Nel 2020 Israele ha censurato circa quattro articoli al giorno – la media più bassa nell’arco di un decennio.

Haggai Matar

7 aprile 2021 +972 magazine

Secondo stime ufficiali, il 2020 ha visto la censura militare israeliana vietare la pubblicazione integrale di 116 articoli e censurarne in parte altri 1403.

Il 2020 è stato un anno tranquillo per la censura militare israeliana. Di fatto, con una media di un solo articolo totalmente censurato ogni tre giorni, è stato per la censura l’anno più fiacco nell’arco di un decennio. Nel corso dell’anno la censura dell’esercito ha impedito che venissero pubblicati 116 articoli e ne ha censurati parzialmente altri 1403, secondo le cifre fornite dalla censura su richiesta di +972 Magazine [rivista on line indipendente gestita da giornalisti israeliani e palestinesi contrari all’Occupazione, ndtr.] e del Movimento per la Libertà di Informazione [Movement for the Freedom of Information], ONG israeliana che opera per ottenere trasparenza da parte del governo.

Questo calo di attività censoria nell’arco dell’ultimo decennio si riflette anche nel numero di servizi inviati al vaglio della censura da parte degli organi di stampa (6.421) e nella percentuale di pezzi totalmente esclusi dalla pubblicazione (1,81%). Per fare un confronto, nel 2014 – l’anno dell’ultima campagna militare su larga scala lanciata da Israele – gli organi di stampa israeliani avevano sottoposto alla censura un totale di 14.274 articoli. Quell’anno ci furono 3.122 servizi parzialmente censurati e 597 non videro la stampa (oltre il 4% di tutti gli articoli esaminati).

Tutti gli organi di stampa in Israele, così come gli autori e gli editori, sono tenuti a inoltrare gli articoli che hanno a che fare con la sicurezza e gli affari esteri alla censura militare, la quale li esamina prima della pubblicazione. La censura deriva la propria autorità dal “regime di emergenza” varato alla fondazione di Israele, che rimane in vigore ancora oggi.

Queste norme permettono al censore di respingere o censurare parzialmente un articolo sottoposto al suo vaglio – o anche uno già pubblicato senza la sua revisione, vietando al contempo agli organi di stampa di segnalare in alcun modo se il pezzo in questione è stato censurato. Tuttavia, mentre i criteri legali che definiscono la sfera di autorità della censura militare sono al tempo stesso stringenti e ampi, la decisione su quali servizi siano da sottoporre al vaglio della censura rimane nelle mani dei direttori degli organi di stampa.

Poiché la censura militare non fornisce né informazioni sulla natura dei servizi che decide di censurare, né una ripartizione mensile per organo di stampa, è difficile dedurre da che cosa dipenda il calo del numero di articoli censurati. Si può presumere che si siano verificati meno casi legati alla difesa o giudicati particolarmente sensibili durante un anno colpito dalla pandemia globale, oppure che i giornalisti abbiano riservato un’attenzione decisamente minore a ciò che non era legato al COVID. In alcuni casi i corrispondenti per la sicurezza sono stati riassegnati a seguire la pandemia, con un conseguente calo delle critiche all’apparato della sicurezza.

Persino in un anno di fiacca, un numero di intromissioni militari sui mezzi di informazione in ragione di quattro al giorno è estremamente alto, specialmente considerando che Israele è l’unico Paese al mondo che, pur definendosi una democrazia liberale occidentale, obbliga per legge i giornalisti a sottoporre al vaglio della censura gli articoli che hanno a che fare con le forze armate prima di pubblicarli.

Un’altra parte del lavoro della censura riguarda la gestione degli archivi nazionali di Israele, Siccome gli archivi sono totalmente on line e non hanno una biblioteca cartacea aperta al pubblico, il censore sta rivedendo tutto il materiale desecretato, e in alcuni casi documenti già resi pubblici sono stati nuovamente secretati.

Nel 2016, quando è iniziata la digitalizzazione, i responsabili degli archivi hanno sottoposto al vaglio della censura circa 7.800 documenti. Nel 2020 il numero è sceso a 2.940. A differenza degli articoli, il censore si è rifiutato di fornire le cifre relative al materiale di archivio censurato, rispondendo solo che “la grande maggioranza dei documenti ha ottenuto il visto alla pubblicazione senza modifiche.” Questo indicherebbe che alcuni documenti sono stati invece censurati, nonostante avessero già superato la censura interna agli archivi.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act [Legge sulla Libertà di Informazione, che garantisce il diritto di cittadini e di gruppi ad ottenere informazioni detenute da pubbliche autorità, ndtr], e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. “Esaminare l’attività della censura rendendo pubblici questi dati è estremamente importante per la tutela della libertà di stampa,” afferma Atty Or Sadan del Movimento per la Libertà di Informazione.

Nel 2006, nelle prime risposte alle nostre richieste, il censore ha dichiarato il numero dei documenti di archivio censurati, nonché quello dei casi in cui aveva richiesto agli organi di stampa di eliminare informazioni pubblicate senza previa autorizzazione (una media di 250 casi l’anno). Nonostante le nostre ripetute richieste, in questi anni non ci sono più stati forniti numeri. (Si possono trovare maggiori informazioni sulla politica di +972 nei confronti della censura a questo link).

“Le informazioni comunicate dal censore ci consentono di esaminare le tendenze delle sue operazioni e perlomeno a far sì che le sue interferenze non crescano eccessivamente. Riteniamo che la semplice pubblicazione di questa rassegna annuale crei un effetto dissuasivo [sul censore militare] e contribuisca a garantire che la decisione di censurare un articolo venga presa con cautela, senza mai dimenticare che la censura sottrae al pubblico informazioni ritenute rilevanti dal giornalista,” continua Sadan.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act, e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. Col passare del tempo, +972 non ha più ricevuto dati sul numero dei libri inviati al vaglio della censura, né dei documenti di archivio censurati, né dei casi in cui il censore ha chiesto ad organi di stampa e ad individui sui social di eliminare pezzi già pubblicati.

“Come mai le informazioni censurate rimangono nascoste al pubblico talvolta anche dopo avere cessato di essere potenzialmente pericolose?” chiede Sadan. “Il censore dovrebbe consentire la pubblicazione retroattiva di servizi censurati una volta che vengano ritenuti sicuri, per permettere al pubblico di esaminare quali siano i suoi [del censore] metodi ed il livello di restrizioni frapposti alla libertà di stampa.” Non dare risposta a queste questioni permette al censore militare di avvolgere in un alone di mistero le sue attività antidemocratiche, sottraendole al controllo del pubblico.

Nel corso dell’ultimo anno la dirigenza dell’IDF [Israel Defence Forces, le forze armate di Israele, ndtr] ha visto notevoli cambiamenti. Il generale di brigata Ariella Ben Avraham, a capo della censura dal 2015, ha lasciato il posto nel 2020 per entrare, pare, nel gruppo NSO, l’estremamente controversa compagnia israeliana specializzata in sicurezza informatica che vende programmi di hacking ai governi di mezzo mondo ed è stata più volte accusata di complicità in intercettazioni abusive. Ben Avraham è stato sostituito dal colonnello (riservista) Eyal Samuelov come capo agli interim per sei mesi, e a questi è poi subentrato Doron Ben Barak, l’attuale censore capo delle Forze Armate. Purtroppo sembra che Ben Barak abbia scelto di perseguire la stessa politica di chi lo ha preceduto: limitare la diffusione al pubblico di informazioni sulla censura militare.

Haggai Matar, attivista politico e giornalista pluripremiato, è stato anche direttore generale di “972 – Advancement of Citizen Journalism,” la onlus che pubblica +972 Magazine.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




I soldati israeliani uccidono un palestinese ad un posto di blocco improvvisato in Cisgiordania

Akram Al-Waara, Betlemme, Cisgiordania occupata

6 aprile 2021 – Middle East Eye

Osama Mansour, padre di cinque figli, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dopo che i soldati gli avevano detto di ripartire

Nelle prime ore di martedì mattina i soldati israeliani hanno sparato, uccidendolo, ad un uomo palestinese e hanno ferito sua moglie mentre i due stavano tornando a casa nel loro villaggio di Biddu, a nord-ovest di Gerusalemme, nella Cisgiordania occupata.

Osama Mansour, 42 anni, e sua moglie Sumayya, 35, stavano tornando a casa intorno alle 2 e 30 del mattino quando sono stati fermati a un posto di controllo improvvisato fuori dal vicino villaggio di al-Jib, dove i soldati israeliani stavano conducendo un’operazione di ricerca e cattura.

In un’intervista con il canale di notizie Palestine TV, Sumayya Mansour ha riferito che i soldati israeliani hanno fermato l’auto su cui viaggiavano lei e suo marito al posto di blocco e hanno detto loro di spegnere il motore, cosa che, afferma, hanno fatto.

“Poi ci hanno detto di riaccendere il motore dell’auto e andarcene, e così siamo partiti – e poi tutti quanti hanno iniziato a spararci addosso dei proiettili”, ha detto dal suo letto d’ospedale nella città di Ramallah in Cisgiordania.

Secondo le testimonianze dei membri della famiglia, prima di dire alla coppia di andarsene, i soldati hanno chiesto di controllare i loro documenti, che Osama Mansour ha di buon grado consegnato e hanno perquisito l’auto.

Imran Mansour, 57 anni, cugino vicino di casa di Osama ha riferito a Middle East Eye: “Dopo aver controllato i documenti di identità e i loro nomi sul computer e perquisito da cima a fondo l’auto, i soldati hanno ritenuto che non costituissero una minaccia e hanno detto loro di rimettere in moto l’auto e di passare”.

“Avevano percorso appena pochi metri quando i soldati hanno iniziato a sparare contro di loro da tutte le direzioni”, dice Imran Mansour, riferendo le testimonianze raccolte da Sumayya e da altri testimoni oculari.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha condannato il “crimine atroce”, definendolo “solo uno di una lunga e continua serie di esecuzioni extragiudiziarie” commesse dalle forze israeliane.

L’esercito israeliano ha dichiarato che il veicolo dei Mansour avrebbe accelerato [dirigendosi] verso un gruppo di soldati “tanto da mettere in pericolo le loro vite”, e che i soldati avrebbero risposto con colpi di arma da fuoco “per contrastare la minaccia”.

“Ciò è assolutamente ridicolo”, riferisce a MEE Imran Mansour. “Perché un padre di cinque figli, con la moglie in macchina, avrebbe tentato un’aggressione mentre stava tornando a casa dai figli?

“Se Osama avesse davvero cercato di attaccare i soldati non avrebbe eseguito tutti i loro ordini: fermare l’auto, spegnere il motore, dare ai soldati i loro nomi e documenti d’identità, lasciargli perquisire l’auto”, aggiunge il parente.

