei pressi della città settentrionale di Nablus danneggiando macchine e case. Due palestinesi feriti sono stati portati in ospedale.

Secondo Daghlas, alcuni coloni si sono introdotti in una casa nel villaggio palestinese di Qaryout e hanno cercato di rapire un abitante, Wael Miqbel.

Foto diffuse sulle reti sociali mostrano Miqbel con lividi ed ematomi sul volto, mentre altri video e fotografie pubblicati in rete mostrano scontri tra coloni armati e abitanti palestinesi.

Parlando all’agenzia di notizie [turca] Anadolu, Jihad Salah, capo del villaggio di Burqa, nel nord-ovest della provincia di Nablus, ha affermato che i coloni hanno attaccato il villaggio con armi da fuoco.

Ha aggiunto che hanno dato fuoco a baracche del villaggio e lanciato pietre contro parecchie case palestinesi. L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha informato che i coloni hanno attaccato la città di Sebastia, a nord di Nablus, e vandalizzato un certo numero di veicoli di proprietà di palestinesi e l’officina meccanica.

I dirigenti israeliani si sono impegnati a trovare gli aggressori responsabili della sparatoria di giovedì e l’esercito ha schierato truppe aggiuntive nella zona.

Secondo la Wafa almeno tre uomini di Burqa sono stati arrestati in incursioni notturne.

Venerdì l’esercito ha affermato che era in corso una caccia all’uomo per trovare i palestinesi armati, ma non ha dato ulteriori dettagli.

L’auto di Dimentman è stata colpita dopo che aveva lasciato un seminario ebraico nell’avamposto illegale di Homesh, una ex-colonia evacuata come parte del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005. Gli ultimi attacchi sono giunti nel contesto di un’impennata di violenze tra israeliani e palestinesi in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

All’inizio del mese un ebreo ultra-ortodosso è stato gravemente ferito dopo essere stato accoltellato da un aggressore palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia a Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas ha aperto il fuoco nella Città Vecchia, uccidendo un israeliano. Entrambi gli aggressori sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Questa settimana durante un’incursione nella zona di Ras al-Ain a Nablus, nella Cisgiordania occupata, truppe israeliane hanno colpito a morte un altro palestinese.

All’inizio di questo mese soldati israeliani hanno ucciso un palestinese anche nel villaggio di Beita, nella Cisgiordania occupata, durante una protesta contro le colonie illegali. Forze israeliane hanno ucciso un minorenne palestinese dopo un presunto tentativo di investimento presso un posto di controllo militare nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata.

Israele ha conquistato Gerusalemme est e la Cisgiordania durante la guerra del 1967 in Medio Oriente. I territori sono ora abitati da più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 colonie e 116 avamposti, che i palestinesi rivendicano come parte del loro futuro Stato indipendente.

In base alle leggi internazionali, tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali. I palestinesi, insieme a quasi tutta la comunità internazionale, ritengono che le colonie siano un gravissimo ostacolo alla pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“È divertente sparare ai palestinesi”: parlano sei ex-soldati israeliani

Rasha Reslan

21 novembre 2021- Al Mayadeen

Sei soldati dell’occupazione israeliana rievocano in un video le atrocità che hanno commesso in una realtà sconcertante che riflette la gravità della situazione ad al-Khalil da un punto di vista: una realtà di crimini contro l’umanità.

Ai soldati piace proprio sparare proiettili ricoperti di gomma.”

E’ divertente.”

Tutti si danno il cinque.”

Sei fantastico, l’hai beccato.”

Di recente il New York Times ha ottenuto dalla regista ed ‘ex’-soldatessa israeliana Rona Segal un documentario breve: “Mission: Hebron”.

È la prima volta negli ultimi anni che un documentario mette in luce una parte delle sofferenze giornaliere dei palestinesi nella al-Khalil/“Hebron” occupata: una realtà sconvolgente che raramente viene consentito all’opinione pubblica di vedere.

Al-Khalil è considerata la più grande città della Cisgiordania occupata e l’unica in cui i coloni israeliani abitano accanto ai palestinesi, accentuando quindi le loro sofferenze.