Secondo la Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, dei testimoni oculari hanno affermato che i soldati israeliani avrebbero lanciato una granata assordante in direzione dell’auto, facendo sì che Osama Mansour, che era alla guida, accelerasse il veicolo.

Imran Mansour riferisce che, pur non essendo in grado di confermare se fosse stata la granata stordente ad indurre suo cugino ad accelerare l’auto, le persone che hanno assistito all’episodio gli hanno detto che nella zona erano in corso degli scontri a causa di un’operazione di arresto da parte dei soldati ad al-Jib e che in quell’area erano state sparate granate assordanti e lacrimogeni.

Nessuna assistenza medica

Secondo le testimonianze rese da Sumayya alla televisione palestinese, pochi istanti dopo gli spari dei soldati contro la sua auto, ha chiamato suo marito e lui le ha chiesto se fosse ferita. Pochi secondi dopo, ha detto, è crollato sul suo grembo e l’auto ha iniziato a sterzare.

“L’auto andava a destra e a sinistra, quindi ho preso la guida finché non ho trovato un gruppo di giovani davanti a me e mi sono fermata in modo che potessero aiutarci”, racconta.

Secondo Imran Mansour, i giovani hanno caricato la coppia nei loro veicoli e li hanno portati al locale ospedale di Biddu. La coppia è stata poi trasferita in un ospedale della città di Ramallah, dove Osama è stato dichiarato morto.

“Osama è stato colpito alla testa da due proiettili”, dice Imran Mansour, aggiungendo che Sumayya è stata ferita dai frammenti di un proiettile, ma si trovava in condizioni stabili e già il primo pomeriggio di martedì ha chiesto di essere dimessa dall’ospedale e tornare a casa.

Secondo Imran Mansour i soldati israeliani non hanno fornito nessun primo soccorso o assistenza medica alla coppia dopo che la loro auto si è fermata a breve distanza dal posto di blocco improvvisato.

“Sono rimasti lì a guardare mentre i giovani cercavano di soccorrere Osama e Sumayya”, afferma. “Non hanno fatto nulla per aiutarli.”

Ucciso a “sangue freddo”

La morte di Osama è stata uno shock per la famiglia Mansour, che è stata informata dell’incidente dall’ospedale locale di Biddu.

“In Palestina questo genere di cose accade quasi ogni giorno, ma speri che non debba mai accadere a te o alla tua famiglia”, ha dichiarato Imran a MEE.

Secondo lui, la morte di Osama e il fatto che i soldati che lo hanno ucciso sostengano che lui li abbia attaccati porta alla mente dei familiari ricordi penosi e un dolore conosciuto.

“Non è la prima volta che ciò accade alla nostra famiglia”, dice, aggiungendo che nel 2016 uno dei loro parenti, il diciannovenne Sawsan Mansour, è stato colpito a morte a un posto di blocco israeliano a nord di Gerusalemme.

“I soldati hanno affermato che stesse cercando di pugnalarli, ma nessuno dei soldati è stato ferito e gli hanno sparato a sangue freddo, proprio come hanno fatto oggi con Osama”, afferma, aggiungendo che in quell’occasione i testimoni oculari hanno affermato che Sawsan era stato lasciato sanguinare per ore, senza nessun soccorso medico.

Questi crimini accadono sempre contro il popolo palestinese, quando usciamo con le nostre auto o superiamo i posti di blocco. Come palestinese sei sempre spaventato e vivi solo nel terrore che una tale tragedia capiti alla tua famiglia”, afferma Imran.

Imran racconta a MEE che suo cugino Osama era “un uomo semplice”, che ha vissuto la sua vita facendo tutto il possibile per provvedere alla moglie e ai cinque figli, le più giovani dei quali sono due gemelle di sette anni.

“È stato ucciso a sangue freddo, e i soldati che lo hanno ucciso non saranno mai ritenuti responsabili”, ha detto, criticando i tribunali israeliani che “proteggono a tutti i costi i loro soldati”.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno sempre dichiarato che i soldati e gli agenti di polizia vengono raramente ritenuti responsabili dell’uccisione di palestinesi dal sistema giudiziario israeliano, promuovendo quella che alcuni hanno definito una cultura dell’impunità.

“Se un palestinese viene ucciso senza motivo, tutto ciò che un soldato deve fare è invocare l’autodifesa, e viene rilasciato senza nemmeno una tirata d’orecchi”, dice Imran. “E questo è quello che stanno cercando di fare ora con Osama.

“Osama non è il primo, né sarà l’ultimo palestinese che viene ucciso a sangue freddo, senza nessun motivo, dagli israeliani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Orizzonte Palestina: vincere la partita a lungo termine

Richard Falk

21 marzo 2021 – Global Justice in the 21st Century

Il bilancio palestinese: vittorie normative, delusioni geopolitiche

Vincere la partita a lungo termine

Nelle scorse settimane il popolo palestinese ha ottenuto importanti vittorie che potrebbero avere serie conseguenze per Israele se la legge e l’etica governassero il futuro politico. Invece a questi successi si contrappongono sviluppi geopolitici avversi dato che la presidenza Biden ha accolto alcuni dei peggiori aspetti dell’assoluta partigianeria di Trump riguardo a Israele/Palestina. La legge e l’etica incidono sulla reputazione, influenzano la legittimità di politiche contestate, mentre la geopolitica incide più direttamente sui comportamenti. La differenza è meglio compresa separando le politiche simboliche da quelle concrete.

Eppure le conquiste relative alla legittimità non dovrebbero essere scartate solo perché niente che importi sul terreno sembra cambiare, e a volte per vendetta cambia in peggio. Nella lunga partita del cambiamento sociale e politico, soprattutto nel corso degli ultimi 75 anni, il vincitore della guerra per la legittimazione, intrapresa per conquistare terreno sul piano legale ed etico e la ricompensa per l’intensità dell’impegno politico, alla fine lungo il percorso ha per lo più determinato il risultato della lotta per l’autodeterminazione nazionale e per l’indipendenza, superando gli ostacoli geopolitici e la superiorità militare. Finora la dirigenza israeliana, benché preoccupata delle battute d’arresto nel campo di battaglia della guerra per la legittimazione, non si è allontanata dalla strategia americana di concepire la sicurezza attraverso una combinazione di capacità militari e attività regionale, alleandosi contro l’Iran e sovvertendo nel contempo l’unità e la stabilità di Stati vicini potenzialmente ostili.

È fondamentale la grande lezione dell’ultimo secolo che non è stata appresa secondo la quale nella guerra del Vietnam gli USA erano superiori in quanto a potenza militare, eppure sono riusciti a perderla. Perché non è stata appresa? Perché se lo fosse stata, la necessità di un bilancio militare da permanente stato di guerra sarebbe svanita e l’ostinata convinzione mitica che ‘il nostro esercito ci garantisce la sicurezza’ avrebbe perso molta della sua credibilità.

Con il presidente Biden, che riprende una geopolitica conflittuale basata sulle alleanze, la prospettiva è quella di un peggioramento pericoloso e costoso delle relazioni tra le principali potenze economiche e militari mondiali, evitando il tipo di riallocazione delle risorse urgentemente necessaria per affrontare le sfide dell’Antropocene. Possiamo lamentare la disfunzionalità del militarismo globale, ma come possiamo raggiungere la forza politica per sfidarlo? Questa è la domanda che dovremmo fare ai nostri politici, senza distoglierli dall’affrontare le urgenze della politica interna che riguardano salute, rilancio dell’economia e attacchi al diritto di voto.

La lotta dei palestinesi prosegue e offre il modello di una guerra coloniale portata avanti in un’epoca post-coloniale, in cui un potente regime oppressivo sostenuto dal consenso geopolitico è necessario per consentire a Israele di andare controcorrente opponendosi alle potenti maree di libertà della storia. Israele ha dimostrato di essere uno Stato colonialista di insediamento pieno di risorse che ha portato a compimento il progetto sionista per tappe e con il fondamentale aiuto del potere geopolitico e che solo di recente ha iniziato a perdere il controllo del discorso normativo in precedenza controllato attraverso la drammatizzazione della vicenda degli ebrei perseguitati in Europa che meritavano un luogo sicuro, insieme al rifiuto negazionista delle rivendicazioni nazionali dei palestinesi di stare al sicuro nella loro stessa patria. I palestinesi, senza rapporti significativi con la storia dell’antisemitismo, hanno pagato i costi umani inflitti agli ebrei dall’Olocausto, mentre l’Occidente democratico assisteva nel più totale silenzio. Questo discorso unilaterale è stato rafforzato in nome dei benefici della modernità, insistendo sulla sostituzione della sordida arretrata stagnazione araba in Palestina con un’egemonia ebraica dinamica, moderna e fiorente, che in seguito è stata anche considerata come un avamposto occidentale in una regione ambita per le sue riserve di energia e più di recente temuta per il suo estremismo contro l’Occidente e per la rivolta islamista. Il conflitto per la terra e l’identità ideologica dello Stato emergente, sviluppata per un secolo, ha conosciuto molte fasi ed è stata interessata, quasi sempre sfavorevolmente, da sviluppi regionali e interventi geopolitici dall’esterno.

Come nel caso di altre lotte anticoloniali, il destino dei palestinesi prima o poi si invertirà se le lotte del popolo vittimizzato potrà durare più del molteplice potere congiunto dello Stato repressore e, come in questo caso, degli interessi regionali e strategici di attori geopolitici. Può il popolo palestinese garantirsi i diritti fondamentali attraverso la sua stessa lotta condotta contro un insieme di forze interne/esterne, basandosi sulla resistenza palestinese all’interno e sulle campagne di solidarietà internazionali dall’estero? Questa è la natura della partita di lungo termine palestinese e attualmente la sua traiettoria è celata tra le mistificazioni e le contraddizioni di una storia che si sviluppa a livello nazionale, regionale e globale.

Le vittorie normative dei palestinesi

Cinque anni fa nessuna persona sensata avrebbe previsto che B’Tselem, la più autorevole ong israeliana per i diritti umani, avrebbe reso pubblico un rapporto in cui si afferma che Israele ha formato uno Stato unico di apartheid che governa dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, che include cioè non solo la Palestina occupata, ma lo stesso Israele. (This is Apartheid: A regime of Jewish Supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea [Questo è apartheid: un regime di supremazia ebraica dal mare Giordano al mare Mediterraneo], B’Tselem: The Israeli Information Center for Human Rights in Occupied Territory, 12 Jan 2021).[cfr la versione italiana]

Attentamente analizzato, il rapporto mostra che le politiche e le prassi israeliane rispetto all’immigrazione, ai diritti sulla terra, alla residenza e alla mobilità sono state gestite in accordo con un contesto preminente di supremazia ebraica e, in base a questa logica, di sottomissione dei palestinesi (più precisamente dei non ebrei, inclusi i drusi e i cristiani non arabi). Tale assetto politico discriminatorio e di sfruttamento si qualifica come apartheid, come inizialmente instaurato in Sudafrica e poi reso universale come crimine a livello internazionale nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Punizione del Crimine di Apartheid. Questa idea del carattere criminale dell’apartheid è stata portata avanti nello Statuto di Roma, che rappresenta il contesto nel quale la Corte Penale Internazionale dell’Aia svolge le proprie attività. L’articolo 7 dello Statuto di Roma, un trattato tra le parti che regola la CPI, elenca i vari crimini contro l’umanità su cui la CPI esercita la propria autorità giurisdizionale. Nell’articolo 7(j) l’apartheid è definito come tale, benché senza alcuna definizione che l’accompagni, e non c’è mai stata un’indagine della CPI per accuse di apartheid che abbia coinvolto i responsabili israeliani. È significativo che vedere l’‘apartheid’ come crimine contro l’umanità ridurrebbe, rispetto alle accuse di ‘genocidio’, l’onere della prova.

Poche settimane dopo il rapporto di B’Tselem, il 6 febbraio 2021 è arrivata la tanto attesa decisione della Camera preliminare della CPI. Con una votazione di 2 a 1 la decisione della Camera ha stabilito l’autorità di Fatou Bensouda, la procuratrice generale della CPI, di procedere con un’indagine per crimini di guerra commessi dal 2014 nei territori palestinesi occupati, come definiti geograficamente dai suoi confini provvisori del 1967.

Per raggiungere questo obiettivo la decisione ha dovuto fare due importanti affermazioni: primo, che la Palestina, benché priva di molte attribuzioni della statualità come definita dalle leggi internazionali, si configura come uno Stato per le finalità di questo procedimento della CPI, essendo stata accettata nel 2014 come Stato membro dello Statuto di Roma dopo essere stata riconosciuta dall’Assemblea Generale il 29 novembre 2012 come “Stato osservatore non-membro”; secondo, che la giurisdizione della CPI per indagare crimini commessi nel suo territorio, la Palestina è stata autorevolmente identificata come la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, cioè i territori occupati da Israele durante la guerra del 1967.

Con una decisione che intendeva dare l’impressione di autolimitazione giurisdizionale, è stato sottolineato che queste situazioni giudiziarie sono state limitate ai fatti e alle richieste presi in considerazione e non pretendono di giudicare in anticipo la statualità o le rivendicazioni territoriali di Israele o della Palestina in altri contesti. L’opposizione di lunga data a questa impostazione ha rifiutato questo ragionamento, basandosi prevalentemente sull’attuale vigenza degli accordi conclusi dalla diplomazia di Oslo che avrebbe modificato lo status dell’occupazione ed avrebbe la prevalenza, concludendo che la procuratrice generale non ha competenza giuridica per procedere con l’indagine (il futuro di questo procedimento giudiziario è incerto, dato che l’ incarico dell’attuale procuratrice termina nel giugno 2021 e subentra un nuovo procuratore, Karim Khan).

Andrebbe rilevato che questo procedimento preliminare ha insolitamente attirato un interesse generale in tutto il mondo sia per l’identità delle parti che per l’intrigante carattere delle questioni. I giuristi sono stati a lungo interessati alla definizione di statualità in relazione a diversi ambiti giudiziari, e hanno definito dispute legali affrontando questioni sollevate in territori senza confini stabiliti in modo definitivo e in mancanza di una chiara definizione dell’autorità sovrana. Un numero senza precedenti di memorie sono state presentate alla CPI da “amicus curiae” [parti terze che intervengono in un procedimento con considerazioni giuridiche presso un tribunale, ndtr.], anche di eminenti figure di entrambe le parti della controversia. (Io ne ho presentata una con la collaborazione del ricercatore di Al Haq [Ong palestinese per i diritti umani, ndtr.] Pearce Clancy. ‘The Situation in Palestine,’ amicus curiae Submissions Pursuant to Rule 103, ICC-01/18, 16 March 2020). Israele non è uno Stato membro dello Statuto di Roma e si è rifiutato di partecipare direttamente al procedimento, ma le sue posizioni sono state ben articolate da varie memorie di amicus curiae. (Ad esempio di Dennis Ross, che ha guidato i negoziati di pace all’epoca di Clinton tra Israele e Palestina (‘Observations on Issues Raised by Prosecution for a ruling on the Court’s territorial jurisdiction in Palestine,’ ICC-01/18, 16 March 2020).

Dal punto di vista palestinese questa decisione fa ben sperare, in quanto un’esaustiva indagine preliminare condotta dalla procura nel corso degli ultimi sei anni ha già concluso che ci sono molte ragioni per credere che in Palestina siano stati commessi crimini da parte di Israele e di Hamas, soprattutto in riferimento a questi tre contesti: 1) la massiccia operazione militare delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] nel 2014 a Gaza, nota come “Margine protettivo”; 2) l’uso sproporzionato della forza da parte delle IDF in risposta alle proteste per il diritto al ritorno nel 2018; 3) l’attività di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Ora è stato stabilito dal punto di vista giuridico che la procura può procedere anche all’ identificazione di singoli responsabili che potrebbero essere imputati e chiamati a rispondere delle proprie azioni.

Se ciò avverrà dipende ora dall’approccio adottato da Khan quando in giugno assumerà il ruolo di procuratore, il che rimane un mistero nonostante alcune supposizioni.

Un’ulteriore vittoria dei palestinesi è la defezione di sionisti progressisti molto autorevoli e noti che, per così dire, non sono rinsaviti, ma ne hanno parlato apertamente e regolano l’accesso ai principali media. Peter Beinert è l’esempio più significativo nel contesto americano, ma il suo annunciato scetticismo sulla volontà da parte di Israele di trovare un accordo con i palestinesi su una qualunque base ragionevole è un’ulteriore vittoria nel campo della politica simbolica.

Delusioni geopolitiche

È stato ragionevole per la Palestina e i palestinesi sperare che la più moderata presidenza Biden avrebbe ribaltato le iniziative più dannose prese da Trump e che sembravano compromettere ulteriormente il potere negoziale palestinese, così come hanno violato significativamente i diritti fondamentali dei palestinesi e lo hanno negando l’autorità sia dell’ONU che delle leggi internazionali.

Il segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, ha inviato segnali in merito alle questioni più significative che sono sembrati confermare e ratificare piuttosto che invertire o modificare l’attività diplomatica di Trump. Blinken ha affermato quello che Biden ha fatto intendere riguardo allo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi si è unito a Trump nella sfida alla risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 2017 che affermava che questa iniziativa era “non valida” e priva di effetti giuridici. Blinken ha anche sostenuto l’annessione da parte di Israele delle Alture del Golan, che è un’ulteriore sfida alle leggi internazionali e all’ONU, che ha difeso un saldo principio, in precedenza sostenuto nella storica Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardo all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dopo la guerra del 1967. Questo testo confermò che un territorio estero non può essere acquisito con la forza ed ha previsto il ritiro israeliano sui confini del 1967 (modificati da negoziati relativi a trascurabili aggiustamenti di confine in accordo tra le parti).

E Blinken ha soprattutto appoggiato gli accordi di normalizzazione tra Israele e quattro Stati musulmani (EAU, Bahrain, Sudan, Marocco) raggiunti da Trump con metodi vessatori e il perseguimento di interessi personali. Ci sono state vittorie principalmente simboliche di Israele relative all’accettazione a livello regionale e a credenziali di legittimità, così come il contenimento regionale e prese di posizione di rifiuto contro l’Iran. Per molti aspetti esse ampliano precedenti sviluppi di fatto con un impatto minimo sulle dinamiche tra Israele e Palestina.

Valutare vittorie e sconfitte

Finora l’ira israeliana contro la CPI prevale sulle sconfitte geopolitiche palestinesi, essendo queste ultime ridotte probabilmente dalle chiare speranze persistenti di un rapporto parzialmente migliore tra l’ANP, gli Usa e i Paesi dell’UE. E ci sono state alcune giuste modifiche, compresa l’annunciata volontà di riaprire i centri di informazione dell’OLP negli USA, la ripresa dei contatti diplomatici tra Washington e l’Autorità Nazionale Palestinese, e qualche dichiarazione che suggerisce un ritorno alla diplomazia in contrasto con il tentativo di Trump di dettare i termini di una vittoria israeliana presentata come “l’accordo del secolo”.

Eppure le prime iniziative di Biden in questioni politiche meno controverse per rimediare il più possibile ai danni di Trump a livello internazionale, dal ritorno all’Accordo di Parigi sul Cambiamento Climatico, all’OMS e al Consiglio ONU per i Diritti Umani per esprimere l’intenzione di ribadire la cooperazione internazionale e un redivivo internazionalismo, contrastano con il fatto di lasciare immutati i peggiori aspetti del tentativo di Trump di infrangere le speranze dei palestinesi. Che ciò possa essere spiegato con la forza dell’appoggio bipartisan negli USA al rapporto incondizionato con Israele o da fattori strategici regionali è oggetto di congetture.

Forse la spiegazione più plausibile è il passato filoisraeliano dello stesso Biden, insieme al suo proclamato impegno per unificare l’America, lavorando il più possibile con i repubblicani. Il suo motto totemico sembra essere “insieme possiamo fare tutto”, che finora non ha ricevuto molto incoraggiamento dall’altro schieramento.

Ciò che potrebbe far sperare in parte i palestinesi è il livello in cui questi due sviluppi sono stati un terreno di scontro per quanti difendono Israele in ogni modo. Persino Jimmy Carter è stato umiliato come “antisemita” perché nel titolo il suo libro del 2007 suggerisce semplicemente che Israele deve fare la pace con i palestinesi o rischia di diventare uno Stato di apartheid. Si ricordi che l’osservazione piuttosto banale di John Kerry secondo cui Israele aveva ancora due anni per fare la pace con i palestinesi nel contesto di Oslo per evitarsi un futuro di apartheid ha incontrato una reazione talmente ostile che egli è stato portato a chiedere scusa per queste considerazioni, rinnegando più o meno ciò che sembrava così plausibile quando lo aveva affermato.

Nel 2017 uno studio accademico commissionato dall’ONU, che ho scritto insieme a Virginia Tilley e che confermava le accuse di apartheid, è stato denunciato al Consiglio di Sicurezza come un documento diffamatorio indegno di essere associato all’ONU. Le affermazioni critiche sono state accompagnate da velate minacce americane di ritirare finanziamenti all’ONU se il nostro rapporto non fosse stato sconfessato, ed esso è stato diligentemente tolto dal sito web dell’ONU per ordine del Segretario Generale [il socialista portoghese António Guterres, ndtr.]. Ormai nei contesti internazionali persino la maggior parte dei militanti sionisti preferisce il silenzio piuttosto che organizzare attacchi contro B’Tselem, una volta molto apprezzata dai sionisti progressisti come prova tangibile che Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente.”