I palestinesi devono affrontare gravi limitazioni agli spostamenti, in quanto le forze di occupazione israeliane sono costantemente presenti e impegnate da molto tempo a espellerli, in particolare dalla Città Vecchia.

Nei suoi sei capitoli il breve documentario inquadra le atrocità israeliane ad al-Khalil

Sei soldati dell’occupazione israeliana, tutti arruolati all’età di 18 anni, descrivono la loro cosiddetta “missione” ad al-Khalil. A loro è stato “affidato l’incarico di proteggere e controllare i coloni israeliani.” A questi soldati appena maggiorenni è stato dato un totale controllo sulle vite dei palestinesi in città.

I sei ‘ex’ soldati descrivono in un set in studio la loro “missione” basata sui “doveri stabiliti dalle loro regole d’ingaggio”: i coloni israeliani di al-Khalil sono “controllati e protetti” attraverso una serie di strategie, rendendo nel contempo insopportabili le vite dei civili palestinesi.

Ripensandoci, i soldati ricordano la loro confusione, il loro disagio e il loro odio.

Raccontano sullo schermo le atrocità commesse con una nuova prospettiva della gravità della situazione sul terreno ad al-Khalil, che costituisce un crimine contro l’umanità, di apartheid e persecuzione.

Missione” principale

Il tuo unico compito è di controllare e proteggere i coloni israeliani a Hebron (al-Khalil).”

Chiarendo che il compito dei soldati israeliani è di proteggere e scortare i coloni israeliani con ogni mezzo, risulta chiaro che la crescente e sempre più grave violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi viene attuata con l’esplicito appoggio delle autorità israeliane di occupazione. Nel contempo i soldati israeliani hanno l’ordine di chiudere gli occhi e persino di difendere i responsabili [delle violenze].

La violenza dei coloni contro i palestinesi include danneggiamento di proprietà privata, lancio di pietre e aggressioni fisiche, così come attacchi contro attivisti e giornalisti.

Tali aggressioni sono diventate sempre più frequenti negli ultimi anni e vengono commesse impunemente.

Uno dei soldati israeliani testimonia che è un coordinatore della sicurezza dei coloni israeliani che gli dà gli ordini, non il loro comandante militare. In molti casi i soldati dell’occupazione israeliana forniscono agli aggressori una scorta e un supporto. Ma quando i soldati israeliani non si uniscono agli attacchi, secondo le ammissioni dei soldati, “i coloni illegali possono rivoltarsi contro di loro, diventando quindi nemici,”.

Se spari ai palestinesi i coloni ti danno una pizza e un caffè.” Questo è di gran lunga uno degli aspetti più sgradevoli della “missione”. L’‘affetto’ dei coloni può trasformarsi in odio se a loro viene vietato di fare aggressioni estreme contro i palestinesi. A questo punto il soldato che prima era amato si trasforma in “traditore” e “nazista”.

Una strada sterilizzata senza palestinesi”

Con un’affermazione razzista, uno degli ‘ex’ soldati israeliani afferma che ci sono strade che sono “sterilizzate da palestinesi”.

Come parte della politica dell’esercito israeliano di rendere queste zone “sterilizzate” da palestinesi, ad al-Khalil le forze israeliane di occupazione vietano ai palestinesi di camminare in vaste aree di quella che prima dell’occupazione era la principale arteria della città.

Nel suo racconto Imad Abu Shamsieh, il coordinatore dello Human Rights Defenders Group [Gruppo dei Difensori dei Diritti Umani, ong palestinese che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi, ndtr.], dice ad al Mayadeen in edizione inglese che l’occupazione israeliana ha piazzato più di cento posti di controllo con cancelli in metallo ed elettronici, videocamere di sorveglianza, barriere di cemento armato e avamposti di ispezione nelle vie “sterilizzate”.

Rivela anche che circa 525 negozi palestinesi cono stati completamente chiusi nel 2000 a causa della decisione di un tribunale militare dell’occupazione israeliana.