Le reazioni alla decisione della CPI da parte di Israele raggiungono livelli apodittici di intensità. La furibonda risposta di Netanyahu è stata ripresa da tutto lo spettro della politica israeliana. Secondo la vergognosa calunnia contro la CPI: “Quando la CPI indaga su Israele per falsi crimini di guerra ciò è puro e semplice antisemitismo.” Ed ha aggiunto: “Lotteremo con tutte le nostre forze contro questa perversione della giustizia.” In quanto così smodati, questi commenti dimostrano che a Israele interessano molto le questioni di legittimità, e a ragione. Le leggi internazionali e l’etica possono essere sfidate come Israele ha fatto ripetutamente nel corso degli anni, ma è profondamente sbagliato supporre che alla dirigenza israeliana non interessino. Mi pare che i leader israeliani comprendano che il razzismo sudafricano è crollato in buona misura perché ha perso la guerra per la legittimità. Forse alcuni dirigenti israeliani hanno iniziato a capirlo. La decisione della CPI potrebbe risultare un punto di svolta proprio come il massacro di Sharpeville del 1965 [in realtà nel 1960. La polizia sudafricana uccise 70 persone e oltre 180 furono ferite, ndtr.]. Potrebbe essere così persino se, come è probabile, neppure un israeliano venisse portato davanti alla CPI per essere giudicato.

RICHARD FALK

Richard Falk è uno studioso di Diritto Internazionale e Relazioni Internazionali che ha insegnato per quarant’anni all’università di Princeton. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, ha insegnato Studi Globali e Internazionali nel campus dell’università della California e dal 2005 presiede il consiglio della Fondazione per la Pace nell’Epoca Nucleare. Ha iniziato questo blog in parte per festeggiare i suoi 80 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In ricordo di Rachel Corrie

16 marzo 2021 – Monitor de Oriente

L’attivista di 23 anni assassinata da una scavatrice israeliana in Palestina

L’attivista statunitense per la pace Rachel Corrie, di 23 anni, venne assassinata da una scavatrice israeliana che nel 2003 stava per demolire una casa palestinese nella Striscia di Gaza. Da allora Corrie è diventata un’icona della solidarietà mondiale con il popolo palestinese.

Nata il 10 aprile 1979 a Olympia, Washington, Corrie ha dedicato la propria vita a difendere i diritti dei palestinesi. Nel 2003 andò nella Striscia di Gaza come militante del Movimento di Solidarietà Internazionale [International Solidarity Movement, ISM, ndtr.].

Era nota per il suo amore per la pace e per la difesa dei diritti dei palestinesi, e diffondeva con frequenza reportage fotografici in cui evidenziava le violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei territori occupati.

Il 16 marzo 2003 nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, Corrie si mise davanti a una scavatrice israeliana nella speranza di impedire la demolizione della casa di una famiglia palestinese del luogo.

Corrie pensava che i suoi lineamenti da straniera e i capelli biondi avrebbero dissuaso la scavatrice, ma si sbagliò. Secondo le testimonianze morì schiacciata quando il guidatore della pala meccanica la travolse varie volte.

La popolazione di Gaza accolse la notizia del suo assassinio con dolore e orrore, definendola una “martire” e organizzando all’attivista statunitense un funerale molto partecipato.

Da allora il nome di Rachel Corrie è diventato sinonimo della causa palestinese. È stata scelta per denominare una nave di soccorso irlandese partita in direzione di Gaza nel 2010 e la sua storia è stata narrata in molti documentari che raccontano le sofferenze dei palestinesi.

In seguito la sua famiglia ha presentato una denuncia contro le autorità israeliane per la morte della figlia. Tuttavia un tribunale israeliano ha assolto il guidatore della scavatrice con un verdetto del 2013 che ha provocato polemiche, una decisione denunciata da gruppi per i diritti umani.

In una lettera inviata alla sua famiglia da Gaza poco prima dell’assassinio Corrie aveva descritto le sofferenze dei palestinesi di cui era testimone.

“Nessuna lettura, partecipazione a conferenze, visione di documentari e quello che ho sentito raccontare avrebbero potuto prepararmi alla realtà di questa situazione,” scrisse. “Non puoi immaginarlo se non lo vedi.”

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Vittoria del BDS: un giudice respinge il tentativo sionista di reprimere la libertà di espressione

Yvonne Ridley

8 marzo 2021 – Monitor de Oriente

Una soldatessa israeliana che negli Stati Uniti ha intentato un’azione penale per diffamazione da 6 milioni di dollari contro una palestinese cristiana ha visto come la sua iniziativa giudiziaria sia diventata controproducente. Nonostante il suo avvocato abbia sollecitato il giudice statunitense ad applicare la legge israeliana sulla diffamazione, che condanna le critiche contro lo Stato sionista a una pena fino a un anno di carcere, Rebecca Rumshiskaya ha perso la causa.

Il giudice californiano Craig Griffin ha rigettato ed escluso la sua richiesta e il tentativo di far applicare le leggi israeliane in una corte dassise della contea di Orange. Nella sua sentenza il giudice ha anche accolto la mozione contro la SLAPP della palestinese Suhair Nafal ed ha stabilito che Rumshiskaya deve pagare le spese giudiziarie della persona denunciata. Le leggi contro la SLAPP sono state ideate per dissuadere le persone dall’utilizzare i tribunali degli USA e la possibile minaccia di una denuncia per intimidire chi sta esercitando i propri diritti in base al Primo Emendamento [della costituzione USA, ndtr.] sulla libertà di espressione. Una “domanda strategica contro la partecipazione pubblica” [“azione temeraria”, nel codice civile italiano, ndtr.] (SLAPP), che il querelante non si aspetta di vincere, intende impedire la libertà di espressione.

Il risultato di questa denuncia è un duro colpo, in particolare per i tentativi che Israele sta facendo in tutto il mondo per mettere a tacere il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), soprattutto sulle reti sociali. È anche una grande vittoria per Nafal e i suoi sostenitori. Tuttavia lei ha sottolineato che si è trattato di una vittoria per tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio. “Abbiamo molto lavoro davanti a noi, ma siamo instancabili e non ci arrenderemo fino a quando non vedremo che si sta facendo giustizia.”

Nel 2012 la californiana Rumshiskaya, 26 anni, andò a vivere in Israele e si arruolò nelle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] come istruttrice del Corpo di Educazione Giovanile. Due anni dopo che nel 2018 l’attivista del BDS Nafal aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook una sua fotografia con armi e uniforme, [Rebecca] ha chiesto assistenza agli specialisti di “lawfare” [guerra giudiziaria, ndtr.] di “Shurat HaDin”[ong israeliana legata al governo che si occupa di intentare azioni legali contro chi critica Israele, ndtr.]. La palestinese aveva scaricato l’immagine della ragazza dal manifesto delle IDF dalla stessa pagina Facebook ufficiale dell’esercito.

Il post di Nafal faceva riferimento all’eroica paramedica palestinese di 21 anni Razan Al-Najjar, assassinata da un cecchino israeliano mentre stava prestando servizio come volontaria per aiutare i feriti durante le manifestazioni pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute nel 2018 nei pressi del confine fittizio della Striscia di Gaza. Per stabilire un confronto tra le due donne Nafal ha collocato la foto promozionale di Rumshiskaya a fianco di quella della giovane paramedica. Non c’era assolutamente nessuna intenzione di suggerire che proprio questa soldatessa israeliana fosse stata coinvolta nell’assassinio di Al-Najjar. Lei aveva lasciato le IDF tre anni prima. Tuttavia alcuni sostenitori di Israele hanno cercato di stravolgere la storia e di affermare che il post di Nafal suggeriva che Rumshiskaya fosse responsabile della morte dell’operatrice sanitaria.

Nafal si è messa in contatto con l’ Arab American Anti-Discrimination Committee [Comitato Arabo Americano contro la Discriminazione] (ADC) per chiedere aiuto nella causa ed è stata rappresentata dall’avvocato Haytham Faraj, membro del consiglio nazionale dell’ADC. Secondo Faraj il lavoro principale dell’ufficio che rappresentava la soldatessa israeliana nella denuncia é incentrato nel far tacere e minacciare gli attivisti del BDS, quelli che criticano le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte di Israele.

Nel testo della denuncia presentata l’anno scorso da Shurat HaDin al tribunale californiano gli avvocati di Rumshiskaya hanno detto che l’“accusa”era chiaramente falsa, dato che durante il suo servizio militare lei non aveva mai combattuto nella Striscia di Gaza. Hanno aggiunto che la loro cliente lavorava per i diritti umani e partecipava a delegazioni congiunte di israeliani e arabi in Giordania e nella Cisgiordania occupata.

Con una dichiarazione drammatica che ha sfiorato l’isteria, l’avvocatessa israeliana Nitsana Darshan-Leitner ha affermato nella sua comunicazione: “Pare che stiamo tornando alla (infame falsificazione) dei “Protocolli dei Saggi di Sion” e ai sanguinari libelli antisemiti del passato. Rebecca e la sua famiglia hanno ricevuto minacce di morte solo perché lei ha deciso di unirsi alle IDF.”

Darshan-Leitner, fondatrice del centro giuridico israeliano Shurat HaDin, ha aggiunto: “La guerra contro l’antisemitismo si è estesa anche alla sfera giudiziaria e la richiesta di Rebecca è la punta di lancia della nostra lotta contro il movimento globale di boicottaggio contro Israele. Questo è un messaggio per tutti gli attivisti del BDS, che devono sapere che anche loro possono essere considerati responsabili della loro attività antisionista e potrebbero persino pagarne un prezzo alto.”

In un certo senso l’avvocatessa di Shurat HaDin ha avuto ragione. Questa causa giudiziaria ha sicuramente mandato un forte messaggio ai sostenitori del BDS, e cioè che devono continuare con il loro impegno fondamentale e totalmente pacifico per far sì che Israele paghi per le sue violazioni dei diritti umani.

L’avvocato statunitense Faraj ha affermato che la sentenza del giudice Griffin ha salvaguardato i diritti della comunità arabo-americana e palestinese alla libertà di espressione, compresa quella politica, stabiliti dal Primo Emendamento. Sottolineando che “gli Stati Uniti non sono Israele” ha aggiunto: “L’ex-soldatessa israeliana che ha denunciato la signora Nafal pretendeva che il tribunale applicasse la legge israeliana, che condanna chi critica Israele fino a un massimo di un anno di prigione. Il giudice ha rigettato la richiesta e il tentativo di applicare la legge israeliana.”

L’avvocato ha affermato che, concedendo a Nafal l’eccezione anti-SLAPP, il giudice ha inviato un chiaro messaggio secondo il quale gli Stati Uniti tollerano e attribuiscono importanza alla diversità di opinioni e punti di vista politici, e chi cerchi indebitamente di far tacere le critiche politiche dovrà pagarne il prezzo.

Non resta che sperare che il caso della California abbia un impatto qui in Gran Bretagna, dove i sionisti sono protagonisti di una caccia alle streghe per cercare di confondere le critiche a Israele con l’antisemitismo. La lobby filo-israeliana utilizza la screditata “definizione” di antisemitismo stilata dall’International Holocaust Remembrance Aliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA) per cercare di bloccare qualunque discussione sullo Stato di Israele e sul suo disprezzo per le leggi e convenzioni internazionali. Alcuni degli esempi di “antisemitismo” citati nel documento dell’IHRA, che persino la persona che lo ha stilato ha affermato essere una “bozza di lavoro”, si riferiscono alle critiche contro Israele. Gli accademici hanno criticato la definizione, che è stata descritta come “non rispondente allo scopo”.

Il BDS deve affrontare molte sfide da parte degli alleati di Israele che gli permettono di agire impunito. Ironicamente alcuni di questi alleati sono veri antisemiti ai quali si lascia libertà di praticare il proprio peggior razzismo al mondo ogni volta che la lobby filo-israeliana fa dell’antisemitismo un’arma contro il popolo palestinese e i suoi sostenitori nella lotta per la pace e la giustizia. C’è gente che non impara mai.

Suhair Nafal ha detto: “Questa vittoria non è stata solo mia, è stata una vittoria di tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio,” ha aggiunto. “Abbiamo davanti a noi molto lavoro da fare, ma siamo instancabili e non cederemo finché non sarà fatta giustizia.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

Yvonne Ridley

La giornalista e scrittrice britannica Yvonne Ridley propone analisi politiche su questioni relative al Medio Oriente, all’Asia e alla guerra mondiale contro il terrorismo. Il suo lavoro è stato pubblicato in molti quotidiani e riviste in tutto il mondo, da oriente a occidente, da testate come il Washington Post fino al Tehran Times e il Tripoli Post, riscuotendo riconoscimenti e premi negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il lavoro di dieci anni per grandi testate in Fleet Street [via di Londra in cui si trovano le sedi dei principali quotidiani inglesi, ndtr.] ha esteso il suo ambito di azione ai media elettronici e radiofonici, ed ha prodotto una serie di documentari su temi palestinesi e internazionali, da Guantanamo alla Libia e alle Primavere Arabe.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Ezra Nawi, 1952-2021

David Shulman

14 gennaio 2021Touching Photographs

Ezra Nawi. Ebreo di Baghdadi, nato in Israele, parlava correttamente l’arabo. Un uomo come tanti, ma diverso da tutti gli altri

Una di quelle giornate. I coloni hanno bloccato il sentiero che gli alunni prendono per andare a scuola; arrivano soldati e poliziotti, indifferenti. Ci apriamo la strada. La situazione di stallo va avanti per ore; non siamo disposti a desistere. Alla fine qualcuno dice: “È una situazione ormai senza speranza e sta peggiorando.” Ezra dice: “No. È come l’acqua che gocciola su una roccia. Dire la verità è così. Ci vuole tempo, ma alla fine la roccia cede.

Febbraio 2007. Un’altra giornata di demolizioni di case a Umm al-Khair [villaggio palestinese situato nel Governatorato di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndtr.] Ezra si distende a terra davanti ai bulldozer. Lo arrestano e lo ammanettano, e lui dice ai soldati: “Da ciò proverrà solo odio. Una volta anch’io ero un soldato, ma non ho mai distrutto la casa di nessuno. Non lasciate nulla alle vostre spalle se non odio.” Quanto ferocemente detestava l’odio.

Ezra, sempre imprevedibile. Di solito gli veniva in mente un’idea folle alla fine di una lunga giornata sulle colline, proprio mentre stavamo per tornare a casa. Poi, prima che ce ne rendessimo conto, ce ne andavamo con lui attraverso i vicoli della città di Hebron con una jeep di soldati alle nostre spalle. Guidava come James Bond, e devo ammettere che in un certo senso era divertente, a patto di scordare la parte che non lo era. La maggior parte di noi ha ricordi come questo. Una volta è successo sulle colline; una jeep dell’esercito ci si è avvicinata, il che non significa niente di buono, ed Ezra è partito con la sua macchina traballante sopra le rocce e le spine su sentieri appena visibili destinati a capre particolarmente abili. Dopo una ventina di minuti di inseguimento, siamo riusciti a infilarci nella boscaglia, realizzando così ciò che più mi auguravo.

Nel corso dei diciotto anni in cui l’ho conosciuto di solito era in stato di arresto, o sul punto di essere arrestato, o appena rilasciato dal carcere. Inconsapevolmente incarnava il principio gandhiano, o meglio la sua negazione: il modo migliore per sostenere un sistema ingiusto, diceva Gandhi, è obbedire alle sue leggi.

2

Giornate di lavoro, ripulire una grotta a Jinbah, la casa seppellita di una famiglia. Negli anni ’90, e di nuovo nel 2000, l‘esercito ha ricoperto la maggior parte delle grotte in una serie di azioni devastanti. Stiamo procedendo lentamente verso il basso, secchio dopo secchio. Ezra ci osserva divertito. Perde la pazienza. “Lascia che ti mostri come si usa una pala”, dice. Lui sa. Pochi minuti dopo viene alla luce il primo gradino di pietra, l’ingresso della grotta. La rivelazione di un mondo perduto. Quante case sepolte quest’uomo ha liberato dalla terra?

O liberare la strada per Bi’r al-‘Id, pietra dopo pietra. Ci vogliono un’ora o due per rendere percorribile un metro quadrato, forse un po’ di più. Un lavoro pesante, non meno inutile di quello che Sisifo è costretto a compiere ogni giorno. I soldati verranno sicuramente a disfarlo e dovremo ricominciare tutto da capo. È una forma molto particolare di felicità.

Ed Ezra si presenta immancabilmente con falafel freschi nella pita [crocchette a base di ceci col pane arabo, ndtr.] ancora caldi per tutti, [provenienti] dalla sua bancarella preferita nella città di Yatta, nell’Area A [sotto controllo e amministrazione palestinese, ndtr.]. È anche un bravo cuoco. Specialità di Baghdadi, la sera quando ci incontriamo nel suo appartamento per fare i nostri progetti.

Margaret Olin [studiosa e docente di studi delle religioni alla Yale University, New Haven, ndtr.]: “Per favore, aspetta un minuto nel furgone mentre prendo uno spuntino per noi.” Un’ora più tardi, dopo che Ezra ha chiacchierato con tutti quanti attorno alla bancarella, riappare con i falafel. E no, non ero arrabbiata. Conoscere Esdra è stato un onore e una benedizione. E un divertimento. (Margaret Olin) Yatta, 2015.

Ezra viene a sapere che i coloni hanno rapito un pastore e lo trattengono in una delle colonie vicine alla Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndtr.], molto a sud. Egli accompagna me e un altro David sino ad un determinato punto nel mezzo del deserto e dice: “Andate da quella parte. Troverete un altro palestinese su un asino. Seguitelo. Trovate il pastore. ” Poi se ne va, con molte altre cose urgenti da fare.

È mezzogiorno, fa caldo come al solito d’estate in un deserto. Ci dirigiamo verso le colline, saliamo, scendiamo, saliamo. E poi, proprio come previsto, vediamo un uomo su un asino bianco. “Vi stavo aspettando”, dice. “Seguitemi.” Non so se sapete quanto velocemente può correre un asino. In pochi minuti siamo di nuovo soli con il sole, la sabbia e le pietre. Un paio d’ore dopo riemergiamo, senza il pastore rapito, sulla strada principale nord-sud. Nessun segno nemmeno di Ezra.

3

Ezra, Nissim, Maria, Eileen, io. Andiamo a Beit ‘Ummar [città palestinese situata undici chilometri a nord-ovest di Hebron, ndtr.] per portare una copia del mio libro, Freedom and Despair [Libertà e Disperazione], alla famiglia di Isa Sleby, a cui il libro è dedicato. Isa era un amico di Ezra come quasi tutti gli altri a Beit ‘Ummar, ma ancora di più, perché Isa era senza paura, un uomo di pace e di azione. Isa è morto nel 2012.

Ci troviamo con suo figlio ‘Ala, sua madre e un nuovo nipote che Isa non ha mai conosciuto. Non ci sono foto di Ezra quel giorno, non pensavamo che saremmo stati lì, lui aveva a che fare con i soliti casi giudiziari e le condanne con la condizionale che lo minacciavano. Ma ecco che lo vedo con il bambino in braccio. Come un padre o un nonno orgoglioso, come sarebbe stato Isa. La tenerezza che era sempre in lui veniva fuori quando stava vicino ad un bambino. E se un bambino aveva delle ferite o ematomi o dei tagli leggeri, mi chiamava per pulire e fasciare la ferita, e il bambino incrociava le braccia e rifiutava di lasciarsi toccare. Poi Ezra lo convinceva dolcemente, molto lentamente ad aprire le braccia.

Stiamo guidando veloci lungo l’autostrada principale, la strada 60, deserto disabitato su entrambi i lati. È mattina presto. In lontananza, una palla rotola sulla strada. Ezra ferma la macchina; il bambino recupera la palla. Tutto qua. Ma lo so: quella tenerezza era al centro della [sua] durezza, come quando i coloni attaccavano e lui ci gridava: “Non abbiate paura e non scappate”.

Solo con gli ufficiali dell’esercito, o talvolta con la polizia, era diverso. Li disprezzava davvero ed era lieto di farglielo sapere. Per Ezra, ogni ufficiale era inconsapevolmente o (più probabilmente) consapevolmente complice dei crimini.

Uno di loro lo ha citato in giudizio perché Ezra lo ha definito un criminale di guerra. Un altro gli ha fatto causa perché quando l’ufficiale gli ha detto che stava per andare in pensione, Ezra ha citato il proverbio arabo: “Un cane va e un altro cane arriva”. Questo è stato chiamato, tra di noi, il caso del cane. Ce ne sono molti altri. A volte cercavo di convincerlo a mordersi la lingua e smetterla di maledirli, perché ciò quasi sempre comportava altri guai. Di solito fallivo.

4

Umm al-Khair, una mattina di primavera, siamo in giro con i pastori, sulla loro terra. Ma i coloni di Carmiel non li vogliono lì, quindi chiamano l’esercito. L’ufficiale ci dice che ci troviamo su “terre demaniali” e dobbiamo andarcene. Gli dico: “Davvero? E se sto percorrendo la via Emeq Refaim a Gerusalemme, che è anche presumibilmente territorio di Stato, devo andarmene se un colono dice che non mi vuole lì? “L’ufficiale resta freddo. Ezra mi prende da parte e dice: “Parla a quei soldati, spiega loro cosa stanno facendo. Conosci le parole, sei un professore, dai loro una lezione.” Capisco che sta temporeggiando e comunque va avanti e si ferma nelle vicinanze, sulle colline. È un altro modo di usare la parola magica “No”, una parola che potrebbe aver inventato Ezra. La parola che usi per sfidare soldati, polizia, sgherri della sicurezza e personaggi simili.