Inoltre Abu Shamsieh afferma chiaramente che dall’ottobre del 2000 i veicoli palestinesi, comprese le ambulanze, sono esclusi dall’“area H2” [sotto totale controllo israeliano, ndtr.].

L’attivista per i diritti umani continua affermando che “le forze di occupazione israeliane impediscono ai giornalisti locali e internazionali di entrare nell’area H2 e nelle strade sterilizzate. Nel contempo io, insieme a un gruppo di palestinesi di al-Khalil, abbiamo deciso di documentare i crimini di guerra israeliani che avvengono giornalmente e prendono di mira uomini, donne e bambini palestinesi.”

Dal 2010, con l’iniziativa ‘Capturing Occupation Camera Project in Palestine’ [Progetto della Telecamera che Riprende l’Occupazione in Palestina]”, abbiamo iniziato a filmare le atrocità dell’occupazione israeliana contro i palestinesi.

Siamo un gruppo di circa 30 giovani volontari palestinesi che mettono in evidenza e documentano le violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali in Palestina,” dice Abu Shamsieh ad Al Mayadeen.

Perquisizioni corporali

Uno dei soldati israeliani afferma spavaldo che lo scopo principale delle perquisizioni corporali è “fermare e perquisire ogni palestinese”, ma implicitamente le perquisizioni sono di fatto intese a umiliare i palestinesi senza alcuna giustificazione legale.

Quando perquisisci qualcuno che prendi per la strada ciò richiede di toccare la persona,” dice un soldato.

Un gruppo di uomini palestinesi può essere preso di mira per una perquisizione semplicemente perché può avere un aspetto basato sullo stereotipo hollywoodiano razzista di “terrorista” nella mente dell’occupante. Le perquisizioni non sono messe in atto per trovare armi, ma per umiliare i palestinesi o creare “tensioni” tra loro. “L’idea è di provocare loro tensione, in modo che tengano la testa bassa.”

A causa della vicinanza delle colonie israeliane in città, i palestinesi sono circondati da una grande presenza militare e sono sottoposti a caso a perquisizioni di routine e offensive, a maltrattamenti e pestaggi.

Pattuglie

La ricercatrice sul campo palestinese Manal al-Jaabari di al-Khalil dice ad Al Mayadeen che i minori di al-Harika, un quartiere della città, sono quotidianamente soggetti al terrorismo israeliano.

Ad al-Harika, che si trova nei pressi di “Kiryat Arba” [una delle prime e più violente colonie israeliane, ndtr.], le forze dell’occupazione israeliana entrano nelle case dei palestinesi quando viene lanciata una pietra contro la barriera, e i minori vengono interrogati nelle loro case. A volte i soldati israeliani li trascinano per le strade e li piazzano davanti alle telecamere di sorveglianza,” aggiunge.

La giovane ricercatrice afferma con commozione che i soldati israeliani incitano giovani coloni israeliani ad aggredire ragazzini palestinesi della loro età nel quartiere di Jaber.

Le forze di occupazione israeliane affermano di essere state colpite da pietre per arrestarli o detenere minori palestinesi per ore, conferma al-Jaabari ad Al Mayadeen.

Nei pressi delle scuole, soprattutto nella zona sud vicino ai posti di controllo, molti minori sono arrestati e detenuti per lunghi periodi. A volte vengono picchiati o insultati e lasciati senza cibo e senz’acqua prima di essere consegnati all’al-Khalil Coordination and Liaison Office [Ufficio del Coordinamento e Collegamento di Al-Khalil] se hanno un’età inferiore ai 13 anni.”

Sopra questo limite d’età vengono arrestati e sottoposti a un’indagine alla stazione della polizia israeliana occupante, poi trasferiti in un tribunale israeliano o multati per almeno 1000 shekel [circa 280 €] prima di essere rilasciati.

Ai posti di controllo è tutta una questione casuale

Piazzi degli spuntoni antigomme, fermi le auto e provochi un grande ingorgo.” 

A volte non c’è nessuna ragione.”

Mentre i posti di controllo israeliani ostacolano la vita quotidiana dei palestinesi in città, gli ‘ex’ soldati israeliani confessano che un checkpoint è una specie di posto di blocco stradale.

È solo un episodio e quello che è stato documentato dal Palestinian Human Rights Defenders Group è molto più tragico.

Abu Shamsieh racconta ad Al Mayadeen che nel 2016 la sua telecamera ha ripreso l’esecuzione a sangue freddo del martire Abdel Fattah al-Sharif a uno dei posti di controllo dell’occupazione israeliana.

Il difensore dei diritti umani afferma che il caso di al-Sharif è solo uno dei molti crimini di guerra israeliani.

Egli rivela anche ad Al Mayadeen in versione inglese che i coloni israeliani hanno regolarmente investito bambini palestinesi persino di cinque anni.

Abu Shamsieh afferma di aver subito maltrattamenti, limitazioni alla sua libertà di movimento, sequestri, lunghi periodi di detenzione arbitraria, in genere con ordini di detenzione amministrativa [cioè senza accuse né processo, ndtr.] e perquisizioni illegali in casa e nel suo ufficio, per non parlare delle minacce di morte.

Detenzioni: “chiunque è sospetto”

Secondo le confessioni dei soldati, ogni palestinese è sospetto, e la procedura di arresto include il fatto di mettere ogni palestinese “in un posto con un soldato e poi tenerlo sotto sorveglianza’

Gli ‘ex’ soldati testimoniano che i militari israeliani mettono una benda sugli occhi e ammanettano i palestinesi arrestati a caso.

Come ogni città e villaggio palestinese, anche al-Khalil assiste quotidianamente ad arresti arbitrari di palestinesi, anche di bambini di 10 anni.

La violenta repressione delle proteste da parte delle forze di occupazione israeliane ha anche incluso l’arresto e la detenzione di manifestanti palestinesi.

Un altro “compito”: prendere di mira i giornalisti

Da parte sua un giornalista palestinese sul campo di al-Khalil, Sari Jaradat, dice ad Al Mayadeen che le forze dell’occupazione israeliana impediscono deliberatamente ai giornalisti palestinesi e internazionali di informare sull’attualità per nascondere i loro crimini quotidiani che colpiscono ogni aspetto della vita in città.

Circa una settimana fa un ufficiale dell’occupazione mi ha detto: ‘Se vieni ucciso dai nostri proiettili noi non ne avremo alcuna responsabilità.’”

Avevano già l’intenzione di prendermi di mira per impedirmi di fare il mio lavoro ed ho subito in totale cinque ferite da proiettili veri mentre informavo sui loro crimini, per non parlare delle decine di fermi, arresti, divieti di informare e limitazioni agli spostamenti,” aggiunge.

Jaradat parla del progetto “Blue Wolf” e dell’installazione ad al-Khalil di telecamere per il riconoscimento facciale, affermando che queste telecamere porteranno all’eliminazione della libertà più importante, quella della stampa, che è già limitata.

I soldati dell’occupazione israeliana emaneranno qualunque legge desiderino per impedire ai giornalisti palestinesi di fare il loro lavoro,” aggiunge.

La sistematica oppressione dei palestinesi è stata parzialmente riflessa da “Mission” ed evidenziata nel suo complesso dalle testimonianze accorate di Sari, Imad e Manal. Eppure ciò che sta avvenendo in Palestina, e in particolare ad al-Khalil, non può essere documentato o riassunto in un film, in un titolo o in una foto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Non c’è destra o sinistra in Israele, solo sionismo e non sionismo

Gideon Levy |

17 ottobre 2021 – Haaretz

La scorsa settimana Angela Merkel ha espresso la sua ammirazione per la solidità della nuova coalizione israeliana. L’editorialista di Haaretz Carolina Landsmann si chiede su questo sito se abbiamo a che fare con un governo ambiguo oppure con uno che ha messo allo scoperto il più grande inganno di tutti i tempi. Il giornalista Ron Cahlili afferma che la destra ideologica e la sinistra sionista sono la stessa cosa. Tutti e due evocano una vecchia storia, quella del gatto che esce dal sacco: in Israele non c’è né sinistra né destra. L’unica divisione ideologica è tra sionisti, vale a dire quasi tutti, e non sionisti, molto meno numerosi.