Così inizio con un’introduzione di cinque minuti sulla legge ottomana riguardo alla proprietà terriera, seguita da un’arringa, non eccessivamente dura, sul crimine che i soldati stanno per commettere. Li guardo dritto in faccia, cercando i loro occhi. Sembrano annoiati, tutti tranne uno. Forse qualcosa lo ha toccato. Forse ha improvvisamente visto i palestinesi come esseri umani. O forse si è incuriosito per questi marziani piombati una mattina di Shabbat [sabato in ebraico, nella religione ebraica la festa del riposo, ndtr.] per stare insieme ai pastori. Nel frattempo, grazie a Ezra e al mio ostruzionismo, le capre hanno avuto qualche minuto in più per pascolare.

Quanto segue è di Jyotirmaya Sharma, docente di pensiero politico all’Università di Hyderabad [nell’India meridionale, ndtr.] ed esperto del Mahatma Gandhi. Una giornata di lavoro a Samu’a [città palestinese 12 chilometri a sud di Hebron, ndtr.] che si è conclusa con una violenta carica delle forze speciali Yassam [unità militari israeliane adibite alla sicurezza, specie in caso di manifestazioni o rivolte, ndtr.]: tutti noi stavamo cercando di superare il posto di blocco che le forze di sicurezza israeliane avevano piazzato su quel tratto polveroso a sud di Hebron. Raccoglievo fango e pietre con le mani. Dovevano essere passati solo 10 minuti quando Ezra è venuto da me e mi ha detto: “Hai fatto abbastanza. Hai mostrato la tua solidarietà a noi e alla nostra causa. Ora devi solo stare a guardare. I soldati sono già qui. Potrebbero esserci degli arresti. Sei nostro ospite. Non vogliamo che tu trascorra la notte in una prigione di Gerusalemme o, peggio ancora, in una prigione di Hebron sud.

Bi’r al-‘Id, dopo una giornata passata a pulire i pozzi che l’esercito e i coloni hanno chiuso con pietre e terra. Ezra emerge dalle profondità di un pozzo dove ha lavorato pieno di fango addosso. Pochi giorni fa è stato rilasciato dopo un mese di prigione per aver tentato di impedire ai soldati di demolire quella casa a Umm al-Khair.

Gli chiedo come è andata in prigione. “Akhla … fantastico”, dice; “fortemente raccomandabile.” Questa è la vena gandhiana in lui. Sembra sereno.

“Vedo che ti senti ottimista”, dico.

“Sì. Guardati intorno. Due anni fa non conoscevamo nemmeno il nome di questo posto. Queste persone erano state cacciate dalla loro terra, le case e le terrazze erano state distrutte, i pozzi chiusi. Ora li abbiamo riportati indietro e siamo stati al loro fianco, e li abbiamo aiutati a resistere ai coloni e ai soldati e a non avere paura. Sono qui per restare. Sono a casa. Puoi addestrare le persone in modo che diventino capaci di resistere. Anche poche persone così fanno un’enorme differenza. Alla fine vinceremo. Quindi, ovviamente, sono ottimista. Devi essere anche ottimista, altrimenti perché dovresti stare qui? ” [da Freedom and Despair (2019) di David Shulman]

5

Gennaio 2016. Spie della destra vengono infiltrate a Ta’ayush dagli estremisti di Ad Kan [gruppo sionista israeliano noto per l’attività di infiltrazione specie di organizzazioni israeliane di sinistra, ndtr.] Un’operazione sotto copertura organizza una trappola per Ezra, e lui ci cade dentro. Viene arrestato, interrogato per diverse settimane, rilasciato. Sembra che la polizia non riesca a trovare nulla di sufficiente per un’accusa. Alla fine escogitano una ridicola accusa di essere entrato in contatto con le forze di sicurezza palestinesi – ironia della sorte, un crimine sancito dagli accordi di pace di Oslo, l’anatema della destra israeliana. I nostri avvocati dicono che non c’è alcuna possibilità che questa accusa possa restare in piedi in tribunale.

Ma poco dopo il suo rilascio, e probabilmente a causa dei gravi maltrattamenti [subiti], Ezra viene colpito da un ictus. Si riprende, riacquista gran parte della sua motilità, ma chi di noi lo conosce può accorgersi che è cambiato.

Ciònonostante viene con noi a Hebron sud e percorre, a passo più lento, il terreno accidentato della Valle del Giordano; ci sono molti momenti in cui riappare la vecchia scintilla.

11 maggio 2019, Wadi Swaid: Stiamo protestando davanti a un nuovo “avamposto illegale”, uno delle decine. I coloni hanno fatto il loro pranzo di shabbat. I soldati sono arrivati al momento giusto. Vogliono che ce ne andiamo ma non hanno un ordine firmato. Il pomeriggio si trascina. Nel bel mezzo della situazione di stallo, Ezra si presenta con i suoi bastoni da passeggio. Apre una sedia e si siede a pochi metri dalla tenda dei coloni. Si rivolge a loro come sempre con durezza:

“Shabbat shalom [Che sia un sabato di pace, in ebraico, ndtr.], siamo venuti per unirvi a voi per il terzo pasto dello Shabbat, lo seuda shlishit. Ma non noto alcun segno di ospitalità. Quando il nostro padre Abramo aveva ospiti, uccideva una pecora e la cucinava per loro. Questo è ciò che dice la Bibbia. Non sto chiedendo una pecora, ma almeno qualcosina sarebbe gentile.” Sospira. “Le generazioni stanno peggiorando.”

Nell’estate del 2020 Ezra ha un altro ictus e i medici scoprono un tumore al cervello. In autunno segue una serie ulteriore di lievi ictus. Le sue giornate sul campo con i suoi amici sono finite. Alla fine i suoi nemici l’hanno avuta vinta su quest’uomo che ha abbattuto il meschino presupposto su cui poggia l’Occupazione.

Ezra Nawi è morto il 9 gennaio [2021], all’età di 69 anni. Era preparato. Mi ha chiamato due volte per salutarmi. Come al solito ha anche scherzato un po’: “Probabilmente ci rivedremo. Tu sei indiano no, credi nella reincarnazione.” Ho cercato di dirgli che lo amavo e che io, e tutti gli altri, gli eravamo infinitamente grati per quello che ci aveva dato e insegnato. L’ultima volta che l’ho visto, qualche giorno fa, è riuscito ad alzarsi e a camminare, lentamente, da solo. Ci siamo seduti alla luce del sole invernale sulla veranda con le foglie verdi e lui ha detto: “Ho fatto qualcosa di buono nella mia vita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ha cercato di prendersi il generatore. Gli hanno sparato al collo

Yuval Abraham 

3 gennaio 2021 – +972

Harun Abu Aram, la cui casa è stata demolita lo scorso mese, è stato colpito da distanza ravvicinata da un soldato mentre stava cercando di riprendere il suo generatore. Tutto perché Israele possa impossessarsi della sua terra.

Venerdì pomeriggio un soldato israeliano ha sparato al collo da distanza ravvicinata a un ventiseienne palestinese di nome Harun Abu Aram, che si trova ora in condizioni critiche in un ospedale di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Secondo il ministero della Sanità palestinese, se dovesse riprendersi, Abu Aram probabilmente rimarrà paralizzato.

Lo sparo è avvenuto nei pressi del villaggio palestinese di al-Rakiz, sulle colline meridionali di Hebron. Appena un mese fa l’esercito è arrivato con scavatori per demolire quattro case della comunità. Una era quella di Abu Aram.

Contrariamente a quanto sostiene l’esercito israeliano, gli abitanti di al-Rakiz non sono delinquenti. Hanno costruito le loro case sulla loro terra nel rispetto della legge. L’esercito le ha distrutte perché l’Amministrazione Civile, l’ente del governo militare israeliano che gestisce la vita quotidiana di 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania, si è rifiutato di concedere permessi edilizi alla comunità. Di fatto l’Amministrazione Civile ha respinto il 98,7% delle richieste per permessi edilizi [presentate] da palestinesi che vivono nei 164 villaggi dell’Area C, una zona che rappresenta i due terzi della Cisgiordania e si trova sotto il totale controllo militare e amministrativo di Israele.

Lo scopo di questo accanimento burocratico è rendere miserabile la vita dei palestinesi al punto che se ne vadano. Perché? Perché, se se ne vanno, sarà più facile per Israele in futuro annettere la terra senza dover concedere a nessuno la cittadinanza israeliana. Un semplice calcolo demografico.

L’Amministrazione Civile rifiuta il concetto che questa terra appartenga a proprietari privati palestinesi e quindi impedisce loro di ottenere licenze edilizie e piani regolatori. L’amministrazione sa che la distruzione di case e infrastrutture renderà miserabile la vita della popolazione locale, e, con il tempo, la obbligherà ad abbandonare la propria terra.

Abu Aram è arrivato venerdì mattina per aiutare a ricostruire una delle case che erano state demolite. Dopo qualche ora di lavoro sotto il sole, è arrivato un veicolo dell’Amministrazione civile con a bordo cinque soldati israeliani, che hanno detto ad Abu Aram e ai suoi amici che non potevano costruire lì. Poi si sono diretti al suo generatore, che aveva utilizzato per la costruzione, e gliel’hanno confiscato. Queste confische sono un ulteriore sistema per obbligare i palestinesi dell’Area C ad andarsene dalla loro terra, e l’esercito regolarmente si porta via cisterne per l’acqua, utensili da muratore, trattori e baracche di lamiera.

Quando un soldato ha iniziato a trascinare via il generatore, Abu Aram ha fatto resistenza. Ha iniziato a gridare, mentre i suoi amici più vicini cercavano di calmarlo. Ma lui si è messo a gridare. Un mese fa la sua casa era stata demolita, un mese fa la sua sorellina e sua madre erano state sottoposte a un trauma inconcepibile. Io ero lì. Ora erano venuti a prendersi il suo generatore. E quindi si è messo a gridare e a fare resistenza.

Abu Aram ha cercato di riprendersi il generatore con la forza, maledicendo i soldati. Per un momento ci è persino riuscito. Ma poi è stata la volta dei soldati di reagire.

Hanno iniziato a spintonarlo, e poi improvvisamente è risuonato uno sparo. I soldati non hanno lanciato una granata assordante o un lacrimogeno. No, hanno sparato al collo con proiettili veri da vicino su un uomo disarmato, la cui casa era stata demolita un mese prima, le cui sorella e madre erano state obbligate a dormire all’addiaccio. Per un generatore.