La cancelliera può quindi tranquillizzarsi. Quando è stato formato l’attuale governo non è avvenuto nessun miracolo e la Germania non ha nulla da imparare da esso. Non c’è stata nessunacontingenza politica”, per usare la frase coniata dal primo ministro. L’attuale coalizione si mantiene facilmente poiché è una coalizione basata sul consenso, senza grandi divari tra i suoi componenti. Il Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.] (meno Netanyahu) e gli ultra-ortodossi potrebbero formare un’estesa coalizione trasversale, che rappresenti una società ampiamente trasversale.

Questo governo sarà ricordato come quello che, pur non volendolo, ha smascherato il grande inganno. È sorto sulle onde dell’odio provato nei confronti di Netanyahu, e vive (e continuerà a vivere) sulla base dell’unità di fondo dei suoi componenti. Se domani mattina Merav Michaeli [leader del Partito Laburista Israeliano e Ministra dei Trasporti nel Governo Bennett, ndtr.] sostituisse Naftali Bennett [leader del partito Nuova Destra e attuale primo ministro israeliano ndtr.], non si verificherebbe alcun terremoto. A parte qualche cambio di stile, Israele resterebbe uguale a quello di prima.

Il presunto incarico epocale del primo primo ministro nazional-religioso non è foriero di cambiamenti. Non perché Bennett abbia tradito la sua ideologia, ma perché questa situazione concorda sorprendentemente bene con le posizioni delle componenti di sinistra di questo governo.

Non è che la sinistra sionista sia di destra, o che la destra ideologica abbia tendenze di sinistra. E non sono tutti degli opportunisti, il che sarebbe il segno della morte dell’ideologia. Al contrario, Israele ha un’ideologia, eccome! Un’ideologia dominante che mette in ombra tutto il resto. Si chiama sionismo ed è la religione che dirige e unifica la nazione. (Quasi) tutti sono sionisti e tutti credono nella supremazia ebraica su questo Paese, compresi i territori che esso occupa.

Sinistra e destra sono uguali nel loro culto delle Forze di Difesa Israeliane [esercito israeliano, ndtr.] e dello Shin Bet [l’agenzia interna d’intelligence dello Stato israeliano, ndtr.], il cui ruolo è il mantenimento del regime della supremazia ebraica sopprimendo ogni opposizione ad esso. Quando il nuovo capo dello Shin Bet, Ronen Bar, ha affermato che il servizio di sicurezza è il bastione della democrazia, aveva ragione. Proprio come la Stasi [organizzazione di sicurezza e spionaggio della ex Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], il ruolo di Bar è quello di sostenere il regime che, nel linguaggio dello Shin Bet e del popolo, è chiamato democrazia, piuttosto che tirannia ebraica.

Non c’è un membro di questa coalizione che stia pensando di porre fine all’occupazione, che la pensi diversamente sull’Iran anche l’assedio di Gaza è consensuale. Questo vale anche per le IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndtr.] e per l’operato di insediamento coloniale in corso. Pertanto, non c’è nulla di sorprendente nel silenzio degli agnelli: nel loro intimo, tutti vogliono l’occupazione.

Le differenze sono nella confezione. La sinistra vuole avere un aspetto migliore, motivo per cui i suoi rappresentanti occasionalmente si recano presso il quartier generale palestinese della Muqata a Ramallah, sollevando eventualmente anche una proposta alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] riguardo ai pogrom in Cisgiordania. Non molto di più.