Il video dello sparo è rapidamente diventato virale sulle reti sociali. Nel video si può sentire lo sparo. Poi si vede Abu Aram sanguinante. Poi si sente gridare sua madre.

In seguito al ferimento, l’unità portavoce delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha emanato il seguente comunicato: “Durante una normale missione da parte delle forze delle IDF e della polizia di frontiera per la confisca e l’evacuazione di una struttura illegale nel villaggio di a-Tuwani si sono avuti disordini da parte di circa 150 palestinesi che hanno incluso un massiccio lancio di pietre. I soldati delle IDF hanno risposto usando misure antisommossa ed hanno sparato in aria. Durante i disordini è avvenuto un incidente cruento in cui parecchi palestinesi hanno usato violenza contro le forze (dell’esercito).”

Questo comunicato è una palese menzogna. Lo si può vedere nel video. Lì c’è solo una famiglia, circa 10 persone in totale. I testimoni affermano che non c’erano pietre e neppure 150 persone nelle vicinanze.

Nei prossimi giorni l’esercito israeliano potrebbe annunciare che “hanno avviato un’indagine sull’incidente.” Lo fa quasi sempre, ma praticamente mai ne viene fuori qualcosa. In casi molto rari potrebbero persino annunciare che un soldato ha aperto il fuoco “in violazione del regolamento”. Forse, dato che il ferimento di Abu Amar è stato ripreso in un video, utilizzeranno di nuovo questa scusa.

Ma non è questo il punto. La politica complessiva è quella che genera il comportamento di quel soldato ad al-Rakiz, una politica motivata dalla demografia che impedisce a migliaia di palestinesi nell’Area C di costruire sulla propria terra, che impedisce ai palestinesi di vivere, che cerca di farli sparire. Non è facile scriverlo, ma è la verità. In genere quando arrivano i soldati si finisce con il furto di beni o con la distruzione di una casa. Questa volta è finita con un proiettile nel collo.

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Forza letale intenzionale”: gli esperti delle Nazioni Unite accusano Israele di aver ucciso un ragazzo palestinese.

Redazione MEE

17 dicembre 2020 – Middle East Eye

L’uccisione del quindicenne Ali Abu Alia è una “grave violazione del diritto internazionale”, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato l’esercito israeliano per aver ucciso all’inizio di questo mese un ragazzo palestinese durante una protesta nella Cisgiordania occupata, definendo l’uccisione del quindicenne Ali Abu Aliya una “grave violazione del diritto internazionale”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli esperti hanno invitato il governo israeliano a condurre “un’indagine civile indipendente, imparziale, immediata e trasparente” sulla morte del ragazzo.

“L’uccisione di Ali Ayman Abu Aliyaa da parte delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] in circostanze in cui non vi era nessuna minaccia di morte o di lesioni gravi per le forze di sicurezza israeliane – è una grave violazione del diritto internazionale”, hanno dichiarato. “La forza letale intenzionale è giustificata solo quando il personale di sicurezza deve affrontare una minaccia immediata che può essere letale o provocare un grave danno fisico”.

I soldati israeliani hanno colpito all’addome il palestinese Abu Aliyaa il 4 dicembre, nel corso di una protesta vicino al suo villaggio di al-Mughayir, in Cisgiordania. In seguito è deceduto in seguito alle ferite.

L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto un’indagine sull’incidente, ma ha negato che contro i manifestanti, che ha definito “rivoltosi”, siano state usate munizioni vere.

La dichiarazione delle Nazioni Unite di giovedì ha evidenziato che la manifestazione si svolgeva a al-Mughayir contro [la presenza di] un “avamposto di un insediamento coloniale illegale”. Pur riconoscendo che i ragazzi stavano lanciando dei sassi, ha sottolineato che non rappresentavano un pericolo immediato per le forze israeliane e ha messo in discussione la dichiarazione secondo cui non sarebbero state utilizzate munizioni vere.

“Abu Aliya è stato colpito all’addome con un proiettile di un fucile di precisione Ruger 0,22, sparato da un soldato israeliano da una distanza stimata di 100-150 metri. È deceduto più tardi in ospedale quello stesso giorno”, si legge nel comunicato.

“Gli esperti sui diritti umani non sono a conoscenza di alcuna affermazione secondo cui le forze di sicurezza israeliane si trovassero in alcun modo in pericolo di morte o di lesioni gravi”.

Gli esperti delle Nazioni Unite – Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, e Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi – hanno anche evidenziato la questione più ampia dei maltrattamenti a danno dei bambini palestinesi.

Atrocità contro i minori

Abu Aliyaa è il sesto minorenne palestinese ucciso nel 2020 in Cisgiordania dalle forze israeliane mentre, secondo l’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite, nel corso dell’ultimo anno sono stati feriti più di 1.000 minori palestinesi.

Le atrocità israeliane contro i minori sollevano “profonde preoccupazioni” in merito agli obblighi di Israele in materia di diritti umani, nella sua veste di potenza occupante nei territori palestinesi, hanno sostenuto Callamard e Lynk. Essi hanno anche sottolineato che le indagini israeliane sull’uso letale della forza contro i palestinesi “raramente si traducono in un’adeguata ricerca di colpevoli”.

“Questo basso livello di responsabilizzazione legale per l’uccisione di così tanti minori da parte delle forze di sicurezza israeliane è indegno di un Paese che dichiara di vivere secondo lo stato di diritto”, hanno affermato gli esperti.

L’uccisione di Abu Aliyaa ha causato indignazione tra i difensori dei diritti dei palestinesi, secondo i quali l’incidente rappresenta lo specchio degli abusi che i palestinesi subiscono per mano delle forze israeliane.

Anche l’Unicef, l’Unione Europea e alcuni parlamentari statunitensi hanno espresso preoccupazione per l’omicidio.

All’inizio di questo mese, la deputata statunitense Betty McCollum ha denunciato l’uccisione del ragazzo palestinese, definendola un’espressione del fenomeno dell’occupazione della Cisgiordania.

“L’uccisione di ieri in Cisgiordania di un minorenne palestinese di 15 anni da parte di un soldato israeliano che ha sparato al ragazzo all’addome è un orrendo omicidio sponsorizzato dallo Stato”, ha dichiarato McCollum a MEE in un comunicato del giorno successivo all’uccisione di Abu Aliya.

“Questo reato insensato deve essere condannato in quanto risultato diretto dell’occupazione militare permanente della Palestina da parte di Israele”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’esercito israeliano giustifica l’uccisione del ragazzo palestinese. I testimoni respingono la sua versione

Oren Ziv

14 dicembre 2020 – +972 magazine

L’esercito israeliano ha giustificato l’uccisione Ali Abu Aliya, 15 anni, sostenendo che la dimostrazione costituisse un pericolo per gli automobilisti nella zona. Ma i testimoni dicono che, quando è stato colpito, il ragazzo si trovava molto lontano dalla strada in questione.

Venerdì 4 dicembre i soldati israeliani hanno sparato e ucciso il 15enne Ali Abu Aliya nel villaggio di al-Mughayyer, vicino a Ramallah, in Cisgiordania. Abu Aliya, che avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno quella sera, è stato colpito da un proiettile vero mentre osservava una manifestazione in corso nel villaggio.

Dopo l’omicidio il portavoce dell’unità delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha sottolineato che i palestinesi “hanno cercato di lanciare grosse pietre e bruciare pneumatici … mettendo a rischio l’incolumità delle auto in transito sulla strada di Allon (la vicina strada principale che attraversa la Cisgiordania da nord a sud)”. Comunque i militari hanno anche affermato di aver aperto un’indagine sull’omicidio.

Tuttavia tre giovani palestinesi che venerdì si trovavano vicino ad Abu Aliya e hanno fatto delle dichiarazioni a +972 testimoniano che Abu Aliya, quando i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro di lui, non si trovava nei pressi della strada di Allon. Inoltre dal punto in cui è stato colpito Abu Aliya sarebbe stato impossibile lanciare pietre verso la strada di Allon o mettere in pericolo in qualunque altro modo chi la percorreva.

Due video pubblicati sui media palestinesi e israeliani in seguito all’incidente mostrano i palestinesi che lanciano grosse pietre, come dichiarato dall’esercito. Ma l’esercito non ha potuto confermare a +972 dove sia stato esattamente filmato il video pubblicato dalla Israeli Public Broadcasting Corporation [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e secondo l’organizzazione contraria all’occupazione B’Tselem, che ha condotto un’indagine indipendente non ancora pubblicata sulla sparatoria, il video dei palestinesi che lanciano i sassi non sarebbe stato affatto filmato ad al-Mughayyer. I manifestanti che hanno esaminato le riprese hanno dichiarato che sarebbe stato girato a Malik. La distanza tra il villaggio di Malik e al-Mughayyer, dove Abu Aliya è stato ucciso, è di oltre cinque chilometri.

Un mese di proteste

Nel corso dell’ultimo mese, manifestanti palestinesi e israeliani hanno protestato a Samiya, tra Malik e al-Mughayyer, contro un avamposto coloniale non autorizzato insediatosi a est della strada di Allon.

Il 20 novembre, durante una manifestazione, l’esercito israeliano ha bloccato l’uscita da Malik in direzione della strada di Allon, al fine di impedire ai manifestanti di avvicinarsi lungo la strada all’avamposto, distante circa 4 km dalla manifestazione in corso. A causa della decisione dell’esercito di bloccare l’uscita la manifestazione si è trasferita nell’area di una stazione di pompaggio nel villaggio di Ein Samia, a circa 100 metri dalla strada.

Nel frattempo l’esercito ha anche bloccato le vie di accesso tra al-Mughayyer e la strada di Allon per impedire agli abitanti del villaggio di unirsi alla protesta e ai manifestanti di altri villaggi di raggiungere l’avamposto.

Secondo le testimonianze di tre adolescenti che venerdì scorso hanno assistito agli eventi, intorno alle 9 del mattino un contingente militare è entrato a piedi ad al-Mughayyer  mentre i soldati bloccavano l’uscita dal villaggio. Gli scontri sono iniziati su due colline alla periferia del villaggio in seguito all’arrivo dell’esercito. I soldati hanno lanciato granate assordanti e hanno sparato lacrimogeni e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro decine di ragazzi che lanciavano pietre.

“Otto soldati si trovavano sulla collina, poi si sono uniti a loro altri tre o quattro e sono avanzati verso il villaggio”, ha riferito Bassem, il fratello di Abu Aliya, una settimana dopo la morte di Ali. “Non erano agenti della polizia di frontiera. Anche la polizia di frontiera era stata inviata alla manifestazione, e tre di loro avevano fucili da cecchino” (molto probabilmente fucili che sparano proiettili calibro 22, lo stesso che ha ucciso Abu Aliya).