L’attuale governo ha scompaginato la mappa politica. Da questo momento in poi dobbiamo affermare la verità: non ci sono veri divari tra i sionisti. I non sionisti sono pochi, quasi tutti non ebrei, tutti privi di legittimazione. Ci sono differenze tra gli Haredi [gli ebrei ultra ortodossi, ndtr.] e gli ebrei laici, e divari tra gli ebrei Ashkenazi [discendenti degli ebrei provenienti dall’Europa centrale e orientale, ndtr.] e Mizrahi [gli ebrei provenienti dai Paesi del mondo arabo, ndtr.], ma i cliché su una polarizzazione in questa nazione sono vuoti e privi di significato. L’unico abisso si trova tra i sostenitori della supremazia ebraica e i loro oppositori. Ecco perché la maggior parte dei cittadini arabi del Paese non fa parte di questo gioco. Ecco perché Israele si sta avvicinando al momento della verità. Si relaziona con le proprie fondamenta nei termini di uno Stato ebraico in una terra con due popoli, esponendo la sua vera immagine in tutta la sua nudità.

Chi avrebbe mai creduto che un governo esplicitamente non ideologico che cerca di fuggire da tali argomenti come da un incendio sarebbe stato il primo governo a rivelare la verità? E la verità è che non sono molti i Paesi in cui l’ideologia appaia ancora così importante; non ci sono democrazie con una ideologia unica tirannica e dominante. Israele è uno Stato sionista proprio come l’Unione Sovietica era uno Stato comunista. Anche lì non è stato difficile mettere insieme un governo di comunisti moderati ed estremisti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Soldati israeliani picchiano e arrestano un attivista palestinese durante la raccolta delle olive

Oren Ziv

12 ottobre 2021 +972 MAGAZINE

Mohammed Khatib è stato brutalmente arrestato assieme a due israeliani di sinistra mentre cercava di proteggere i contadini palestinesi dalla violenza dei coloni e dell’esercito.

Soldati israeliani hanno arrestato brutalmente un importante attivista palestinese e due israeliani di sinistra durante l’annuale raccolta delle olive nella Cisgiordania occupata. L’arresto è avvenuto nella regione di Salfit, vicino all’avamposto illegale di Havat Nof Avi, eretto dai coloni lo scorso anno su un terreno appartenente ai palestinesi abitanti nell’area.

Un soldato è stato fotografato mentre prendeva a pugni e poi calpestava, dopo il suo arresto, Mohammed Khatib, attivista del Comitato di coordinamento della lotta popolare che aiuta a organizzare la resistenza non violenta all’occupazione e all’insediamento di Israele.

“Siamo arrivati ​​intorno alle 10 e abbiamo trovato molti soldati nella zona”, ha detto Abdullah Abu Rahmeh, un altro importante attivista palestinese del Comitato. “Hanno transennato l’area e l’hanno dichiarata zona militare chiusa”.

Diversi agricoltori palestinesi hanno cercato di ragionare con gli ufficiali e i rappresentanti dell’amministrazione civile – il ramo dell’esercito israeliano che governa la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – per cercare di accedere alla loro terra, ha detto Abu Rahmeh. Mezz’ora dopo, quando né gli agenti né l’Amministrazione Civile si sono spostati, i contadini si sono incamminati lungo il tratto transennato per cercare di raggiungere i loro ulivi mediante un altro percorso.

“I soldati ci hanno seguito e ci hanno attaccato con i loro fucili”, ha ricordato Abu Rahmeh. “Portavamo gli attrezzi per il raccolto. Non stavamo protestando, ma ci offrivamo volontari per aiutare i contadini. Tuttavia, i soldati non ci hanno permesso di raccogliere”.

I volontari sono arrivati nel quadro dell’iniziativa Faz3a, che significa “sostegno” in arabo. Tale progetto è stato varato l’anno scorso. L’organizzazione assiste gli agricoltori palestinesi durante la raccolta delle olive per difenderli dalla violenza dei coloni e dei militari. “È una campagna annuale”, ha detto Abu Rahmeh. “In questa zona i contadini non hanno abbastanza tempo per completare il raccolto, quindi portiamo delle persone per aiutare. Cerchiamo di sostenerli e proteggerli dagli attacchi dei coloni”.

La stagione del raccolto in Palestina-Israele è iniziata la scorsa settimana e sono già stati segnalati diversi episodi di coloni che hanno vandalizzato gli ulivi. Secondo l’ONG israeliana Yesh Din,

venerdì un proprietario terriero palestinese del villaggio di Tarkumiya ha scoperto che i coloni avevano tagliato i suoi ulivi.

In una foto dell’arresto di Khatib, che viene dal villaggio di Bil’in ed è un membro di spicco del Faz3a, si vede un soldato israeliano colpire Khatib e afferrarlo per il collo. Più tardi, quando Khatib giace a terra a pancia in giù, si vede lo stesso soldato che lo calpesta.

“I soldati hanno preso a pugni Khatib, gli sono saliti sulla schiena, gli hanno coperto gli occhi e lo hanno portato verso l’avamposto [della colonia]”, ha detto Hillel Dahbash, un attivista israeliano che ha assistito agli arresti. “I soldati continuavano a lanciare granate stordenti. Ci siamo radunati per accedere all’area agricola e abbiamo cercato di raggiungere nuovamente il terreno, ma i soldati ci hanno buttato fuori a calci e ci hanno spinto verso le auto. Hanno poi sparato granate stordenti contro le auto, fino a quando l’ultimo veicolo ha lasciato l’area”.

La raccolta è avvenuta nell’area di Ar-Ras, a ovest di Salfit, dove nell’ultimo anno si sono svolte ogni venerdì, tutte le settimane, manifestazioni contro la costruzione del vicino avamposto. La scorsa settimana, Yesh Din ha documentato il furto di ulivi appartenenti ai palestinesi abitanti di Salfit da parte dei coloni.

L’avamposto è uno degli oltre 100 costruiti senza l’autorizzazione del governo israeliano e quindi illegale secondo la stessa legge israeliana. Secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti in Cisgiordania sono da ritenere illegali.

“L’avamposto costruito l’anno scorso impedisce ai palestinesi di accedere alla terra di loro proprietà”, ha aggiunto Hillel, mentre i suoi confini sono proprio ai margini degli uliveti palestinesi.

Secondo gli attivisti sul posto, i soldati israeliani hanno detto ai contadini che, se avessero evitato le “provocazioni” arrivando da soli senza giornalisti israeliani, avrebbero avuto il permesso di accedere alla loro terra e raccogliere dai loro alberi. Ma, come in altre aree della Cisgiordania, molti palestinesi hanno paura di andare da soli, senza alcuna protezione dagli attacchi dei coloni, a occuparsi dei loro uliveti.

La polizia israeliana ha tenuto Khatib in detenzione da lunedì. Probabilmente sarà portato di fronte al tribunale militare alla fine di questa settimana. A differenza dei detenuti israeliani, che devono essere portati davanti a un giudice entro 24 ore dal loro arresto, la legge militare consente che palestinesi rimangano in detenzione fino a 96 ore senza un’udienza in tribunale.

Ai due attivisti israeliani che sono stati arrestati con Khatib, nel frattempo, è stato offerto il rilascio su cauzione con divieto di entrare nell’area vicino all’avamposto. Gli attivisti si sono rifiutati e hanno scelto di rimanere in detenzione in solidarietà con Khatib. Dopo essere stati portati martedì davanti alla Corte Petah Tikvah, agli israeliani è stato inflitto un divieto di recarsi nell’area di cinque giorni.

Martedì sera Khatib è stato portato davanti a un tribunale militare israeliano in Cisgiordania, dove un giudice israeliano ha stabilito che, sebbene avesse probabilmente commesso un reato, doveva comunque essere rilasciato, soprattutto alla luce del fatto che anche gli attivisti israeliani erano stati rilasciati quel giorno. Il giudice ha fissato la cauzione di Khatib a 1.000 NIS [267 euro, ndtr.] e lo ha bandito dalla zona per una settimana.

Una richiesta di commento sulla violenza dei soldati è stata inviata lunedì sera al portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndt.], ma non ha ancora risposto. La risposta sarà pubblicata se e quando la riceveremo.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)