Più tardi quella mattina, tra le 10 e le 11, i soldati hanno raggiunto un sentiero sterrato che porta ad un quartiere della periferia del villaggio, a circa 200 metri di distanza. Dal sentiero non si vede la strada di Allon, e da quel punto non è certo possibile lanciare sassi sulla strada. “Un soldato era appostato a terra con il fucile da cecchino”, continua Bassem, “e in piedi accanto a lui c’era un ufficiale che gli dava istruzioni su dove sparare”.

Bassem e altri due testimoni presenti sulla scena raccontano che i soldati si sono radunati sul sentiero, mentre un piccolo gruppo di ragazzi era nascosto su entrambi i lati del sentiero dietro gli ulivi e un cumulo di terra. “Alcuni di loro scattavano foto e avevano un drone che scattava delle foto dall’alto”, ha detto Ahmad, 17 anni, un amico di Abu Aliya. Secondo le loro testimonianze, alcuni soldati hanno sparato dei lacrimogeni, mentre altri si sono nascosti nella speranza di fermare i lanciatori di pietre.

‘Era il suo compleanno’

Ci sono ancora bossoli sul terreno da dove il cecchino israeliano ha sparato ad Abu Aliya. Sulla base delle misurazioni effettuate dagli abitanti, circa 150 metri dividevano la postazione del cecchino e il luogo in cui Abu Aliya è stato colpito. Anche secondo B’Tselem la distanza tra il soldato e Abu Aliya era di circa 150 metri.

“Ali era in piedi accanto a me, molto lontano dai soldati, e improvvisamente ci siamo accorti che era ferito”, ricorda Ahmad. “Si teneva lo stomaco. Non stava sanguinando, quindi abbiamo pensato che fosse un proiettile di gomma o una ferita leggera. Abbiamo fermato un’auto che lo ha trasportato alla clinica di Turmusayya “.

Parlava ancora”, ha riferito suo fratello Bassem sui momenti successivi alla sparatoria. “Dopo di che ha perso conoscenza.”

Secondo Bassem i soldati hanno continuato a sparare lacrimogeni per un’altra mezz’ora prima di andarsene. Riferisce che molti dei ragazzi sono rimasti nascosti per un po’ di tempo dopo la sparatoria, per paura di essere feriti.

Othman, 17 anni, anche lui sulla scena dell’omicidio, ha detto che i ragazzi avevano sentito gli spari ma non avevano capito cosa fosse successo. “I ragazzi erano vicini ai soldati, ma si sono nascosti ai lati del sentiero perché hanno visto un cecchino. Hanno sbirciato, lanciato pietre e sono tornati indietro “.

Othman non esclude la possibilità che il cecchino abbia cercato di colpire un altro giovane che era più vicino ai soldati rispetto a Abu Aliya e i suoi amici, ma questi all’ultimo momento si sarebbe mosso. Gli altri due testimoni affermano che nessuno si sarebbe trovato tra loro e il cecchino. “Avendo visto che c’era un cecchino i ragazzi che erano vicini ai soldati avevano paura di stare sul sentiero”, ha detto Ahmad. Tutti e tre sottolineano che Abu Aliya non ha partecipato affatto agli scontri.

“Era il suo compleanno”, ha aggiunto Ahmed mentre si trovava dove il suo amico è stato colpito. “Non voleva stare lì a lungo, ha detto che voleva tornare dalla sua famiglia”. Ali è il secondo dei figli che la famiglia ha perso: Wissam, il fratello di Ali e Bassem, è morto di cancro 10 anni fa all’età di nove anni, anche lui il giorno del suo compleanno.

“Sparano per colpire qualcuno e per creare nei giovani la paura di uscire per manifestare”, ha concluso Bassem. “Ma non funziona.”

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [collettivo di fotografi che usano le immagini fotografiche come strumento di lotta per i diritti sociali e contro tutte le forme di oppressione, ndtr.] e cronista di Local Call [organo di informazione online in lingua ebraica in co-edizione con Just Vision e +972 Magazine, ndtr.]. Dal 2003, ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo lavoro di reporter si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, a favore degli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Eravamo armati, le abbiamo distrutto la cucina e ce ne siamo andati”

Nadav Weiman 

10 dicembre 2020 – +972mag

Agli israeliani piace pensare che le incursioni militari nelle case avvengano solo per motivi di sicurezza. Gli ex soldati – e le famiglie palestinesi – sanno che non è vero.

Quando parli con gli israeliani dell’occupazione, loro pensano ai posti di blocco. All’estero la gente pensa al muro di separazione. Ma come ex soldato israeliano che compiva regolarmente irruzioni nelle case, penso a un bambino palestinese che sono andato ad arrestare nel cuore della notte. A suo padre, che aggredì il più grosso dei soldati della nostra squadra. E a come avrei fatto esattamente lo stesso se fossi stato al suo posto.

Successe nella città di Nablus nel 2007. Ci era stato detto che dovevamo arrestare uno che era connesso su Internet con il partito politico libanese e organizzazione militare Hezbollah. All’epoca parlavamo di “arresti di masterizzatori CD” – un nome spregiativo in codice per il fondo del barile quando si trattava di palestinesi ricercati. Abbiamo fatto irruzione nel cuore della notte, l’intero plotone di ricognizione, per arrestare un adolescente di 16 o 17 anni – la cui stanza, guarda caso, era piena di masterizzatori di CD.

Gli abbiamo legato le mani dietro la schiena con delle fascette e lo abbiamo portato alla base con noi, ma suo padre aveva già perso le staffe. Ha individuato il soldato più grande nella nostra squadra e gli si è scagliato contro. Mentre arrestavamo questo ragazzo con i suoi CD di giochi elettronici piratati sparsi per la stanza, uno dei soldati picchiava suo padre, con la madre al fianco che urlava.

Non ricordo di aver mai immaginato, prima di arruolarmi nell’esercito, come potesse essere in pratica la mia attività. Sapevo che avrei dovuto entrare nelle case palestinesi. Sapevo che avrei dovuto fare arresti. Non pensavo a come sarebbe stato arrestarne uno così giovane, o vedere un padre impotente infuriarsi alla vista del figlio ammanettato. Queste non sono cose a cui pensi e non c’è nessuno che te ne parli. Ci sono cose che devi scoprire da solo e, una volta che è successo non c’è pericolo che te le dimentichi.

In Israele non si parla delle irruzioni nelle case palestinesi dei territori occupati. È un’operazione di routine che quasi tutti i soldati israeliani conoscono, ma non troverai esperti che ne parlano nei notiziari e di certo non ne troverai notizia sui giornali. I media coprono le incursioni al più con allarmanti notizie dell’ultima ora del tipo: “Cinque ricercati palestinesi arrestati stasera”. E agli israeliani piace pensare a queste cose esattamente così: raid chirurgici localizzati allo scopo di effettuare arresti legittimi. Ma il quadro non è questo.

In effetti, i soldati invadono continuamente le case palestinesi. Lo fanno per occupare nuove posizioni strategiche, per eseguire perquisizioni a caso e spesso semplicemente per “far sentire la loro presenza”. In alcune unità dell’esercito far sentire la propria presenza è definito “creare la sensazione di essere braccati”. Ciò significa instillare la paura nell’intera popolazione palestinese, una missione che per definizione non fa distinzione tra sospetti e civili innocenti, o tra “persone coinvolte” e “persone non coinvolte”, come ci si esprime nel gergo dell’esercito israeliano.

A volte i soldati fanno irruzione nelle case in piena notte semplicemente per addestramento. Ho fatto irruzione in case a Jenin o Nablus semplicemente per ottenere una posizione d’osservazione migliore. Secondo la testimonianza resa da un ex soldato a Breaking the Silence [organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.], si potevano invadere le case per sperimentare un nuovo dispositivo per sfondare le porte. Un altro testimone ha raccontato che erano entrati in una casa palestinese per farsi filmare mentre mangiavano sufganiyot (ciambelle di Hanukkah) e avere una buona notizia da trasmettere quella notte alla televisione israeliana.

Ci sono un mucchio di israeliani che conoscono l’interno della casa di un palestinese e non dovrebbero. Hanno visto decine di stanze per bambini, cucine che appartengono a estranei, armadi di altre persone. Se oggi, che sono padre di due figli, penso ai bambini che ho svegliato nel cuore della notte o ai loro genitori terrorizzati, qualcosa mi si spezza dentro.

Non si parla mai di questa routine e ancor meno di cosa c’è dietro. Mormoriamo solo che le irruzioni in casa sono una “necessità operativa” e andiamo avanti. Ma la maggior parte di queste intrusioni sono una necessità solo se si accetta l’assunto che la “presenza dimostrativa” giustifichi tutto, anche invadere la casa di qualcuno su cui non c’è il minimo indizio. Questo è ciò che anima la “necessità operativa”, e non sono certo che la società israeliana l’accetterebbe se sapesse cosa si sta facendo in campo militare a suo nome.

La scorsa settimana, Breaking the Silence ha pubblicato A Life Exposed [Una vita in pericolo], il tanto atteso rapporto dell’organizzazione sulle irruzioni in casa, scritto in collaborazione con i gruppi per i diritti umani Yesh Din [ong femminile israeliana per i diritti umani, ndtr.] e Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele, ndtr.]. Il rapporto si basa su centinaia di testimonianze fornite da ex soldati che hanno preso parte a missioni di irruzioni in casa e dai palestinesi che le hanno subite. I resoconti palestinesi sono amari da leggere. Avendo preso parte ad irruzioni in casa, pensavo di sapere come vedono questa routine dall’altra parte. Mi sbagliavo. Ho visto con i miei occhi i palestinesi piangere nelle loro case, ma non ho mai pensato a coloro che trattenevano le lacrime finché ce ne fossimo andati. Non ho mai pensato a chi si è abituato a questa routine, a chi la considera parte della vita.

Prima di forzare la casa del masterizzatore di CD a Nablus siamo entrati per sbaglio in un’altra casa. C’erano due unità israeliane attive nella zona e noi abbiamo cercato di forzare la porta sbagliata. Abbiamo fracassato la porta di una donna nel cuore della notte finché non si è aperta. Siamo entrati, armati, pronti ad arrestare qualcuno, e abbiamo perquisito la casa.

Una delle porte era chiusa a chiave. Ho lanciato dall’alto una granata stordente nella stanza chiusa. Subito dopo si è sentito un vetro in frantumi; si è scoperto che la stanza chiusa era la cucina. Solo più tardi abbiamo scoperto di aver sbagliato casa. Abbiamo svegliato una donna nel cuore della notte, armati; le abbiamo distrutto la porta e la cucina e ce ne siamo andati. Non ci abbiamo nemmeno pensato. È ora che iniziamo a pensarci, tutti noi.

Nadav Weiman è un ex combattente del Nahal Reconnaissance Platoon [la Brigata Granito dell’esercito israeliano] e vicedirettore e responsabile del gruppo di pressione di Breaking the Silence.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)